L'impossibilità della crescita. Serge latouche e l'a-crescita

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Università degli studi di Verona Facoltà di Economia Corso di Laurea Triennale in Economia e Commercio

Tesi di Laurea

L’impossibilità della crescita Serge Latouche e l’a-crescita

Relatore: Ch.mo Prof. GianPaolo Mariutti

Laureando: Michele Breda Matricola N. VR066169

Anno Accademico 2009/2010



Ringraziamenti

Grazie innanzitutto al professor Mariutti, per il tempo che mi ha concesso e per la sua infaticabile dedizione. Il suo contributo è stato fondamentale al fine di dare serietà, precisione, rigorosità e struttura a questa tesi. Grazie anche allo stesso Latouche, per avermi ascoltato e aiutato attivamente nella ricerca. Un sentito grazie ai miei genitori, che hanno saputo attendere con pazienza la conclusione dei miei studi, fornendomi tutto l’appoggio ed il consiglio di cui ho avuto bisogno. Grazie a Lorenzo per i costruttivi confronti economici, a Matteo per quelli relativi alla decrescita, alla Chiara per l’allegria e la spensieratezza con la quale mi ha sostenuto. Un grazie collettivo a tutti i parenti per la loro presenza amorevole ed il loro sempre vivo interesse. Un semplice “grazie” non sarebbe abbastanza per ringraziare Cécile, che riesce, a dispetto della lontananza fisica che spesso (per ora…) ci separa, ad essermi vicina più di chiunque altro. Grazie per l’amore, la felicità, il sostegno che non ha mai smesso di donarmi. Un grazie speciale ad Antonio, il mio mitico compagno di classe delle elementari-medie, per i momenti indimenticabili che abbiamo vissuto insieme, e per la sincera amicizia che ancora ci lega. Grazie al Carpa, fedele amico e maestro di vita, per le lezioni ed i consigli che mi ha dato. Al Conte ed Ivano, i miei travolgenti compagni di facoltà, che mi hanno permesso nella loro infinita magnanimità di andare a sentire quel convegno di Pallante il 24 aprile 2010 al posto di andare a spritzare con loro. A Michele Pighi, a Martino e alla Martina per avermi sempre supportato senza mostrare evidenti segni di cedimento psicologico. Una menzione particolare ai miei compagni di corso: la Elena, la Lalla, Marco e Attilio, grazie ai cui consigli sono finalmente giunto alla laurea. Grazie ad Alz, Bante, la Diana, la Elena, Giacomo e la Pamela per le interminabili e proficue giornate di studio collettivo. In particolare un grande in bocca al lupo a Giacomo per la sua nuova esperienza universitaria. Grazie anche all’Irene Schena per avermi introdotto alla teoria della decrescita. Il ringraziamento finale se lo aggiudica la Fiammy, alla quale restituisco il favore di avermi menzionato per ultimo nella sua pluripremiata tesi. Grazie di cuore per avermi sostenuto ed incoraggiato (“W la decrescita!!”) sempre, senza “se” e senza “ma”.



Indice

Ringraziamenti......................................................................................................................... III Indice ........................................................................................................................................V Indice delle Figure, dei Grafici e delle Tabelle............................................................................ IX

1. Capitolo 1: Introduzione .................................................................................................... 1 1.1. L’importanza della crescita economica ......................................................................... 1 1.1.1. La decrescita come paradigma alternativo ........................................................... 2 1.1.2. Importanza terminologica .................................................................................... 4 1.2. Oggetto della tesi ........................................................................................................ 7 1.2.1. Originalità del contributo di Serge Latouche ........................................................ 8 1.3. Metodologia della ricerca ............................................................................................ 9 1.4. Limitazioni della ricerca ............................................................................................. 11 1.5. Struttura della tesi .................................................................................................... 12

V


2. Capitolo 2: La Decrescita. Origini e sviluppi...................................................................... 15 2.1. Introduzione ............................................................................................................. 15 2.2. Origini del movimento e principali teorizzatori .......................................................... 17 2.2.1. Un difficile avvio. L’apporto del Club di Roma .................................................... 18 2.2.2. Georgescu-Roegen e Peccei. Due approcci diversi alla critica della società di crescita .............................................................................................................. 19 2.2.3. Anarchia del sistema di crescita: l’esperienza di François Partant ....................... 20 2.2.4. Decrescita. Dalla coniatura del termine alla conferenza di Parigi del 2002.......... 21 2.2.5. Diffusione del tema della decrescita a livello mondiale. Contributi italiani ......... 22 2.3. I limiti della società di crescita ................................................................................... 25 2.3.1. Classificazione dei limiti della società di crescita ................................................ 26 2.3.2. L’impronta ecologica. Esempi di sfruttamento irrispettoso dell’ecosistema........ 28 2.4. La critica al Pil ........................................................................................................... 31 2.4.1. Limiti del Pil ....................................................................................................... 31 2.4.2. Alternative al Pil ................................................................................................ 39

3. Capitolo 3: Biografia di Latouche ..................................................................................... 45 3.1. Introduzione ............................................................................................................. 45 3.2. Il giovane Latouche e l’esperienza africana ................................................................ 46 3.3. Il Latouche adulto: le prime critiche al sistema di crescita.......................................... 51 3.4. Il Latouche maturo e la definizione della teoria della decrescita ................................ 55 3.5. Il Latouche attivista ................................................................................................... 59

4. Capitolo 4: Il pensiero e le opere dei tre Latouche ........................................................... 61 4.1. Introduzione ............................................................................................................. 61 4.2. Il giovane Latouche ................................................................................................... 62 4.2.1. Opere principali del giovane Latouche ............................................................... 62 VI


4.2.2. Contenuto approfondito della principale opera del Latouche giovane: Critique de l'impérialisme. Une analyse marxiste non léniniste de l'Impérialisme (1979) ...... 65 4.2.3. Caratteristiche del pensiero del giovane Latouche ............................................. 69 4.3. Il Latouche adulto ..................................................................................................... 72 4.3.1. Principali opere del Latouche adulto .................................................................. 73 4.3.2. Le due principali opere del Latouche adulto – Un’analisi .................................... 91 4.3.3. Il pensiero del Latouche adulto – Le caratteristiche ......................................... 103 4.4. Il Latouche maturo .................................................................................................. 106 4.4.1. Principali opere del Latouche maturo .............................................................. 108 4.4.2. Le due principali opere del Latouche maturo – Un’analisi ................................ 117 4.4.3. Il pensiero del Latouche maturo – Le caratteristiche ........................................ 126

5. Capitolo 5: La politica economica della a-crescita .......................................................... 131 5.1. Introduzione ........................................................................................................... 131 5.2. Politica economica tradizionale ............................................................................... 132 5.3. La logica delle otto R ............................................................................................... 135 5.3.1.Rivalutare ........................................................................................................ 136 5.3.2.Riconcettualizzare ........................................................................................... 138 5.3.3.Ristrutturare .................................................................................................... 140 5.3.4.Ridistribuire ..................................................................................................... 142 5.3.5.Rilocalizzare..................................................................................................... 145 5.3.6.Ridurre ............................................................................................................ 147 5.3.7.Riutilizzare ....................................................................................................... 149 5.3.8.Riciclare ........................................................................................................... 151 5.4. Gli strumenti della politica economica di Latouche .................................................. 152 5.4.1.Un impatto ecologico sostenibile ..................................................................... 152 VII


5.4.2. Internalizzare i costi dei trasporti ................................................................. 153 5.4.3. Rilocalizzare le attività .................................................................................. 154 5.4.4. Restaurare l’agricoltura contadina ................................................................ 154 5.4.5. Meno produzione e più tempo libero ........................................................... 155 5.4.6. Stimolare la produzione di beni relazionali ................................................... 155 5.4.7. Ridurre lo spreco di energia .......................................................................... 155 5.4.8. Penalizzare fortemente le spese pubblicitarie............................................... 156 5.4.9. Riordinare l’innovazione tecnico-scientifica .................................................. 157 5.4.10. Misure ulteriori ............................................................................................ 157 5.5. Un confronto con la politica economica tradizionale ............................................... 158

6. Capitolo 6: Conclusioni................................................................................................... 159 6.1. Introduzione ........................................................................................................... 159 6.2. Latouche: una vita verso la decrescita ..................................................................... 162 6.3. I risultati ottenuti .................................................................................................... 164 6.4. La teoria della decrescita tra apocalisse e “terra promessa” .................................... 168

7. Glossario ........................................................................................................................ 173 8. Bibliografia..................................................................................................................... 179 9. Sitografia........................................................................................................................ 191

VIII


Indice delle Figure, dei Grafici e delle Tabelle

FIGU R E

FIGURA II.1.

Importanza della crescita nella società occidentale.................................... 25

FIGURA IV.1

Indice del libro Critique de l’impérialisme (Latouche, 1979) ....................... 66

FIGURA IV.2.

Indice del libro L’occidentalizzazione del mondo (Latouche, 1989) ............. 78

FIGURA IV.3.

Indice del libro La fine del sogno occidentale (Latouche, 2000 c) ................ 93

FIGURA IV.4.

Indice del libro L’altra Africa (Latouche, 1997) ........................................... 99

FIGURA IV.5.

Indice del libro Come sopravvivere allo sviluppo (Latouche, 2004) ........... 119

FIGURA IV.6.

Indice del libro La scommessa della decrescita (Latouche, 2006 b) ........... 122

FIGURA IV.7.

Lo schema della logica delle otto R .......................................................... 125

GR A FICI

GRAFICO II.1.

Relazione tra felicità personale e Pil reale pro capite ................................. 37

GRAFICO V.1.

Aumento dell’impronta ecologica nel tempo ........................................... 144

GRAFICO V.2.

Concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera.............................. 148

T A BE LLE

TABELLA IV.1

I tre periodi nella vita e opere di Latouche ................................................. 61

TABELLA IV.2.

Le opere e i temi nel tempo del Latouche adulto, 1980-2001 ..................... 72

TABELLA IV.3.

Le opere e i temi nel tempo del Latouche maturo, 2002-2010 ................. 107

IX



Capitolo 1

Introduzione

1.1 – L’importanza della crescita economica «La crescita è un bene», afferma Bradford DeLong (2006, p. 20). A sostegno della proposizione, l’economista statunitense elenca numerose ragioni. La crescita economica (nel mondo occidentale) ha permesso un incremento quasi doppio (oltre il 70%) dell’aspettativa di vita solamente nell’ultimo secolo. La crescita economica ha dato oltre quindici centimetri in più alla statura media dell’essere umano rispetto all’età preindustriale. La crescita economica ha permesso all’uomo di produrre ciascun bene più velocemente, incrementando così la quantità di tempo libero giornaliera. La crescita economica è infine un’opportunità anche per i più bisognosi. Infatti, il reddito medio del quintile più povero della società è tendenzialmente cresciuto allo stesso ritmo del reddito medio complessivo (si veda, per esempio, Dollar & Aart, 2002). Non stupisce, dunque, che la crescita economica occupi un ruolo di primo piano nell’economia e più in generale nella società odierna. Essa garantisce ad un tempo il finanziamento del welfare state (il quale a sua volta finanzia la gestione del sistema pensionistico, della sanità, dell’istruzione), l’aumento dell’occupazione, dei livelli salariali e in definitiva del benessere materiale e del tenore di vita delle persone. Identificare la crescita come la maggior responsabile della felicità dei cittadini di uno Stato moderno non sembra pertanto così fuori 1


luogo. Persino il cosiddetto paradosso della felicità evidenziato da Easterlin (1974) non nega la presenza di una correlazione positiva tra reddito e felicità. Nega solo che tale legame sia di tipo lineare. Sarebbe d’altra parte insostenibile affermare il contrario: a controprova, si immaginino i problemi che un paese in recessione si troverebbe ad affrontare. È inoltre comprovato che la recessione economica, provocando il collasso produttivo ed occupazionale, genera un profondo stato di precarietà ed insicurezza negli individui, il quale in svariati casi sfocia in attacchi di depressione (Brusa Gallina, 2009). Ecco perché il paradigma economico dominante ha gioco facile nel sottolineare una stretta correlazione tra un miglioramento dell’economia (cioè del Pil) e il grado di benessere (materiale e non solo) dei suoi cittadini.

1.1.1 – La decrescita come paradigma alternativo Alla luce dei “miracoli” provocati dalla crescita economica nei passati decenni, ma più in generale durante l’intero corso della storia della moderna industrializzazione, viene spontaneo chiedersi come possano esistere studiosi, sociologi, filosofi, antropologi e persino economisti che si discostino da questo paradigma. E come sia possibile esista qualcuno che propone addirittura la costruzione di una società basata su un paradigma opposto come quello della acrescita (o decrescita). Per comprendere le ragioni a sostegno di tale paradigma alternativo è necessario muoversi in un contesto di più ampio respiro. Si possono individuare almeno tre punti che aiutano a giustificare l’esistenza di un paradigma alternativo alla crescita economica: 1. La questione ambientale. Nonostante l’ossimorico concetto di “sviluppo sostenibile”,1 è stato dimostrato che la crescita non è (Meadows et al, 1993) né potrà mai essere (Georgescu-Roegen, 1975) sostenibile. L’umanità ha sorpassato già da tempo le soglie

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È stato Serge Latouche (2006b, trad. it. 2010, p. 74-79) il primo a mettere in luce la contraddizione in termini di tale concetto, utilizzato recentemente più a scopo propagandistico-pubblicitario che per promuovere un reale futuro sostenibile.

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che delimitano un futuro sostenibile, e non sono visibili segni di un’inversione di tendenza (Pollard, 2010). 2 2. Il sistema di valori. Sin dal tempo di Adam Smith (1776), il liberismo e la teoria della mano invisibile si sono accompagnati all’affermarsi dei valori individualisti: è il singolo che, grazie alla preoccupazione di sé,3 interagisce con gli altri individui, al fine di soddisfare i propri bisogni. Le intenzioni di Smith, bisogna dirlo, non erano certo malvagie, ma ciò ha contribuito a diffondere in maniera pervasiva l’aspetto economico in ogni ambito del sociale. In questo modo si è dimenticata l’importanza delle relazioni sociali, dell’altruismo, della generosità, cioè dell’agire disinteressato. 3. La questione del Terzo mondo. Molti hanno ampiamente argomentato (Latouche, 1979, 1991, 2000c; Partant 1976, 1982) che è stato il modello di crescita occidentale a generare lo stato di miseria in cui versano i paesi del Terzo mondo. Se questa interpretazione è corretta, appare insensato proporre al Terzo mondo l’adozione del sistema economico responsabile o corresponsabile proprio del loro dissesto. Appare quindi evidente che non sempre è vero l’assunto economico alla base della crescita, ossia «più è meglio». Per questo, se si amplia il quadro interpretativo, e si aggiungono oltre a quelli menzionati, ulteriori elementi di dibattito,4 non è affatto anomalo ipotizzare un paradigma

alternativo

come

quello

della

teoria

della

a-crescita,

meglio

nota

provocatoriamente come teoria della decrescita.

2

Al contrario, le dimensioni delle catastrofi ecologiche sono diventate via via più imponenti: la fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico nella prima parte del 2010, durata oltre sei mesi, è stata definita come «la più grave catastrofe ambientale provocata dall'uomo nella Storia» (Gabanelli, 2010). A questo si aggiunga l’ancor più recente contaminazione delle acque del fiume Raab e Marcali ad opera di una fuoriuscita di fanghi tossici da un impianto ungherese di decantazione di residuati della lavorazione dell’alluminio: un «incidente industriale senza precedenti» (Il Giornale, 2010). 3 Così si potrebbe tradurre l’espressione self-love utilizzata da Smith (1776, libro I, capitolo 2). 4 Tra questi riportiamo i danni causati da miopi politiche (economiche e non) votate al raggiungimento di obiettivi a breve termine, la mancata inclusione delle generazioni future nei piani di sviluppo attuali, la spinta consumistica operata dai media e dalla pubblicità, le condizioni di lavoro degli operai e, contrariamente a quanto sostenuto da DeLong (2006), la ristrettezza di tempo libero.

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1.1.2 – Importanza terminologica Il lessico utilizzato in questa tesi va per quanto possibile chiarito, per evitare fraintendimenti terminologici. Infatti, già dal titolo della tesi emerge una commistione di concetti non certo di uso comune, com’è il caso del termine a-crescita. Più avanti emergeranno termini ugualmente poco comuni, come “impronta ecologica”, “rilocalizzazione” ed “area bioproduttiva”. Si tratta di parole e concetti utilizzati spesso da Latouche in persona, lo studioso di cui questa tesi si occupa. 5 Data la delicatezza dell’argomento appare di fondamentale importanza chiarire fin da subito almeno quattro termini chiave, che presentano sfumature di significato nell’uso corrente e la cui intercambiabilità o la non-intercambiabilità va precisata, in modo esplicito, dall’inizio. 

Il primo termine è quello di Crescita economica. Esso non è equivalente a sviluppo economico. Per crescita, infatti, si intende un aumento quantitativo della produzione finale di un’economia, cioè del Pil. Il Dizionario di Economia (Bannock et al, 1974) riporta sotto la voce crescita economica: «processo regolare di accrescimento della capacità produttiva di un sistema economico e quindi di accrescimento del reddito nazionale» (Bannock et al, 1974, p. 125).

Il secondo termine è quello di Sviluppo economico. Esso coinvolge un processo più ampio della crescita economica, poiché oltre agli aspetti quantitativi della crescita del Pil, esso ne affronta anche i principali aspetti qualitativi. Infatti, alla voce Sviluppo economico si può trovare la seguente definizione: «processo di crescita nel reddito complessivo e pro capite (…) accompagnato da cambiamenti fondamentali nella struttura delle (…) economie» (Bannock et al, 1974, p. 471).

Il terzo termine è a-crescita economica. Esso è un termine proprio del lessico di Latouche, e del movimento teorico di cui egli fa parte. L’utilizzo del prefisso “a-”

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Si potrebbe affermare che lo stesso termine decrescita, che useremo spesso nelle pagine seguenti, costituisca in sé un neologismo: dalla sua coniatura (ad opera di Jacques Grinevald nel 1979) al tempo presente non sono passati che trent’anni.

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diventa nella lingua italiana (ma anche in molte altre lingue neo-latine e non) un “prefisso privativo” (si veda Devoto & Oli, 1990, p. 1) che nega l’aggettivo o il termine che lo segue. Nel caso specifico, a-crescita sta a significare “senza” crescita economica. Questo termine denota un’economia che non ha come obiettivo prefissato quello di aumentare il proprio Pil. Quel “senza” potrebbe avere un significato ancor più “privativo”, come il voler implicare l’opposto rispetto al termine che lo segue. In realtà, come specifica Latouche, a-crescita in senso proprio significa escludere dai fini economici quello del perseguimento della crescita economica, e non negare in assoluto che un aumento del Pil sia sempre e comunque negativo. Potrebbe verificarsi il caso, infatti, che un’economia viva in una situazione di a-crescita anche quando il livello del Pil aumenta di anno in anno. Ciò è spiegato dal fatto che questa parola denota un’espressa rinuncia al perseguimento della crescita economica, piuttosto che voler negare che la crescita del Pil non ci possa mai essere. 

Il quarto termine è quello di decrescita economica. Come si spiegherà a breve, è il termine che questa tesi ha associato più spesso al contributo di Latouche e al paradigma alternativo di cui egli è interprete. Il prefisso “de-” è ovviamente più forte del prefisso “a-”. Entrambi negano il termine che li segue, ma nella parola decrescita (come in ogni parola con il prefisso “de-”) c’è una presenza di “sottrazione” di significato (Devoto & Oli, 1990, p. 525), cioè nel nostro caso di togliere, annullare la crescita economica. Quest’idea di sottrazione di significato a rigor di termini manca nel termine letterale a-crescita. In altre parole, in senso letterale, decrescita è un termine più critico ed in contrapposizione alla crescita economica di quanto lo sia il termine acrescita. Infatti, letteralmente, se esiste una decrescita non può allo stesso tempo esistere una crescita economica.6

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Perché Latouche abbia preferito, ad un certo punto, utilizzare il termine decrescita in vece del termine a-crescita, lo si spiegherà brevemente più avanti e più estesamente nel Capitolo 2.

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Va riconosciuto tuttavia che nel linguaggio economico (anche a livello scientifico) corrente, l’utilizzo dei primi due termini e degli ultimi due termini è spesso intercambiabile. Essi sono cioè utilizzati come (perfetti) sinonimi. Si parla di crescita per intendere anche il processo di sviluppo, e si parla di sviluppo per significare principalmente il processo di crescita. Allo stesso modo, nei lavori che andremo ad analizzare in particolare nel Cap. 2 e nel Cap. 4 si parla di decrescita economica per intendere un processo di a-crescita economica, e si contrappone la decrescita alla crescita, quando invece sarebbe più corretto contrapporre la decrescita allo sviluppo economico. Non è possibile eliminare completamente questa ambiguità terminologica, vista la sua larga presenza nella letteratura. Quello che si è preferito fare in questa Sezione è avvertire il lettore delle insidie che tale ambiguità cela. A quest’ultima ha contribuito lo stesso autore che andremo a trattare, cioè Serge Latouche. Egli scrive infatti: «più che di “de-crescita” bisognerebbe parlare di “a-crescita”, così come parliamo di “a-teismo”, poiché si tratta di abbandonare una fede e una religione: quella dell’economia, della crescita, del progresso e dello sviluppo» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 11, 12). In termini pratici, però, cosa si intende per decrescita? È lo stesso Latouche a rispondere alla domanda: «Decrescita è una parola d’ordine che significa abbandonare radicalmente l’obiettivo della crescita per la crescita, un obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale e le cui conseguenze sono disastrose per l’ambiente» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 11). Ecco dunque che il termine decrescita ed a-crescita sono presentati come sinonimi, nonostante la sfumatura di significato. A-crescita, come si è appena detto sopra, significa letteralmente “assenza di crescita”, mentre de-crescita ha un connotato più incisivo, a causa della diversa valenza del prefisso (Devoto & Oli, 1990, p. 525). Non c’è da stupirsi quindi che quest’ultimo termine, decisamente più «provocatorio» (Latouche, 2005a, trad. it. 2010, p. VIII), abbia conosciuto una diffusione maggiore del secondo 6


nelle stesse opere di Latouche. In esse, ad ogni modo, troviamo una quasi perfetta sovrapponibilità dei due termini. Similmente, nel corso della nostra analisi si è scelto di utilizzare la stessa terminologia impiegata dall’economista francese, preferendo quindi il termine de-crescita, anche per significare il termine a-crescita – una parola che, comunque, abbiamo lasciato nel titolo del nostro elaborato.

1.2 – Oggetto della tesi Questa tesi intende analizzare la vita e le opere del maggior interprete della teoria della decrescita, Serge Latouche, professore emerito della facoltà di diritto, economia e gestione Jean Monnet all’Università di Parigi XI. Soprattutto nell’ultimo decennio, egli si è imposto all’attenzione internazionale per l’enfasi e l’efficacia con cui ha promosso l’importanza del nuovo paradigma dell’ “economia della decrescita”. I suoi lavori sono stati tradotti e pubblicati in molti paesi, inclusa l’Italia. Invitato spesso a convegni, organizzati sui temi del benessere socio-economico, della sostenibilità ambientale, delle riforme sociali, della globalizzazione e delle crisi economiche e finanziarie, questo autore promette di trasformarsi in una specie di icona in contrapposizione al paradigma dominante basato sulla crescita economica. Il suo messaggio, come vedremo, è che un sistema di crescita, così come oggi è concepito nelle economie occidentali (ma anche in quelle asiatiche), non è auspicabile.7 La sua proposta è di abbandonare completamente questo concetto. In altre parole, la novità di questo autore, in contrapposizione alla vulgata dominante, è di escludere la crescita economica come obiettivo da perseguire, poiché l’aumento di benessere dei cittadini non coincide affatto con l’incremento del Pil, così come oggi è misurato.

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Si intende per sistema di crescita una società dominata dalla cosiddetto paradigma della crescita, avente cioè come obiettivo principale la massimizzazione del Pil. In questo senso si possono definire sistemi di crescita sia il sistema capitalistico sia quello socialista. Cfr. Latouche (2006b, trad. it. 2010, p. 25).

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1.2.1 – Originalità del contributo di Serge Latouche Non è anomalo trovare delle critiche, anche nell’analisi economica tradizionale, all’utilizzo del Pil come indicatore dello stato di salute di un’economia, né è anomalo segnalare qualche accento critico sul fatto che la crescita economica “non è tutto”. Almeno nell’accademia, tuttavia, non è facile trovare delle personalità che si spingano a rinnegare in toto il paradigma della crescita e ad abbracciare quello che sembra essere – ma in realtà non lo è del tutto – un paradigma opposto, cioè quello della decrescita. L’originalità di Latouche, come studioso, sta proprio in questo suo radicalismo. Egli non muove solo qualche critica al paradigma dominante. Non si prefigge di correggerlo. Si prefigge tuttavia di smontarlo dalle fondamenta (cioè come vedremo dall’immaginario sociale). In alternativa egli propone il perseguimento di un sistema cosiddetto della decrescita economica. L’impegno di Latouche su questo fronte nasce dalla consapevolezza che i problemi che affliggono i sistemi di crescita sono endogeni a quel sistema, e pertanto non sono curabili dallo stesso paradigma che li ha creati. Per risolverli serve un’alternativa che fino ad ora è mancata. La decrescita è infatti un tema di recente formazione. Come si vedrà più avanti (Sezione 2.2), prima degli anni Ottanta il termine era sconosciuto e non era forse nemmeno stato coniato nell’uso di cui oggi ne facciamo. Latouche ha il merito di aver individuato i problemi sociali (prima ancora che economici) del paradigma dominante, di averli razionalizzati ed infine di aver elaborato un sistema a tutti gli effetti alternativo, anche grazie al confronto con altri intellettuali attenti agli aspetti sociali del nostro tempo, come è il caso di Ivan Illich. Si può quindi affermare con certezza che, se il tema della decrescita era già presente sotto diverse forme nel momento in cui Latouche iniziò ad interessarsene, il suo contributo al tema rimane centrale. Il suo lavoro di sintesi e di integrazione appare fondamentale per aver dato al tema della decrescita un “diritto di cittadinanza” all’interno del dibattito economico. In questa tesi si è cercato di offrire un panorama il più possibile esaustivo di come si è formato questo autore, e dei contenuti che caratterizzano le sue numerose opere. A tutt’oggi manca 8


nel panorama della letteratura economica un lavoro bio-bibliografico su Latouche: il nostro compito, se non è stato quello di fornirne uno esaustivo, è stato sicuramente quello di iniziare una ricerca sulla vita e i contributi di questo autore.

1.3 – Metodologia della ricerca L’analisi sulla vita e le opere di Serge Latouche riguardo al tema dell’economia della decrescita è condotto con un metodo che potremmo chiamare storiografico. Intendiamo dire con questo termine che Latouche è stato analizzato inizialmente da un punto di vista storico-biografico, per poi proseguire con un’analisi in termini storico-bibliografici, con lo studio della sua produzione saggistica, sia in termini di critica che egli muove al paradigma dominante, sia in termini più pratici del messaggio teorico sugli obiettivi che l’economia della decrescita si prefigge e i modi per ottenere questi obiettivi (Latouche, 2005a, 2006b). Al fine di redigere la presente tesi ci siamo avvalsi, oltre che delle sue opere principali, anche delle seguenti fonti: 

Libri attinenti all’argomento della decrescita (come gli scritti di Georgescu-Roegen, di Pallante, di Donella e Dennis Meadows).

Documenti reperiti in internet forniti spesso da grandi organizzazioni internazionali, le quali producono periodicamente dei rapporti o dei Working papers (ci riferiamo per esempio al World Living Report 2010, all’UN World Summit Commission 2005 ecc.).

Quotidiani e altri periodici nazionali ed internazionali, in cui erano contenuti resoconti di convegni e dibattiti sul tema di nostro interesse o che accoglievano articoli di studiosi interessati a queste tematiche.

Siti internet e mailing list che specificamente si sono dedicati a trattare il tema della decrescita. Citiamo per esempio in Italia il sito del Movimento Zero, della Decrescita felice e il Circolo della Decrescita Felice di Verona.

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Infine i tradizionali articoli di riviste specialistiche, i Proceedings di convegni, conferenze e altro materiale bibliografico.

L’esposizione complessiva della tesi segue un criterio cronologico, al fine di permettere una più agevole descrizione degli avvenimenti così come si sono presentati, e dell’evoluzione delle idee e delle teorie del nostro autore succedutesi nel tempo. In questo tipo di problematiche manca (ancora) una formalizzazione delle teorie in termini matematici. Pertanto questa tesi non affronterà modelli formali complessi, né discuterà di ipotesi e risultati propri dell’economia matematica. Le virtù, le (frequenti) critiche all’economia di mercato e la proposta di paradigmi alternativi seguiranno invece un taglio che appare intriso sia di sociologia che di filosofia. Un tale approccio, se è presente negli economisti del passato, non è presente in forma così marcata e prevalente negli economisti di oggi, i quali sono più rigorosi, ma anche più riduzionisti, rispetto ai problemi che affrontano. L’approccio storiografico che abbiamo seguito servirà a porre in evidenza (sia nel dispiegarsi della biografia che dei lavori scientifici del nostro autore) come l’alternativa dell’economia della decrescita, oltre che sui contenuti, sia alternativa anche per quanto riguarda il metodo di esposizione: al momento, infatti, nulla o quasi nulla di matematico è stato scritto. Conversamente,

è

presente

un’importante

componente

filosofica,

derivante

dall’interrogazione sulle grandi questioni morali di fondo che connaturano l’ambiente e la società umana. Fatta la distinzione del diverso significato che nel paradigma alternativo della decrescita prendono termini come “teoria economica”, “analisi economica” ecc., va infine segnalato che il nostro studio sarà sia di economia positiva, che di economia normativa. Con la prima tipologia economica ci riferiamo allo studio di come Latouche vede l’attuale società e le attuali forze economiche che la governano. Di essa si tratterà nella parte centrale della tesi. Con la seconda tipologia economica (quella normativa) si affronteranno invece gli obiettivi che il movimento 10


della decrescita si propone (sempre nell’interpretazione di Latouche) e gli strumenti che sono ritenuti utili per raggiungere tali obiettivi. Questo sarà fatto nella parte finale (in particolare nel Cap. 5) della tesi, come dettagliato alla fine di questa Introduzione.

