crewdson

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“OGNI TANTO È NECESSARIO CHE QUALCOSA VADA STORTO”



Opera dalla serie “Beneath the Roses”

“SONO SEMPRE STATO ATTRATTO DALLA FOTOGRAFIA PER IL POTERE CHE UNA SOLA IMMAGINE PUÒ AVERE.”


Celebre in tutto il mondo, nasce a Brooklyn il 26 settembre 1962. Vive e cresce nel quartiere di Park Slope. Da buon New Yorkese e adolescente Crewdson farà parte di una rock-punk band chiamata “The Speedies”. Una delle loro canzoni più famose “Let Me Take Your Photo” oltre a essere stata profetica per il futuro di Crewdson, verrà a posteriori utilizzata per lo spot di una fotocamera, una Harvard Packbell. Crewdson studia fotografia al Purchase College. In seguito frequenta un master in belle arti presso la Yale University, nel New Haven. Finiti gli studi comincia a insegnare presso il Sarah Lawrence, il Cooper Union, il Vassar College e presso la “sua” Yale University, dove tiene una cattedra fino al 1993. Ma è da subito dopo aver concluso gli studi universitari, presso la State University of New York e la Yale University, che Crewdson comincia a fotografare sperimentando instancabilmente.

Lui stesso dice che il tempo dedicato al suo lavoro potrebbe essere diviso in tre parti uguali: pre-produzione, produzione e post-produzione. Tra il 2005 e il 2008 una mostra retrospettiva della sua produzione tra il 1985 e il 2009 viaggia per molti musei d’Europa. Nel 2007 anche il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedica un’importante mostra monografica. Ospite della Galleria Gagosian torna a Roma all’inizio del 2011 per esporre Sancturary, una serie di scatti che ha realizzato proprio a Roma, all’interno di Cinecittà. Scattate nelle prime ore del giorno o al tramonto quando la luce è radente, vi domina un senso di rovina e di nostalgia, accentuato dalla mancanza della presenza umana e dalla scelta del bianco e nero.


Durante la sua carriera è stato insignito di vari premi, tra cui la Skowhegan Medal for Photography, il National Endowment for the Arts Visual Artist Fellowship e l’Aaron Siskind Fellowship. Le sue opere, dall’inizio fino a oggi sono suddivise in grandi serie fotografiche. Le prime opere, tra il 1987-88 fanno parte della serie “Early Work”, la serie più recente è invece intitolata “Sanctuary” (20102011). Le altre serie, successive a “Early Work” e realizzate negli anni ‘90, sono “Natural Wonder”, “Hover” e “Twilight” (1998-2002). Le serie degli anni duemila le intitola “Dream House”, “Beneath the Roses” (2003-2005) e appunto “Sanctuary”. Opera dalla serie “Early Work”.


La prima serie fotografica “Early Work” è fortemente indicativa degli sviluppi successivi del suo percorso. La serie “Natural Wonder” riflette il fascino provato da Crewdson in rapporto agli eventi di una natura magica e mistica applicati alla natura; temi che si svilupperanno fino a trasformarsi in eventi surreali e soprannaturali; come in “Twilight”, la serie fotografica che porta Crewdson al riconoscimento internazionale.

Opera dalla serie “Natural Wonder”.


Le fotografie che Gregory Crewdson scatta si definiscono fotografie di staged photography, in italiano: fotografia allestita. Questa tipologia di lavoro consiste nello scattare fotografie non di momenti naturali ma di luoghi e persone appositamente scelte. È la vera e propria creazione di un set per creare un’immagine precisa, voluta dall’artista. Con l’uso di luci e l’impiego di elementi tipici dei set cinematografici, Crewdson sembra lavorare più come regista che come fotografo. Ogni fotografia richiede la costruzione di una complessa messa in scena realizzata grazie al lavoro di un team di professionisti: da 30 a 150 persone coinvolte tra tecnici degli effetti speciali, adetti alle luci, adetti ai costumi, ai trucchi e altri ancora. Per la densità dei dettagli narrativi una sua immagine può essere paragonata al fotogramma di un film. Possono occorrere anche tre mesi di lavoro per portare a termine i suoi “shoot”.