1.4 – Limitazioni della ricerca Nella stesura della nostra ricerca abbiamo potuto constatare almeno tre limiti nella nostra indagine. Nello specifico: 1. La commistione tra economico e sociale. Come già accennato, la decrescita consiste in una rivoluzione non soltanto in ambito economico, ma diremmo prima di tutto in ambito sociale e culturale (Brune, 2005, p. 1), al punto da rendere possibile un’analisi della medesima problematica da un punto di vista psicologico (Dei, 2007). La nostra indagine verterà invece su temi prevalentemente economici. Tuttavia, anche nel trattare l’ambito economico, non si sono potuti evitare accavallamenti e digressioni in campo sociale. Questo nonostante si sia operata a monte una cernita tra gli argomenti così da poter concentrare l’attenzione su problematiche prevalentemente di natura economica. 2. Carenza di lavori critici. Questa limitazione deriva dal fatto che la decrescita è una teoria di recente formazione. A parte Latouche e, per certi versi, Pallante e Massimo Fini, non esistono altri studiosi che si occupino in modo organico del tema della decrescita. Nonostante essa abbia bisogno, allo stadio attuale, di menti e interlocutori in grado di colmare le diverse lacune presenti in numerosi aspetti della teoria, va rilevato che la massa di ricercatori che si dedicano con rigore a questo paradigma rimane fortemente esigua. Questa penuria di apporti rigorosi si riflette anche nella limitatezza di materiale scientifico-bibliografico disponibile. 3. Irreperibilità dei testi. In aggiunta alla carenza di opinioni sul tema, esiste un’ulteriore difficoltà. Non tutti gli scritti dello stesso Latouche sono reperibili almeno in Italia. Sono risultate, per esempio, irreperibili le pubblicazioni del Latouche giovane e del 11


primo Latouche adulto, mai tradotte nella nostra lingua. Eppure le opere scritte nel periodo

della

giovinezza

di

Latouche

costituiscono

una

reinterpretazione

completamente originale ed interessante del fenomeno da un lato dell’economia occidentale e della sua tendenza imperialista nei confronti del Terzo Mondo (Latouche, 1979) e dall’altro dell’epistemologia economica così come si è andata formando negli ultimi due secoli (Latouche, 1973).

1.5 – Struttura della tesi Dato quindi l’oggetto della tesi, scelta la metodologia con cui impostare la nostra indagine, sottolineate le limitazioni del nostro lavoro, si è deciso di dare alla nostra trattazione una suddivisione in sei capitoli, così articolati: 1. Il Primo capitolo (questo capitolo) presenta il tema e l’organizzazione del lavoro. 2. Il Secondo Capitolo affronta le origini del movimento della decrescita e la sua evoluzione fino ad oggi. Si mostreranno le condizioni che hanno fatto da presupposto alla creazione della teoria della decrescita e gli autori che hanno contribuito alla sua formazione. Si riporteranno i limiti relativi ad una società di crescita, le critiche rivolte al Pil e le alternative a questo indice che secondo diversi studiosi sembrano riflettere in modo più efficace lo stato di benessere di una nazione. 3. Il Terzo Capitolo si occupa della biografia di Latouche. Si percorrerà la storia della sua vita, dai tempi dell’Università a Parigi fino al tempo presente. Le sue vicende negli anni della formazione, della crescita personale e della maturazione offrono uno sfondo interessante per meglio comprendere le posizioni che egli assumerà negli anni riguardo alla critica all’economia dominante e le proposte sfociate nel movimento economico della decrescita. 4. Il Quarto Capitolo si prefigge di analizzare il pensiero e delle opere di Latouche quale teorico della decrescita. Al pari di quanto si è fatto nel Capitolo precedente, si studierà Latouche suddividendo le sue opere in tre diverse fasi. Per questo proponiamo 12


l’interpretazione che siano esistiti ben “tre” Latouche: il Latouche giovane, il Latouche adulto e il Latouche maturo. Attraverso un’analisi cronologica della sua produzione si giustificherà

questa

affermazione,

offrendo

un

insieme

di

caratteristiche

sufficientemente coerenti per ciascuno di essi. 5. Il Quinto Capitolo entra direttamente a discutere la politica economica della decrescita, in contrapposizione a quella più comunemente nota dell’economia tradizionale. Dopo aver presentato brevemente obiettivi e strumenti di politica economica propri del paradigma economico dominante, si illustreranno obiettivi e strumenti del paradigma alternativo di Latouche. Gli obiettivi che la decrescita intende perseguire sono molteplici (le otto R, come verranno definite) e, a causa di questa estensione, non direttamente sovrapponibili agli obiettivi tradizionali della politica economica. Si cerca infine di mostrare le misure che il movimento della decrescita propone per poter realizzare questa molteplicità di obiettivi. Anche in questa presentazione degli strumenti si cercherà un confronto esplicito con la politica economica tradizionale, mostrando le dissonanze (e le poche assonanze) che da un tale confronto emerge. 6. Il Sesto Capitolo tira infine le somme di quanto svolto. Si riassumeranno i principali risultati ottenuti e si cercherà di formulare qualche considerazione in “prospettiva” riguardo alla teoria della decrescita e più in generale al futuro dell’economia.

13



Capitolo 2

La Decrescita: origini e sviluppi

2.1 - Introduzione Nel Capitolo 1 si è già illustrata la correlazione tra a-crescita e decrescita, e chiarito l’utilizzo che di quest’ultima si farà a partire da questo capitolo, come sinonimo del termine a-crescita. Al di là dell’utilità del termine, tuttavia, diventa fondamentale chiarire la sua definizione, le origini e gli sviluppi che esso ha intrapreso. Questo è l’obiettivo che si propone il presente capitolo. A tal proposito, si procederà col definire la critica che essa muove sia nei confronti della cosiddetta «società di crescita» (Latouche, 2003, p. 18), sia nei confronti dell’utilizzo del Pil come indice di benessere di una nazione. Verranno infine forniti esempi alternativi al Pil, capaci di scavalcare i limiti di quest’ultimo, tramite indici già esistenti, altri di recente formazione ed uno ancora in via di definizione. Preliminare al proseguimento della nostra analisi è un approfondito chiarimento di alcuni termini che ricorreranno frequentemente d’ora in avanti: sviluppo, crescita, a-crescita. Si riporta, al fine di illustrare in modo preciso il significato di sviluppo economico, la definizione del Deardroff’s Glossary of International Economics: «Lo sviluppo economico consiste in un incremento sostenuto del livello economico di vita della popolazione di uno Stato, normalmente raggiunto attraverso l’aumento della quantità di capitale fisico ed umano, e mediante un miglioramento della tecnologia» (Deardroff, 2010, nostra traduzione). 15


Come si evince dalla definizione, il concetto di sviluppo economico implica l’interazione di due aspetti: uno qualitativo ed uno quantitativo. Il primo aspetto riguarda una duplice composizione del Pil: 

In termini di incidenza dei diversi settori che lo compongono. Rientra nella definizione di sviluppo, ad esempio, un aumento dell’incidenza del settore primario a scapito del settore terziario, qualora esso produca un miglioramento del livello economico di vita;

In termini di incidenza degli elementi all’interno degli stessi settori. Un esempio può essere fornito dalla preponderanza, nel settore secondario di un sistema, dell’industria siderurgica rispetto a quella tessile.

L’aspetto quantitativo riguarda in realtà il concetto di crescita. Essa è definibile come un mero aumento dell’output, a prescindere dalla sua composizione. Possono quindi esistere casi di sviluppo senza crescita e, interpretando la definizione in senso lato, casi di crescita senza sviluppo, qualora quest’ultima non produca un significativo aumento del livello di vita della popolazione. La distinzione tra crescita e sviluppo è riportata anche da Daly: «Qualcosa che cresce diventa quantitativamente più grande; quando si sviluppa diventa qualitativamente migliore, o almeno differente» (Daly, 1996, trad. it. 2001). Su un piano completamente diverso si pone il concetto di a-crescita. La presenza della “a” privativa indica un abbandono completo dell’ideale di crescita, il quale è ritenuto, contrariamente a quanto si crede, alla lunga dannoso per l’umanità stessa. La a-crescita si pone su un livello totalmente diverso sia rispetto allo sviluppo che rispetto alla crescita, rendendone impossibile un inquadramento al loro interno. A-crescita non significa quindi “crescita negativa”, come troppo spesso si è portati a pensare, 1 ma piuttosto “assenza di crescita”. Quest’ultima non è infatti ritenuta un fattore decisivo per l’innalzamento del tenore di vita di una popolazione, il quale può essere raggiunto mediante la produzione di beni non

1

Questa confusione è dovuta soprattutto a causa del ben più provocatorio termine “decrescita”, il quale, come si è visto in precedenza, è sinonimo di a-crescita, a dispetto del termine.

16


monetari e non scambiabili sul mercato, quali i beni relazionali. È evidente la peculiarità di un sistema di a-crescita rispetto a qualsiasi altro sistema economico apparso nel corso della storia.

2.2 – Origini del movimento e principali teorizzatori Prima di procedere con l’esposizione dettagliata riguardo ai fondamenti teorici della decrescita, si ritiene opportuno fornire una panoramica sugli eventi e sui personaggi che hanno fondato questo filone di pensiero. Circoscrivere la teoria della decrescita in un arco storico ben definito è un compito quantomeno ambizioso, poiché non esiste una data convenzionale che sancisca storicamente la sua nascita in un momento storico preciso. Sebbene si possa sostenere che alcuni temi base della teoria della decrescita siano già presenti duemila anni fa in alcuni tra i più grandi pensatori dell’antica Grecia,2 è sicuramente in tempi più recenti che questo filone è stato definito e razionalizzato. Latouche (2007) sostiene che esso è nato dall'incontro di diverse correnti intellettuali: da una parte è presente la critica alla modernità, che risale al primo socialismo utopico di William Morris (1890) e (1892) e Charles Fourier (1971), dall'altra si colloca la critica allo sviluppo degli anni Sessanta. È questo il caso della “piccola internazionale” legata a Ivan Illich (Latouche, 2007). Maurizio Pallante, uno tra i maggiori teorizzatori sul tema della decrescita sia a livello italiano che mondiale, fa risalire la nascita di tale filone ad un periodo molto più recente, e cioè negli anni ’70, per opera di Pier Paolo Pasolini. All’epoca, il termine “decrescita” non era ancora stato coniato, ma i temi oggetto di trattazione, erano già ampiamente discussi (Pallante, 2008).

2

Come fa notare Scroccaro (2005a) e (2005b), sia Platone nelle sue Leges che Plutarco in De cupiditate divitiarum anticipano diversi argomenti ripresi in tema di decrescita, come il ripudio della ricchezza e la necessità di recuperare sia il senso del limite che il valore dell’otium.

17


2.2.1 – Un difficile avvio. L’apporto del Club di Roma Per quarant'anni, questa corrente di pensiero non è riuscita a far ascoltare la sua voce (Latouche, 2007): nei “trenta gloriosi” anni (la definizione è di Fourastié, (1979)) del Dopoguerra i problemi legati allo sviluppo hanno costituito un tema essenziale soprattutto per il Sud del mondo. Nel decennio successivo, il miglioramento degli standard di vita derivato dal boom economico e l’affermazione della società dei consumi come modello di riferimento internazionale costituirono un clima poco fertile alla diffusione dei temi legati alla decrescita. Nonostante lo scarso interesse dimostrato sia dal grande pubblico sia dalla stampa internazionale, in quegli stessi anni iniziò comunque ad emergere un movimento di critica ecologica, promosso tra gli altri dagli economisti e scienziati del Club di Roma. Esso fu fondato nel 1968 dall'italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali fra cui Elisabeth Mann Borgese (Liberti, 2008). Nel 1972 il Club di Roma pubblicò un rapporto commissionato al MIT, dal titolo Limits to Growth (Meadows et al., 1972). 3 Gli autori di questo rapporto, fra gli altri, furono Donella e Dennis Meadows, che articolarono le loro argomentazioni su tre punti: 

Nell’ipotesi che l’attuale linea di crescita continui inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di cibo e sfruttamento delle risorse) l’umanità incorrerà nel raggiungimento dei limiti naturali della crescita entro cento anni. 4 Il risultato più probabile sarà un improvviso ed incontrollabile declino della popolazione e del sistema industriale.

È possibile modificare questa linea di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica in grado di protrarsi nel futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra

3

Il titolo originale del rapporto, Limits to Growth, è stato erroneamente tradotto in italiano con I Limiti dello Sviluppo. Tale errore non verrà corretto nemmeno in occasione della pubblicazione del rapporto successivo, Beyond the limits (1992), tradotto in italiano come Oltre i limiti dello sviluppo (1993). 4 A partire dalla data di uscita del rapporto (1972).

18


siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano. 

Se l’umanità opterà per la seconda alternativa, invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto essa comincerà a operare in tale direzione (Meadows et al., 1972).

2.2.2 – Georgescu-Roegen e Peccei. Due approcci diversi alla critica della società di crescita Nello stesso 1972, Nicholas Georgescu-Roegen riprende questi concetti, definendo per primo i “contorni” di quanto diventerà noto con il termine decrescita. Durante la conferenza Energia e miti economici, tenuta all’università di Yale in quell’anno, egli sostiene che «non soltanto la crescita, ma anche la crescita-zero *…+ non può esistere per sempre in un ambiente finito». Ne consegue che «lo stato maggiormente desiderabile non è quello stazionario, ma uno di decrescita» (Georgescu-Roegen, 1975, trad. it. 1998, p. 10). Anche Aurelio Peccei si inserisce nel tema, con il libro, mai tradotto in italiano, The Human Quality (Peccei, 1977). Egli è convinto che l’uomo abbia un’enorme responsabilità derivante dall’utilizzo della tecnologia: essa è diventata il più grande elemento di cambiamento della Terra – nel bene o nel male (Peccei, 1977, p. 18). A meno di un uso assennato di quest’ultima, infatti, non si riusciranno a correggere situazioni intrinsecamente perverse, ma le si renderà solo «più efficientemente perverse» (Peccei, 1977, p. 55, nostra traduzione). La crescita, secondo Peccei, non è una panacea in grado di risolvere tutti i problemi dell’uomo, ma, pure ammettendo che sia così, essa non potrà continuare per sempre, com’è stato in grado di dimostrare il rapporto commissionato dal Club di Roma, di cui egli stesso è stato il fondatore (Peccei, 1977, p. 84). Ciononostante, egli prende qualche distanza dai risultati che emergono dallo studio. I ricercatori avevano individuato nelle risorse materiali del pianeta, e specialmente in quelle non rinnovabili, i limiti ad una crescita perpetua; Peccei ritiene invece

19


che detti limiti siano piuttosto di natura ecologica, biologica e soprattutto culturale (Peccei, 1977, p. 88). Egli mette in primo piano l’uomo: è unicamente l’uomo che può realizzare ad un futuro migliore, «sviluppando le proprie possibilità e la qualità di vita, condizione indispensabile sia per rendere ragionevoli i propri bisogni, sia per avere ragionevoli speranze di poterli soddisfare» (Peccei, 1977, p. 161, nostra traduzione).

2.2.3 – Anarchia del sistema di crescita: l’esperienza di François Partant Indispensabile, per l’influenza che ebbe sul pensiero di Serge Latouche e per un’ulteriore definizione della tematica della decrescita, è stato l’apporto di François Partant (1926-1987), un’economista che lavorò come alto funzionario presso la banca BNP Paribas. In seguito partecipò in Africa allo studio del finanziamento del Piano di Sviluppo della Repubblica Popolare del Congo (Ravignan, 2007). Lo scontro con una realtà economica così diversa dalla propria lo condurrà a paragonare, tramite il libro La fin du développement (Partant, 1982), lo sviluppo ad un’impresa neocolonizzatrice che, anziché aiutare il Terzo Mondo, lo mantiene di proposito in una situazione di miseria. 5 Durante il periodo coloniale, infatti, le società dell’attuale Terzo Mondo «tenevano le redini della propria condizione sociale» (Partant, La fin du développement. Naissance d’une alternative?, 1982, p. 49), mentre nel periodo definito neo-coloniale viene loro imposto un modello mirato da un lato a rinforzare il numero degli emarginati, dall’altro ad accentuare la loro dipendenza dagli “aiuti” dei Paesi neocolonizzatori (Clerc, 2004).6 Questa è una situazione di forte instabilità politica: «per sua natura, la crescita non può essere che anarchica» (Partant, 1976, p. 53), giacché non è pensabile un equilibrio globale fintantoché persistono tensioni a livello internazionale.

5

Singolarmente affine sarà l’esperienza di Serge Latouche, il quale si recherà in Congo e in Laos per attuare programmi di sviluppo economico, e rimarrà profondamente colpito dall’esperienza vissuta in quegli anni. Vedi (Latouche, 2010c). 6 Tali idee verranno riprese ed ampliate da Latouche (2008b, trad. it. 2009) nel libro Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana.

20


Partant propone così un sistema alternativo, basato su quelle che egli definisce «Centrali economiche», ossia micro-società economiche indipendenti ma coordinate tra loro, ciascuna con l’obiettivo di «fondare (…) una società in seno alla quale sono esclusi i rapporti di dominazione e le relazioni di potere (…) e promuovere delle attività produttive per dare ai soci dei mezzi di sussistenza, evitando che nascano tra di loro delle contraddizioni d’interesse» (Partant, 1976, p. 211). In questo modo, la cooperazione e la complementarietà sarebbero privilegiati, senza tuttavia soffocare la libertà d’impresa e di scambio. Partant morì prima di vedere la pubblicazione del suo ultimo libro La Ligne d’Horizon (Partant, 1988), in cui l’autore approfondisce in modo critico i concetti di progresso e sviluppo.

2.2.4 – Decrescita. Dalla coniatura del termine alla conferenza di Parigi del 2002 Il termine decrescita viene definitivamente ufficializzato nel 1979 da Jacques Grinevald, in occasione della traduzione francese di un trattato di Nicholas Georgescu-Roegen, intitolato per l’appunto La decrescita (Georgescu-Roegen, 1979, titolo originale La Décroissance). Qui, Georgescu-Roegen presenta la decrescita come una conseguenza inevitabile dei limiti imposti dalle leggi della natura (Georgescu-Roegen, 1979, p. 41). La sua critica dimostra, da una parte, che non è possibile ignorare il fatto che le risorse naturali siano presenti in quantità finita, dall’altra che il progresso tecnologico, considerato nel suo insieme, non comporta una riduzione dell’impatto sull’ecosistema, ma al contrario un aumento del consumo assoluto delle risorse (Georgescu-Roegen, 1979, p. 79-80). Egli arriva a concludere che le leggi della termodinamica, e in particolare la legge dell’entropia, decreteranno esse stesse una decrescita inevitabile della produzione in termini fisici (Georgescu-Roegen, 1979, p. 88). Tuttavia, questo non implica necessariamente una decrescita del prodotto mondiale lordo né, tantomeno, del benessere delle persone. Nel 1999, Vincent Cheynet e Bruno Clémentin, due intellettuali attivi nei circoli di pensiero vicini al tema della decrescita, creano l’associazione Casseurs de pub (“Distruttori di

21


pubblicità”), che muove una critica nei confronti della società dei consumi e ripropone l’idea della Giornata del non acquisto creata dall’associazione canadese Adbusters. Fino agli anni 2000, la decrescita è sempre stato un argomento di nicchia, riservato a pochi interessati e a studiosi economici e politici, che ha faticato non poco a ritagliarsi spazi su periodici e riviste non dedicati. La prima comparsa sotto i riflettori della scena mondiale può ritenersi il 28 febbraio 2002, giorno in cui, nella sede dell’UNESCO a Parigi, Serge Latouche promuove, col sostegno di Le Monde Diplomatique e de La Ligne d’Horizon,7 il convegno internazionale Disfare lo sviluppo, rifare il mondo. Qui, sia illustri nomi nel panorama dei teorizzatori della decrescita, come Ivan Illich e Serge Latouche, sia attivisti politici ed economici, come Jean-Pierre Berlan, Aminata Traoré, Gilbert Rist e Jacques Grinevald, espongono la loro critica al concetto di sviluppo e soprattutto al concetto di sviluppo sostenibile.8 Contemporaneamente, la rivista ecologista Silence (2002) dedica un numero speciale alla decrescita, nato dalla collaborazione tra Cheynet, Clémentin, Latouche e ROCADe, la rete del doposviluppo.9

2.2.5 – Diffusione del tema della decrescita a livello mondiale. Contributi italiani I temi proposti dai sostenitori della decrescita assumono sempre più rilievo sulla scena mondiale: nel 2002 viene fondato l’Istituto degli Studi Economici e Sociali per la Decrescita Sostenibile (IEESDS) con base a Saint Étienne, che organizza, nel settembre del 2003, un secondo convegno internazionale dedicato alla Décroissance soutenable col sostegno dell’associazione Casseurs de Pub (Laurès, 2003). In questa occasione viene presentato il volume Objectif Décroissance (IEESDS, 2006). redatto da Michel Bernard (della rivista Silence), Vincent Cheynet e Bruno Clémentin (dell’associazione Casseurs de Pub), col contributo, fra gli altri, anche dell’italiano Mauro Bonaiuti. Dato l’enorme successo riscosso sia dalla

7

Associazione fondata da amici di François Partant nel 1988, anno successivo alla morte di questi. In realtà i temi trattati sono stati decisamente di più ampio respiro. Per un resoconto dettagliato sugli argomenti oggetto del convegno, si veda Berlan, Bové, Brune, Illich, Latouche et al., (2005). 9 ROCADe è l’acronimo di Réseau des objecteurs de croissance pour l'après-développement. 8

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pubblicazione del libro (ottomila copie vendute e tre ristampe in tre anni, come conferma l’Istituto di Studi Economici e Sociali per la Decrescita Sostenibile (2006)) sia dal loro convegno, lo stesso gruppo di ecologisti che ruota intorno alle riviste Silence e L’Écologiste, assieme al movimento Casseurs de pub, preso atto del successo di pubblico, pubblica nel marzo del 2004 il primo numero della rivista bimestrale La Décroissance, interamente dedicata al tema della decrescita. Tutto questo succedeva in Francia. In Italia il tema della decrescita si è diffuso più lentamente. Il contributo maggiore è stato dato senza dubbio da Maurizio Pallante, autore del libro La Decrescita Felice (2005), per molti aspetti paragonabile a La scommessa della decrescita, la cosiddetta «bibbia» della decrescita10 scritta da Latouche (2006b, trad. it. 2007). Nel suo libro, Pallante espone con linguaggio chiaro ed immediato i motivi per i quali un sistema basato sulla crescita non può essere definito sostenibile, e presenta gli effetti benefici di semplici accorgimenti quotidiani che aiutano in primo luogo a combattere l’inquinamento e lo sfruttamento dell’ambiente, ed in secondo luogo ad alzare la qualità di vita delle persone. Pallante è divenuto ben presto uno dei massimi esponenti sulla decrescita a livello nazionale, tanto da stimolare nel 2007 la creazione in Rete del Movimento della Decrescita Felice, ispirato al suo pensiero. Esso si propone di aggregare le esperienze di persone, associazioni e comitati, promuovendo la coordinazione a livello locale di gruppi di individui che abbraccino l’ideale di decrescita. Pallante è sempre stato attivo nel settore dell’ecologia, come testimoniano, tra gli altri, i suoi due libri L'uso razionale dell'energia: Teoria e pratica del negawattora (Pallante & Palazzetti, 1997) e Un futuro senza luce? Come evitare i black out senza costruire nuove centrali (Pallante, 2004), in cui porta all’attenzione del lettore l’urgenza di ridurre gli sprechi energetici per un futuro veramente sostenibile. Anche Mauro Bonaiuti, economista e docente all’università di Modena-Reggio Emilia e Bologna, ha contribuito alla prima diffusione della tematica della decrescita in Italia: non solo

10

Si veda «L’Écologiste», n.20, settembre-novembre 2006.

23


ha partecipato alla stesura di Objectif Décroissance (tradotto in Italia col nome Obiettivo Decrescita (Bonaiuti et al, 2004)), curando anche la versione italiana. Ha inoltre tradotto La teoria bioeconomica. La “nuova economia” di Nicholas Georgescu-Roegen (2001) e, affascinato dalle idee dell’economista rumeno, ha curato anche la versione italiana, due anni più tardi, di Bioeconomia. Verso un'altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile (GeorgescuRoegen, 2003). Ricordiamo infine Massimo Fini e Paolo Gabrini, fortemente interessati oltre agli aspetti economici ambientali anche agli aspetti politici. Il primo, giornalista e scrittore, ha fondato il Movimento Zero, un movimento culturale e politico che intende non solo diffondere le idee del fondatore, «ma vivificarle e renderle il più possibile concrete con una partecipazione attiva nella società italiana, e non solo, attraverso tutti gli strumenti a ciò idonei: manifestazioni, incontri, dibattiti, mezzi di informazione, legami con altri gruppi che abbiano sensibilità e finalità affini» (Movimento Zero, 2005). Paolo Gabrini invece è responsabile del debutto sulla scena politica di un partito interamente votato ad ideali di decrescita. Esso si chiama Partito Per la Decrescita (PPD), ed è stato fondato nel 2007.11 Finora si è definita la teoria della decrescita come un filone di pensiero, un movimento. La decrescita, tuttavia, non si può esaurire in una sterile trattazione utopistico-economica. Essa è molto più di un filone di pensiero, poiché essa si propone come scopo primario l’azione pratica, cioè l’incidere sulla società. Si parla infatti di società della decrescita per indicare una società «fondata sulla qualità piuttosto che sulla quantità, sulla cooperazione piuttosto che sulla competizione, a un’umanità liberata dall’economismo e avente come obiettivo la giustizia sociale» (Latouche in Bonaiuti et al, 2004, p. 18).

11

Statuto ed idee guida del partito sono consultabili sul sito http://www.partitodecrescita.it (Gabrini, 2007)

24


2.3 – I limiti della società di crescita La società di decrescita ha come obiettivo immediato la contrapposizione alla società di crescita: non ci si può addentrare quindi nella definizione del concetto di società di decrescita senza avere ben presente le implicazioni che comporta una società improntata alla crescita. Come Latouche stesso afferma, la “società di crescita” fu «sognata dai primi economisti nel 1750 e realizzata un secolo dopo con il sistema termoindustriale, con l’uso del carbone, del motore a vapore e dopo con il petrolio. Il suo trionfo è la società dei consumi del secondo dopoguerra» (Latouche, 2009a), e forte più che mai ai giorni nostri (vedi Figura II.1). La società di crescita, anziché promuovere un FIGURA II.1. Importanza della crescita nella società occidentale

ideale di benessere, inteso generalmente come uno «stato armonico di salute, di forze fisiche e morali» (Devoto & Oli, 1990, p. 212) tende a perseguire puramente uno sterile ideale di crescita

quantitativa

di

beni,

lasciandosi

completamente assorbire da tale attività. La società sembra così protesa solo verso «la massimizzazione

della

crescita

economica»

Fonte: Immagine tratta dalla pubblicità di una

(Fotopoulos, 2002, p. 31). Latouche identifica in

nota società di prodotti di informatica.

questo sistema la presenza di un circolo vizioso,

che comporta necessariamente una crescita per non generare situazioni di crisi economica. Il costo del capitale, infatti, presuppone il costante aumento del prodotto interno: un privato per ripagare un prestito deve restituire anche gli interessi maturati, lo stesso dicasi per un’obbligazione societaria. Un aumento della crescita economica produce inoltre «effetti al rialzo sul tasso di interesse a lungo termine, in quanto fa alzare il tasso al quale occorre scontare gli utili futuri» (CentroSim, 2010). Anche lo Stato nei suoi programmi di spesa pubblica non rimane immune dal costo del capitale, basti solo pensare ai sistemi pensionistici: 25


che siano a capitalizzazione o a ripartizione, essi presuppongono comunque degli aumenti del tasso di interesse di mercato nel primo caso, o di una combinazione tra tasso di crescita della forza lavoro e produttività media del lavoro, nell’altro.12

2.3.1 – Classificazione dei limiti della società di crescita Secondo diversi studiosi simpatetici al tema della decrescita, una società basata sul paradigma della crescita presenta seri limiti. Ne abbiamo individuati almeno cinque: 1. Limite entropico: secondo Nicholas Georgescu-Roegen (1979, p. 62) un limite categorico è costituito dal secondo principio fisico della termodinamica, il quale sancisce che in un sistema isolato l’entropia è una funzione non decrescente nel tempo. Qualsiasi processo economico che produce merci fisiche diminuisce la disponibilità di energia nel futuro e quindi la sua possibilità futura di produrre altre merci. Si deve unicamente al sole la possibilità di avere un flusso di energia costante e durabile nel tempo. Se così non fosse, l’intero sistema energetico del pianeta Terra, di per sé chiuso, sarebbe stato sottoposto da tempo all’azione degradante ed irreversibile dei processi entropici (Georgescu-Roegen, 1979, p. 43). Ma non solo: nel processo economico, anche le risorse si degradano,

13

ovvero diminuiscono

tendenzialmente le loro possibilità di essere usate in future attività economiche. Una volta disperse nell'ambiente, tali risorse prima concentrate in giacimenti circoscritti possono essere reimpiegate nel ciclo economico solo in misura limitata ed a prezzo di un alto dispendio di energia (Georgescu-Roegen, 1979, p. 70). 2. Limite fisico: Dennis e Donella Meadows, insieme a Jørgen Randers (1993, p. 70), sono concordi nel riconoscere che vi sono limiti fisici al tasso secondo il quale capitale industriale e popolazione possono impiegare materiali ed energia, e vi sono dei limiti al

12

Si veda a tal proposito Bosi (2010, p. 384). Georgescu-Roegen (1979, p. 63) afferma che «anche la materia è sottoposta ad una dissipazione irrevocabile». Egli stesso riporta un’espressione emblematica di K.D. Wilson: «matter matters too» (Wilson, 1977, p. 293-313) 13

26


tasso secondo il quale è possibile emettere rifiuti senza danneggiare gli esseri umani, l’economia o i processi di assorbimento, rigenerazione e regolazione da parte del pianeta. Ed in ogni caso esiste il limite invalicabile costituito dalla legge chimica della conservazione della massa, secondo il quale «nulla si crea, nulla si distrugge» (Lavoisier, 1789). Questa legge è riportata ormai in qualunque argomentazione a favore di una società di decrescita, poiché chiude di fatto qualsiasi possibilità di crescita illimitata nel tempo. 3. Limite alla felicità: Richard A. Easterlin (1974, p. 119) ha individuato un paradosso sociale, chiamato appunto paradosso di Easterlin. Esso afferma che la correlazione positiva tra reddito e felicità, effettuata in comparazioni all’interno dello stesso Stato, «appare solo debolmente», e quindi non è affatto certo che una maggiore produzione di beni generi uno stato di “benessere” sociale (la felicità) più elevato. Questo è dovuto al fatto che i livelli di felicità sono legati all’aspettativa sociale dei cittadini, e tale aspettativa è funzione del comportamento altrui e solo in parte dei beni prodotti all’interno dello Stato. Non è necessario continuare a crescere economicamente per aumentare la felicità delle persone appartenenti ad un sistema economico, anche perché gli esseri umani soffrono di un limite di assuefazione. 4. Limite politico: François Partant (1976, p. 53) individua un limite ben diverso nella società della crescita; esso, a suo avviso, è di natura più che altro politico-economica. Come evidenziato nelle pagine precedenti, egli, in base alla sua esperienza africana tra Congo, Madagascar e Tanzania, individua un sistema perverso di “aiuti umanitari”, mirati più a imporre il proprio modello economico sugli indigeni piuttosto che a garantire l’indipendenza degli stessi e l’uscita dalla situazione di miseria. La sua convinzione è che la crescita, per essere benefica, debba essere alimentata all’interno di un sistema economico, cioè debba essere per sua natura anarchica.