Gregory Crewdson è noto per le sue fotografie disarmanti della vita suburbana. In questa serie si dedica a un diverso approccio, a nuove altezze, letteralmente. Sono fotografie aeree in cui immortala anonime cittadine americane, nell’istante in cui qualcosa di strano accade o sta per accadere. Scattate da una gru, queste opere sembrano abbastanza anonime all’apparenza, ma rivelano, dopo un esame più attento, un mondo stranamente fuori equilibrio. Queste immagini vengono catturate in un realistico bianco e nero. Con la serie “Hover” Crewdson crea un forte contrasto tra la calma della cittadina e gli avvenimenti surreali e inaspettati che si mostrano dopo una più attenta osservazione degli scatti. Questa serie realizzata nella città di Lee, in Massachusetts, è una delle serie di successo di Crewdson. L’attenzione nello sguardo del fruitore deve essere necessariamente più forte e attento che in altri scatti, è necessario andare costantemente alla scansione delle immagini, da

sinistra a destra, cercando di ricomporre il ‘puzzle’ d’insieme di ciò che si vede nell’opera. Quando si guardano le opere della serie “Hover” la cosa che si nota subito, nonostante il primo sguardo non riveli la situazione surreale, è che qualcosa nello scatto non vada, che qualcosa di sbagliato si celi dietro a quella fotografia. Il passaggio successivo del fruitore è quello di andare a trovare che cosa c’è di sbagliato. “Hover“ crea un senso di estraniazione simile ai successivi “Twilight“ e “Beneath the Roses”, ma in modo diverso, forse maggiore. La visione dall’alto, lontana, ci distacca ancor di più dall’immedesimazione con i personaggi, dandoci un punto di vista esterno, di colui che tutto vede.





Opera dalla serie “Beneath the Roses”

“OGNI STORIA CHE È RACCONTATA IN UNA FOTOGRAFIA RIMANE UN MISTERO, RIMANE UNA DOMANDA. IN ALTRE PAROLE NON C’È NÉ UN PRIMA NÉ UN DOPO.”


Le figure protagoniste delle tele di Crewdson, da “twilight” a “Beneath the Roses”, sono sempre circondate da un’aura di mistero e di solitudine e gli scenari che abitano sono pieni di silenzio, in un’atmosfera inquietante e colma di rimpianto. I personaggi sono dei sopravvissuti che riportano, o nascondono, le ferite delle loro vite senza una manifestazione chiara delle loro esperienze. Ricordandoci che stiamo assistendo a una narrazione scenica, forzata e simbolica, tutte le immagini sono state realizzate impiegando metodi e strutture dell’industria cinematografica, con costruzione di set. Ma non è solo il dispiego di grandi mezzi produttivi e la complessità delle riprese a farle apparire così filmiche. Si tratta più di “shoot” presi da film mai realizzati, se non di intere storie condensate in una singola, statica, ed estremamente manipolata inquadratura. Tale effetto manifesta un’aperta volontà di mettere lo spettatore di fronte a una rappresentazione piuttosto che a una documentazione della realtà; per

mostrare e rappresentare la visione di un’america malata e colma di disagio, sociale e psicologico. Nei suoi lavori il tempo sembra cristallizzarsi e i personaggi hanno ruoli precisi da interpretare. È presente in tale atteggiamento una certa affinità con le ricerche di Tina Barney, anche se, nel suo caso, la linea di demarcazione fra riproduzione della realtà e messa in scena tende a essere più sfocata. Crewdson si occupa di ogni dettaglio della scena prima di iniziare le riprese, non c’è spazio per alcun genere di casualità o elemento che non si conformi all’idea precostituita dell’autore. Altrettante energie sono spese nel processo di realizzazione dell’immagine. Il fotografo è solito comporre la scena finale attraverso un collage dei più soddisfacenti particolari ripresi da diversi scatti, eseguiti anche i momenti differenti. Nel suo tentativo di produrre ciò che egli definisce una “immagine stranamente perfetta”. Le fotografie che ne risultano hanno un aspetto stranamente innaturale. Ogni singolo elemento appare irreale; a partire dagli attori, ridotti quasi alla consist-


enza di statue di cera, per arrivare agli effetti speciali che rafforzano il pathos delle varie ambientazioni. La luce, in particolare, gioca un ruolo determinante nella narrativa di Crewdson; una luce spesso caricata di un’aura sovrannaturale. Si pensi alla serie “Twilight” (1998-2002), dove gli attoniti abitanti di località periferiche e ordinarie hanno misteriosi incontri con forze sovrannaturali, la cui sola presenza è data da potenti fasci di luce che squarciano le dimesse architetture della loro quotidianità. La visione rimane in bilico fra iper-rappresentazione della realtà e dimensione onirica. Quand’anche più personaggi condividono la stessa scena, sembra che fra essi non vi sia alcuna possibilità di interazione. Crewdson rielabora le tecniche hollywoodiane usate per la realizzazione di ritratti patinati per realizzare scatti dell’American life in chiave hopperiana. Come Edward Hopper riusciva a mettere a nudo la condizione di straniamento dei suoi personaggi, anche queste im-

magini rappresentano lo stato di straneamento e disagio sociale dei personaggi in scena, rappresentanti di un’intera classe sociale americana. Attraverso la tecnica utilizzzata, dove tutti i piani sono a fuoco, si crea una sovrabbondanza di dettagli che rendono le immagini oltre che visivamente affascinanti (apparendo come dei quadri), anche dall’aspetto patinato, creando un forte contrasto tra la forma e il significato. Oltre alle tele del maestro americano Hopper, i lavori di Crewdson sono spesso stati accostati ad autori come Eric Fischl, Hitchcock, Spielberg e David Lynch. Crewdson in parte cita e in parte utilizza tematiche e metodologie comuni a questi autori; usa elementi della cultura di massa per creare familiarità nello spettatore verso immagini che altrimenti gli risulterebbero difficilmente interpretabili. Crewdson mantiene in ogni caso una marca stilistica propria e inconfondibile, accostabile al postmodernismo, perde forse in parte l’ironia intrinseca a questo movimento per accostarsi maggiormente a un atteggiamento puramente visivo e compositivo.


Il fotografo si appoggia fortemente ai temi definiti “lato oscuro del sogno americano”, che, attraverso letteratura, cinema e serie televisive, continua a manifestarsi. Serie televisive come “Twin Peaks” o, le più recenti, “Desperate Housewives” e “True Blood”, fanno parte del tema lato oscuro che fa ormai parte della cultura pop. L’atmosfera che li circonda è quella della profonda e torbida provincia americana, dove la violenza, la criminalità e il sesso, sono le attività principali di una popolazione che vive senza grandi scopi. Le tecniche che egli utilizza per rappresentare questi temi non sono però comuni, se qualcuno afferma che le sue opere risultano quasi fini a sè stesse e stucchevoli nella loro perfezione, forse non percepisce come sia proprio l’effetto di perfezione e di “quadro vivente” la sua forza. Crewdson crea un effetto di ipervisività non comune tra gli altri artisti e mai applicato in questo modo prima, attraverso tecniche moderne.

Sesso, omicidi, follia e morte: le ricerche del fotografo newyorkese ci portano proprio nel lato oscuro, tema già spesso affrontato, ma da lui rielaborato in un modo del tutto nuovo, attraverso opere dalla forza visiva prorompente.


Per Crewdson, la cui caratteristica è l’attesa e la “suspance”, la luce crepuscolare è singolarmente perfetta. “Le mie fotografie sono il momento di transizione tra il prima e il dopo”, spiega. “Twilight è evocativo di quello. C’è qualcosa di magico in quella condizione.” L’effetto inquietante di “Twilight” viene creato da una forte luce artificiale - luci della strada, luci d’interno, luci dal cielo - e da incredibili fondali ricchi di dettagli. Crewdson non è il primo fotografo a essere attratto dalla luce crepuscolare, “twilight” appunto, ma le sue immagini sono piene di tensione e suspance come nessun’altra immagine scattata prima. Prima di lui possiamo citare Edward Hopper, Ray Bradbury, Stephen Spielberg (in particolare per lo stile visivo di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”) e David Lynch. Hanno tutti indubbiamente influenzato Crewdson, come daltronde hanno influenzato tutto il mondo, diventando la base condivisa della cultura pop in cui viviamo. Lynch è forse la fonte d’ispirazione più forte per Crewdson, in tutti i suoi lavori. Quando era un

neolaureato d’arte, a metà degli anni 1980, il fotografo dice di essere stato colpito dal capolavoro di Lynch “Blue Velvet”. “Ho avuto la netta sensazione che mi avrebbe cambiato” dice. Nella serie “Twilight” il fotografo raccoglie scene notturni-crepuscolari in cui appaiono persone comuni in situazioni surreali, fermate dallo scatto durante il compimento di azioni sconosciute, che si possono solo immaginare. Forse arriva la visita di esseri soprannaturali o extra-terrestri: un uomo, in piedi davanti la sua casa, viene colpito da un raggio luminoso che arriva dal cielo...