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5. Limite finanziario: Serge Latouche, infine, presenta un quinto limite del sistema, di natura finanziaria. La spirale perversa provocata dalla relazione tra tasso di interesse e crescita economica. Qualora tale nesso venga rallentato, le ripercussioni provocano effetti a livello sistemico. Per evitare ciò, un regime di sovracrescita diventa necessario se si vuole sottostare alla cosiddetta «dittatura dei tassi di crescita» (Latouche, 2006b, trad. it. 2007, p. 28). A causa di questi limiti, il momento in cui l’umanità intera dovrà arrendersi alla necessità di abbassare i tassi di sfruttamento del pianeta è, secondo il rapporto commissionato dal Club di Roma, sempre più vicino (Meadows et al., 1993, p. 72). Esso ha evidenziato come oggi la società stia usando risorse e producendo rifiuti a tassi che non sono sostenibili (Meadows et al., pp. 69-133).

2.3.2 – L’impronta ecologica. Esempi di sfruttamento irrispettoso dell’ecosistema Questo può essere verificato anche con riferimento al concetto di impronta ecologica. Essa viene definita come l’area totale degli ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta sia per produrre le risorse che una determinata popolazione umana consuma, dall’altra per assimilare i rifiuti che la stessa popolazione produce. È stato recentemente calcolato (Pollard, 2010, p. 34) che l’impronta ecologica globale attuale ha superato di circa il 50% la capacità naturale del pianeta di rigenerare le risorse.14 Continuando di questo passo, si avverte che nel 2030 serviranno l’equivalente di due pianeti Terra per sostenere il nostro sviluppo senza gravare sull’ecosistema.

14

L’impronta ecologica si misura in ettari globali (gha). Essi sono definiti come ettari con una media capacità di produrre risorse e di assorbire rifiuti. Nel 2005, l’impronta ecologica pro-capite mondiale (equivalente alla “domanda” mondiale di risorse) equivaleva a 2,7gha, mentre la biocapacità, cioè l’area produttiva mondiale (l’”offerta” mondiale di risorse) è pari solo a 2,1gha pro-capite.

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Un esempio più tangibile, per non ripetere quello ormai ridondante della foresta e dei campi da calcio,15 è rappresentato dalla distruzione dei banchi di pesci, tema più che mai di attualità: secondo una recente campagna di sensibilizzazione della FAO, «il pescato di cattura è aumentato tanto da non lasciare più spazio per un'ulteriore espansione [del mercato]. Oltre il 50 per cento dei banchi di pesci del mondo è sfruttato al massimo delle capacità, il 17 per cento risente di uno sfruttamento eccessivo e l'8 per cento è esaurito o sta recuperando da un uso troppo intensivo» (FAO, 2009a). Il fatto triste è che questa situazione di impoverimento ecologico non risale al 2009: già venti anni prima, il General Fisheries Council lanciava l’allarme: «L’influenza delle attività umane sull’ambiente marino (…) è ritenuta motivo di particolare, grave preoccupazione globale». Una «popolazione crescente, le attività turistiche, agricole ed industriali stanno toccando (…) i settori legati alla pesca (…) per via di un prelievo in larga misura incontrollato» (Caddy & Griffiths, 1990). Le popolazioni di Thunnus thynnus (il cosiddetto “tonno rosso” utilizzato in Giappone per il sushi16) nel ventennio 1970-90 si sono ridotte del 94% (Safina, 1991, p. 34). Un simile sterminio è stato reso possibile dal problema che sorge per tutti i beni comuni (in questo caso rivali e non escludibili: si veda Bosi, 2010, p. 47), e cioè: 1. Il sovrasfruttamento. Essendo beni comuni, tutti partecipano al consumo e nessuno si preoccupa della loro produzione e conservazione (Hardin, 1968, p. 1243); 2. La sopraggiunta scarsità del bene non riduce il processo di sfruttamento del bene da parte della comunità. Il primo punto corrisponde alla logica del “prendi, ma non paghi”, la stessa logica riscontrabile durante il periodo della corsa all’oro negli Stati Uniti. Il secondo punto ha forti implicazioni a livello economico, persino quando il bene comune viene venduto successivamente sul

15

Ogni due secondi viene distrutta un'area di foresta grande quanto un campo di calcio (Greenpeace, 2009). 16 Proprio il Giappone è il principale acquirente di tale pesce: ne consuma l’80% del totale (Ursic, 2010, p. 61).

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mercato. L’unica retroazione correttiva del mercato capace di segnalare la scarsità del bene si esplicita sottoforma di un aumento di prezzo, ma questo non è sufficiente ad impedire il depredamento del bene comune. A titolo esemplificativo si pensi che, il 5 gennaio del presente anno, 232 kg di tonno rosso sono stati valutati a Tokio ben 175.000$ (McDermott, 2010).17 Un prezzo così alto segnala scarsità ma non produce un allarme ecologico. Infatti non spinge a risparmiare quella risorsa ma, al contrario, «ha l’effetto pernicioso di incoraggiare una pesca sempre più intensa» (Meadows et al., 1993, p. 223). Questo, a sua volta, va a scapito dei Paesi più poveri e delle persone che non possono permettersi di fruire di una risorsa che, paradossalmente, è definita comune. Paul Lunven denuncia: «È una tendenza allarmante, poiché essa indica il potenziale pericolo che una quota crescente del pescato mondiale sia risucchiata verso le aree sviluppate con più ampio potere d’acquisto… lasciando meno pesce là dove sarebbe molto necessario, nelle regioni in via di sviluppo» (Lunven, 1982, p. 18). Come si è dimostrato, fenomeni all’inizio riguardanti la sola sfera ambientale si ripercuotono sovente anche a livello sociale. I loro effetti, come evidenzia Partant, sono evidenti, e risiedono essenzialmente nel forte divario tra il livello di consumo dei popoli del Sud e quello dei popoli del Nord, accusati di politiche neocolonizzatrici: si pensi che l’85% della ricchezza globale è posseduta dal 10% delle persone più ricche del pianeta, mentre la metà più povera della popolazione adulta mondiale si spartisce un misero 1% della ricchezza rimanente (Davies et al., (2007)). Con simili premesse, non c’è da meravigliarsi se, al mondo, oltre un miliardo di persone sono costrette a vivere ogni giorno con un reddito inferiore ad un dollaro, come si ritrova a fare il 46% della popolazione dell’Africa Subsahariana (United Nations, 2005a, p. 6).18

17

Ciò è conseguenza, tra gli altri fattori, della decisione (definita dagli ecologisti «una presa in giro») dell’ICCAT (Commissione Internazionale per la Conservazione dei Tonni Atlantici) di permettere la cattura di 22.000 tonnellate di tonno: ben il 50% in più di quanto gli scienziati interni alla stessa ICCAT avevano previamente consigliato (Black, 2008) 18 Il trend africano è in aumento di due punti percentuali rispetto al 1990, mentre quello dell’Asia è in forte diminuzione: nell’Asia del sud la percentuale di popolazione con un reddito pari o inferiore a un

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2.4 – La critica al Pil La critica che i teorizzatori della decrescita muovono con forza contro l’attuale sistema, definito da essi per l’appunto «sistema di crescita» (Bouchard-Fortier, et al., 2007), non può che riflettersi per traslazione sull’indice comunemente preso come riferimento per misurare la ricchezza prodotta da un Paese: il Pil. La seguente sezione affronterà la critica a tale concetto. Ci occuperemo inizialmente di individuare i limiti derivanti dall’utilizzazione esclusiva del Pil per misurare la ricchezza di un Paese. Si passerà quindi ad esaminare diversi indicatori che negli anni sono stati suggeriti come alternativi al Pil.

2.4.1 – Limiti del Pil I limiti del Pil sono molti e oggi sono persino riconosciuti dallo stesso “sistema di crescita”. Per esempio, il malcontento del Presidente della Repubblica Francese Nicholas Sarkozy, insoddisfatto della capacità degli attuali indicatori statistici di riflettere coerentemente la realtà sociale ed economica di un Paese, favorì nel 2009 il crearsi di una commissione, chiamata Commissione per la misura della Performance economica e il Progresso Sociale (CMEPSP), guidata da Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi,19 con lo scopo di: 

identificare i limiti del Pil come indicatore di performance economiche e di progresso sociale, comprendendo i problemi relativi alla sua misurazione;

valutare quali informazioni aggiuntive dovrebbero essere richieste per la produzione di indicatori più significativi di progresso sociale;

verificare la fattibilità di strumenti di misurazione alternativi (Stiglitz, Sen, & Fitoussi, 2009, p. 7).

dollaro al giorno è diminuito di 10 punti percentuali, toccando il minimo del 30% nel 2005, mentre nell’Asia dell’est esso si è addirittura dimezzato, passando da 33 punti percentuali a 16,6 punti percentuali (United Nations, 2005a, p. 6). 19 Oltre a 22 altri collaboratori. Significativa la partecipazione a questo rapporto di 5 Premi Nobel per l’Economia: oltre ai già citati Stiglitz e Sen, hanno partecipato attivamente alla stesura del rapporto anche Kenneth Arrow, James Heckman e Daniel Kahneman.

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Il rapporto Stiglitz-Fitoussi-Sen Nella premessa al loro rapporto, gli autori riconoscono che viene usualmente posta molta enfasi sul Pil nonostante il prodotto nazionale netto (che prende in considerazione l’effetto del deprezzamento) o il reddito familiare reale (che si concentra sul reddito reale delle unità familiari nell’economia) possano essere più rilevanti (Stiglitz et al., 2009, p.8). Essi asseriscono inoltre che «è assodato da tempo che il Pil è un indicatore inadeguato a quantificare il benessere nel corso del tempo in particolare rispetto alle dimensioni economiche, ambientali e sociali, alcuni aspetti delle quali possono essere definite come sostenibilità» (Stiglitz et al., 2009, p.8, nostra traduzione). Quest’inadeguamento ha forse una rilevanza maggiore di quella che si possa pensare: alcuni tra gli studiosi implicati nel rapporto ritengono che una delle ragioni per cui l’attuale crisi finanziaria ha colto molti di sorpresa risieda nell’inadeguatezza dell’attuale sistema di misurazione e/o che gli attori del mercato e i dirigenti pubblici non abbiano utilizzato l’insieme giusto di indicatori statistici (Stiglitz et al., 2009, pp.8-9). Secondo questi membri, né i sistemi di rendicontazione pubblici né quelli privati erano in grado di fornire un allarme tempestivo e non hanno avvertito gli attori economici del fatto che l’apparente brillante crescita dell’economia mondiale tra il 2004 e il 2007 potesse essere ottenuta a spese della crescita futura. Forse, ipotizzano gli studiosi, se si fosse potuto disporre di un migliore sistema di misurazione, in grado di segnalare per tempo i problemi, i governi avrebbero potuto prendere misure tempestive per evitare o almeno contenere l’attuale scompiglio. Parimenti, se ci fosse stata una maggiore consapevolezza dei limiti dei metodi standard di misurazione, quali il Pil, ci sarebbe stata meno euforia rispetto ai risultati economici degli anni precedenti la crisi (Stiglitz et al., 2009, p.9). La prima parte del rapporto enumera schematicamente i principali argomenti che mettono in discussione la capacità del Pil di misurare correttamente il tenore di vita dei cittadini di uno stato: 32


1. Il Pil rappresenta il valore monetario dei beni e dei servizi finali prodotti nell’economia. Questo esclude servizi gratuiti come il servizio di volontariato o la custodia dei bambini che i nonni praticano sempre più spesso nei confronti dei loro nipoti.20 2. Sono noti diversi casi di esternalità positive e negative nella formazione del prezzo di un bene, che ne impediscono una corretta valutazione da parte della società se rivalutato ai termini di semplice prezzo di mercato (Stiglitz et al., 2009, p.21). 3. Miglioramenti della qualità di un prodotto ne provocano spesso un aumento di prezzo, ma non necessariamente in modo proporzionato. Sottostimare questi miglioramenti può portare a sovrastimare il tasso di inflazione (Stiglitz et al., 2009, p.22). A questi tre limiti da loro trovati potremo aggiungerne sicuramente un quarto. Esso potrebbe essere interpretato come un corollario del terzo: 4. Un sistema a prezzi costanti, che rapporta quindi il prezzo di ogni bene ad un anno base, si trova in difficoltà nel misurare i beni appena immessi sul mercato.

Il più evidente limite del Pil Ci soffermeremo ora ad analizzare il limite più ampiamente discusso del Pil. Tale limite, individuabile ai punti 1 e 2 del rapporto Stiglitz-Fitoussi-Sen, risiede nel fatto che il Pil è un aggregato di valori unicamente positivi di beni e servizi scambiati sul mercato. Le implicazioni erano già state denunciate da Robert Kennedy, Presidente degli Stati Uniti d’America, durante il discorso alla nazione del 18 marzo 1968, tenuto alla Kansas University. Egli affermava che non è possibile «misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il Pil comprende l'inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi

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È stato recentemente calcolato che gli anziani, per il sostegno ai carichi familiari in quanto nonni e l’impegno in organizzazioni di volontariato, forniscono ogni anno una serie di servizi che, se contabilizzati, arriverebbero ad un ammontare massimo di 18,3 miliardi di euro, pari all’1,2% del Pil (De Sario, Sabbatini, & Mirabile, 2010, p. 121)

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che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell'equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta» (Kennedy, 1968). Jean Gadrey e Florence Jany-Catrice (2005) sono della stessa opinione: «tutto ciò che può essere venduto e che ha un valore aggiunto monetario, contribuisce a gonfiare il Pil e la crescita, indipendentemente dal fatto che questo contribuisca o meno al benessere individuale o collettivo». Essi aggiungono che «Nella formulazione di questo indicatore non sono comprese numerose attività e risorse che contribuiscono al benessere, semplicemente perché non sono di natura mercantile oppure perché non hanno un costo di produzione monetario diretto» (Gadrey & Jany-Catrice, 2005, p. 18). Anziché gioire ogni volta che il Pil aumenta o disperarsi ogni volta che il Pil diminuisce, quindi, sarebbe bene indagare a fondo sulle cause che provocano l’aumento o la diminuzione del Pil stesso. In effetti le contraddizioni sono molte: il Pil aumenta anche in seguito a catastrofi naturali (Schiffmann, 2006), ma questo dato è difficilmente di consolazione ad un Paese devastato da un’alluvione. Allo stesso modo, la chiusura coatta di attività di sfruttamento irregolare del territorio o l’adozione di misure che permettano di ridurre gli incidenti autostradali sono fattori di riduzione del Pil, ma a stento si potrebbe trovare qualcuno che, misurando la qualità della vita, abbia da recriminare per una tale diminuzione. Su questa linea critica, la decrescita ha costruito le sue argomentazioni.

Distinzione fra benessere e ben-avere in ambito micro- e macroeconomico Il Pil in sé non è comunque criticabile: esso è un mero indicatore e rappresenta il valore dei beni e dei servizi finali prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo (Blanchard, 2009, p. 34


39). La critica è invece rivolta all’utilizzo che ne viene fatto, e al travisamento di significato che di esso si è creato negli anni. I teorizzatori della decrescita, infatti, sono convinti che l’ideologia prevalente tenda ad equiparare i concetti di ben-essere e ben-avere, come risultato dell’influenza della logica dell’accumulazione illimitata. 21 La differenza tra questi due concetti è fondamentale per avere una piena comprensione della critica presa in esame. La definizione di benessere in senso proprio è già stata data,22 quella di ben-avere è legata al possesso di beni e pertanto può essere fatta coincidere con la capacità di acquisto del singolo. Presupposto del ben-avere è un reddito elevato o un considerevole patrimonio personale. È quindi corretto postulare che il Pil, se rapportato alla popolazione di uno Stato, misura più che il livello di benessere il livello di ben-avere. Ma è concettualmente sbagliato affermare che più è alto il Pil pro-capite di uno Stato, più è alto il livello di benessere dei cittadini, come fece, errando, Jean Fourastié.23Anche Olivier Blanchard, fra gli altri, commette lo stesso errore: in Macroeconomia (2009), nel capitolo dedicato alla crescita, si accinge a misurare il tenore di vita proprio tramite il confronto del prodotto pro capite tra i paesi (Blanchard, 2009, p. 225227). La confusione tra ben-essere e ben-avere si manifesta nelle conclusioni della sezione citata: secondo l’economista francese, «Ciò che conta per il benessere delle persone è il loro livello di consumo» (Blanchard, 2009, p. 227). Tale asserzione è diretta conseguenza dell’assunto, operato anche in ambito microeconomico, che «più è meglio» (principio di non sazietà) (Varian, 2002, p. 42). Su questa ipotesi si basa la costruzione di preferenze «well-behaved» che, come il nome stesso dice, costituiscono il punto di riferimento per le basilari analisi microeconometriche. E sembra non possa essere altrimenti: «L’economia non sarebbe un argomento molto interessante in un mondo nel quale ognuno avesse saziato le proprie preferenze relative al consumo di ciascun bene» (Varian,

21

Cfr. Latouche (2006b, trad. it. 2007, p. 44-59) ed Ellul (1998, p. 98). Vedi sez. 2.3. 23 «Il livello di vita è misurato dal consumo di beni e servizi che possono essere valutati monetariamente, ottenuti cioè tramite salario o altre fonti di reddito che forniscono “potere d’acquisto”» (Fourastié, The causes of wealth, 1975, p. 17-18). 22

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2002, p. 42). Questo assunto, a detta di chi scrive, non andrebbe elevato a carattere generale. Da qui infatti nascono i travisamenti, e si tende a considerare ogni indiscriminato aumento di indicatori di consumo o reddito, come ad esempio il Pil, un miglioramento del benessere generale. Eppure uno degli stessi teorizzatori del concetto di Pil, Simon Kuznets (1934), aveva avvertito nel suo primissimo rapporto al congresso degli Stati Uniti che «il benessere di una nazione può a malapena essere arguito da una misura di reddito nazionale» (Kuznets, 1934, p. 7). Blanchard, d’altra parte, conclude la sezione del capitolo dedicato alla crescita economica con un interrogativo più che legittimo: un più alto tenore di vita è associato ad una maggiore felicità (Blanchard, 2009, p. 227)? La risposta, in ottica di decrescita, è sicuramente negativa.

Correlazione tra benessere e ben-avere: un dibattito acceso da oltre 50 anni È indubbio che un legame tra benessere e ben-avere, entro certi limiti, esiste. Il problema è individuare questi limiti e riconoscerne la validità, evitando di ergere ad assioma generale singole sfaccettature di un discorso di per sé molto articolato e delicato. Alex Inkeles (1960), in un articolo pubblicato sull’American Journal of Sociology, fornisce una prima interpretazione di questa relazione, asserendo che «quelli che stanno economicamente meglio, quelli cioè con migliore istruzione o il cui lavoro richiede più allenamento o abilità, più spesso si riconoscono felici, gioiosi, allegri, liberi da dolore, soddisfatti dell’andamento della propria vita. Anche se la correlazione è debole o ambigua in alcuni casi, non c’è mai stato un singolo caso di inversione di tendenza, ossia un caso in cui le rilevazioni della felicità siano inversamente correlate alle rilevazioni dello status, in studi coinvolgenti quindici Paesi – almeno sei dei quali furono studiati in due differenti occasioni, attraverso l’uso di domande in qualche modo differenti. C’è, quindi, buona ragione per sfatare il mito del “povero noncurante ma felice”» (Inkeles, 1960, p. 17). A simili conclusioni, riporta Easterlin (1974, p.103), arrivano Bradburn (1969), Robinson e Shaver (1969), Wilson (1967) e Gurin et al. (1960). La giustificazione dei risultati ottenuti da Easterlin nei suoi studi, ossia una relazione tra felicità e Pil reale pro capite debole 36


od inconsistente a livello di confronti internazionali viene fornita da James Duesenberry (1952). L’economista americano suppone che l’utilità che una persona ottiene dal livello di consumo è una funzione non del livello assoluto della spesa per il consumo, ma dal rapporto fra la sua spesa corrente e quella delle altre persone.24 Un incremento del reddito di un solo individuo farebbe aumentare la sua felicità, ma aumentare il reddito di ognuno lascerebbe paradossalmente (secondo il paradosso di Easterlin) la propria felicità inalterata. Si noti come nel Grafico II.1 manchi completamente una correlazione positiva tra il livello di felicità personale ed il Pil reale pro capite. Si noti inoltre che i valori della felicità personale sono compresi mediamente fra 4 e 5,5 a prescindere dal livello di Pil reale pro capite. GRAFICO II.1. Relazione tra felicità personale e Pil reale pro capite

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Livello di felicità personale

6

Cuba

Egitto

Panama Giappone Filippine BrasileYugoslavia Nigeria Polonia

5 4

Israele

India

3

Repubblica Dominicana

2 1 0 0

200

400

600

800

1000

1200

Pil reale pro capite Elaborazione dati di Easterlin (1974, p. 106).

Easterlin stesso avverte però che questa interpretazione della realtà, seppure rimanga a suo avviso generalmente «valida» (Easterlin, Does Economic Growth Improve the Human Lot?

24

Vedi anche (Layard, 2005, p. 45) e (Solnick & Hemenway, 1998).

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Some empirical evidence, 1974, p. 112), è estremamente semplificata, a causa del numero di variabili che entrano in gioco. Il mondo dell’economia ufficiale è profondamente diviso tra sostenitori della tesi portata avanti da Easterlin (aumentare il reddito di una nazione non serve ad aumentare il livello di felicità della stessa)25 e sostenitori della tesi opposta: dalla crescita economica consegue un miglioramento della felicità delle persone. Il dibattito, scaturito dalla ricerca di Easterlin nel 1974, produsse la reazione tra gli altri di Michael Hagerty e Ruut Veenhoven (2003), i quali accusarono Easterlin di mancanza di completezza nelle sue analisi (Hagerty & Veenhoven, 2003, p. 2). Essi fornirono dati che mostravano chiaramente un aumento della felicità man mano che il reddito del Paese aumentava (Hagerty & Veenhoven, 2003, p. 10-12). La risposta di Easterlin fu rapida: nel 2004 egli ribatté che i risultati ottenuti dai due ricercatori erano il frutto di rilevazioni appartenenti a due set di campioni differenti. Egli ricordò loro che è imprudente sottovalutare gli effetti distorsivi generati dall’assimilazione di basi campionarie non omogenee, e mostrò come questa scelta aveva influenzato tutti i loro risultati, i quali, se riformulati in base a dati corretti, al contrario avvaloravano quanto Easterlin stesso aveva affermato trent’anni prima (Easterlin, 2004, p. 4 e 5). Nella controversia si sono inseriti di recente anche i ricercatori Betsey Stevenson e Justin Wolfers (2009). Essi, forti di dati più recenti e più completi (Stevenson & Wolfers, 2009, p. 3), hanno rivalutato l’idea che il reddito influenza positivamente la felicità delle persone, senza riuscire però a spiegare come mai i cittadini statunitensi, dal 1972 al 2006, abbiano sofferto, a fronte di un raddoppiamento del Pil reale pro capite,26 addirittura di un calo del livello di felicità (ibidem, p.58). La ricerca più recente, fatta da Ed Diener (2010), mostra invece che il reddito (assieme al patrimonio) è una misura abbastanza forte della soddisfazione della propria vita, ma un indicatore molto più debole dei sentimenti negativi o positivi di una persona.

25 26

Da qui deriva la più profonda domanda “la crescita serve a migliorare l’umanità?” cfr. Easterlin (1974). Fonte: US Bureau of Labour Statistics.

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Come si può notare, il dibattito in parte è alimentato a causa della difficoltà di definire cosa sia a livello pratico il benessere umano. Il confronto tra sostenitori e detrattori del paradosso di Easterlin è destinato a perdurare, senza probabilmente mai arrivare a conclusioni universalmente accettate.

2.4.2 – Alternative al Pil Il rapporto Stiglitz-Fitoussi-Sen (2009) suggerisce quattro misure per meglio fotografare il livello di benessere di una nazione: 1. Tenere conto di aggregati che mostrino valori netti e non lordi; 2. Migliorare la misurazione empirica di attività chiave, come la fornitura di servizi sanitari e di educazione; 3. Mettere in evidenza la situazione familiare, che più si presta a considerazioni sugli standard di vita; 4. Considerare congiuntamente il reddito, il consumo ed il benessere;

Tenere conto di aggregati di valori netti Il primo punto prevede di utilizzare innanzitutto aggregati di conti pubblici diversi dal Pil, che siano in grado di tenere conto dell’ammortamento del capitale e dei valori netti dell’attività economica piuttosto che di quelli lordi. Una prima, immediata alternativa al Pil potrebbe quindi essere costituita dal Prodotto Interno Netto (Pin). Esso tiene presente del fatto che, se un notevole quantitativo della produzione viene destinato al rinnovo di capitale industriale, i beni ed i servizi finali scambiati sul mercato saranno inferiori. Il motivo per cui il Pin non è mai stato preso in seria considerazione risiede nella non immediata quantificazione dell’ammortamento. Inoltre, se la struttura di produzione rimane costante, Pin e Pil hanno andamento uguale. Gli studiosi fanno però notare che recentemente la struttura di produzione è cambiata: l’importanza che ha assunto in questi anni il settore IT ha provocato un più rapido

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processo di ammortamento del capitale, costituito in misura crescente da software e computer (Stiglitz et al., 2009, p.24). Pertanto, il Pin è ultimamente cresciuto a tassi più contenuti del Pil. Diversi tentativi sono stati fatti di includere nel processo di deprezzamento del capitale i danni ambientali provocati dal processo produttivo, ma finora senza scarsi risultati, a motivo di una valutazione dei cambiamenti della qualità dell’ambiente non oggettiva né monetaria. I ricercatori ipotizzano una sottrazione del valore delle materie prime come legno e metalli dai valori di produzione di segherie e centri di estrazione per tenere conto dei danni causati all’ambiente dall’attività mineraria e di disboscamento. Un altro indicatore che si trova nella moderna contabilità è il reddito netto nazionale disponibile, la cui importanza non dev’essere sottovalutata. Esso include il reddito prodotto all’estero da cittadini nazionali ed esclude il reddito prodotto da cittadini stranieri. Esso è simile al Prodotto nazionale netto, ma mette al centro i singoli cittadini al netto dell’intervento dello Stato. In questo modo si è in grado di conteggiare anche gli effetti prodotti dalla globalizzazione, tramite l’analisi della Bilancia Commerciale e del tasso di cambio.

Migliorare la misurazione dei servizi Nel secondo punto viene ricordato che i due terzi della produzione e dell’occupazione di uno Stato vengono forniti dal settore dei servizi. È però richiesto uno sforzo maggiore per definire la qualità e la quantità degli stessi. Per analizzare la spesa per la sanità, essa deve essere scissa in costo del servizio e risultato ottenuto. Si rileva anche in questa sede la presenza di fattori non monetari che possono influenzare lo status delle persone: ad esempio, nel settore dell’istruzione, la presenza dei genitori che aiutino il bambino a studiare influisce sulla sua preparazione, mentre uno stile di vita corretto allunga la speranza di vita dell’individuo. Attribuire cambiamenti nel campo dell’educazione o dell’istruzione unicamente a fattori monetari potrebbe essere fuorviante (Stiglitz et al., 2009, p.26).

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Esaltare la situazione familiare degli individui Nel terzo punto si consiglia di mettere in evidenza la situazione reddituale familiare degli individui, la quale può essere calcolata con metodologie simili a quelle utilizzate per misurare la situazione economica generale. Qui la differenza maggiore è che i cittadini pagano le tasse, ottenendo in cambio dei trasferimenti e/o usufruendo della possibilità di godere di agevolazioni e servizi gratuiti forniti dallo Stato. Mentre è facile aggiungere o sottrarre l’entità dei trasferimenti di denaro presenti sottoforma di tasse ed agevolazioni, non è altrettanto semplice includere i trasferimenti di natura non monetaria che lo Stato opera nei confronti dei cittadini, come le prestazioni di natura sanitaria o dell’istruzione. Il rapporto evidenzia come due famiglie con reddito e patrimonio uguale possono comunque avere due livelli di vita diversi, a seconda che i genitori lavorino entrambi (e quindi debbano pagare baby-sitter e colf) o che uno solo lavori, permettendo al coniuge di occuparsi delle faccende domestiche.

Considerare congiuntamente il reddito, il consumo ed il benessere Nel quarto punto si sostiene che reddito, consumo e benessere sono interdipendenti l’uno dall’altro, e come tali devono essere raffigurati. I flussi di reddito sono certamente importanti per avere una prima valutazione dello standard di vita, ma forse più che il reddito conta il consumo nel tempo. Il fattore temporale chiama a sua volta in causa il patrimonio: è per questo motivo che una famiglia di basso reddito con alto patrimonio sta meglio di una famiglia a basso reddito con basso patrimonio. Lo stesso discorso, secondo gli studiosi, dovrebbe essere applicato anche al sistema economico (Stiglitz et al., 2009, p.29). Per meglio comprendere cosa succede all’interno di un sistema economico, bisogna considerare ugualmente cambiamenti a livello patrimoniale. Purtroppo anche in questo caso si ripropone il problema di misurare la parte di patrimonio non monetaria. La più importante di tutte, almeno in ambito familiare, è costituita dal capitale umano.

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Gli indicatori alternativi al Pil come misura del benessere nazionale potrebbero quindi essere molteplici, ma tutti soffrono per non essere facilmente quantificabili.

Ulteriori indici alternativi al Pil L’Indice di benessere economico sostenibile (ISEW) è stato ideato nel 1989 Herman Daly e John B. Cobb (1989). Esso consiste in una lista di indicatori economici, sociali ed ambientali, espressi in valore monetario, che fornisce un indice integrato di benessere economico. Partendo dal consumo privato (direttamente connesso al benessere), aggiustato sulla base di un indice di distribuzione del reddito, le voci che sono considerate positive per il benessere (servizi dal lavoro domestico, dai beni durevoli, dalla rete viaria, ecc.) sono aggiunte, mentre quelle che incidono negativamente su di esso (spese difensive, ovvero spese di ripristino di condizioni precedenti, depauperamento del capitale naturale, uso di risorse non rinnovabili, effetto serra, ecc.) vengono sottratte dall’ammontare totale (Tiezzi & Pulselli, 2007, p. 1). Per il calcolo dell’ISEW, si cerca di incorporare nella valutazione economica anche manifestazioni sociali o ambientali rilevanti. Un altro utile indicatore basato sull’ISEW è rappresentato dall’Indice di Progresso Genuino, o GPI. Quest’indice, appena fu sviluppato nel 1995, riscosse subito i consensi di circa 400 noti economisti, i quali, dopo aver affermato che il Pil rappresenta «una misura sia inadeguata sia fuorviante della reale prosperità», concludevano che «Urgono nuovi indicatori di progresso per guidare la nostra società… ed il GPI è un importante passo in questa direzione» (Colman, 2001, p. 4).27 Esso parte dagli stessi dati di consumo personali sui quali si basa il GDP, ma poi esegue alcune cruciali distinzioni. Si aggiusta infatti per fattori come distribuzione del reddito, aggiunge fattori come la cura dei bambini, le faccende domestiche delle casalinghe, il valore

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Alcuni tra gli economisti che sottoscrissero quest’affermazione sono Robert Dorfman, Professore Emerito all’università di Harvard; Herbert Simon, Premio Nobel per l’Economia, 1978; Partha Dasgupta, università di Oxford; Robert Eisner, ex presidente dell’Associazione Americana dell’Economia; Mohan Munasinghe, Presidente della Politica Ambientale e della Divisione di Ricerca della Banca Mondiale; Emile Van Lennep, ex segretario generale dell’OCSE.

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del tempo libero e del lavoro volontario; sottrae fattori come il costo del crimine, dei rifiuti e dell’inquinamento (GPIAtlantic, 2007a). In Bhutan nel 1972 è stato ideato un altro indicatore, che misura la Felicità Interna Lorda, o GNH. La teoria sottostante alla GNH è semplice: la crescita economica non è un fine in sé ma un mezzo per raggiungere altri obiettivi, come pace, sicurezza sociale, un benessere ed una felicità più elevati. Med Yones, Presidente dell’Istituto Internazionale di Gestione, ha individuato sette aree di sviluppo socioeconomico. La Felicità Interna Lorda risulta così un indice composto che è funzione della media totale pro capite delle seguenti misure: 1. Benessere economico: risultante sia dalla misurazione di parametri economici come la distribuzione del reddito e l’indebitamento del cittadino, sia da sondaggi diretti; 2. Benessere ambientale: risultante da sondaggi diretti e misurazione statistica di parametri ambientali come inquinamento, rumore e traffico; 3. Benessere fisico: risultante da misurazione statistica di parametri di salute fisica come peso corporeo e malattie; 4. Salute mentale: risultante da sondaggi diretti e misurazione statistica di parametri di salute mentale come utilizzo di antidepressivi e aumento o declino di pazienti in psicoterapia; 5. Benessere sul posto di lavoro: risultante da sondaggi diretti e misurazione statistica di parametri di lavoro come richieste di lavoro, cambi di lavoro, rimostranze sul posto di lavoro e cause intentate ai datori di lavoro o ai dipendenti; 6. Benessere sociale: risultante da sondaggio diretto e misurazione statistica di parametri sociali come discriminazione, sicurezza, tasso di divorzio, lamentele di conflitti domestici, processi familiari e/o pubblici, tasso di criminalità; 7. Benessere politico: risultante da sondaggio diretto e misurazione statistica di parametri politici come la qualità della democrazia locale, libertà individuale e conflitti con l’estero (Yones, 2006). 43


In Cina è stato ideato il Pil verde, il quale, similmente agli altri indicatori alternativi al Pil, tiene conto delle conseguenze ambientali dello sviluppo economico (Lazzarini, 2004). Da questo indicatore risulta che i danni complessivi causati dall’inquinamento hanno prodotto nel 2004 danni per oltre 60 miliardi di euro, una cifra pari al 3% del Pil cinese dell’epoca (Xiaohua, 2007). Interessante l’esperimento operato in Québec: qui, un gruppo di persone ha collaborato attivamente con la classe politica locale negli anni 1997-1999, arrivando a definire il cosiddetto Prodotto Interno Dolce (Pid). Esso è piuttosto un “integratore” del Pil, ed è definibile come «l’insieme dei contributi non monetari, che partecipano alla ricchezza umana e collettiva» (Labrie, 2001). Si è poi cercato di classificare le attività della vita quotidiana nel Pil o nel Pid. Per esempio, le cure dei pazienti in ospedale sono conteggiate nel Pil. Prendersi cura di un paziente a casa invece no, ma attraverso quantificazioni differenti si è riusciti ad includere questo valore non monetario nel Pid. È risultato che molti artisti contribuivano ad aumentare sensibilmente il valore del Pid e solo in minima parte il Pil. Una buona parte del contributo alla ricchezza da parte delle donne, dei disoccupati, dei bambini si misurava in termini di Prodotto Interno Dolce (Labrie, 2001). Secondo questa prospettiva, persino una persona povera, disoccupata o sottopagata può contribuire al miglioramento del livello di vita della comunità. Ricordiamo infine che un ulteriore indice è in fase di elaborazione: si tratta dell’Indice Canadese di Benessere (CIW). Esso sarà il frutto di una collaborazione di esperti provenienti da tutto il Canada.28 Questo indice, quando troverà applicazione, si baserà su misure verificabili e pubblicate regolarmente. Integrerà la comprensione della realtà economica del Canada con informazioni che spaziano dalle iniziative di prevenzione per la salute, dalla purezza dell’aria e dell’acqua, dall’educazione dei bambini e altri determinanti di una nazione sana (GPIAtlantic, 2007b).

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L'iniziativa è guidata, tra gli altri, dal Dr. Ron Colman, direttore esecutivo di GPI Atlantic, Roy Romanow, esperto in misure di sostenibilità, benessere e qualità della vita, i maggiori leader politici, statistici, operanti nel settore del volontariato ed esperti di comunicazione.

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Capitolo 3:

Biografia di Latouche

3.1 - Introduzione Dopo aver presentato le caratteristiche salienti della teoria della decrescita, i fondamenti della critica alla società di crescita e all’utilizzo del Pil come misura del benessere di una nazione, ci occuperemo in questo capitolo di stilare una biografia di Serge Latouche, lo studioso che più di ogni altro è stato in grado di diffondere il tema della decrescita all’interno dell’accademia e soprattutto al di fuori di essa. Prenderemo in esame lo studio che egli ha compiuto, le persone che lo hanno formato, i viaggi e le esperienze che lo hanno segnato. La nostra ricerca non è stata esente da complicazioni, prima fra tutte l’assenza di informazioni precise su alcune tappe fondamentali della sua vita, come il nome dell’università in cui egli si è laureato ed il contenuto della sua tesi. Significativa in tal senso è l’assenza totale di riferimenti alla vita di Latouche nel Palgrave Dictionary of Economics (2009), nell’Enciclopedia Britannica (2010) e persino nella raccolta di biografie Who’s Who francese (2010). 1 Si fornirà una prima suddivisione della sua vita in tre tappe: l’età giovane, l’età adulta e l’età matura. Ogni fase verrà ripercorsa da una sezione dedicata. Le ragioni di questa suddivisione verranno approfondite nel capitolo successivo, ma già da ora si può anticipare che questa

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Derisoria sembrerebbe in particolar modo l’intestazione del Who’s Who: «Dizionario biografico di coloro che contano in Francia» (Who’s Who, 2010).

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classificazione è funzionale a racchiudere l’ideologia di Latouche all’interno di tre modelli di pensiero differenti, presentanti al loro interno caratteristiche comuni. Nell’ultima sezione, infine, si riporterà l’attività di Latouche come parte attiva in associazioni, gruppi di ricercatori e come protagonista di numerosi convegni.

3.2 – Il giovane Latouche e l’esperienza africana Serge Latouche nasce il 12 gennaio 1940 a Vannes, una città situata nell’ovest della Francia sulla costa sud della Bretagna. Finita la scuola dell’obbligo, decide di proseguire gli studi a Parigi (Latouche, 2005b), iscrivendosi nel 1957 alla facoltà di scienze politiche (Latouche, 2010a, p. 1). Tuttavia, prima di laurearsi decide di partire, nel 1964, per l’allora Congo Belga. Qui, prima di completare la tesi esordisce nell’insegnamento alla Scuola Nazionale di Diritto e di Amministrazione della capitale Léopoldville.

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Soprattutto il primo periodo fu

particolarmente duro per il giovane Latouche, trovandosi «solo in mezzo a sconosciuti in un paese (già) dilaniato dalla guerra civile» (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 27). Lo scenario era quello della guerriglia urbana organizzata da Mobutu Sese Seko, allora capo di Stato maggiore dell’esercito, contro Joseph Kasavubu, Capo dello Stato privo però di potere effettivo. Il primo contatto con la realtà locale fu quello di una profonda povertà, unita a situazioni di assoluta miseria: donne costrette a lavarsi in acquitrini paludosi, capanne costruite con argilla compattata e tetti di paglia. Latouche constatò con rammarico che, in tanti anni, le condizioni della popolazione locale non erano affatto migliorate. L’Africa che Latouche aveva di fronte agli occhi era la stessa Africa d’inizio secolo, cioè l’Africa subalterna e persino dominata dall’Occidente. Già Pietro Savorgnan di Brazzà nella sua spedizione in Africa del 1903 denunciava i soprusi dei colonizzatori europei nei confronti degli indigeni (Encyclopædia

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La toponomastica di questo paese ha subito varie rivoluzioni. Dal 1966 per volere del Capo dello Stato Mobutu Sese Seko, i luoghi geografici nazionali con nomi di derivazione straniera vennero ribattezzati con nomi appartenenti alla lingua locale. Léopoldville divenne così l’attuale Kinshasa e il Congo Belga fu rinominato Zaire. Nel 1997 in seguito ad una guerra civile che costrinse Mobutu Sese Seko all’esilio in Marocco, lo Zaire prese il nome di Repubblica Democratica del Congo, tuttora vigente (fonte: Wikipedia).

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Britannica, 2010b). La stessa «Africa ambigua» (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 27) è raccontata dalla spedizione etnografica compiuta da Marcel Graiule e descritta da Michel Leiris trent’anni dopo (Encyclopædia Britannica, 2010a). Non diversa fu l’Africa che Emmanuel Mounier ebbe modo di conoscere bene durante la Seconda Guerra Mondiale. Il pensiero di quest’ultimo sembra attagliarsi bene all’impostazione che Latouche inizia a sviluppare durante il suo soggiorno: «Sfortunatamente, sotto pretesto di sfruttamento razionale del globo, l’imperialismo capitalista si è precipitato sul lavoro a buon mercato, sulle materie prime abbondanti e sui nuovi sbocchi commerciali, a tutto vantaggio della maggior prosperità dei profitti e senza considerazione per i diritti dei primi occupanti» (Mounier, 1936, p. 132). Il giovane Latouche si convince, durante il suo soggiorno in Congo, che la colpa di tanta miseria è da attribuirsi allo sfruttamento della popolazione indigena esercitata dalla logica capitalista occidentale. Da questa certezza, rivelatasi in seguito (a suo parere) più che infondata, nasce la sua iniziale simpatia verso il sistema economico marxista; questo lo porterà nel 1966 ad ultimare la tesi di dottorato dal titolo La pauperisation à l’échelle mondiale (Latouche, 1966), un elaborato di stampo marcatamente socialista. Come lo stesso economista francese racconta, infatti, (Latouche, 2006a), egli conclude il suo elaborato con una vibrante arringa in favore di uno sviluppo pianificato che permetta un’accumulazione del capitale più rapida possibile, attuabile attraverso un rapido miglioramento della tecnologia. Latouche auspicava, con questo suo lavoro, che i paesi del sud del mondo recuperassero il prima possibile il divario tecnologico presente rispetto ai paesi del Nord utilizzando le tecniche più sofisticate, come già stava facendo l’Algeria di Boumédienne. Da lì a qualche anno, la coscienza di Latouche circa la politica dello sviluppo cambierà ulteriormente, al punto da arrivare ad affermare di aver redatto la sua tesi di dottorato durante un periodo di «schizofrenia» (Latouche, 2006a). Motivo di questo grande distacco da ricerche che egli stesso ha compiuto in gioventù è senza dubbio il tema dominante del suo elaborato, che si dilungava in un’invettiva a favore di un particolare sistema di crescita, nello 47


specifico il marxismo. Secondo Latouche, infatti, per risolvere il problema del sottosviluppo al Sud era necessario ricorrere all’adozione di un sistema economico di impronta marxista. Questo avrebbe permesso alle popolazioni locali di staccarsi dalla dominazione del Nord e di dar vita ad un sistema economico autonomo e prosperoso, la cui crescita sarebbe stata garantita dal ricorso ad una rapida modernizzazione, grazie all’apporto della tecnologia nel ciclo della produzione. Sostenere l’adozione di un sistema di crescita (il marxismo) per risolvere i problemi causati da un altro sistema di crescita (il capitalismo) andrà in direzione contraria rispetto ai suoi studi futuri. Una ulteriore tappa importante della sua formazione può essere identificata nel periodo che egli passò nel Sud-est asiatico nel 1966, alla conclusione del suo dottorato. Latouche rimase in Laos per due anni ad insegnare presso l’Istituto Reale di Diritto e di Amministrazione di Vientiane, la capitale, aiutando allo stesso tempo ad organizzare la contabilità nazionale (Latouche & Ruzzenenti, 2005, p. 1). Durante questo periodo egli entrò in contatto, rimanendone profondamente colpito, con un’«altra» società (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 31), che non poté inquadrare né come sviluppata né come sottosviluppata. Essa venne pertanto definita dall’economista francese come a-sviluppata, ossia fuori dal concetto stesso di sviluppo, il quale nella civiltà occidentale appare imprescindibile. Le comunità del villaggio del Laos, infatti, come Latouche poté constatare, basavano parte della loro alimentazione sul consumo di un riso appiccicoso da loro coltivato, e i contadini, dopo averlo seminato, lo ascoltavano crescere, poiché, finita la semina, non rimanevano loro altri compiti da svolgere. Le comunità approfittavano così del resto del tempo per dedicarsi alle feste, alla caccia e ad altre attività (Latouche, 2006a). Questa realtà scosse profondamente il giovane Latouche, al punto da dare avvio ad una crisi di fede nell’economia, nella crescita e nello sviluppo, fino ad arrivare molto più tardi ad una perdita di fede completa (Latouche, 2006a). Agli occhi di chiunque in Occidente, il comportamento dei contadini asiatici sarebbe parso sconsiderato. Avrebbero potuto dedicare 48


una parte considerevole del loro tempo libero per costruire capanne migliori, per allargare i raccolti, per migliorare gli attrezzi da semina, ma ciò non avveniva, non per impossibilità economica, ma perché essi non lo avvertivano nella loro scala di valori come necessario. Latouche si rese conto che quella società “produceva” beni che «siamo sempre meno capaci di fabbricare»; non beni economici, ma beni puramente immateriali, riassumibili con la parola «gioia di vivere» (Latouche, 2007d, p. 3). Egli notò infatti che le popolazioni locali sopravvivevano non tanto per merito degli aiuti economici dell’occidente, ma grazie alla solidarietà, mettendo in comune il poco che essi avevano a disposizione. Essi riuscivano a produrre ricchezza perché tra loro era presente una grandissima ricchezza relazionale. Fu questo l’incipit che gli diede l’orientamento su ciò che sarebbe potuta essere un’“altra” crescita, o meglio, un’uscita dalla crescita stessa, con meno beni materiali e più beni capaci di suscitare la «gioia di vivere» (Latouche, 2007d, p. 3). Allo stesso tempo, Latouche iniziò a maturare dei convincimenti critici su quello che stava per succedere e che sta succedendo a tutt’oggi: lo sviluppo rischia di distruggere questa ed altre società, e con esse il loro modello di benessere collettivo, «di arte di vivere, a volte raffinata, relativamente sobria, ma comunque in equilibrio con l’ambiente naturale» (Latouche, 2006a). Si può dire quindi che il soggiorno in Laos cambiò nettamente il giudizio di Latouche sull’importanza dell’economia nella vita di uno Stato. Ciò ebbe ripercussioni quando, una volta tornato in Francia nel 1967, venne assunto dall’università di Lille come docente di filosofia ed epistemologia economica. Qui, forte dell’esperienza maturata, insegnò una “decostruzione critica” dell’economia politica, ivi compresa quella leninista, ritenuta troppo incline nel promuovere un’accumulazione del capitale di stampo occidentale. Una simile libertà di critica e di insegnamento fu resa possibile grazie al fatto che la maggior parte dei professori era partita per Parigi (dove andrà anch’egli ad insegnare qualche anno più tardi), lasciando Latouche libero di organizzare i corsi come meglio riteneva (Latouche, 2006a). Il suo pensiero fu il frutto di diversi anni di riflessione incentrata sul campo dell’antropologia economica, in 49


cui, anche durante l’insegnamento all’università di Nanterre, egli criticò duramente l’homo œconomicus come emerge dai lavori di John Stuart Mill (1936, p. 7) e di Adam Smith (1986, p. 119). Tale critica prendeva vantaggio dallo studio di autori come Karl Polanyi (1944), Marshall Sahlins (1976) e Marcel Mauss (1923-1924). Durante questo approfondimento, Latouche si rese conto che l’antropologia economica che emergeva dalle sue lezioni toccava una realtà sociale totalmente estranea agli economisti del tempo. Al contrario, egli era fermamente convinto che un tale approccio non poteva essere ignorato dai suoi colleghi economisti, i quali furono chiamati a mettere in discussione le proprie convinzioni. A tal proposito pubblicò i due libri Epistémologie et économie: Essai sur une anthropologie sociale freudo-marxiste (Latouche, 1973)3 e Le Projet marxiste: Analyse économique et matérialisme historique (Latouche, 1975)4, attraverso i quali chiarì la sua posizione filomarxista. Il Latouche che pubblicò il libro chiamato Critique de l'impérialisme: une approche marxiste non leniniste des problemes theoriques du sous-developpement (Latouche, 1979) era un Latouche profondamente diverso da quello che, poco più di vent’anni prima, aveva messo timidamente piede in terra africana. Forte della sua esperienza in Congo ed in Laos e delle riflessioni che aveva compiuto negli anni seguenti, egli operò un’importante distinzione tra la matrice marxista e quella leninista del socialismo, criticando profondamente la seconda. Essa venne accusata, dall’economista francese, di essere per troppi versi simile al sistema a cui si contrapponeva, ossia il capitalismo. Una politica economica imperialista era indubbiamente un tratto capitalista tuttavia il leninismo non era scevro di un’attitudine che prevedesse lo sfruttamento sistematico di altre popolazioni ai fini dello sviluppo interno. Ciò non era più conciliabile con il pensiero di Latouche dopo l’esperienza africana.

3 4

Pubblicato nella sola versione francese. Pubblicato in spagnolo nel 1976 ed in portoghese nel 1977.

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3.3 – Il Latouche adulto: le prime critiche al sistema di crescita Il Latouche adulto attenuò quindi l’interpretazione tout court marxista i concetti canonici di sviluppo e sottosviluppo in ottica terzomondista, mostrando i pericoli di una progressiva distruzione delle altre culture attraverso l’imporsi di una cultura esterna, quella dell’occidente (Latouche, 2006a). Egli trovò piena corrispondenza tra le sue idee e quelle di Ivan Illich, che divenne per lui ben presto come un «maestro» (Latouche, 2009b). Anche se ebbe poche occasioni di vedere Illich di persona (tre sole volte, prima della morte di Illich il 2 dicembre del 2002), egli prese comunque parte in quella che definì «una piccola massoneria internazionale» (Latouche, 2006a) che ruotava attorno a discepoli o ex-studenti di quest’ultimo, ossia i francesi Jean Robert e Jean-Pierre Dupuy, il tedesco Wolfgang Sachs, l’iraniano Majid Rahnema ed il messicano Gustavo Esteva (Latouche, 2007d, p. 1). Tutte queste persone condividevano la denuncia dell’illusione creata dallo sviluppo e dell’opulenza. A tale denuncia contrapposero una forte cultura dell’ecologia, attenta agli sprechi della società, sottolineando i quattro limiti ecologici del pianeta nel suo insieme. Nel 1982 entra a far parte del comitato di redazione della rivista L’homme et la société. Nello stesso anno partecipa alla fondazione del M.A.U.S.S. (Movimento Anti-Utilitarista delle Scienze Sociali), movimento creato in omaggio a Marcel Mauss, antropologo francese deceduto a Parigi trent’anni prima. Le idee di Mauss verranno riprese ed ampliate da pensatori quali, oltre allo stesso Latouche, Alain Caillé, professore di sociologia all’Università di Caen (poi a Paris X, Nanterre), Patrick Viveret, filosofo francese, e Gérald Berthoud, docente di antropologia all’Università di Losanna. L’anti-utilitarismo portato avanti dal M.A.U.S.S. consisteva nel fermo rifiuto della corrente economico-filosofica fondata da Jeremy Bentham (1776), il quale sosteneva che «la misura di ciò che è giusto o sbagliato è la massima felicità del più grande numero di persone» (Bentham, 1776, p. 1). Gli esponenti del M.A.U.S.S. denunciavano che un’economia concepita secondo canoni utilitaristici avrebbe mirato a massimizzare il benessere complessivo, trascurando completamente il modo in cui esso è distribuito tra gli 51


individui. In quest’ottica, infatti, «il benessere della società aumenta se tutti stanno meglio, ma anche se aumenta il benessere di chi è già ricco, purché il suo miglioramento sia maggiore del danno inflitto agli altri membri della società» (Bosi, 2010, p. 34). All’inizio il movimento concepiva il proprio antiutilitarismo nei termini di una generica critica dell’economicismo (Coluccia, 2003). Ma durante i sette anni di edizione del Bullettin du M.A.U.S.S., accanto alla critica emergeva una maggiore consapevolezza. Attraverso un approccio storico-antropologico lo studio dei fondamenti economicisti delle varie discipline accademiche (economia politica in testa), si affermava tra questi studiosi la convinzione che esiste una specificità dell’utilitarismo rispetto all’economicismo, e cioè, come avrebbe scritto Caillé nel Manifesto del M.A.U.S.S.: «il fatto che l’utilitarismo non rappresenta un sistema filosofico particolare o una componente fra le altre dell’immaginario dominante nelle società moderne. Piuttosto esso è diventato quello stesso immaginario» (Caillé, 1991). 5 I due libri che Latouche pubblicò in questo periodo, Faut-il refuser le développement? (Latouche, 1986) e L’occidentalisation du monde (Latouche, 1989) fissarono la sua linea di pensiero profondamente critica verso il modello di sviluppo occidentale. Questi lavori trovarono il consenso di una parte piccola ma crescente degli studiosi, nonostante l’evidente limite della sua ricerca: l’economista francese condusse infatti aspre critiche rivolte all’occidente ed alla politica imperialista, senza senza introdurre però argomentazioni di tipo ecologico nel suo schema (Latouche, 2006a). Tale omissione non fu casuale: sebbene egli conoscesse i lavori del già menzionato Club di Roma,6 condividendone i principi, egli non riuscì a trovare un modo negli anni Ottanta per integrarli nei suoi libri. Ciò accadde solo nel 1991, con l’uscita del libro La planète des naufragés. Latouche cominciò anche a porsi il problema di come le società del sud del mondo sarebbero potute sopravvivere al «maremoto dello sviluppo» che si stava abbattendo su di loro in quegli 5

Tale interpretazione è confermata dallo stesso Bosi, il quale afferma che la concezione dell’utilitarismo Benthamiano, «seppure aggiornata, continua ad essere il fondamento dell’Economia del benessere moderna» (Bosi, 2010, p. 34). 6 Si veda il Capitolo 2 Sezione 2.

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anni (Latouche, 2006a). In effetti, a partire dal 1995, anno della pubblicazione del libro L'economia svelata. Dal bilancio familiare alla globalizzazione (Latouche, 1995), egli pubblicò una serie di opere che condannarono con durezza il modello di sviluppo economico occidentale. Ne possiamo distinguere almeno sette: 1) Ne La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Latouche (1995) accusa il sistema occidentale di ridurre le persone ad ingranaggi, al pari delle macchine. L’esercito e la burocrazia vengono indicati come esempi di megamacchine semplici. Con il processo di globalizzazione, si avverte, tutto il mondo tende a diventare una megamacchina dominata dalla tecnica e dal’economia, una megamacchina-universo; 2) Ne Il pianeta uniforme. Significato, portata e limiti dell'occidentalizzazione del mondo Latouche e Simon Leung (1996) denunciano i disastri sociali, culturali e materiali causati dalla dominazione occidentale; nello stesso anno, l’economista francese diventerà membro del comitato scientifico della rivista italiana Ecologia Politica. 3) Ne L’altra Africa, tra dono e mercato (Latouche, 1997) egli descrive come le popolazioni dell’“altra Africa” si auto-organizzano e sopravvivono, ampliando i temi già toccati in La Planète des Naufragés. La sua indagine focalizza l’attenzione sui metodi con cui queste persone sopravvivono al di fuori dell’economia ufficiale, come egli ebbe modo di rinscontrare nel villaggio del Laos. Quest’approfondimento economicoantropologico sul continente africano gli permise di portare all’attenzione il fatto che, nonostante in termini economici l’Africa non rappresenti nulla7, questo continente sia invece un grandissimo produttore di un bene prezioso: la gioia di vivere. 4) Nel breve trattato (poco più di un centinaio di pagine) Les dangers du marché planétaire

(Latouche,

1998)

vengono

esaminate

le

molteplici

implicazioni

dell’estensione dell’economia di mercato a livello globale, sotto l’effetto della 7

L’Africa contribuisce solo per il 2% alla formazione del Pil mondiale: a fronte di complessivi 57.228 miliardi di dollari, essa ne produce solo 1.184 (FMI).

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mondializzazione. Quattro grandi fenomeni sono il risultato di questo processo: lo sviluppo delle imprese transnazionali, l'indebolimento delle regolamentazioni statali, la “morsa” della finanza sull'economia ed il crollo delle economie socialiste. Le implicazioni della mondializzazione purtroppo non si fermano qui. L’obiettivo che si prefigge la società occidentale è quello di assicurare la dominazione dell’uomo sulla natura, ad esempio non considerando come rilevante il costo dello sfruttamento dell’ambiente ai fini economici; 5) Il 2000 fu un anno molto prolifico per Latouche: egli pubblicò in quest’anno ben tre opere. Ne La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Latouche (2000a) accusa l’occidente di aver perso di vista la phrónesis, traducibile come sapienza, saggezza, cioè la ragione, e di averla persa proprio a causa della trappola della razionalità. Diventando razionale, afferma Latouche, la ragione si è svuotata di ogni sostanza, trasformandosi in qualcosa di totalmente astratto. Secondo Latouche, la sfida di Minerva, ossia un’esortazione al recupero dell’ideale di phrónesis, non consiste in un ritorno alla prudenza di Cicerone e Aristotele, bensì di un superamento di questa, per uscire dagli intralci di una ragione a doppia faccia; 6) Nello stesso anno Latouche (2000b) pubblica Immaginare il nuovo. Mutamenti sociali, globalizzazione, interdipendenza Nord-Sud, in cui si sviluppano temi già inizialmente affrontati ne La sfida di Minerva (2000a). Qui infatti viene ribadito che il ragionevole si oppone alla “razionalità” così come l’opinabile pensiero pratico si oppone all’esattezza del pensiero teorico. Egli afferma che sono i modelli di vita africani a cui bisogna rifarsi per uscire da una razionalità economica dannosa, dal “delirio d’efficacia”, e ritrovare delle pratiche “ragionevoli” che integrino il principio di precauzione che è parte costituente della virtù della phrónesis. Per riuscire in ciò, bisogna, secondo Latouche, ridare all’economia un assetto locale-nazionale e non globale.

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7) È con la pubblicazione del libro La fine del sogno occidentale. Saggio sull'americanizzazione del mondo che Latouche (2000c, trad. it. 2002) raggiunge il punto più alto nella critica diretta al sistema di crescita occidentale. L’autore in un breve excursus storiografico spiega l’evoluzione del fenomeno di occidentalizzazione attraverso i secoli, ribadisce il pericolo di una economicizzazione e di una mercificazione totale del mondo, ossia una trasformazione di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, se non addirittura in merci. Presenta il pericolo di una standardizzazione dell’immaginario basato sui modelli americani pubblicizzati dai media, la pericolosità del meccanismo definito come megamacchina, in cui gli uomini vengono ridotti a semplici “ingranaggi”, accompagnato dal fenomeno della scomparsa dei ceti rurali. Complessivamente, si può affermare che, in questi due decenni, Latouche ha fatto propria la gioia di vivere africana e la per certi versi sterile critica verso il sistema economico occidentale. Ma da qui, la sua analisi si sposterà progressivamente mossa verso una critica più propositiva, riconducibile al tentativo di proporre al sistema economico occidentale un programma teorico e politico tale da permettere alla società di uscire dall’attuale logica di crescita.

3.4 – Il Latouche maturo e la definizione della teoria della decrescita Si potrebbe stabilire quindi una data convenzionale che indichi una terza fase molto importante nella vita dell’economista francese: a partire dagli anni 2000 ed in particolare a partire dal 28 febbraio 2002. Come già illustrato, 8 questa fu la data in cui, grazie all’organizzazione del mensile Le Monde Diplomatique e all’associazione degli amici di François Partant La ligne de l’horizon,9 venne organizzato il ciclo di conferenze chiamato Disfare lo sviluppo, rifare il mondo. Con questa iniziativa si delinea una fase in cui si passa dalle critiche distruttive rivolte al nord del mondo e dalla ricerca di alternative per il sud del mondo, ad una

8 9

Si veda il Capitolo 2 Sezione 2. In quel tempo Latouche ne rivestiva la carica di presidente (Latouche, 2006a).