Opera dalla serie “Beneath the Roses”

“UNO DEI MIEI PENSIERI PRINCIPALI È SEMPRE QUELLO DI RIUSCIRE A FARE LA PIÙ BELLA FOTOGRAFIA POSSIBILE.”


Quando

si

dice

lavorare

con

la

luce...

È grazie soprattutto a un uso virtuosistico della luce che l’artista crea delle immagini di forte impatto e dotate di un grande fascino visivo. Se una delle più forti caratteristiche del lavoro di Gregory Crewdson sono i complessi montaggi digitali: la perfetta messa a fuoco di tutti gli elementi e dei diversi piani spaziali (ottenuta attraverso l’assemblaggio di porzioni di immagini diverse, dotate di specifiche messe a fuoco), si può dire altrettanto per l’uso della luce. Crewdson è un fotografo nel senso letterale del termine, laddove “foto-grafia” significa “disegnare con la luce”, che possiamo considerare come l’evidente protagonista del suo mondo visivo. È così che egli riesce ad alterare e manipolare l’atmosfera di luoghi banali della vita quotidiana o di città della provincia americana, aprendo a nuove visioni che vanno al di là di

ciò che vediamo e che sono caricate di inediti e profondi valori psicologici e concettuali. Le fotografie di Gregory Crewdson appaiono come dei “fermo immagine” ad alta risoluzione tratti da sontuosi film hollywoodiani. Le atmosfere e le inquietudini delle sue opere, che lo hanno reso famoso, sono soprattutto date da un uso più che sapiente della luce, sia concettualmente sia nella tecnica di costruzione dei set.


Il ruolo fondamentale delle luci e dalla trouppe nella costruzione del set e quindi nella costruzione dello scatto, risulta piĂš che evidente osservando uno schema di posizionamento delle luci studiato per il set di una foto dalla serie “Beneath the Rosesâ€?.



Kathy Ryan (picture editor del The New York Times Magazine) ha scritto: “Le immagini raccolte nel Portfolio “Dream House” hanno sfidato ogni pronostico fin dall’inizio. Di solito, i servizi fotografici delle celebrità vengono fatti a New York o Los Angeles. E tendono a essere piuttosto produttivi – due o tre ore. A volte, il fotografo si reca dove si stanno girando gli esterni di un film per trovare l’attore. Ripensandoci ora, non riesco a credere che sette grandi attori abbiano accettato di intraprendere un viaggio nel Vermont per poter lavorare con Gregory alla realizzazione di questa serie di immagini. Un ranch disabitato a Rutland, nel Vermont, ha agito da catalizzatore per queste fotografie. I mobili, le lampade, e persino gli asciugamani nelle sale da bagno erano ancora come li avevano lasciati i proprietari dieci anni prima, alla loro morte. Era un posto soprannaturale e bellissimo, intriso di memorie. Anche l’assenza faceva parte dell’arredamento. Questa scena ossessionante ha trovato rifugio

nell’immaginazione di Gregory fin dal primo momento in cui l’ha vista, quanche anno prima.” Crewdson cerca i suoi soggetti fra le pieghe della cultura popolare americana, di cui il cinema è uno dei tratti caratteristici. È in tale chiave che si può interpretare la presenza di stars hollywoodiane come William Macy, Gwyneth Paltrow e Jennifer Jason Leigh; presenza che, di fatto, contribuisce a rinforzarne l’ostentata teatralità.





Opera dalla serie “Dream House”

“HO UN PROBLEMA NEL DISTINGUERE LA FINZIONE DALLA REALTÀ E LA COMMISTIONE TRA QUESTI DUE ELEMENTI MI PREOCCUPA MOLTO.”