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fase in cui Latouche ricerca delle proposte costruttive ma alternative da proporre all’Occidente. In occasione di questa prima conferenza, Latouche, assieme al circolo di pensatori a lui vicino, arrivò ad una conclusione fondamentale: rigettare lo sviluppo e la crescita che vi è dietro impone necessariamente di pensare a una società radicalmente diversa, una società che non concepisca né l’uno, né l’altro concetto; in breve, impone la costruzione di una società basata sulla decrescita. La decrescita, secondo Latouche, non è un’alternativa, ma è una «matrice di alternative» (Latouche, 2007a): essa sintetizza in una sola parola d’ordine un insieme di aspirazioni a cui è necessario attenersi, chiarendone il significato. L’ottima risposta del pubblico10 fece capire a Latouche che l’interesse suscitato dall’argomento era grande. Decise così di aprirsi maggiormente ad una critica costruttiva dello sviluppo e della “modernità”, intesa come occidentalizzazione del mondo, tramite il libro Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo (Latouche, 2002). Come il titolo stesso preannuncia, l’autore questa volta frappone all’economia occidentale la costruzione di una società alternativa. Secondo Latouche, infatti, promuovere la ricchezza creando povertà è assurdo. Egli pone all’attenzione gli effetti negativi prodotti dal modello occidentale di sviluppo sull’umanità e sull’ambiente. È quindi necessario rallentare prima che si scatenino lotte, cataclismi o addirittura guerre; fortunatamente, a suo dire, nel mondo inizia ad affiorare un nuovo pensiero creativo che aspira ad una vita sociale ed economica più equa e più giusta. Dopo una piccola parentesi, individuabile nel volume Il ritorno dell’etnocentrismo. Purificazione etnica versus universalismo cannibale (Latouche, 2003),11 egli pubblica Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell'immaginario economico alla costruzione

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Latouche (2006a) afferma di «aver avuto la sorpresa di accogliere 700 persone per 3 giorni, di rifiutare centinaia di persone e di constatare un grande entusiasmo, mentre Bonaiuti, un po’più cauto, afferma che i presenti erano 500, oltre alle centinaia rimaste in lista d’attesa (Bonaiuti, 2004, p. 10). 11 In questo volume Latouche affronta la tematica del ritorno dell'etnocentrismo che, soprattutto a partire dal 1989 con la caduta del Muro di Berlino, si è tradotto nei paesi dell'Est e del sud del mondo in episodi spesso sanguinosi di “pulizia” etnica. In questa situazione, la preservazione della varietà culturale deve prefiggersi lo scopo di impedire l’avanzata di un universalismo cieco che imporrebbe la norma occidentale, apparentemente neutra – il mercato, i diritti dell'uomo – al resto del mondo, rivelandosi per quello che è: un paradossale etnocentrismo occidentale.

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di una società alternativa (Latouche, 2004). Questo libro, di circa cento pagine,12 è denso sia di contenuti sia, soprattutto, di proposte: esso sintetizza in modo brillante l’essenza dei lavori precedenti (I profeti sconfessati (Latouche, 1986), L’occidentalizzazione del mondo (Latouche, 1989), Il pianeta dei naufraghi (Latouche, 1991), La Megamacchina (Latouche, 1995) ecc.). Dopo aver ricapitolato gli aspetti critici della sua ricerca, egli cerca di soffermarsi in modo particolare sul versante costruttivo, che come solitamente accade, è quello di più difficile formulazione. Tali progetti suscitarono qualche interrogativo anche tra molti di coloro che simpatizzavano per la pars destruens dell’operato di Latouche (si veda ad es. Scroccaro, 2005c, p. 1). Latouche qui afferma che bisogna mettere in discussione i concetti di crescita, povertà, bisogni fondamentali, tenore di vita e, prima di iniziare a costruire, è necessario decostruire il nostro immaginario economico, che è ciò che affligge l'occidentalizzazione e la mondializzazione. Non si tratta ovviamente di proporre un impossibile ritorno al passato, ma di pensare a forme di un'alternativa allo sviluppo: in particolare la decrescita condivisa e il localismo. L’invenzione dell’economia A questo “breviario” segue L’invenzione dell’economia (Latouche, 2005a, trad. it. 2010). I saggi raccolti in questo volume indagano l’origine delle categorie e delle rappresentazioni economiche moderne tra XVII e XVIII secolo. Con tale ricerca storica l’economista francese cerca di evidenziare come l’umanità contemporanea sia ossessionata dalla produttività, dal consumismo e dal concetto di crescita illimitata. Egli dimostra il carattere artificiale e innaturale dell’economia. Quest’ultima, secondo lui, è il frutto di una “invenzione” avvenuta solo da un certo momento in poi della storia e si impone attraverso l’immaginario economico, l’utilitarismo e il mercato. Anche in questa occasione, si sostiene che, nel pensiero dell’Occidente moderno, la ragione ha sostituito del tutto la saggezza ed è degenerata in “razionalità calcolante”, ovvero in puro calcolo economico. Quando ci si occupa di esseri 12

Anche a causa della sua concisione è stato definito da Le Monde Diplomatique un «breviario della decrescita» (Truong, 2005).

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umani, osserva infine Latouche, la razionalità strumentale e calcolante (che può funzionare per acquistare in borsa), non basta più, perché si ha a che fare con dei valori, come la libertà, la giustizia, l’equità. Il 2006 è l’anno che consacra il nostro autore come il massimo esponente mondiale in ambito di decrescita, grazie alla pubblicazione de La scommessa della decrescita (Latouche, 2006b). Questo libro, per la vastità e l’importanza degli argomenti toccati, per le risposte che esso dà a problemi estremamente attuali, per la maturità e la precisione con cui le argomentazioni vengono esposte, può tranquillamente ergersi a manifesto teorico della decrescita. La decrescita è qui proposta al contempo come provocazione e come una scommessa che vale la pena di essere tentata. L’oggetto del libro è incentrato sulla necessità di un cambiamento radicale di valori, di concetti e di strutture. È necessario rispondere in positivo alla sfida posta dai paesi del sud del mondo, attraverso la revisione dei modi d’uso dei prodotti e la rilocalizzazione dell’economia e della vita. Appena un anno dopo, Latouche (2007) pubblica il Breve trattato sulla decrescita serena. Questo agile volume può essere paragonato al già menzionato Come sopravvivere allo sviluppo (2004), presentando però caratteristiche ben distinte. Se nel primo libro la decrescita veniva tratteggiata solo nelle ultime pagine, qui la trattazione del tema appare decisamente più centrale ed elaborata. A detta dello stesso autore, all’epoca del primo libro «l’analisi dettagliata di quel progetto *la decrescita+ (…) non esisteva ancora» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 7). Il Breve trattato sulla decrescita serena vuole essere un «compendio» del complesso di analisi disponibili sul tema della decrescita (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 8). Esso, a detta dello stesso autore, è uno «strumento di lavoro per qualsiasi responsabile del mondo associativo o politico impegnato in particolare a livello locale o regionale» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 8). Per gli alti meriti conseguiti in ambito economico, scientifico e di ricerca, Serge Latouche, già dottore in filosofia e professore di scienze economiche è stato insignito della carica di 58


professore emerito di economia all’università di Paris-Sud (XI-Sceaux / Orsay), dove ha insegnato per diversi anni nel corso di storia del pensiero economico (Latouche, 2010a, p. 1).

3.5 – Il Latouche attivista L’attività di Latouche, come è possibile notare, non si limita alle sue seppur numerose pubblicazioni. Egli è anche parte attiva di una serie di reti ed associazioni. Nel 1992 si affiliò all’INCAD13, sottoscrivendone la dichiarazione assieme a, tra gli altri, Gustavo Esteva, Majid Rahnema e Wolfgang Sachs. Questa rete internazionale si prefiggeva il compito di far pressione sugli organismi governativi al fine di raggiungere una serie di obiettivi14: 1. Cancellare progressivamente (in ragione del 20% all’anno) tutti i debiti dei paesi del Sud che si erano accumulati per progetti di sviluppo; 2. Riportare il reddito per persona nei paesi del Nord al loro livello del 1960; 3. Bloccare con opportuni mezzi l’utilizzo illimitato di petrolio; 4. Ridurre la quantità di elettricità utilizzata ad un ritmo tale da permettere di annullare tutti i progetti nucleari nel giro di dieci anni; 5. De-costruire il modello globale di educazione che incoraggia e sostiene gli stati nazione e il loro sviluppo: rimettere in vigore i sistemi di educazione praticati dalle comunità locali in armonia con il loro ambiente culturale e naturale, che permetterà di sostenere il buon livello di quelle comunità. 6. Iniziare una campagna di massa di programmi per un’altra educazione nel Nord come nel Sud all’indirizzo delle élites socio-professionali a proposito della perversità dello sviluppo 7. Trasformare tutti gli aiuti delle agenzie di sviluppo in cooperative decentralizzate consacrate alle acquisizioni e al rinnovamento della conoscenza, alla considerazione dei modelli di vita, alla necessità di valorizzare le diverse culture del mondo per il 13

Rete Internazionale per le Alternative Culturali allo Sviluppo. Riportiamo gli obiettivi così come elencati in un numero della rivista del M.A.U.S.S. pubblicato dieci anni più tardi (Latouche et al, 2002). 14

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proseguimento di un dialogo interculturale sul dopo-sviluppo tra i popoli del Nord e del Sud (Latouche, et al., 2002). Latouche è anche membro della rete Sud/Nord Cultures et Développement, con base a Bruxelles. Essa è una rete di persone che curano le relazioni tra le culture locali e la vita politica, economica e sociale. Questa rete è nata come luogo di confronto tra gli iscritti, i quali, condividendo le loro esperienze tramite convegni e pubblicazioni, si prefiggono di trovare soluzioni a problemi sociali presenti nei Paesi dei quali essi fanno parte, al fine di informare e consigliare le autorità governative (South-North Network Cultures and Development, 2000). Latouche ricopre infine il ruolo di ricercatore al CECOD15 e ricercatore associato all’ORSTOM16 (Latouche, 2007c), da poco diventato IRD17. Si tratta di un istituto pubblico francese a carattere scientifico e tecnologico che interviene da più di sessanta anni nei paesi del Sud per lottare contro la povertà, le malattie, i cambiamenti climatici, le difficoltà di accesso all’acqua e la preservazione degli ecosistemi (IRD, 2010). Il CECOD invece ha obiettivi più culturali e mira a incoraggiare il dibattito, la conoscenza e la ricerca sulla cooperazione allo sviluppo (CECOD, 2010). Nonostante la cessazione della sua attività didattica all’università, Latouche continua tutt’oggi ad impegnarsi nel diffondere il messaggio costruttivo della decrescita. Egli partecipa regolarmente a molteplici conferenze,18 soprattutto in Francia e in Italia, dove mantiene un certo seguito, aiutato anche dalla sua padronanza della lingua italiana.

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Centro di Studi di Cooperazione allo Sviluppo Institut Français de Recherche Scientifique pour le Développement en Coopération. 17 Institut de Recherche pour le Développement. 18 Solo per menzionare le sue ultime partecipazioni, si possono ricordare alcuni dei convegni a cui egli ha partecipato nel 2010. Ha tenuto un seminario sulle relazioni tra la cultura, la tecnica e lo sviluppo all’IEDES, l’Istituto di Studio dello Sviluppo Economico e Sociale all’università di Paris 1 (Latouche, 2010a, p. 1). Il 12 febbraio 2010 ha partecipato ad un incontro alla Scuola di Studi Superiori “G.Leopardi” in occasione della presentazione del suo libro “L’invenzione dell’economia” (Università di Macerata, 2010) e l’8 ottobre 2010, nella cornice del convegno “Il clima della democrazia”, ha tenuto un intervento dal titolo “Decrescita: una via d’uscita dalla crisi” (Kuminda, 2010b). 16

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Capitolo 4

Il pensiero e le opere dei tre Latouche

4.1 – Introduzione Analizzando il percorso di Latouche dalla giovinezza fino al tempo presente, si noterà come esista un cambiamento, o meglio, una evoluzione del suo pensiero attraverso gli anni. Serge Latouche ha dimostrato di non essere un intellettuale statico nelle sue idee, bensì aperto al cambiamento, e pronto a mettere in discussione le sue convinzioni. Egli le ha adattate alla propria concezione della realtà man mano che essa si formava e trasformava. È proprio a causa di ciò che si è deciso di suddividere sia la sua biografia (nel capitolo precedente), sia l’analisi del suo pensiero (in questo capitolo) in tre grandi periodi. La loro scansione cronologica è riportata nella Tabella IV.1. TABELLA IV.1. I tre periodi nella vita e opere di Latouche

I tre Latouche

Periodo

Caratteristica dominante

Il giovane

1957*-1979

Critica al capitalismo

L’adulto

1980-2001

Critica alle società di crescita nel loro insieme

Il maturo

2002-…

Elaborazione della teoria della decrescita

Fonte: nostra elaborazione.

*L’anno di partenza viene fatto coincidere con la sua iscrizione all’università di Scienze politiche di Parigi. 61


È scontato rilevare che tali date, pur utili per organizzare lo studio del pensiero, sono puramente convenzionali. Non esistono cesure nette nel pensiero dell’economista francese, quanto piuttosto una continua revisione ed aggiornamento dello stesso. Ecco che quindi, se da un lato è egli stesso a suggerirci tali date (Latouche, De Marx à la décroissance, 2006a), dall’altro bisogna sempre tenere presente che l’evoluzione è stata graduale, e le sovrapposizioni fra le tre fasi (seppur apparenti) non mancano. Questo capitolo si occuperà pertanto di seguire da vicino il cammino che il pensiero dell’economista francese ha percorso nel tempo. L’analisi di ognuna delle fasi che scandiscono la sua formazione sarà a tale scopo divisa in altrettante sezioni: inizialmente verranno presentate le opere che egli ha pubblicato in quegli anni; ci soffermeremo poi ad analizzare le opere ritenute più significative tra quelle pubblicate nel medesimo periodo; descriveremo infine le caratteristiche del suo pensiero così comeemerge da quanto scritto nelle sue opere e con particolare riferimento a quelle oggetto di approfondimento.

4.2 – Il giovane Latouche Intendiamo come periodo del giovane Latouche l’arco temporale che copre gli anni dal 1957, anno di iscrizione alla facoltà di Scienze Politiche di Parigi, al 1980. Questo periodo è caratterizzato da una posizione di aperta rottura col sistema capitalista ed un conseguente attaccamento ai valori socialisti. Latouche trova infatti nel marxismo, nonostante le critiche a cui esso sarà sottoposto (cfr. Latouche, 1984) la soluzione economico-sociale all’imperialismo delle economie capitalistiche.

4.2.1 – Opere principali del giovane Latouche La fase “giovanile” copre gli anni della formazione arrivando fino ai quarant’anni di vita dell’economista. Purtroppo, la produzione scientifica di Latouche in questo periodo, oltre ad essere la più limitata in numero è anche poco diffusa. Sia la sua tesi di dottorato, sia gli altri scritti appartenenti a quest’epoca sono di difficile reperimento perché o non pubblicati, o 62


pubblicati da editori minori in tempo ormai lontano. Le opere di questo periodo sono dal punto di vista tematico incentrate su pochi argomenti, tutti intesi alla cosiddetta decostruzione della società capitalista.

La paupérisation à l’échelle mondiale (1966)

La tesi di dottorato, La pauperisation à l’échelle mondiale (Latouche, 1966), è l’opera con la quale Latouche esordisce nel campo della trattazione economica. Essa analizza i rapporti tra gli Stati del Nord e gli Stati del Sud, risultando in una serrata critica alla società capitalista occidentale. Essa propone il socialismo come modello di sviluppo, un modello di sviluppo che a suo giudizio consente ai paesi del Terzo mondo di risollevare la loro economia flagellata dalle politiche colonizzatrici dell’Occidente. L’utilizzo della pianificazione della produzione consentirebbe di ridurre, a suo parere, il divario tecnologico coi paesi del Nord in modo più rapido di quanto un’economia di stampo capitalista avrebbe reso possibile. In questa fase, Latouche dimostra di essere pervaso da una forma di marxismo peculiare, ripensata e «un po’dissidente» (Latouche, 2005b). Se da un lato Marx, autore de Il capitale (1867) sosteneva che le rivoluzioni socialiste vittoriose sarebbero avvenute per la prima volta nell'Europa occidentale,1 dall’altro Latouche era persuaso che «il cammino della rivoluzione da Mosca a Parigi passava per Pechino, Nuova Delhi…» (Latouche, 2005b), cioè passava per i paesi ancora poco industrializzati. Le motivazioni di questa presa di posizione risiedono nella fragilità della definizione di povertà relativa, la quale trova la sua giustificazione unicamente se inserita in un livello più ampio di quello nazionale: una scala mondiale, come da titolo della tesi.

1

Questo perché è stato nell'Europa occidentale che è nato il capitalismo, il quale ha originato una classe sociale del tutto nuova: il proletariato. Cfr. Wallerstein & Stame (1984).

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Épistémologie et économie. Essai sur une anthropologie sociale freudomarxiste (1973)

Latouche dimostra di saper muovere pesanti critiche al sistema occidentale non soltanto tramite un approccio storico-economico, ma anche attraverso una impostazione filosofica. Il primo libro pubblicato da Latouche, è Épistémologie et économie. Essai sur une anthropologie sociale freudo-marxiste (Latouche, 1973), ha proprio quest’ultimo taglio. Il volume, di ben seicento pagine, consiste in una approfondita raccolta delle sue lezioni universitarie a Lille ed a Nanterre, dove, come si ricorderà (si veda la Sezione 3.2), egli era stato nominato docente di filosofia ed epistemologia economica. Partendo dallo studio degli scritti di Freud, egli arriverà in questa opera ad applicare il metodo della psicanalisi al sistema economico capitalista. Il risultato è un profondo rifiuto della concezione dell’homo œconomicus così come concepito da Adam Smith in avanti. Egli infatti evidenzia forti contraddizioni riscontrate all’interno della posizione dello stesso economista scozzese.

Le Projet marxiste: Analyse économique et matérialisme historique (1975)

Con Le Projet marxiste: Analyse économique et matérialisme historique (Latouche, 1975), Latouche presenta il socialismo così come Marx lo ha ideato, esplorandone le fondamenta economiche ed approfondendo il tema del materialismo storico. Secondo tale visione, si può interpretare la storia dello sviluppo umano partendo dalla sovrastruttura, cioè dal livello tecnologico ed economico raggiunto. Sono infatti questi fattori che determinano l’orientamento ideologico e culturale della base sociale dell’epoca.

64


4.2.2 – Contenuto approfondito della principale opera del Latouche giovane: Critique de l'impérialisme. Une analyse marxiste non léniniste de l'Impérialisme (1979) Ogni opera del “giovane” Latouche è a suo modo di fondamentale importanza. Questo in particolare sia per la differenza degli approcci utilizzati (per esempio approcci storico-economici, epistemiologici ed analitici), sia per comprendere a fondo i primi anni della sua formazione. Ma se si dovesse scegliere un’opera che meglio rappresenti questo periodo, essa sarebbe Critique de l'impérialisme. Une analyse marxiste non léniniste de l'Impérialisme, in cui Latouche (1979) mostra già qualche segno di evidente rottura con quanto scritto in precedenza, come meglio si chiarirà nella sezione seguente. Con questo volume Latouche si propone di «smascherare le false critiche dell’imperialismo» che nascono all’interno degli stessi paesi sviluppati: come egli stesso afferma, «è questo il caso, al momento attuale, del marxismo-leninismo» (Latouche, 1979, p. 29, nostra traduzione). Nell’introduzione all’opera, Latouche (1979, p. 11-40) espone il fenomeno del finto moralismo occidentale. Secondo l’economista francese, i paesi del Nord, dietro le missioni cosiddette “umanitarie” allo sviluppo locale nascondono un comportamento predatorio. Cioè essi promuovono i propri investimenti nelle società del Terzo mondo, con l’obiettivo esplicito che tali investimenti un giorno saranno ampiamente ripagati.2 Per rendere emblematica questa posizione, Latouche riporta le parole di Salvador Allende, presidente del Cile dal 1970 al 1973: «le imprese straniere che hanno sfruttato il rame cileno, hanno esportato nel corso degli ultimi quarant’anni più di quattro miliardi di benefici, a fronte di investimenti iniziali di trenta milioni di dollari» (Allende, 1972, cit. in Latouche, 1978, p. 19, nostra traduzione).

2

Latouche avverte che questa tendenza è pericolosamente presente anche tra le file dei cosiddetti «esperti marxisti dello sviluppo economico» (Latouche, 1979, p. 27).

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FIGURA IV.1. Indice del libro Critique de l’impérialisme (Latouche, 1979, seconda ed. 1984).

Fonte: Latouche (1979, seconda ed. 1984, p. 299-300)

A parte questa introduzione, il libro si compone di cinque capitoli, i cui argomenti seguono chiaramente una impostazione di stampo marxista. Il primo capitolo, Dalla critica marxista dell’imperialismo alla critica dell’imperialismo marxista, mette in luce prima le caratteristiche della critica marxista all’imperialismo; successivamente, Latouche mostra le contraddizioni e le leggerezze del sistema marxista-leninista. In particolare, fra queste, la convinzione che il capitalismo si sarebbe espanso in maniera omogenea, senza cioè creare tra nazioni diseguaglianze di ricchezza a livello mondiale (Latouche, 1979, p. 44 e 50). L’economista francese osserva che il capitalismo non è affatto lo «stadio supremo del capitalismo», come affermava Lenin (1916), ma è una semplice evoluzione della pratica di accumulazione del capitale già evidente all’origine: la sottomissione della periferia al centro non è quindi una peculiarità della fase imperialistica ma ha anzi caratterizzato tutta la storia del capitalismo, fin

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dalle origini (Latouche, 1979, p. 58). Latouche muove altre critiche al sistema marxista, in particolare su tre fronti distinti: 1. Il concetto ideologico dell’economia politica; 2. Il materialismo storico, cardine dell’immaginario marxista; 3. L’epistemologia della scienza sociale (Latouche, 1979, p. 73-79). Ne Imperialismo e abbassamento tendenziale del tasso di profitto, secondo capitolo del libro, Latouche cerca di reinterpretare la centralità dell’imperialismo per l’Occidente attraverso l’impiego delle stesse categorie marxiste, in particolare utilizzando la legge dell’abbassamento tendenziale del tasso di profitto. 3 Egli, in base a questa interpretazione, spiega tre fenomeni che coinvolgono il Sud: 1. Lo sfruttamento di questo continente a causa della facile reperibilità di manodopera a basso costo; 2. L’importazione di materie prime a prezzi inferiori (Latouche, 1979, p. 90, 91) 3. L’esportazione verso il mercato locale di prodotti a prezzi più bassi rispetto alla concorrenza autoctona.4 Latouche tuttavia non pensa che l’abbassamento tendenziale del tasso di profitto sia stato la causa che ha generato il fenomeno dell’imperialismo come tentativo di salvare il sistema capitalistico. La caduta del saggio di profitto è per di più difficile da dimostrare. Essa è minata da tutta una serie di ambiguità che l’hanno ridotta ad un semplice «dogma ad uso incantatorio» (Latouche, 1984, p. 108, nostra traduzione). Latouche dimostra nel terzo capitolo, Necessità e possibilità della domanda “effettiva”,5 come il vero presupposto della produzione capitalista sia la presenza di mercati che costituiscano

3

Si intende per abbassamento tendenziale del tasso di profitto la tendenza delle imprese in un’economia capitalista a ridurre col tempo il loro tasso di profitto, in seguito alla sostituzione del fattore lavoro, vero produttore di plusvalore, con macchinari e capitale fisso e/o variabile (Marx, 1867, libro III). 4 In particolare, la disponibilità di manodopera a basso costo permette in un’ottica marxista di aumentare anche di svariate volte il plusvalore da essa prodotto, mentre le materie prime a basso costo contribuiscono all’aumento diretto del saggio di profitto di un’impresa.

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sbocchi sicuri, e che tale presenza debba essere assicurata ancor prima che il processo produttivo abbia inizio (Latouche, 1979, p. 109). Vero problema del sistema capitalista è infatti quello di non essere in grado di generare la domanda all’interno del suo mercato; per questo motivo esso «fintantoché esiste un ambiente precapitalista e\o debolmente capitalista, può effettivamente realizzare delle condizioni favorevoli alla sua crescita, sviluppando dei fenomeni diversi che si raggruppano sotto il nome di imperialismo» (Latouche, 1984, p. 157, nostra traduzione). L’economista francese muove una nuova critica alla teoria marxista leninista nel quarto capitolo, intitolato non a caso Critica del concetto marxista di esportazione dei capitali. Qui, egli spiega come ad un’investimento verso un paese estero non corrisponda forzatamente un flusso di capitale in tale senso (Latouche, 1979, p. 175-176). Se, infatti, una società madre origina una società controllata con sede all’estero, finanziata grazie ad un prestito concesso da intermediari locali, quello che essa sta compiendo è al contrario una vera e propria importazione di capitale, di ammontare pari al finanziamento e degli eventuali utili non reinvestiti e quindi rimpatriati dalla controllata. È esattamente questo il caso degli Stati Uniti, i quali, oltre a registrare complessivamente utili poi reinvestiti nelle società controllate all’estero, riescono addirittura a rimpatriare più capitale di quello investito (Latouche, 1984, Tabella 2 p. 209). Questa viene presentata come la controprova definitiva della fragilità del concetto marxista di esportazione dei capitali, fortemente sostenuto da Lenin. Il quinto capitolo: Trasferimenti di plusvalore e scambio ineguale, illustra come tramite il commercio tra il centro (l’Occidente) e la periferia (il Terzo mondo) del sistema capitalista esistano dei veri e propri trasferimenti di valore, o meglio, delle «spoliazioni» (Latouche, 1979, p. 228) che privano i paesi del Sud del plusvalore ottenuto durante il processo produttivo, trasferendolo al Nord. Latouche conclude il quinto capitolo con un pensiero che si può individuare come precursore del tema dominante della sua fase adulta: 5

Si è scelto di tradurre con questo termine la parola “préalable”, che sta ad indicare un evento verificato anteriormente ed indipendentemente dal verificarsi di determinate condizioni.

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«Il vero crimine della penetrazione imperialista è senza dubbio alcuno né la spoliazione, né l’arresto dello sviluppo, ma la trasformazione stessa del senso della vita per delle intere popolazioni. La logica del capitale si impone sempre di più come nuovo senso dell’esistenza» (Latouche, 1984, p. 262, nostra traduzione).

4.2.3 – Caratteristiche del pensiero del giovane Latouche L’ideologia di quello che abbiamo definito giovane Latouche è profondamente segnata dall’esperienza dei conflitti internazionali. Egli trascorre l’infanzia nella cornice della seconda Guerra Mondiale, dovendo assistere in prima persona all’invasione nazista della Francia. A distanza di 10 anni circa, si apre nel 1954 la guerra d’Algeria, la quale durerà fino al 1962. Questa è una guerra che mira all’affrancamento dalla dominazione francese, scatenata dalle pulsioni indipendentiste dell’Algeria che, dopo un lungo periodo di scontri urbani, attentati e guerriglie, riuscì ad ottenere l’indipendenza col referendum del 1 luglio 1962 (fonte: Wikipedia). Non c’è da meravigliarsi, quindi, se Latouche coltiva un forte rifiuto della guerra fin dalla giovinezza di fronte a questo panorama, notando tuttavia come in campo internazionale non diversamente da quello nazionale valga il principio dell’imposizione del più forte sul più debole. È solo con la ribellione di quest’ultimo che è possible ristabilire il principio di giustizia (Latouche, 1966). Egli troverà quindi naturale avvicinarsi alle idee marxiste, che facevano ricadere la colpa originale dei conflitti sfociati in quegli anni sul sistema capitalista occidentale6. Come egli stesso racconta, già adolescente simpatizza per le teorie marxiste e, quando andrà a Parigi nel 1957 per i suoi studi universitari, si iscriverà all’Unione degli Studenti Comunisti (UEC). Avendo presente queste premesse, non deve sorprendere che l’economista francese decida di redigere la sua tesi di dottorato sui rapporti Nord/Sud seguendo un’impostazione di stampo prettamente marxista.

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«In definitiva, la causa della guerra non doveva essere ricercata nelle azioni di questo o quell’altro Stato che aprirono il fuoco. Le cause giacciono nella natura essenziale del sistema imperialista, nella logica della competizione delle potenze nazionali capitaliste per mantenere – o raggiungere, a seconda delle circostanze – una posizione dominante in un ordine economico globale sempre più integrato» (North, 2009).

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Egli non si limitò, tuttavia, ad una sterile accettazione dell’ideologia marxista, ma, sempre di più con il progredire delle sue esperienze e la mutata percezione della realtà, egli sviluppò un forte senso critico, che lo portò a mutare la sua posizione in maniera più decisa via via che il tempo passava. Inizialmente, Latouche dimostrava una fede quasi incrollabile in Marx (Latouche, 1979, p. 7).7 Il Latouche del 1966 è un Latouche fiducioso, convinto della possibilità di una rivoluzione a tutti gli effetti globale che riesca a riscattare i paesi del Terzo mondo in primis, e quindi i proletari dei paesi occidentali. Nel 1973 egli riuscirà a dimostrare l’inconsistenza delle basi teoriche stesse su cui si poggia complessivamente l’economia politica capitalista. Un simile risultato fu possibile solo dopo anni di documentazione, di ricerca e di confronto personale con i propri studenti. Tutto questo sfociò in un particolarissimo insegnamento universitario: come Latouche stesso afferma, il corso di filosofia economica che tenne nell’ateneo di Nanterre non era stato insegnato da nessuno prima di allora. Si potrebbe definire il 1979 come la fine di un’epoca. Con la pubblicazione de La critique de l’impérialisme (1979), Latouche arriva ad alcune, importantissime conclusioni, alcune delle quali, come si è visto, si distaccano decisamente da quelle a cui sono arrivati Marx e Lenin nelle loro analisi economiche. È il capitalismo ad espropriare i proletari del plusvalore. È il capitalismo che, per cercare sbocchi di mercato sicuri, è costretto a ricorrere ad una politica imperialista, insediando le sue basi in Stati esteri. È sempre il capitalismo, infine, che opera la spoliazione del plusvalore creato in quello Stato, importandolo dalla periferia al centro. Il Latouche che affronta questo problema è un Latouche profondamente diverso da quello che poco più di vent’anni prima aveva scritto la tesi sull’impoverimento a livello mondiale. Questo Latouche disilluso osserva mediante impeccabili ragionamenti logici come il marxismo non sia stato in grado di analizzare debitamente la tematica del dominio capitalista sul mondo, dimostrando di avere una visione miope dell’insieme e, di conseguenza, rivelandosi inadatto alla risoluzione della situazione del Terzo mondo.

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Si veda l’analisi del libro riportata nella sezione precedente.

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Se il capitalismo è stato la causa della miseria nella quale versa il Terzo mondo ed il marxismo, che si presenta come vera alternativa, non è in grado di contrastare efficacemente la povertà derivante dallo sfruttamento occidentale, Latouche ammette l’impossibilità di individuare, nel momento in cui scriveva, un sistema economico o politico che potesse fornire una soluzione a quella situazione (Latouche, 1979, p. 28). Egli, abbastanza sbrigativamente, incaricò le popolazioni interessate di ideare da sé una critica propositiva del capitalismo (contrariamente a quella distruttiva avanzata Latouche, come tipico di questa fase), che permettesse loro di uscire dallo sfruttamento occidentale. Questa, col senno di poi, suona più come una innocente giustificazione che una leggerezza. Si può presumere che Latouche già all’epoca era alla ricerca di una valida alternativa al capitalismo, ma data l’infruttuosità delle ricerche, col tempo egli si renderà conto che, se un’alternativa valida al capitalismo non è mai esistita, spetterà a lui definirla per la prima volta. È sicuramente questo un significativo passo verso la teoria della decrescita. Egli, denunciando la deculturazione dei paesi del Terzo mondo ad opera della società occidentale, inaugura di fatto il filo rosso che lega tra di loro le opere da lui scritte nell’età adulta. Non si parlerà più, di conseguenza, di Latouche giovane negli scritti a venire.

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4.3 – Il Latouche adulto Il 1980 rappresenta simbolicamente l’inizio di un nuovo orientamento nel pensiero di Latouche. Egli, con gli anni, matura la convinzione che il socialismo, sia pure nella corrente marxista, non è la soluzione alla miseria riscontrata nei popoli del Terzo mondo. Il socialismo ed il capitalismo hanno in comune una caratteristica fondamentale: sono entrambi «sistemi di crescita» (Mouvement Politique des Objecteurs de Croissance, 2009), e come tali devono essere entrambi combattuti. Ci occuperemo in questa sezione di analizzare i numerosi scritti prodotti nel ventennio 1980-2001, di metterne in evidenza le somiglianze e di far risaltare i tratti innovativi rispetto al passato. Per offrire una visione d’insieme degli scritti di quest’epoca, si è ritenuto utile esporre nella Tabella IV.2 le opere del Latouche adulto organizzate per lustri e per il tema trattato. TABELLA IV.2. Le opere e i temi nel tempo del Latouche adulto, 1980-2001

Temi

Critica all’economia

Sottoperiodo 1 1980-1985

Sottoperiodo 2 1986-1990

Le procès de la science sociale (1984)

Critica allo sviluppo

Faut-il refuser le développement ? (1986)

Critica all’Occidente

L’occidentalizzazio ne del mondo (1989)

Gli esclusi del Terzo mondo

Sottoperiodo 3 1991-1995

Sottoperiodo 4 1996-2001 Immaginare il nuovo (2000) L’invenzione dell’economia (2001)

La megamacchina (1995)

La fine del sogno occidentale (2000) La sfida di Minerva (2000)

Il pianeta dei naufraghi (1991)

L’altra Africa (1997) Il mondo ridotto a mercato (1998)

Ricerca di un’alternativa allo sviluppo

La déraison de la raison économique (2001)

Fonte: nostra elaborazione. Si veda la bibliografia per dettagli sulle varie opere.

Come si evince dalla Tabella IV.2, il ventennio definito del “Latouche adulto” è stato ripartito temporalmente per dar modo di vedere con un colpo d’occhio anche il percorso tematico 72


seguito dall’economista francese. Si evidenzia che da un’analisi sociologica dei primi anni Ottanta, egli arriverà a focalizzare negli ultimi anni del ventennio la sua attenzione sul problema del modello di sviluppo occidentale, che tanto ha interessato i paesi del Terzo mondo, e ove egli ha trascorso parte della sua vita. Le opere appartenenti alla stessa area tematica sono in alcuni casi concentrati in un singolo sottoperiodo, ma, come si avrà modo di notare, l’autore non si ripete mai veramente, nel senso che gli stessi temi sono ripresi in e spesso con un taglio diverso.

4.3.1 – Principali opere del Latouche adulto Le opere saranno prese in esame in questo capitolo in ordine cronologico per non disorientare il lettore, al quale si propone, per una chiave di lettura più stimolante, di rapportare ogni opera all’ambito tematico di riferimento.

Le procès de la science sociale (1984)

Il primo libro riconducibile a questa nuova fase è pubblicato nel 1984 e si intitola Le procès de la science sociale: introduction à une théorie critique de la connaissance (Latouche, 1984). Potrebbe risultare un libro insolito se pubblicato da un economista tradizionale, ma nel percorso di un economista ad ampio respiro come Latouche, questa si inserisce come un’opera non meno importante delle altre. Anche se il libro non si occupa direttamente di analisi economica, esso tratta di importanti temi sociali e dei processi cognitivi. Ciò sottolinea il fatto che l’economia rientra pur sempre nell’ambito delle scienze sociali (Palazzi, 2010), e l’autore non manca certo di creare collegamenti tra sociologia ed economia. Egli, in questo saggio, si pone l’intento di «esporre i fondamenti di una concezione della realtà sociale» (Latouche, 1984, p. 9), ossia di indagare gli elementi che, implicitamente ed esplicitamente, governano i processi di conoscenza sociale, al fine di farne apparire i limiti principali (Frydman, 1986, p. 137).

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Il libro si articola essenzialmente in due parti, volte a denunciare i due “peccati capitali” della scienza sociale: 1. Confusione degli ordini sociali e naturali; 2. L’unità della scienza. Il primo “peccato”, secondo Latouche, è rappresentato dalla «confusione degli ordini» sociali e naturali (Latouche, 1984, p. 55). In questa sezione si denuncia che tali ordini sono stati nel tempo confusi: procedimenti cognitivi propri dell’ordine naturale sono stati utilizzati per cogliere aspetti inerenti esclusivamente all’ordine sociale. Questa confusione tra gli ordini è stata scatenata in primis dall’avvento del capitalismo, che ha portato, secondo Latouche, alla reificazione dei rapporti sociali (Latouche, 1984, p. 60). Se il capitale si impone come rapporto sociale, si è portati naturalmente a tentare di oggettivare i rapporti sociali, ossia di renderli indipendenti dalla volontà e dai desideri di ciascuno, ponendoli come «entità esteriori rispetto al soggetto epistemico (Latouche, 1984, p. 59). Il secondo “peccato” capitale, per certi aspetti conseguente al primo, è costituito dall’unità della scienza (Latouche, 1984, p. 89). Dopo aver esposto la sua critica al conoscimento fisico8 (sia esso sperimentale o teorico) come tecnica per indagare sia le relazioni reciproche tra esseri umani, sia le relazioni tra esseri umani e cose, Latouche espone l’unica soluzione in grado di arginare questo problema: porre una distinzione netta tra la scienza sociale e la scienza naturale.

Faut-il refuser le développement? (1986)

Il libro che seguì Le procès de la science sociale (Latouche, 1984) fu Faut-il refuser le développement? (Latouche, 1986), in cui l’economista, interrogandosi sulla reale utilità dello sviluppo, inaugura di fatto un nuovo filone tematico nella sua produzione saggistica. Lo sviluppo, denuncia l’autore, è un’invenzione della società occidentale (Latouche, 1986, p. 11),

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Conoscimento significa «prender coscienza di un dato di fatto; comprensione; intelligenza» (Devoto & Oli, 1990). Il conoscimento fisico è una tecnica utilizzata dagli studiosi per conoscere i fenomeni naturali.

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una maschera che conduce i paesi del Terzo mondo a cancellare la propria identità culturale (Latouche, 1986, p. 165). Lo sviluppo non è quindi altro che una nuova forma di colonizzazione dei paesi occidentali su quelli più poveri. L’autore, in sette capitoli, riesce in una vera e propria arringa a smontare il falso mito dello sviluppo. Essa si articola in sette punti: I.

Lo sviluppo non è «la legge e i profeti» (Latouche, 1986, p. 19). Latouche mostra già evidenti segni di rottura con il marxismo tradizionale, contestando la nota interpretazione marxiana rivolta all’accumulazione del capitale.9 Secondo lui, infatti, il problema non è costituito esclusivamente dall’accumulazione del capitale, quanto dallo sviluppo “ad ogni costo”.

II.

L’imperialismo precede lo sviluppo del capitalismo (Latouche, 1986, p. 59). Con quest’affermazione, Latouche rompe con la visione leninista, la quale sosteneva l’inverso, ossia che l’imperialismo era la fase suprema del capitalismo (Lenin, 1916). L’economista francese è convinto al contrario che il capitalismo non possa fiorire se non in un mondo le cui nazioni abbiano già provveduto ad effettuare l’annessione di numerosi territori esterni, al fine di costituire una base di mercato alla quale rivolgere la produzione delle merci in eccesso.

III.

Il sottosviluppo non è un ritardo ma l’opposto dello sviluppo (Latouche, 1986, p. 71). Di conseguenza, i paesi cosiddetti “sottosviluppati” non devono sentirsi arretrati rispetto ai paesi occidentali, né devono cercare confronto con essi, poiché i loro sistemi economici sono profondamente diversi.

IV.

Le “sopravvivenze”10 non rappresentano per lo sviluppo un ostacolo (Latouche, 1986, p. 99). In altre parole, le sacche di popolazione che ancora conservano stili di vita tradizionali non sono da considerare una barriera da rimuovere ai fini di promuovere un pieno sviluppo tecnologico del paese. Esse rappresentano invece un freno al

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“Accumulate, accumulate! È questo che gridano Mosè e i profeti” (Marx, 1867, p. 652, nostra traduzione) 10 Così Salsano in Latouche (1989, trad. it. 1992, p. 53) traduce il termine “survivance” (Latouche, 1986, p.99). Questo termine è volto ad indicare la popolazione “esclusa” dallo sviluppo.

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sottosviluppo (Latouche, 1986, p. 101). Piuttosto che votarsi al perseguimento dell’ideale di sviluppo, a detta dell’autore, converrebbe alla popolazione ricercare le possibilità di soluzioni alternative. Tentare di creare una fotocopia delle società occidentali attraverso quello che viene definito un processo mimetico11 non serve ad altro che ad azzerare la propria cultura ed i propri valori per far posto a quelli della società occidentale. V.

Il centro e la periferia non sono dei vasi comunicanti (Latouche, 1986, p. 137). Latouche opera una nuova critica alla teoria marxista che immagina un paese come un sistema di vasi comunicanti dove il plusvalore si sposta dalla periferia al centro città. L’economista francese sostiene piuttosto il localismo dei centri abitati.

VI.

Il sottosviluppo è una forma di deculturazione (Latouche, 1986, p. 163). Grave, secondo Latouche, è il fatto che gli stati occidentali possano permettersi di giudicare la situazione di un paese, definendolo magari “sottosviluppato”, basandosi solo su una gretta analisi economica. «È il modo in cui il centro industriale giudica le società diverse da lui, scegliendo di non vedere che la dimensione economica della situazione e ottenendo, in fin dei conti, la cancellazione e la sparizione di tutte le altre dimensioni» (Latouche, 1986, p. 165).

VII.

La soluzione dei paesi definiti sottosviluppati non può essere una soluzione tecnica (Latouche, 1986, p. 183). L’autore conclude con una critica alle politiche economiche del Terzo mondo, siano esse liberali o marxiste, senza esporsi apertamente circa le soluzioni da adottare (Wladimir, 1987, p. 1062). Senza dubbio egli augura la costituzione di economie autocentrate ed autonome e, in definitiva, l’edificazione di una civilizzazione propria ed originale, alternativa alla civiltà economica dello sviluppo.

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Un processo mimetico è un processo di falsa imitazione di un modello preesistente, nella fattispecie la società occidentale.

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 L’occidentalizzazione del mondo (1989) Nel 1989 è la volta de L’occidentalisation du monde: Essai sur la signification, la portée et les limites de l’uniformisation planétaire (Latouche, 1989). È significativo anche solo il fatto che questo sia il primo libro di Latouche ad essere tradotto in italiano, col fedele titolo L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria (Latouche, 1989, trad. it. 1992). Il presente saggio è il primo di una lunga serie di trattati che denunceranno gli sconvolgimenti culturali, economici, sociali, ambientali e politici causati dalla globalizzazione e dalla occidentalizzazione del pianeta, ossia l’estensione forzata della cultura e dell’ideologia occidentale ai paesi del Terzo mondo. L’autore, nella prima parte del libro, analizza con spirito critico i processi ritenuti fautori dello stravolgimento dei sistemi economici e culturali dei paesi colonizzati: il colonialismo del XVI secolo (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 16), e l’imperialismo di fine Ottocento-inizio Novecento (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 17-20). Il responsabile di questo processo di deculturazione12 è senz’altro l’Occidente, entità dai contorni molto confusi, ma assimilabile in linea di massima al «triangolo che chiude l’emisfero nord del pianeta con l’Europa occidentale, il Giappone e gli Stati Uniti» (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 35). L’autore del libro individua tre fenomeni caratteristici del processo di occidentalizzazione ritenuti colpevoli di avviare la deculturazione di uno Stato terzo. Essi sono l’industrializzazione, l’urbanizzazione e il nazionalitarismo.13 A dispetto dell’intento per il quale questi processi sono stati avviati, però, essi non comportano automaticamente ed immediatamente il benessere diffuso, ma come abbiamo visto «contribuiscono a una mostruosa riduzione in miseria del Terzo mondo, vero e proprio fenomeno di decivilizzazione» (Latouche, 1989, trad.it. 1992, p.84). Non va meglio ai paesi che hanno scelto il modello sovietico di sviluppo, considerato 12

Si noti l’affinità del tema con quanto già esposto in Latouche, 1986, p. 163. Neologismo creato da sociologo A. Abdel-Malek per indicare la forma artificiosa di Stato importata nel Terzo mondo, che di solito precede l’esistenza di quella vera e propria nazione che tenta di costruire (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 176). 13

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FIGURA IV.2. Indice del libro L’occidentalizzazione del mondo (Latouche, 1989, trad. it. 1992).

Fonte: Latouche (1989, trad. it. 1992, p. 4-5)

dall’autore una variante di quello capitalistico, i quali non hanno avuto certo esiti migliori (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 95-96). Che una parte delle persone si considerino “povere” è in un certo senso fisiologico per l’esistenza della macchina capitalistica, perché a livello simbolico la povertà è il segno dell’inferiorità nell’immaginario occidentale, ed è in esso necessario che ci sia sempre qualcuno “sotto”, cioè si trovi nei ranghi socialmente inferiori (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 99). Anche l’ordine dello Stato-nazione moderno è messo in discussione da questi processi globali. L’economia, cardine delle istituzioni di stampo occidentale, ha messo in discussione la stessa sovranità economica degli stati. A tal proposito Latouche riprende le parole del giurista Carré de Malberg: «Uno Stato che fosse in qualche modo soggetto a uno Stato straniero non godrebbe neppure di un potere sovrano all’interno» (G. Massiah e J.-F. Tribillon, L’utilité de la 78


connaissance, La Découverte, Parigi 1988, pag.108 cit. in Latouche, 1992). Secondo Latouche, però, lo Stato-nazione non ha e non può avere una summa potestas economica, cioè una sovranità economica interna ed esterna. Il potere sovrano dello Stato-nazione è letteralmente espropriato dalla finanza transnazionale, che rende ogni Stato dipendente dagli altri. Questa deterritorializzazione della società si accompagna alla transculturazione, tendenzialmente monodirezionale, portata dai “consumi culturali” dominanti. Tutto ciò non porta ad un nuovo ordine mondiale, ma ad un disordine generalizzato, e cioè una crisi di civiltà, con conseguente fallimento dell’ideale di sviluppo. Il fallimento dello sviluppo, e da lì il fallimento dell’occidentalizzazione delle società, non rappresenta per l’autore il fallimento delle società del Terzo mondo, ma solo dell’Occidente (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 123). La soluzione che queste società indigene possono opporre è il rifiuto dei valori occidentali e la ripresa delle tradizioni proprie della loro cultura. L’autorganizzazione tenta di risolvere i problemi che invano il processo di occidentalizzazione ha portato, o peggio, ha forzatamente scatenato (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 124). L’autore non propone soluzioni concrete per risolvere il dramma del Terzo mondo, purtuttavia enuncia che è necessario che la società occidentale riconosca l’esistenza di una umanità pluralistica (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 145), poiché l’impresa della creazione di una società uniforme, o meglio, conforme ai valori occidentali, è impossibile. La sola vera universalità concepibile, dunque, «passa per un dialogo autentico tra le culture» (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 148).

Il pianeta dei naufraghi (1991)

Due anni dopo la pubblicazione francese de L’occidentalizzazione del mondo (1989) ecco pubblicato un altro libro che ne riprende i temi cardine: La planète des naufragés (1991), tradotto in italiano come Il pianeta dei naufraghi (1991, trad. it. 1993).

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In questo libro Latouche sostiene che lo sviluppo, metaforicamente paragonato ad una nave, ha irrimediabilmente fatto naufragio14. L’Occidente è riuscito a imporre il proprio modello su scala planetaria solo a prezzo dell’esclusione e dell’immiserimento culturale (prima ancora che economico) di miliardi di persone (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 18). Ciononostante sono stupefacenti l’insospettata vitalità e la capacità di trasformazione di intere società, in grado di introdurre una nuova dinamica storica. Latouche non tratta in questo libro delle potenzialità di questa società definita «informale», ma constata, in modo semplice ma essenziale, che questo naufragio può essere la condizione di una vera e propria «alternativa allo sviluppo» (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 146). Si tratta di una alternativa fatta per ora soltanto di iniziative e di esperienze spontanee, per di più non prive di ambiguità, ma tutte convergenti nel rendere subordinata l’economia alla società, riaffermando il primato dei rapporti tra gli uomini sulla produzione e sul consumo delle cose. Il libro articola il suo discorso in due parti, denominate Il naufragio e Il rifugio. Nella prima sezione viene evidenziato il contrasto che esiste in molti dei paesi del Terzo mondo tra le aree urbane occidentalizzate e le aree “sopravvissute allo sviluppo”. A titolo di esempio l’autore osserva che se si provasse a sbarcare a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, si troverebbero le stesse architetture di vetro e di acciaio, le stesse autostrade e, per qualche chilometro, gli stessi ingorghi che ci si aspetterebbe di trovare in una città occidentale (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 14). Non appena si superano i confini della città, però, il cambiamento è tanto immediato quanto radicale. Torna a comparire la vegetazione lussureggiante, si vedono animali al pascolo, granai rotondi dai tetti di paglia e, in prossimità, le capanne degli «esclusi dallo sviluppo, degli indifferenti, degli emarginati» (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 15). Questi poveri, pur non essendo spesso di facile contabilizzazione statistica, formano il vasto pianeta dei naufraghi dello sviluppo.

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Si noti, proseguendo nell’analisi del libro, l’affinità dei temi esaminati in quanto già analizzato in Latouche (1989, trad. it. 1992)

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Si tratta di una categoria non uniforme: in primo luogo essa contiene i radicalmente esclusi, i 925 milioni di persone che soffrono la fame. Quarantamila bambini sono condannati a morire di miseria ogni giorno (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 18). Per loro, denuncia l’autore, non è stato previsto un posto al “gran banchetto” della società di consumo. Dovrebbero farne parte anche coloro che vengono inghiottiti dagli innumerevoli conflitti che devastano il pianeta e che arrivano a spegnersi in silenzio, vittime della mancanza di cure, indeboliti dalle carenze alimentari (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 18). In secondo luogo ci sono i tre-quattro miliardi di coloro che riescono a sopravvivere, con quel poco che riescono a recuperare stando al margine della società dell’opulenza, spesso sottoforma di aiuti umanitari. I rifugiati, vittime dei conflitti o delle catastrofi naturali, spesso aggravate dall’incuria degli uomini, formano una specie in continua espansione. In terzo luogo esistono i contadini, coloro che possiedono un piccolo appezzamento di terra che a stento riesce a sfamare se stessi e la loro famiglia. Latouche sostiene inoltre che non si può più propriamente parlare di un unico Terzo mondo, 15 ma si può ciononostante essere in grado di individuare ben tre sottocategorie, definite Quarti mondi. In queste categorie si identificano gli insiemi delle persone marginali dei paesi ricchi (un esempio sono i senzatetto), delle minoranze autoctone (come gli amerindi, gli aborigeni e gli inuit) e dei paesi meno avanzati. Essi, in un modo o nell’altro, sono tutti naufraghi, “vittime” dello sviluppo. Lo sviluppo ha inciso profondamente sui valori della società occidentale, interamente votata al progresso ed alla competizione: Latouche definisce questa attitudine come “urgenza di vincere” (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 40). Essa è presente non solo nell’economia, ma in ogni ambito della vita sociale: a scuola, al lavoro, in politica, nelle relazioni di coppia, nello stesso sport, dove il piacere di giocare, l’accettazione serena della sconfitta, la complicità

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La coraggiosa giustificazione a questa affermazione risiede nel fatto che i nuovi paesi industriali stanno per raggiungere i paesi sviluppati. Per essi non c’è più miseria, o quasi. Stanno per entrare nella grande società (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 21). Si fa presente però che non sempre si attua il “trickle down effect” (il principio in base al quale se aumenta il benessere economico della società aumenta anche il benessere economico della componente più povera), come è il caso del Brasile o dell’India.

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amichevole dei compagni di squadra quale che sia l’esito dell’incontro sono oramai venuti meno di fronte all’imperativo della vittoria. L’urgenza di vincere è intrinsecamente legata ad un’altra caratteristica, ossia la ricerca dell’efficienza. Non sono nuove le problematiche legate all’efficienza di mercato o all’efficienza della produzione: “efficienza”, scrive Latouche, è solo un’altra parola per dire “razionalità”. Si tratta di economizzare i mezzi nella realizzazione dell’obiettivo e di mobilitare tutte le risorse a disposizione per ottenere il miglior risultato. L’uomo, ad esempio, crede di essere stato sollevato da onerosi incarichi, che una volta erano compiuti da esseri umani, e adesso sono svolti in forma meccanizzata. Ci si illude che il progresso tecnologico sia foriero di un miglioramento delle condizioni di vita, ma questa credenza può non essere sempre vera. L’osservazione di Latouche è tanto semplice quanto efficace: «Il guadagno di tempo dei trasporti rapidi serve soltanto a estendere sempre di più le comunicazioni e ad allungare la distanza tra il domicilio e il luogo di lavoro» (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 76). La logica che spinge all’efficienza economica è stata sostenuta in primis dall’economia classica del XVIII e XIX secolo, la quale afferma che il singolo, durante la ricerca dell’interesse personale, opera allo stesso tempo nell’interesse di tutti16. Questo postulato è stato sviluppato in particolare da Bentham all’interno della concezione economica utilitaristica. Latouche non poteva certo esimersi dal criticare sia il primo, sia il secondo punto di vista: sono ben evidenti i risultati di quello a cui ha portato l’anteposizione dell’interesse personale a quello della collettività. Egli fa ricadere sulle teorie di Smith la colpa dell’invasione della “totalità” del campo sociale da parte dell’economico (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 39). Sostenere che il perseguimento dell’utilità personale generi un incremento dell’utilità sociale equivale a sostenere l’identità dell’utilità individuale e dell’utilità collettiva. «La morale svanisce completamente e così pure il contenuto stesso dell’utilità» (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 39). Sono pericolose le conseguenze di una condotta volta alla massimizzazione dell’utilità sia

16

Cfr. Smith (1776).

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individuale che collettiva, qualora vengano presi in considerazione unicamente parametri economici: è nel nome dello sviluppo infatti che vengono spesso compiuti crimini efferati contro l’umanità e contro l’ambiente. Nella seconda parte del libro, Latouche si interroga sull’esistenza di un rifugio, di un’”isola felice” sulla quale approdare dopo che la nave dello sviluppo è irrimediabilmente naufragata. Anche se l’occidentalizzazione è sinonimo di derelizione per masse crescenti del pianeta, Latouche riconosce infatti che «il suo fallimento finale potrebbe avere per esso effetti ancora più disastrosi» (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 110). Esso potrebbe manifestarsi sottoforma di un’altra guerra mondiale o di una colossale catastrofe ecologica17 . La crisi dell’Occidente potrebbe ben significare, per i naufraghi dello sviluppo, paradossalmente una condanna a morte pura e semplice. La dipendenza tecnica e finanziaria del Terzo mondo è discutibile e forse superabile, ma la dipendenza alimentare, soprattutto per le popolazioni urbane, ha raggiunto un livello tale che ogni rottura dei rapporti Nord-Sud avrebbe nell’immediato effetti disastrosi. Forse le uniche spiagge sulle quali i naufraghi potrebbero approdare sono quelle dell’arcipelago dell’informale: le spiagge di una società spontanea, senza un’organizzazione rigorosa, non capitalistica (e quindi non sfruttatrice), dotata di un’economia “altra” che si basi su un “altro” tipo di sviluppo ed un’ “altra” forma di razionalità, non rispondente al principio del maximin e del produttivismo, cardine dell’economia di stampo occidentale. Il surplus delle attività artigianali, quando esiste, non dovrà essere destinato ad un continuo miglioramento delle prestazioni produttive, ma dovrà essere destinato alla solidarietà del gruppo o alle spese festive (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 123). Questa potrebbe essere definita, seguendo un termine proposto da Jacques Bugnicourt, come economia popolare.

17

Esempi di questo ultimo tipo non mancano. A parte le già citate tragedie della Marea Nera nel Golfo del Messico, o della fuoriuscita di fanghi tossici da un impianto di lavorazione ungherese, si possono citare altri disastri ecologici meno recenti, come il disastro nucleare di Chernobyl del 1986, o, nello stesso anno, l’incendio dell’industria chimica Sandoz, che provocò la morte biologica dell’intero fiume Reno (Brocchi, 2007).

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È indispensabile ricercare uno sviluppo «alternativo», antiproduttivistico ed anticapitalistico, capace di eliminare le piaghe del sottosviluppo e gli eccessi del cattivo sviluppo (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 148). Si parla di sviluppo alternativo per indicare uno sviluppo che poggi su basi diametralmente opposte rispetto a quelle su cui si basa lo sviluppo di matrice occidentale. Non si può infatti fare in modo di ricreare uno sviluppo semplicemente diverso da quello presente, esso deve essere anche alternativo. Lo sviluppo, conclude Latouche, è stato ed è “l’occidentalizzazione del mondo”. Se lo sviluppo di stampo occidentale ha portato ogni società a dipendere economicamente dalle altre, ebbene, lo sviluppo alternativo dovrà promuovere innanzitutto il decentramento, quindi il localismo, l’autoproduzione ed in definitiva l’autarchia. Bisognerà sganciarsi dalla misurazione canonica del consumo, la quale non tiene conto di tre aspetti fondamentali18: 1) I servizi resi dalle autorità; 2) I beni e i servizi gratuiti; 3) I costi esterni provocati dalle trasformazioni dell’economia. La società dei naufraghi appare dunque diventare una società “postmoderna” a causa anche solo della sua rottura con la ragione utilitaristica. Da questo presupposto potrebbero subito nascere due fraintendimenti: 

Alcuni potrebbero dedurre che l’obiettivo della maggior felicità del maggior numero sia ripudiato, ma ciò è vero solo in apparenza. «Il maggior numero non è un obiettivo auspicabile e nemmeno sensato. La società deve mirare alla felicità dei suoi membri, di tutti i suoi membri» (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 233).

La produzione materiale della società dei naufraghi non mirerà prevedibilmente alla produzione massima. Questo però non significherà che producendo meno, i bisogni saranno soddisfatti di meno. Neppure l’apporto di felicità derivato dalla soddisfazione dei bisogni sarà minore, poiché la parte di felicità non derivante dal maggior numero di

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Bertrand de Jouvenel, cit. in Latouche, 1993, p.196.

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beni di consumo sarà provvista, in misura molto maggiore, da beni relazionali, culturali, artistici e ricreativi. Ecco che riconducendo l’ideale di felicità al suo vero significato e non ad un’espressione di vuota utilità, la società postmoderna si riallaccia all’ideale di equilibrio delle saggezze anteriori e dà un contenuto pieno al vecchio obiettivo del bene comune.

La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (1995)

Nell’opera La Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso (Latouche, 1995), pubblicato contemporaneamente in francese ed in italiano, si evidenzia come nell’economia moderna l’uomo diventi l’ingranaggio di una meccanica complessa che raggiunge una potenza davvero notevole: una “megamacchina”, al contrario dei sistemi di organizzazione sociale dell’antichità, come la falange macedone, l’organizzazione dell’Egitto faraonico, la burocrazia della dinastia Ming identificati come “macchine” semplici. Il dominio della realtà tecnoscientifica ed economica danno alla megamacchina contemporanea un’ampiezza inedita e inusitata nella storia degli uomini. Gli effetti distruttivi del legame sociale e dell’ambiente prodotti dalla megamacchina e dal suo apparato tecnoscientifico sono ampiamente illustrati e denunciati, insieme con le illusioni del progresso. Latouche torna a denunciare i danni che l’organizzazione della Megamacchina produce a tutt’oggi, tramite i meccanismi del mercato mondiale. Tecniche sociali e politiche, tecniche economiche e produttive si intrecciano, si fondono, si completano, si articolano in una vasta rete mondiale realizzata da gigantesche società transnazionali che mettono al loro servizio Stati, partiti, sette, sindacati, organizzazioni non governative. Tutto ciò va a modificare la struttura di Stati, i quali prima erano completamente indipendenti.

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L’altra Africa. Tra dono e mercato (1997)

Bisognerà aspettare il 1997 per poter vedere un nuovo saggio di Latouche, il quale tornerà ad occuparsi della condizione delle popolazioni africane ne L’altra Africa. Tra dono e mercato (1997, ed. it. 2000), e a descrivere la cosiddetta economia informale. Sotto l’apparente realtà economica (circa il 2% della produzione mondiale), infatti, l’Africa, dissanguata, in preda a continue carestie, dilaniata e destrutturata da guerre interne, nasconde un’altra realtà. Essa rivela l’evidente fallimento dei modelli forgiati dall’Occidente; mostra gli effetti distruttivi della razionalità economica (Mangenot, 1999, p. 30). Esiste un’”altra” Africa nella quale, se il mercato è presente, non si estende alla società nella sua interezza; un’Africa capace di inserire tecniche del fai-da-te in tutti i campi e a tutti livelli, un’Africa quindi capace di arrangiarsi, dove lo scambio sotto forma di dono coesiste con gli effetti della mondializzazione. Tutte queste pratiche alternative di produzione e di scambio sono emerse come risposta alla sconfitta riportata nella “guerra economica” mondiale. L’Africa, nonostante tutto, riesce a fare tesoro di ogni esperienza: emerge così la “società informale”, una società al di fuori dello sviluppo,19 capace di addomesticare l’economia, o meglio, di inventare (o reinventare) un’economia che attinge la sua vitalità dal sociale e dal culturale invece del contrario. La pratica del dono, dello scambio gratuito fondato sulla reciprocità, limita gli effetti (specialmente quelli negativi) dei rapporti mercantili ed assicura una solidarietà contro l’esclusione.