Le influenze di Crewdson sono chiare e evidenti. Uno aspetto interessante può essere quello di andare a vedere come le opere di Edward Hopper potrebbero benissimo inserirsi in una delle serie di scatti di Crewdson; “Dream House” o “Beneath the Roses”. Ovviamente il concetto è che le opere di Crewdson riprendono, in queste sue serie fotografiche, in modo inequivocabile le opere di Hopper sia nelle tematiche sia nelle forme. Personaggi in bilico e immagini inquietanti a rappresentare il disagio sub-urbano americano. Questa vicinanza, tra le opere dei due artisti, appare con totale evidenza se si confrontano le loro rispettive analisi: compositiva e comunicativa. Si dice di Hopper: “La sua evocativa vocazione artistica si rivolge sempre più verso un forte realismo, che risulta la sintesi della visione figurativa combinata con il sentimento struggente e poetico che Hopper percepisce nei suoi soggetti. Predilige immagini urbane o rurali, immerse nel silenzio; i suoi spazi sono reali ma in essi c’è qual-

cosa di metafisico, che comunica allo spettatore un forte senso di inquietudine. La composizione dei quadri è talora geometrizzante, sofisticato il gioco delle luci fredde, taglienti e volutamente “artificiali”, sintetici i dettagli. La scena è spesso deserta; raramente vi è più di una figura umana, e quando ve ne è più di una, sembra emergere


una drammatica estraneità e incomunicabilità tra i soggetti, che ne accentua la dolorosa solitudine. Di lui è stato detto che sapeva “dipingere il silenzio”. Hopper utilizzò composizioni e tagli fotografici simili a quelli degli impressionisti, che aveva visto dal vero, come si è detto, a Parigi all’inizio del Novecento, ma di fatto il suo stile fu personalissimo e imitato a sua volta da cineasti e fotografi”.

È apparentemente incredibile come tali affermazioni potrebbe essere affiancate tali e quali all’opera di Crewdson, senza far percepire quasi alcun tipo di incoerenza nell’analisi. L’inquietudine e il tocco delicato della malinconia che si espande dai quadri di Hopper si tramuta in Crewdson in un distacco ancora maggiore


tra ciò che si vede e ciò che si agita sotto la superficie. I suoi soggetti recuperano i miti dei film hollywoodiani, giocando con metafore delle paure e desideri. Crewdson opera con luci più notturne e crea situazioni maggiormente surreali che spesso scaturiscono in situazioni accostabili ad accadimenti paranormali. Osservando le opere di Crewdson si parla spesso, non correttamente, di iperrealismo. Con iperrealismo si intende un genere di pittura basato sulla riproduzione di un soggetto fotografico. Il termine è principalmente applicato ai dipinti realizzati negli Stati Uniti tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70. L’iperrealismo rappresenta la realtà partendo da un’immagine fotografica, ingrandita il più possibile e riportata come disegno, cercando di essere più fedeli della normale percezione. Di conseguenza tale termine non può essere utilizzato per le opere di Crewdson. Questo errore viene commesso perché guardando le sue opere si ha l’innegabile impressione di trovarsi di fronte a un quadro. Questo effetto è dato, come abbiamo detto, dall’unione

di diverse messe a fuoco della stessa immagine; ogni singolo dettaglio presente nell’immagine è colto nitidamente come se fosse un’opera pittorica. Il risultato ottenuto con questa tecnica si può più correttamente definire come un effetto di ipervisività.


Con la serie fotografica “Beneath the Roses” il fotografo prosegue la linea iniziata con “Twilight” e consolidata da “Dream House”. Anche e soprattutto in questa serie l’importanza dei dettagli e la loro ipervisività risulta essere fondamentale, avvincente e visivamente appagante. Avendo la possibilità di vedere le sue opere in mostra, la prima cosa che si nota è l’enormità delle dimensioni delle fotografie. Presto si capisce la necessità di questa scelta. Gli scatti sono realizzati con fotocamere che registrano una quantità enorme di informazioni; sarebbe artisticamente irrilevante se non fosse per il fatto che le foto sono costruite in modo tale che i piccoli dettagli risultino fondamentali. Su stampe di piccole dimensioni purtroppo i dettagli, che non lo sono affatto, si perdono e ciò può compromettere totalmente l’effetto della fotografia. Queste opere ottengono totale riconoscimento del loro valore solo se viste su stampe di grandi dimensioni.