Il mondo ridotto a mercato (1998)

Nell’anno successivo, egli pubblicherà Il mondo ridotto a mercato (Latouche, 1998, trad. it. 2000), dai temi molto affine a quelli de L’altra Africa, in cui si soffermerà sulle implicazioni del processo di globalizzazione sulle istituzioni politiche, in particolar modo sullo Stato-nazione, sull’ambiente e sulla cultura. Nuovamente, egli evidenzia le colpe della mondializzazione e del

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Simili concetti, ancora una volta, non dovrebbero risultare nuovi: si veda Latouche, 1993, pp.111-120.

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“pensiero unico” propugnato dal liberalismo, mostrandone gli effetti negativi sia all’interno del sistema occidentale sia nei confronti dei paesi del Terzo mondo.

La fine del sogno occidentale (2000)

Nel 2000 uscirà La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo (Latouche, 2000c, trad. it 2002). L’opera consiste in una forte invettiva contro l’uniformazione economica e culturale che dall’America ha investito l’Europa e si è propagata con effetti devastanti anche in Africa e nel resto del mondo. Il primo effetto riscontrabile è la sparizione delle differenze nel mondo. Lingue antichissime muoiono per abbandono, intere specie animali o vegetali vengono condannate all’estinzione poiché ritenute non essenziali o non ottimali ai fini dello sviluppo del sistema (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 26). Le catene alberghiere hanno filiali in ogni Stato, le stesse bevande e gli stessi cibi sono consumabili a Tokyo come in Perù. Questo a causa del processo di deculturazione tipicamente imposto dal sistema Occidentale, che tende ad uniformare qualsiasi aspetto della vita degli stati, sopprimendone le differenze reciproche e stravolgendo il sistema economico, qualora esso sia sensibilmente diverso. A tal proposito Latouche ricorda come si cerchi così insistentemente di trapiantare ovunque il processo di industrializzazione, sconvolgendo la normale attività economica di stati la cui ricchezza era fondata sul piccolo artigianato o sulle piccole comunità rurali. Molto spesso, però, questo processo fallisce miseramente, col risultato di lasciare nell’abbandono più completo popolazioni costrette a dipendere economicamente dall’Occidente. Se, però, da un lato l’industrializzazione ha fallito, l’urbanizzazione, la terziarizzazione e la burocratizzazione delle società dell’Africa sono pienamente riuscite (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 121). Il fallimento complessivo dell’ideale replica di una società occidentale al Sud ha comportato ad

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una produzione massiccia di esclusi, ai quali non resta che cercare di sopravvivere mediante la costruzione di una società alternativa.20

La sfida di Minerva (2000)

Sempre nel 2000, viene pubblicato La sfida di Minerva (Latouche, 2000a), in cui sono esplorati i concetti di ragionevole e di razionale. Questi due termini hanno sempre viaggiato a braccetto, secondo l’autore, fin verso la fine del XVI secolo, e oggi vedono la “ragione geometrica”, ossia la pura razionalità tecnico-scientifica, come idolo incontrastato del discorso occidentale. Una ragione che ha portato l’uomo alla costruzione della società attuale, dove la tecnologià è asservita esclusivamente dal consumo. Le “follie razionali” che contraddistinguono le politiche economiche occidentali sono limitate in in Africa, laddove a vincere sono in realtà i comportamenti irrazionali e dunque ragionevoli. Latouche racconta del contadino in Madagascar che ai consigli di un tecnico occidentale per razionalizzare e incrementare la produzione di latte risponde “non voglio, non avrei tempo per osservare il tramonto”; o del ragionamento antieconomico (e dunque antioccidentale) di alcuni allevatori maliani che non sanno che farsene, di più soldi. Questo perché, spiega l’autore, in Africa la povertà non ha lo stesso significato che assume in Occidente, perché ci sono meno bisogni indotti e dunque meno razionalità. Razionalizzare l’africano equivale quindi a distruggerlo, e questo in quanto diventa economicamente razionale solo ciò che conviene agli interessi dei bianchi. Ben vengano quindi le palabre, le assemblee subsahariane con le quali i membri di un villaggio risolvono conflitti e problemi comuni. Alle moderne democrazie occidentali esse possono insegnare l’importanza dell’assemblea popolare per sperimentare un potere reale; al di là della giustizia il loro obiettivo è infatti raggiungere l’armonia, l’unità. E poco importa a Latouche se le palabre alla lunga sono soggette agli stessi mali delle assemblee

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Il significato dato alla società alternativa è quello illustrato nel libro Il pianeta dei naufraghi (Latouche, 1993).

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occidentali: restano comunque una dimostrazione, con le loro sedute lunghissime e molte volte inconcludenti, di come il tempo ragionevole non sia denaro. Il rilievo della ragione, della phrónesis, così come ricordato da Latouche, è stato nettamente ridimensionato a scapito dell’interesse economico, e alla scomparsa della “prudenza” dal vocabolario occidentale. Secondo Latouche, «tutto si compra e tutto si vende: nulla sfugge alle maglie dei razionale»: la phrónesis è stata così definitivamente scavalcata dall’audacia, serva stupida del capitalismo utilitaristico. Ma se consideriamo la totalità degli elementi che costituiscono l’umano, vedremo che affidarsi al cieco spirito geometrico è assolutamente irragionevole. Acquistare un chilo di banane biologiche costa di più, è irrazionale economicamente. Ma, in un’ottica etica dell’umano, è perfettamente ragionevole. L’autore avverte anche sulla reale efficacia delle reti eque e solidali. Da un lato infatti queste ultime, se operano in buona fede, sono un’importante strumento di “opposizione” al pensiero unico; dall’altro, se la phrónesis viene meno, esse rischiano di tramutarsi in ciò che cercano di combattere, diventando business: è quando i prodotti solidali si appoggiano per la distribuzione alle grandi catene, o quando si investe di più nel merchandising che non nella solidarietà. È un problema concreto, che riguarda anche le ONG. Latouche consiglia quindi di tornare nel campo del ragionevole, della prudenza, la quale presuppone la conoscenza del senso del limite. Dobbiamo quindi riconoscere che la stessa ragione è sempre minacciata dalla contaminazione del razionale. È questa la sfida di Minerva: non si tratta di tornare alla prudenza aristotelica, ma di superarla per uscire dagli intralci di una ragione bifronte. È per questo che il libro dell’economista-filosofo francese è un prezioso strumento per imparare a “ragionare” umanamente, senza essere schiavi dello spirito geometrico.

Due libri pubblicati esclusivamente in italiano: Immaginare il nuovo (2000) e L’invenzione dell’economia (2001)

A dimostrazione del crescente interesse dimostrato dal pubblico italiano verso le sue idee, Latouche presenta due libri destinati inizialmente alla sola distribuzione italiana. Il primo è un 89


libro-intervista intitolato Immaginare il nuovo. Mutamenti sociali, globalizzazione, interdipendenza Nord-Sud (Latouche, 2000b), in cui egli risponde alle domande di Antonio Torrenzano in merito alla fattibilità della creazione di una società alternativa a quella dominata dai valori occidentali, foriera di emarginazione ed esclusione. Il secondo, dal provocatorio titolo L’invenzione dell’economia (Latouche, 2001) è in realtà una raccolta di sette saggi che analizzano in particolare l’evolversi della storia economica tra il diciassettesimo secolo fino al tempo presente: 

nel primo saggio egli indaga essenzialmente la costruzione dell’immaginario economico e la nascita dell’invenzione dell’economia;

nel secondo saggio compie una vera e propria indagine sociologica in merito all’ordine sociale naturale, e su come questo partecipi all’istituzione immaginaria della nostra società;

nel terzo saggio analizza il rapporto tra storia ed economia, auspicandone la netta separazione dei ruoli, ma concludendo allo stesso tempo che tale divisione non potrà mai avvenire completamente;

nel quarto saggio mostra come sant’Agostino sia il precursore del concetto della mano invisibile teorizzata da Smith;

nel quinto saggio riporta il contributo di Boisguilbert alla diffusione del mercantilismo, il quale per primo sostiene che il sistema mercantilista possa portare alla felicità di tutti;

nel sesto, brevissimo saggio, si sofferma in particolare sul personaggio di Berdard de Mandeville;

nel settimo ed ultimo saggio parla del lusso e delle differenti posizioni che hanno tenuto nel tempo i vari economisti a riguardo.

Tramite questi due libri, Latouche conferma la sua posizione fortemente critica nei confronti dell’economia moderna. Secondo l’autore, l’economia non è altro che un’invenzione. 90


Particolarmente interessante è il modo con cui Latouche supporta le sue tesi, utilizzando una molteplicità di approcci: oltre a quello prettamente economico, egli utilizza anche approcci sociologici e storici.

La déraison de la raison économique. Du délire d’efficacité au principe de précaution (2001)

Chiude le pubblicazioni del Latouche adulto un libro che appartiene ad un ambito tematico nuovo rispetto alla abituale produzione di Latouche: La déraison de la raison économique. Du délire d’efficacité au principe de précaution (Latouche, 2001). Questo libro segna lo spartiacque tra due fasi della vita di Latouche, poiché esso consiste in un’analisi dell’intreccio tra economia e politica nella società occidentale. Latouche arriverà a proporre una prima alternativa alla società di mercato attraverso la politicizzazione dell’economia locale, basandosi sul consenso pubblico. Evidente è in questo senso l’apporto della palabre africana, un’istituzione sociale alla quale partecipa la comunità di un villaggio, al fine di regolare contenziosi senza che nessuna delle parti sia lesa.

4.3.2 – Le due principali opere del Latouche adulto – Un’analisi Dopo aver fornito una veloce panoramica sulle opere che Latouche ha pubblicato dagli anni ‘80 al 2002, si vuole ora approfondire il contenuto di due opere ritenute esemplificative del pensiero del Latouche Adulto. La prima ad essere analizzata sarà La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo (Latouche, 2000c, trad. it. 2002). La seconda sarà L’altra Africa. Tra dono e mercato (Latouche, 1997). È immediato notare come l’ordine in cui saranno studiate queste due opere va in senso opposto rispetto a quello cronologico. Si è optato per questa soluzione per non confondere il lettore in termini argomentativi: L’altra Africa parla delle conseguenze a cui porta il processo di “americanizzazione”: è dunque bene esplorare questo aspetto per primo.

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 La fine del sogno occidentale La prefazione alla seconda edizione italiana si apre con un’immagine simbolo che tutti abbiamo tristemente imparato a riconoscere: lo schianto, l’11 settembre 2001, di due aerei contro le Torri Gemelle. Un evento simbolo della fragilità del sistema occidentale, o, per dirla con parole di Latouche, della fragilità della «megamacchina tecnoeconomica planetaria» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 8). Quali sono stati dunque gli errori commessi dall’Occidente per provocare una reazione così catastrofica da parte di coloro che abbiamo già definito come naufraghi dello sviluppo? In questo libro, Latouche cerca di rispondere a questa domanda. Nell’introduzione si mostra come una caratteristica precipua del sistema occidentale sia la mondializzazione. Essa, originariamente confinata al solo ambito economico-finanziario, ricopre ormai praticamente qualsiasi ambito del sociale, dall’ambiente alla cultura, alla politica. Non solo: nel tempo, con la mondializzazione si è avviato congiuntamente un processo di economicizzazione, ossia una trasformazione dei differenti ambiti della vita in questioni economiche (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 16). Il primo capitolo, “L’uniformazione planetaria”, spiega come il modello di vita occidentale si sia diffuso con successo in tutto il mondo, e come esso venga imitato tramite un fenomeno di mimetismo largamente diffuso nelle società del Sud del mondo. L’uniformità planetaria è promossa innanzitutto dai Paesi ricchi, i quali sovvenzionano al Sud la produzione di beni o servizi destinati al commercio con i Paesi promotori, con disastrose conseguenze a livello sociale ed economico: da un lato si arriva ad annullare le differenze tra le varie culture, dall’altro si mina l’indipendenza economica e culturale degli Stati poveri.21 Questo è un mezzo più potente di quanto si creda per veicolare la propria cultura verso una popolazione estranea.

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Latouche riporta l’esempio della fornitura gratuita da parte della Francia di servizi di informazione satellitare alle radio e alle televisioni dell’Africa occidentale, col risultato, si spiega, dell’assenza di «veri e propri mezzi audiovisivi africani» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 29).

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FIGURA IV.3. Indice del libro La fine del sogno occidentale (Latouche, 2000c, trad. it. 2002).

Fonte: Latouche (2000c, trad. it. 2002, p. 4-5)

Il fatto d’appartenere tutti quanti ad un’ideologia comune, caratterizzata, scrive Latouche, dall’ «accettazione di fatto della tecnica nel suo utilizzo quotidiano, la fede condivisa nella scienza come fonte delle meraviglie della tecnica, la sudditanza forzata all’economico» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 32), costituisce quella che lui definisce standardizzazione dell’immaginario. Un esempio di standardizzazione dell’immaginario è rappresentata dall’accettazione a livello mondiale della ripartizione temporale dell’anno nei canonici 12 mesi, o della divisione del globo nei 24 fusi orari. Latouche riconduce l’avvio della standardizzazione dell’immaginario a livello globale con l’epoca colonialistica, della quale, si racconta, furono denunciati i saccheggi, i massacri e le deportazioni, ma quasi mai venne riconosciuto il vero intento della conquista colonialista: per l’economista francese non all’oro, non alle terre erano interessati i coloni europei, ma alla conquista delle menti e dell’immaginario degli indigeni (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 39). 93


Dove la sovrapposizione dei valori occidentali a quelli indigeni è stata possibile, le civiltà preesistenti sono state sconvolte dall’arrivo dell’uomo bianco, cambiando completamente faccia. Dove invece le civiltà hanno mostrato refrattarietà nei confronti della civiltà occidentale, esse sono state «puramente e semplicemente eliminate con lo sterminio o per declino naturale» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 40). È questa la fine che è stata riservata, per esempio, agli indiani d’America, che hanno cercato di resistere, per quanto è stato loro possibile, all’imposizione della legge dei bianchi sui territori nei quali essi abitavano da secoli. Col secondo capitolo, Latouche cerca di definire gli sfuggenti contorni del soggetto da lui definito Occidente. Esso, si scrive, è un concetto in continuo mutamento, e le definizioni che valevano anche solo fino alla fine del secolo scorso devono essere riviste alla luce dei recenti accadimenti. L’Occidente, come già ricordato ne L’occidentalizzazione del mondo (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 34) 22, è un soggetto che «ha a che vedere con una entità geografica, l’Europa, con una religione, il cristianesimo, con una filosofia, l’illuminismo, con una razza, la razza bianca, con un sistema economico, il capitalismo» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 53), senza però esaurirsi completamente in nessuno di questi aspetti. Per ognuna di tali classificazioni egli fornisce chiarimenti, che evidenziano come in nessun caso ci sia piena corrispondenza tra questi ultimi e il soggetto Occidente. Esso geograficamente parlando non coincide più né con l’Europa né con la razza bianca: basti pensare al Giappone, che è diventato a tutti gli effetti una delle maggiori potenze di stampo occidentale. Non si può nemmeno assimilare il concetto di Occidente a quello di cristianesimo: certo, il cristianesimo occupa di fatto un ruolo di primo piano nella cultura occidentale, e molte ONG e organizzazioni caritative operanti nel Sud del mondo sono animate da sentimenti ispirati alla morale da esso dettata. Da un lato, però, l’islamismo esercita un peso sempre più importante nei paesi occidentali, dall’altro l’ateismo e l’indifferenza religiosa sono sempre più diffusi anche nelle comunità

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Ad un lettore attento non sfuggiranno i numerosi richiami tra i temi dei due saggi di Latouche, che presentano più di una affinità a livello tematico.

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maggiormente legate alla fede cristiana. Neppure può essere identificato con la filosofia illuminista: esso ne condivide gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza su tutti (basti pensare alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo), ma la prepotenza con cui è stata imposta la cultura occidentale fa dubitare che ad animare lo spirito occidentale ci sia quest’unica filosofia. Forse ciò che più si avvicina ad una identificazione del mondo occidentale è il paragone col mondo capitalista. Esiste però un vistoso limite a tale paragone: l’Occidente esisteva già prima del capitalismo. Stabilire un’identità fra capitalismo ed Occidente, quindi, seppur parzialmente corretto, equivarrebbe a relegare quest’ultimo all’interno di una definizione storico-economica molto ristretta. La storia economica dell’Occidente è molto più complessa, e comprende necessariamente anche le fasi economiche anteriori alla venuta del capitalismo. Il terzo capitolo, dal titolo “Il rullo compressore occidentale”, tenta di analizzare i tre processi ritenuti da Latouche responsabili dello sradicamento di una cultura diversa da quella occidentale: essi sono l’industrializzazione, l’urbanizzazione ed il nazionalitarismo. L’industrializzazione è presentata come elemento indispensabile per una società che voglia raggiungere gli standard di vita di quella occidentale. La tentazione di promuoverla c’è, sempre, «qualunque ne sia il prezzo» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 92). Numerosissimi sono gli esempi di “industrializzazione fallita”, in cui dei progetti miliardari sono miseramente falliti a spese della società.23 Secondo l’economista francese non c’è da stupirsi: la cosiddetta scorciatoia tecnologica non è altro che un’illusione, poiché per costruire una società simile a quella occidentale non basta una semplice o veloce industrializzazione, ma occorre anche un substrato di rapporti umani, di strumenti e di fattori ambientali che permettano l’insediamento di tale civiltà. Con l’industrializzazione si attua automaticamente il processo di urbanizzazione, che provoca un’irreparabile rottura con la cultura rurale preesistente. È così che le case finiscono per essere progettate secondo i nuovi standard urbani, e si assiste alla

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Cfr. Latouche, 2002, p. 93-94.

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nascita di città dall’anima fredda, senza centro storico, né storia, né punti di riferimento. L’ultimo elemento, il nazionalitarismo, può essere definito come la forma artificiosa dello Stato nel Terzo mondo. Latouche spiega che, «poiché nella comunità internazionale la personalità giuridica è riconosciuta soltanto agli Stati di tipo moderno, solo i popoli che si sono dotati dei segni dell’ordine statuale possono fare parte della società delle nazioni» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 102), incarnata in particolare dall’ONU. Più che l’industrializzazione o la creazione di un apparato statale funzionante ed efficiente, infatti, l’Occidente è riuscito a diffondere solo la creazione di strumenti di potere.24 Gli stati dell’Africa sono così dotati di istituzioni di stampo occidentale senza personale in grado di dirigerle: alla fine dei conti, l’unico vero risultato del nazionalitarismo è l’annientamento delle forme di organizzazione sociale originarie, sostituite da una società fortemente burocratizzata. Il quarto capitolo, “I fallimenti dell’utopia modernista”, mostra come il sogno occidentale di un mondo rispondente ad un modello culturale e di sviluppo comune sia naufragato senza possibilità di essere recuperato. I tentativi falliti di impiantare il sistema occidentale nei paesi del Sud hanno provocato essenzialmente la brutale deculturazione della popolazione locale, col risultato di portare in alcuni casi alla nascita di «forme aggressive di ricostruzione dell’identità culturale che vengono affermate ed ostentate in un discorso violentemente antioccidentale» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 112), e la produzione di una nuova categoria di persone: gli esclusi dallo sviluppo, coloro cioè che vivono nei cosiddetti “tre Quarti mondi”.25 Il sistema di sviluppo occidentale non è stato replicato per la mancanza di una solida base economica ed organizzativa in grado di

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Cornelius Castoriadis ne fornisce alcuni esempi: strumenti di potere sono gli altoparlanti nei villaggi che diffondono i messaggi del capo, le notizie ripetute sempre uguali dalle televisioni. «Qualunque caporale in qualunque Paese del Terzo mondo sa ormai manovrare le jeep, le mitragliette, gli uomini, la televisione, i discorsi (…). Questo abbiamo dato loro» C. Castoriadis, 1988, p.108, cit. in Latouche, 2002, p.102. 25 Abbiamo già avuto modo di analizzare questo concetto (Cfr Latouche, 1993, pp.15 sgg.).

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supportarlo. Si sono ricercate ovunque strategie in grado di far decollare l’economia dei paesi meno sviluppati, cambiando la loro formula anche diverse volte nel giro di poche decine d’anni, ma senza successo. Questo ha decretato la fine del sogno occidentale. Il quinto ed ultimo capitolo, dal titolo “Quale speranza per i naufraghi?”, si interroga sulle conseguenze che comporta il processo di occidentalizzazione per le società del Sud. Il primo aspetto analizzato è la costruzione di un sentimento fortemente nazionalista negli stati in cui il progetto di sviluppo è naufragato. Poiché l’occidentalizzazione ha generato la deculturazione della popolazione, è normale assistere a movimenti tendenti a rafforzare l’identità culturale dello Stato, anche in maniera estremista ed antioccidentale. Non a caso si riporta l’esempio della facile ascesa dei fondamentalisti islamici, che trovano terreno fertile nella loro campagna contro il bianco colonizzatore. Alcuni addirittura sfruttano questo malcontento per piegarlo ai propri fini. Allo stesso tempo, però, gli esclusi dallo sviluppo non stanno a guardare, e già propongono modelli di un’organizzazione “alternativa”: al Cairo si smistano e riciclano i rifiuti con la stessa tecnica utilizzata dagli straccivendoli, coprendo i costi di smaltimento delle fabbriche con gli introiti derivanti dalla vendita di composta di rifiuti pronta per l’impiego edilizio e di granuli di plastica. L’etica del dono in Camerun è così sviluppata da costituire una vera e propria rete di mutua solidarietà paragonabile e complementare a quella fornita dalle ONG. L’economia di queste società ha tutte le caratteristiche delle società informali che già abbiamo avuto modo di vedere (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 146): l’accento è posto sul fai-da-te, la solidarietà riveste un ruolo di primaria importanza, il capitale non viene accumulato, la produzione non è fine a se stessa, il risparmio non ha l’unico scopo di aumentare la produzione. «Il settore, infine, non si sviluppa tramite la concentrazione delle unità produttive bensì attraverso la loro moltiplicazione, e le risorse servono in larga misura a soddisfare bisogni culturali: spese per feste, solidarietà di gruppo» (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 165).

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Latouche conclude il suo libro sostenendo che, se la società occidentale è indiscutiblmente in crisi, questa è la condizione necessaria per l’alba di un nuovo mondo: come direbbe Nietzsche, “il deserto avanza, maledetto sia chi protegge il deserto” (F. Nietzsche, 1885).

 L’altra Africa. Tra dono e mercato (1997) Abbiamo fin qui preso in considerazione le caratteristiche del modello di sviluppo occidentale, del modo aggressivo in cui esso è stato imposto (con la forza o con l’astuzia) a civiltà di cultura differente e delle ricadute che esso ha avuto sulle condizioni di vita delle popolazioni africane. Con questo libro, in realtà una raccolta di saggi, Latouche esplora i contorni di quella che definisce l’altra Africa: l’Africa non ufficiale, l’Africa della irrazionalità economica, l’Africa che non basa la sua economia sul mercato ma, come abbiamo già avuto modo di anticipare, sul fai-da-te. Il libro si articola in sei saggi, ripartiti in due percorsi: un percorso teorico in una prospettiva africana e un percorso africano in una prospettiva teorica. Per la struttura del libro si faccia riferimento alla Figura IV.4 della pagina seguente. Essa è organizzata in due parti: la prima, Percorsi teorici in una prospettiva africana, si occupa di analizzare le peculiarità del particolare sistema economico-sociale africano. La seconda, Percorsi africani in una prospettiva teorica, illustra come la società africana interagisca col mondo occidentale, e l’influenza che quest’ultimo esercita su di essa. L’introduzione alla raccolta di saggi è una panoramica impietosa sulle condizioni del Continente Nero: il suo prodotto interno lordo a stento arriva al 2% di quello mondiale, 26 a fronte di un tasso di crescita della popolazione che continua ad aumentare ad un ritmo del 3% annuo. Questi dati sanciscono il fallimento dell’Africa ufficiale, quella devastata dal processo di occidentalizzazione; esiste però, ricorda Latouche, un’altra società nel Continente Nero, che, sottrandosi alle leggi dello sviluppo, ha trovato i mezzi per rialzarsi.

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Fonte: IMF, 2009. Quando Latouche scriveva il libro nel 1997, esso era persino inferiore a questa pur bassa percentuale.

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FIGURA IV.4. Indice del libro L’altra Africa (Latouche, 1997)

Fonte: Latouche (1997, p. 5-7)

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Essa costituisce un’alternativa storica: così definita perché costituita in seguito ad avvenimenti storici. L’altra forma di alternativa è quella volontaristica (Latouche, 1997, p. 24). Un esempio tangibile di alternativa africana è la pratica del dono, bene illustrata nel primo saggio. Essa consiste essenzialmente nel rifiuto di utilizzare la moneta come controparte di scambio di beni o servizi, ceduti gratuitamente al prossimo: in Africa, denuncia Guy Nicolas (1986, cit. in Latouche, 1997, p. 43), la moneta compromette le basi delle organizzazioni sociali, in particolare quelle dei rapporti di parentela. Sorprendenti agli occhi di un occidentale gli esempi riportati da Latouche, come per esempio quello presente in Mauritania, dove, data la scarsità di vetture, le chiavi delle automobili sono fatte circolare tra più amici, nonostante il proprietario della macchina sia uno solo. Certo, a chi viene offerto un dono ha l’obbligo morale sia di accettarlo sia di ricambiare il favore, ma alla fine di una giornata, racconta Latouche, uno ha sempre l’impressione di aver ricevuto più di quanto esso non sia stato disposto a dare. Neanche il mercato, quando presente, è paragonabile al modello occidentale: il mercato africano è prima di tutto «un incontro tra persone» (Latouche, 1997, p. 48), dove la contrattazione gioca un ruolo fondamentale per assicurare al compratore ed al mercante il giusto surplus reciproco. Proprio sul mercato si basa il secondo capitolo, che mette in luce le differenze tra il Mercato (con la m maiuscola) globalizzato occidentale e il mercato (o i mercati) con la m minuscola tipici delle società dell’altra Africa. Se quest’ultimo si basa sulla gratuità, sul dono e sulla pratica del mercanteggiamento, il Mercato di stampo occidentale poggia le sue basi sulla moneta e sul soddisfacimento dell’interesse personale. Latouche torna a soffermarsi su quella che chiama l’impostura dello sviluppo nel terzo saggio. L’Occidente si prodiga tanto a diffondere lo sviluppo nelle società del Terzo mondo essenzialmente a causa del trickle down effect, ossia il fenomeno delle ricadute favorevoli per tutti. Questa credenza, però, non regge ad un serio esame, poiché in essa è possibile individuare la presenza di ben tre paradossi: 100


1) Il paradosso della creazione dei bisogni. L’economia poggia il suo cardine sul soddisfacimento dei bisogni: per garantire che essi rimangano inesauribili, ha inventato il concetto di scarsità (Latouche, 1997, p. 96); 2) Il paradosso dell’accumulazione. Lo sviluppo si prefiggerebbe lo scopo, grazie alla crescita ed al conseguente trickle down effect, di sconfiggere le ineguaglianze all’interno della società. Gli economisti sono però unanimi nel pensare che l’accumulazione non possa realizzarsi senza una grande ineguaglianza di redditi (Latouche, 1997, p. 98); 3) Il paradosso ecologico. Con la crescita economica si accompagna anche un peggioramento della situazione ambientale, costringendo a destinare capitale via via crescente alle tecnologie che ne limitino i danni (Latouche, 1997, p. 99). La quarta parte del libro si apre con il quarto saggio, il quale è a tutti gli effetti un’indagine etnografica verso una comunità di fabbri della Mauritania, per metà tradizionali e per metà postmoderni. Latouche ne osserva le abitudini, la cultura, i rapporti con l’esterno, per arrivare a fornire un quadro del progetto di società conviviale che implicitamente essi hanno costruito. Latouche prosegue la sua indagine etnografica nel quinto saggio, in cui relativizza il concetto di povertà: esso deve sempre essere rapportato ad un contesto. Da un punto di vista economico quindi i paesi del Continente Nero sono effettivamente tra i più poveri del mondo, ma la ricchezza in Africa non si misura in moneta. Un ruolo fondamentale è svolto dalla solidarietà: a Douala, in Camerun, il surplus di cibo viene generosamente donato da una famiglia all’altra, gli utensili vengono presi in prestito in caso di bisogno, «senza che si tenga una contabilità dei doni» (Latouche, 1997, p. 142). Spiega molto bene Latouche che «Non si può richiamare la povertà in un campo in cui la ricchezza è collettiva (…) e destinata alla circolazione» (Latouche, 1997, p. 143). Purtroppo, la venuta dell’uomo bianco ha avuto effetti deleteri nei rapporti di solidarietà su cui si fondavano molte delle società africane: il senso di abbandono in cui versano ora molti africani li ha portati a rifugiarsi nella stregoneria. 101


Latouche espone la sua esperienza di Grand Yoff, una periferia urbana in provincia di Dakar, in Senegal, per mostrare nel sesto ed ultimo saggio le varie sfaccettature di una società informale chiamata a vivere a contatto con una realtà ampiamente occidentalizzata. Latouche divide la cosiddetta economia informale su quattro livelli: 1) I «traffici», ossia il commercio di importazione ed esportazione che prevede pratiche che spaziano dal contrabbando di droga al riciclaggio di vestiti provenienti da ONG caritatevoli; 2) Il subappalto non ufficiale, in cui piccole imprese che producono per il mercato occidentale fanno lavorare i loro impiegati (tra cui anche bambini) ad orari disumani, retribuendoli con salari irrisori; 3) L’economia popolare, ossia la piccola attività imprenditoriali capace di soddisfare, grazie ad un’innata versatilità dell’imprenditore, i bisogni quotidiani della gente; 4) L’oikonomia neoclanica, il modo cioè in cui la società riesce ad organizzarsi in reti che forniscono diverse attività. Quest’ultima rappresenta sicuramente l’aspetto più originale e caratteristico della società informale e «Solo essa può essere portatrice di una via alternativa allo sviluppo impossibile» (Latouche, 1997, p. 179). Si badi bene: Latouche non cerca in alcun modo di propugnare una società che vive di espedienti come modello universale. Egli riconosce però che, in mancanza di meglio, questa è senza dubbio l’alternativa più efficace. Una società informale è una società che non guarda al profitto: esemplare è l’aneddoto del lavoratore che lavorava un’ora sola al giorno, tanto quello che gli bastava per procacciarsi di che sopravvivere durante la giornata: «Il mio tempo libero – disse – sono 24 ore al giorno. Ma mi capita, a volte, nel mio tempo libero, di scegliere di lavorare» (G. Esteva, 1993, p. 43, cit. in Latouche, 1997). Latouche, in questo libro, ha cercato di far comprendere al lettore «l’importanza del tempo, delle energie e dei rapporti sociali» (Latouche, 1997, p. 198). La catalogazione dell’Africa come continente sottosviluppato non è solo scorretto, ma soprattutto ingiusto nei confronti di una 102


società che valuta la propria ricchezza su una scala di valori completamente diversa rispetto a quella occidentala. Egli propone alle potenze dell’Occidente un nuovo messaggio: l’aiuto all’altra Africa passa non tanto sottoforma di aiuti umanitari, quanto sottoforma di una autolimitazione delle società del Nord. Ciò può avvenire con un cambiamento del modello occidentale e una completa revisione del concetto di sviluppo.