Risulta difficile cogliere totalmente il valore di queste opere senza vederne le stampe originali. Nella foto a lato, un bambino sotto un ponte guarda verso l’alto, sullo sfondo nebbioso appaiono tre figure inquietanti. Solo nelle dimensioni originali le opere riescono a rivelarsi in tutti i loro dettagli, e mostrare la loro grandiosità.







Opera dalla serie “Sanctuary”

“ERO STANCO, VOLEVO QUALCOSA DI SEMPLICE E MENO COSTRUITO, DI PIÙ MIO, DI PIÙ INTIMO.”


È forse la canonica crisi di metà carriera? Crewdson è tra i fotoartisti più affermati al mondo, ma a 47 anni sente che qualcosa si è bloccato e qualcos’altro preme per uscire. Il fotografo riparte da zero, o quasi. Decide di ripartire da Roma, attraversare l’oceano in direzione inversa a quella di Colombo e a ritroso nel tempo. “L’ultimo ciclo di foto mi aveva impegnato per 8 anni, in serrata collaborazione con un esercito di tecnici, direttori di scena, direttori delle luci, informatici ecc... Ero stanco, volevo qualcosa di semplice e meno costruito, di più mio, di più intimo. Mi sono allora ricordato di quando, nel mio primo soggiorno a Roma nel dicembre 2007 per l’inaugurazione della mia mostra antologica al Palazzo delle Esposizioni, un amico mi condusse a vedere gli studi di Cinecittà. Rimasi folgorato da ciò che rimaneva di una ricostruzione di una Roma antica”. Sono le grandiose scenografie per il serial televisivo «Rome», mandato in onda negli Usa dalla rete Hbo qualche anno fa. Archi di trionfo, colossali col-

onne e lunghi porticati, piazze, vicoli della Suburra con tanto di tabernae, ma pure parti del Pantheon e del Senato ai Fori: tutto stava lì abbandonato e accatastato, a rivelare la sua gigantesca finzione, il suo ridondante oblio di cartapesta. Il set paracinematografico, che Crewdson allestisce per ogni sua fotografia, per la prima volta è un set trovato. Crewdson ha sempre costruito le sue fotografie come se fossero dei set cinematografici ma nelle opere della serie “Sanctuary” rinuncia alla figura umana e non costruisce set per l’occasione, ma entra in un set cinematografico reale, per svelarne artifici e trucchi.


L’ultimo lavoro di Gregory Crewdson è composto da 41 scatti fotografici in bianco e nero realizzati con la sola luce naturale nelle ore dell’alba e del tramonto negli studi cinematografici di Cinecittà. Un viaggio tra i set dismessi e abbandonati attraverso i quali l’artista si interroga sull’artificialità dell’immagine cinematografica e sul destino dei suoi scenari una volta terminata la messa in scena cinematografica. Attraverso una sorta di documentario sul postfilm, l’artista indaga ciò che resta, nella vita reale, delle scene immortalate nel movie e ne svela la loro vera natura, fittizia e illusoria. Crewdson ritorna al bianco e nero dopo “Hover” e cattura le architetture deserte immerse nell’ombra, rischiarate solo da improvvisi raggi di luce, e ne trasmette l’atmosfera malinconica e silenziosa, che sembra evocare la fine di una festa. Gli attori non ci sono più

e quel luogo che un tempo era animato da voci, presenze e luci, adesso si è svuotato, ha esaurito la sua funzione e la sua ragione d’essere. Anche nei suoi scatti quindi i personaggi, la presenza umana, non ci sono più. Nessuna presenza umana, nessun rumore. Gli scenari che hanno permesso la realizzazione dei film sono ora luoghi abbandonati, come se non esistessero più; anzi non sono mai esistiti veramente, ma esisteranno in eterno nelle scene dei film. In questa serie fotografica il set cinematografico non c’è più, l’ambiente immortalato dalla macchina di Crewdson, si trasforma da ambientazione a soggetto di un progetto fotografico che, oltre a svelare la vita nascosta dei film, rappresenta uno sguardo sulla Roma antica. Le fotografie di Crewdson di questa serie mostrano la città romana nello stile delle fotografie archeologiche.






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