4.3.3 – Il pensiero del Latouche adulto – Le caratteristiche Possediamo ora tutto il materiale necessario per poter procedere con l’analisi delle principali caratteristiche del pensiero di Latouche nell’epoca 1980-2001, definita “adulta”. Si può notare come esista una vistosa presa di posizione molto più articolata rispetto alle sue stesse convinzioni di appena vent’anni prima. Se il Latouche “giovanile” mostrava simpatia per le teorie marxiste e leniniste, dal 1980 la rottura con queste teorie appare definitiva. Un tale cambiamento di mentalità era già emerso all’interno dello stesso periodo giovanile: come si ricorderà, con il libro La critique de l’impérialisme (1979) Latouche dimostra di aver già preso nettamente le distanze dalla corrente leninista. Questo processo di allontanamento prosegue nell’epoca adulta, al punto da rifiutare la visione stessa di sviluppo propria dell’economia classica e di Marx in particolare. Quali sono, allora, i motivi che hanno spinto Latouche a divergere dalle opinioni iniziali? Noi riteniamo che se Latouche avesse passato in Francia (o in Occidente, usando il termine nell’accezione che egli stesso ha dato) gli anni cruciali della sua formazione, egli non si sarebbe mai interrogato realmente sui veri motivi per i quali l’Africa versa nelle condizioni attuali.27 La stretta collaborazione con il circolo di intellettuali vicino a Ivan Illich e la lettura di Castoriadis (1958, 1996) sono stati senza dubbio un ulteriore fattore che si è rivelato decisivo nel determinare l’evoluzione di pensiero dell’economista francese.

27

Cfr Latouche, 1993, p. 27.

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Col suo soggiorno in Africa e quindi nel sud-est asiatico,28 Latouche ha appreso che il problema del “sottosviluppo”, contrariamente a quello che sosteneva Marx, non risiede nei meccanismi interni al capitalismo, bensì risiede nella mondializzazione, nell’uniformarsi al modello occidentale di pensiero e di cultura, nell’ingerenza, nell’intromissione degli Stati occidentali in questioni che non dovrebbero essere di loro competenza (Latouche, 1997, p. 214). Marx al contrario avvalora la tesi del carattere universale della modernità occidentale (Latouche, 1997, p. 20): essa, rivitalizzata dai principi del comunismo, doveva essere riproposta in tutti gli stati e presa come esempio politico, economico e culturale (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 95). Qui L’economista francese dissente fortemente e sono evidenti i segni di questo suo cambio di rotta: se nella tesi di dottorato La paupérisation à l’échelle mondiale, Latouche (1966) augurava ai paesi del Sud di recuperare il più rapidamente possibile il divario tecnologico che li divideva dall’Occidente (Latouche, 2006a), il Latouche adulto cambia radicalmente idea, asserendo che «Il sottosviluppo non è un ritardo ma l’oppposto dello sviluppo» (Latouche, 1986, p. 71). Gli stati del Sud non devono sentirsi quindi in ritardo rispetto a niente e a nessuno, poiché non spetta a nessuno stabilire chi è in ritardo rispetto a cosa: persino la scorciatoia tecnologica è una pura illusione (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 95). Appare quindi ovvio che, al contrario di quello che sostiene Marx, il problema non è l’esistenza del capitale, ma è l’esistenza dello sviluppo così come viene inteso in Occidente. Il nemico da combattere non è quindi solo il capitalismo, ma la società di crescita nel suo insieme. In quest’ottica, il Latouche adulto muove un’aspra critica rivolta al mondo occidentale: di esso, Latouche rifiuta sia il sistema economico, sia l’attitudine ad ergersi come modello universale, attuando il processo di deculturazione che tanti danni ha provocato nel Terzo mondo. Riprendendo il contenuto della Tabella IV.2, si noterà come, nell’arco di venti anni, ben quattro libri siano dedicati ad una critica diretta all’Occidente, e numerosi altri (quelli appartenenti al 28

Latouche, durante i due anni di permanenza in Congo, ha colto l’occasione per visitare sia i paesi limitrofi (Congo, Angola, Ruanda) sia gran parte dei paesi della costa occidentale (Costa d’Avorio, Senegal, Gabon, Nigeria, Liberia, Camerun, Togo, Benin). Durante il suo soggiorno in Laos, infine, ha viaggiato e osservato i modelli di vita di Thailandia, Cambogia, India, Nepal, Pakistan e Birmania (Latouche, 1991, trad. it. 1993, p. 10).

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tema del Terzo mondo e alla critica dello sviluppo) mostrano una critica indiretta allo stesso. Se si cercasse, però, anche solo una proposta costruttiva ai problemi giustamente sollevati dall’autore, si rimarrebbe in gran parte delusi: solo ne L’altra Africa (Latouche, 1997), si riconosce un’esortazione rivolta all’Occidente ad astenersi da ingerire negli affari africani, ma un’esortazione è lungi dal rappresentare una soluzione sul “da farsi” in concreto. La società informale viene presentata come capace di risolvere i problemi africani, ma questo equivarrebbe al curare i sintomi di una malattia senza intervenire sull’elemento patogeno. A parte il richiamo generico ai pregi dell’economia informale, in nessuno dei libri appartenenti a questo periodo si propone una reale alternativa al sistema economico occidentale. La carenza di costruttività nelle opere di Latouche non è passata inosservata (Caire, 1986, p. 934), ma ciò non deve destare stupore: la critica rivolta all’Occidente in quegli anni gli servì per focalizzare meglio l’attenzione sul problema. Nel tempo, come successe durante il periodo della giovinezza, egli riuscirà a far maturare il suo pensiero, arrivando all’ideazione e alla definizione di un concetto rivoluzionario, un concetto destinato a far discutere sempre più negli anni a venire: il concetto di decrescita.

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4.4 – Il Latouche maturo Il 2002 appare un anno importante e a nostro avviso simbolico di una nuova svolta nella vita di Latouche. Tra febbraio e marzo, infatti, egli parteciperà al convegno Disfare lo sviluppo, rifare il mondo29 ed in questa sede, per la prima volta, propone una valida alternativa al sistema occidentale, o come preferirà definirlo, alla società di crescita (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 28). Questa svolta, come si potrà osservare, non è una frattura rispetto al Latouche adulto, ma un suo proseguimento naturale in termini però più costruttivi. Egli, già con la pubblicazione de L’altra Africa (1997), si rese conto che, per migliorare le condizioni di vita dei popoli del Sud, si avrebbe dovuto preventivamente cambiare il sistema occidentale nella sua interezza. Con il libro La déraison de la raison économique (2001) Latouche aveva già iniziato a gettare le basi di una società «altra» persino in Occidente. Era logico, quindi, dopo anni di feroci critiche rivolte all’Occidente, aspettarsi un periodo di riflessione in cui egli affinasse la sua ricerca ed arrivasse all’elaborazione di un progetto del tutto nuovo. Latouche è riuscito ad individuare, durante il suo soggiorno nei paesi del Terzo mondo, tre caratteristiche chiave delle società altre: 1. Il distaccamento sia dall’ideale di sviluppo, inteso anche nella moderna ed ambigua accezione di sviluppo sostenibile (cfr. Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 73), sia dal perseguimento della crescita economica. 2. Il rilievo che ricopre la rete di relazioni sociali, sovente molto fitta. 3. Un’attenzione particolare all’aspetto ambientale, cosa tanto importante quanto innovativa rispetto all’ideologia prevalente dell’epoca.30

29

Si segnala, per conoscere in dettaglio gli atti del convegno, il libro Disfare lo sviluppo per rifare il mondo (llich, Latouche et al, 2005), che annovera un sunto di tutti gli interventi dei partecipanti alle conferenze. 30 La dimensione ecologica non era trattata diffusamente dagli economisti contemporanei a Latouche, che riuscierà ad includere l’aspetto ambientale nella sua critica al sistema occidentale soltanto con il saggio Il Pianeta dei naufraghi (1991).

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Di qui alla postulazione di una società di decrescita, il passo è stato relativamente breve. Per queste tre ragioni, essa non rappresenta un’alternativa, quanto piuttosto, come ama ripetere Latouche, una «matrice di alternative» (Latouche, 2007a): essa condensa in una sola parola d’ordine un insieme di aspirazioni a cui Latouche, dopo averle individuate, ha dato ordine e rigorosità, costruendo un sistema ad un tempo coerente e rispettoso nei confronti dell’università e dell’ambiente. Anche in questa sezione si proporrà, data la numerosità di opere pubblicate in un così breve arco di tempo, una loro suddivisione in due sottoperiodi ed una loro classificazione tematica (vedi Tabella IV.3). TABELLA IV.3. Le opere e i temi nel tempo del Latouche maturo, 2002-2010.

Temi

Critica allo sviluppo

Critica all’economia

Sottoperiodo 1 2002-2005 Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo (2002) Decolonizzare l’immaginario (2003) Come sopravvivere allo sviluppo (2004) Giustizia senza limiti (2003) L’invenzione dell’economia (2005)

Decrescita

Gli esclusi del Terzo mondo

Sottoperiodo 2 2006-2010

La scommessa della decrescita (2006) Breve trattato sulla decrescita serena (2007) Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana (2008)

Fonte: nostra elaborazione. Si veda la bibliografia per dettagli sulle varie opere.

Come mostra la Tabella IV.3, si possono delineare quattro grandi temi: 1. la critica allo sviluppo; 2. la critica all’economia; 3. la decrescita; 4. gli esclusi del terzo mondo;

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Con un semplice sguardo alla suddivisione per aree tematiche, si nota come Latouche abbia scelto di esaurire l’argomento relativo alla critica allo sviluppo ed alla critica economica prima di affrontare il tema della decrescita.31 Per quanto riguarda il primo punto, l’economista francese illustra come lo sviluppo sia in realtà la causa, e non la soluzione, della povertà sia a livello nazionale che a livello mondiale. La critica all’economia invece adotta una varietà di approcci (storico ed analitico, oltre che epistemologico, gnoseologico (Latouche 2005a) e sociologico (Latouche, 2003)) per indicare come l’economia occidentale non sia altro che il risultato di artifici costruiti nel tempo dagli economisti (Latouche critica in particolare l’apporto di Adam Smith (1759) e (1776)). Il tema della decrescita nasce dalla decostruzione dell’economia occidentale così come riportata nei libri precedenti per proporre questa volta qualcosa di nuovo, ispirato al modello delle società altre dell’Africa e del Sud-est asiatico. Il quarto tema, quello degli emarginati del Terzo mondo, si può ritrovare, al pari dei primi due, già nelle opere inquadrabili nel periodo del Latouche adulto. Esso però, così come trattato in questa fase, presenta la caratteristica particolare di proporre ai paesi del sud del mondo un’economia di decrescita per interrompere il rapporto di dipendenza «economica e culturale» con i paesi del Nord (2008b, trad. it. 2009, p. 61). Così facendo, essi sarebbero capaci di ritrovare l’autonomia produttiva che col tempo è andata persa. È questa «la prima tappa» da raggiungere, sostiene Latouche (2008b, trad. it. 2009, p. 61).

4.4.1 – Principali opere del Latouche maturo Anche in questo caso procederemo con l’analisi cronologica delle opere di Latouche. Rimane valido l’invito a rapportare ogni libro al più vasto percorso operato dall’economista francese.

31

La critica allo sviluppo e all’economia era già stata introdotta nel periodo del Latouche adulto. Faut-il refuser le développement? (Latouche, 1986) affronta per la prima volta il tema della critica allo sviluppo, mentre Le procès de la science sociale (Latouche, 1984), Immaginare il nuovo (Latouche, 2000) e L’invenzione dell’economia (Latouche, 2001) riguardano la critica all’economia occidentale.

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Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo (2002) e Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo (2003)

È bene considerare questi due libri congiuntamente, poiché essi, come la quasi congruenza del titolo lascia trasparire, presentano più di una caratteristica comune. Il secondo infatti non è che una riedizione del primo, pubblicato contemporaneamente alla conferenza tenutasi alla sede dell’UNESCO a Parigi (2002). Le due versioni differiscono in quanto quella più recente sottolinea maggiormente la necessità di uscire da una mentalità collettiva orientata alla crescita per poter far posto ad un altro ideale, quello di decrescita. Entrambi i libri sono costruiti sottoforma di intervista all’economista francese, ad opera di Roberto Bosio. Latouche riafferma con le sue risposte che il modello occidentale di sviluppo è giunto a un punto critico, arrivando a provocare anche irreparabili conseguenze a livello ambientale e umano. L’assurdità dell’economia (termine finito nel titolo) risiede nel fatto che da un lato essa si preoccupa di migliorare le qualità di vita delle persone, e dall’altro essa genera fame e povertà. Di fronte a ciò, Latouche avverte la necessità non solo di rallentare, ma addirittura di arrestare questa corsa allo sviluppo, prima che le ricadute negative diventino palesemente superiori a quelle positive. A questa analisi critica, non certo nuova nella trattazione di Latouche, ne viene però giustapposta un’altra, più creativa. Essa tenta di essere capace di donare speranza in un mondo altrimenti condannato a perenni ingiustizie e sofferenze. Latouche non nega che, anche in Occidente, nascano oasi che reclamano un nuovo pensiero creativo che vuole stili di vita sociale ed economica più equilibrati e più giusti, basati su un equilibrio pacifico mondiale più profondo e più vero. Questa cultura, inizialmente intravista unicamente nelle popolazioni dei naufraghi dello sviluppo, scopre di avere un seguito più vasto. Esso trova la ricchezza non nel profitto monetario, ma nell’incontro con le persone. Lo stile di vita basato sullo scambio e sul dono valorizza le relazioni umane e migliora Ia quaIità

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della vita, come nel caso della “banca del tempo”,32 fonte di inesauribile benessere perché in esso consiste la pienezza della vita (Latouche, 2002).

Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in una economia globalizzata (2003)

Tramite questo libro, Latouche (2003) conduce una nuova critica rivolta all’economia occidentale. Le argomentazioni riportate dall’autore si muovono seguendo un approccio questa volta di tipo filosofico. Il libro è diviso in tre parti: 1. il paradosso etico dell’economia; 2. l’ingiustizia del mondo; 3. porre rimedio all’ingiustizia economica. Il primo punto sottolinea la necessaria relazione tra economia ed etica, relazione che le scienze sociali cercano di sopprimere. Se già lo stesso Machiavelli definiva “giusto” ciò che aveva successo e non ciò che era conforme alla morale cattolica della chiesa, è probabile che al giorno d’oggi l’unica divinità presente a dar senso all’economia occidentale sia la legge dell’efficienza. La prima parte indaga come l’economia e i suoi derivati (la finanza, la concorrenza, la divisione del lavoro) possano contribuire alla realizzazione della giustizia. La disamina di Latouche è impietosa: «Un esame, anche superficiale, dei testi sull’argomento mostra immediatamente che le condanne degli aspetti più finanziari della speculazione mercantile hanno di gran lunga la meglio sui giudizi positivi» (Latouche, 2003a, p. 32). La ragione di questa affermazione viene ricondotta al pensiero aristotelico, che condannava, definendola crematistica,33 la ricerca del profitto attraverso i rapporti mercantili. È così che, anziché utilizzare il surplus ottenuto dallo scambio mercantile per ottenere ciò di cui si ha bisogno, si è finiti per minimizzare i costi, massimizzare i guadagni ed accumulare il capitale in 32

Le banche del tempo sono delle associazioni che fungono da intermediari nello scambio gratuito di tempo. Ciascun socio mette a disposizione degli altri soci qualche ora del suo tempo libero, per offrire prestazioni di servizi come piccole riparazioni o semplice assistenza. Il tempo così offerto dà diritto a ricevere una o più prestazioni di durata complessivamente uguale a quella da lui eseguita. 33 Intesa nella sua accezione più vergognosa, ossia la gretta accumulazione di beni e denaro (Moses, 2005).

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un circolo fine a se stesso. La morale è stata definitivamente separata dall’economia grazie all’avvento dell’economia politica ed al duplice contributo del suo fondatore Adam Smith (Latouche, 2003a, p. 43): 1. In The Theory of Moral Sentiments (1759), Smith divide artificiosamente la sfera privata da quella economica; 2. Ne La ricchezza delle nazioni (1776), libera la sfera economica del sospetto di immoralità dimostrando che il perseguimento dell’interesse personale contribuisce normalmente attraverso la mano invisibile al bene comune. Il risultato è evidente: i valori che hanno preso il sopravvento sono quelli derivati proprio dall’interesse personale, come l’egoismo, la concorrenza ed il consumo (Latouche, 2003a, p. 85). Latouche sottolinea perciò la necessità di recuperare sia i valori originari, sia il senso di giustizia. La seconda parte del libro è in realtà un approfondimento della critica al sistema economico nel suo complesso già iniziata con la prima parte. In essa Latouche dà una spiegazione al motivo per il quale né si è realizzata la rivoluzione proletaria profetizzata da Marx, né sarà facile sovvertire il sistema occidentale in qualsivoglia modo: il sistema occidentale ha colonizzato le menti degli individui, al Nord come al Sud, esercitando un dominio del loro immaginario (Latouche, 2003a, p. 105). Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: lavoratori in Indonesia esposti a sostanze cancerogene con tassi di concentrazione decine, se non centinaia, di volte più alti rispetto a quelli consentiti, star pagate milioni per pochi secondi di pubblicità, inquinamento dell’ambiente tollerato o non tenuto sotto sufficiente controllo. «Tutti fanno (…) il loro lavoro nel modo migliore» (Latouche, 2003a, p. 138). Il teorico della decrescita conclude la seconda parte del suo libro con un’arringa a favore di un protezionismo «dichiarato e, se possibile, equo» (Latouche, 2003a, p. 176), che protegga la società e l’ambiente dagli effetti deleteri di una concorrenza sregolata.

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Nella terza parte del libro, infine, Latouche abbozza i tratti di quel che potrebbe significare una società giusta nel contesto di un mondo devastato dall’economia, insieme unificato e diviso dal mercato. Egli, ancora una volta, richiama l’attenzione sulla necessità di «uscire dall’economia e riappropriarsi del denaro e del mercato» (Latouche, 2003a, p. 211).

Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario alla costruzione di una società alternativa (2004)

Come sopravvivere allo sviluppo (Latouche, 2004, trad. it. 2005) potrebbe definirsi a nostro avviso una perfetta sintesi dei temi trattati da Latouche fino a quel momento. In questo agile libro non manca nulla: esiste la pesante critica al concetto di sviluppo che da nome al libro, già incominciata in Faut- il refuser le développement? (Latouche, 1986),34 esiste la critica al più generale sistema economico occidentale osservata ne L’occidentalizzazione del mondo (Latouche, 1989),35 esiste la denuncia della situazione africana osservata ne L’altra Africa (Latouche, 1997),36 esiste infine il richiamo al concetto di phrónesis già presente ne La sfida di Minerva (Latouche, 2000a). 37 Ma in questo libro, per la prima volta, Latouche parla esplicitamente di decrescita. Ad essa è dedicata una parte fondamentale del libro. Si tratta di dodici pagine, peraltro incastonate nel capitolo intitolato Come uscire dallo sviluppo. Significativo che la prima volta che si parla di decrescita essa venga direttamente proposta come soluzione ai danni causati dal modello sviluppista occidentale.

L’invenzione dell’economia (2005)

Analogamente a quanto accaduto per i due libri usciti nel 2002-2003, questo libro potrebbe considerarsi a tutti gli effetti un aggiornamento dell’omonimo libro pubblicato nel 2001 solo in lingua italiana. Al contrario, bisognerà attendere l’inizio del 2010 perché questa “nuova

34

Cfr. Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 25-29 Cfr. Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 23. 36 Cfr. Latouche, 2004, trad. it. 2005, pp. 64-73. 37 Cfr. Latouche, 2004, trad. it. 2005, pp. 91, 92. 35

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edizione” sia pubblicata anche in Italia. La versione del 2001 e del 2005 sono molto simili: quest’ultima ne riprende infatti sia la struttura a saggi, sia gli argomenti. Dai sette saggi iniziali,38 ne sono stati aggiunti tre di nuovi: 

L’antieconomico di Aristotele: è un saggio scritto risalente agli anni ottanta. Esso consiste in un commento al Capitolo 8 del quinto libro dell’Etica nicomachea, «il testo economico più importante tra quelli che ci rimangono dell’antichità» (Latouche, 2005a, trad. it. 2010, p. 31). Latouche mette in evidenza come Aristotele si trovi nell’indecisione se propendere per un sistema (adottando la terminologia attuale) liberalista o dirigista, e come egli condanni fermamente l’accumulazione di ricchezza fine a se stessa.

L’invenzione del lavoro nell’immaginario sociale. L’economista francese spiega come in realtà il lavoro non sia altro che una invenzione storica che la borghesia ha creato nell’immaginario della collettività. Da questa forzatura è poi scaturita l’invenzione dell’economia stessa, basata per l’appunto sul lavoro. Se è vero che il lavoro nobilita l’uomo,39 ecco che il volontariato ed il lavoro non retribuito perdono d’importanza nella società (Latouche, 2005a, trad. it. 2010, p. 59)

L’autodistruzione dell’umanesimo liberale. Il paradosso della sintesi smithiana, ovvero il dottor Adam e mister Smith è il saggio conclusivo della raccolta, ed analizza le evidenti posizioni di Adam Smith in materia di filosofia morale. Esse, a detta di Latouche, sono tanto evidenti da poter asserire che la Teoria dei sentimenti morali (Smith, 1759) e la Ricchezza delle nazioni (Smith, 1776) potrebbero essere state scritte da «due autori diversi» (Latouche, 2005a, trad. it. 2010, p. 183). Evidenti sono i collegamenti con quanto già scritto in Giustizia senza limiti (Latouche, 2003).

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Si veda la Sezione 4.3.1. Latouche ricorda ironicamente che nell’antichità, al contrario, i nobili si distinguevano proprio perché potevano permettersi di non lavorare (Latouche, 2005a, trad. it. 2010, p. 62). 39

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La scommessa della decrescita (2006)

È stato soltanto quattro anni fa che Latouche (2006b) ha pubblicato il libro che lo ha consacrato come uno dei più grandi teorizzatori della decrescita. Egli aveva già accennato al concetto di decrescita nel suo precedente libro, ma ha ritenuto doveroso organizzare una trattazione più completa in un libro che esaurisse integralmente l’argomento. Partendo dai punti deboli di un’economia basata sulla crescita economica (primo fra tutti la dipendenza dall’aumento del prodotto interno lordo per evitare crisi sistemiche), si mostra come questa economia conduca ad una spirale in cui la crescita del presente è necessaria per fornire supporto alla crescita ed alla tranquillità economica future. L’unica via per uscire da questa spirale è quella della decrescita, ossia un sistema economico che non faccia dell’incremento del benessere economico il suo cardine. Latouche ci tiene a precisare subito che “decrescere” non significa retrocedere, bensì sottrarsi all’immaginario della crescita, adottando valori e modelli di riferimento alternativi, che hanno molti punti in comune con le società altre del Sud del mondo. Molti problemi vengono presi in considerazione: dalla questione del Terzo mondo (ha anch’esso «diritto alla decrescita»? (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 157)) alla questione demografica (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 86-93). A tutti queste problematiche Latouche riesce a rispondere esaurientemente e con argomenti convincenti, segno di una profonda riflessione preliminare alla stesura del libro. Latouche indaga inoltre come sia possibile realizzare a livello concreto una società di decrescita. Esemplare in questo senso è il “programma delle otto R”, con il quale Latouche ha evitato l’ideazione di una società utopica mediante la proposta di otto punti pratici che consentano di realizzare un sistema incentrato sulla decrescita. Si rimanda al capitolo successivo per un’analisi di questi punti.

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 Breve trattato sulla decrescita serena (2007) Un anno dopo, Latouche decide di pubblicare un libro più agile, che riesca a riassumere i concetti espressi ne La scommessa della decrescita (Latouche, 2006b) e li riproponga in un modo più accessibile anche ad un pubblico non informato. Ciononostante, «pur riprendendo in forma sintetica le principali conclusioni della Scommessa della decrescita (…), questo opuscolo ha una propria originalità. Infatti integra i nuovi sviluppi della riflessione sull’argomento, in particolare quelli che si sono prodotti con i dibattiti promossi dalla rivista Entropia» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 8).40 Il libro si articola in soli tre capitoli: 1. Nel primo, Il territorio della decrescita, viene illustrata la definizione del termine (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 17) e spiegato il motivo che rende la decrescita necessaria: la dannosità del sistema di crescita. 2. Nel secondo, La decrescita: un’utopia concreta, si riporta la spiegazione del circolo virtuoso delle otto R. Questo circolo non implica un ritorno al passato (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 56), al contrario, esso può essere utilizzato al fine di ridare slancio alle società del Sud. 3. Nel terzo, La decrescita, un programma politico, Latouche (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 84-87) elenca alcune misure da adottare al fine di instaurare il circolo virtuoso da lui ideato. Ai nuovi apporti della rivista Entropia inseriti nel Breve trattato sulla decrescita serena (Latouche, 2007), nonostante le iniziali dichiarazioni dell’autore (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 8) è stato riservato uno spazio decisamente ristretto se rapportato al contenuto complessivo del libro. L’apporto della rivista riguarda essenzialmente il tema della politica economica della decrescita. In particolare, si fa notare come il virtuoso “ciclo delle otto R” 40

La rivista Entropia è una rivista nata nel 2008, che si occupa, attraverso studi teorici e politici, di definire i problemi di attuazione politica di una società basata sulla decrescita.

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analizzato da Latouche (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 102 sgg.) possa essere confrontato con una analoga serie di espressioni coniate da Michael Sin

gleton, indicanti i danni del

sistema termoindustriale, tutte provviste di suffisso privativo “de-”: «delocalizzazione industriale, deflazione monetaria, delusione politica, demotivazione culturale, demistificazione religiosa» (Singleton, 2006, p. 53, cit. in Latouche, 2007, trad. it. 2008).

Mondializzazione e decrescita. L’alternativa africana (2008)

Cedendo alle pressioni di un suo amico, Latouche nel 2008 pubblica una raccolta di saggi inediti sul tema del Terzo mondo, tutti di recente redazione. Dei sei saggi di cui si compone il libro, cinque sono stati scritti nel quadriennio 2004-2007, soprattutto in occasione di convegni o conferenze, e il restante saggio nel 2000. Uscito proprio agli albori della crisi economica e sociale mondiale, Latouche (2008b) rivaluta l’importanza delle relazioni comunitarie e della felicità individuale: sono senz’altro questi i due pilastri di un futuro che lui considera sostenibile. È all’Africa che la società occidentale deve guardare per trovare un esempio di saggezza, di sobrietà e di convivialità (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 44). Ai valori africani, così poco attinenti alla sfera economica, il teorico della decrescita contrappone con pesanti critiche la logica di accumulazione e di individualismo tipica del nostro sistema. Mirabile è il paragone fra le determinanti dei rapporti sociali in Occidente e dell’Africa altra: nel primo caso determinarli è il mercato, nel secondo caso, è un’ottica non piegata alle logiche del profitto, le cui determinanti si basano sui rapporti sociali della famiglia, della comunità, della rete locale (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 89). Una società basata su questi valori potrebbe sembrare un miraggio, ma Latouche fornisce una versione più rassicurante: essa è tutt’altro che un miraggio impossibile. «L’importante è sancire la rottura con la campagna di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo, o, come si dice oggi, di mondializzazione» (Latouche, 2008b, trad. it. 2009). 116


Abbandonando la moderna concezione di sviluppo, per definizione impossibile da raggiungere pienamente, si spalancano le porte verso una società conviviale, nell’accezione che Ivan Illich ne dà: «il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci» (Illich, 1973, p. 11). In questo contesto si inserisce perfettamente il paradigma della decrescita: essa non è infatti una “prerogativa” degli Stati ricchi, ma al contrario essa è in grado di mostrare numerosi frutti anche se applicata alle società del Sud del mondo. La decrescita non comporta una crescita negativa, ma piuttosto una a-crescita, una sottrazione cioè dalla logica di crescita. Cercare di «sostenere, o, peggio ancora, introdurre la logica della crescita nel Sud con il pretesto di farlo uscire dalla miseria creata da quella stessa crescita condurrebbe a un’ulteriore occidentalizzazione» (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 56). È invece necessario instaurare una società autarchica, che sia in grado di ridare autonomia agli stati del Terzo mondo, e indebolisca la dipendenza con gli stati occidentali.

4.4.2 – Le due principali opere del Latouche maturo – Un’analisi Nella prima parte del terzo millennio, Latouche ha prodotto un gran numero di pubblicazioni. Questo è sintomo di una grandissima fertilità del suo pensiero nella fase della maturità. Cercheremo di inquadrare meglio il suo percorso mediante l’analisi di due opere che illustrano a nostro avviso meglio delle altre l’ideologia dell’autore in questo periodo. 

La prima è Come sopravvivere allo sviluppo (2004), che meglio degli altri libri conduce una critica al concetto di sviluppo, inserendo per la prima volta il concetto di decrescita all’interno delle sue argomentazioni;

117


la seconda – appare una scelta obbligata – è La scommessa della decrescita (2006b), capace di chiarire esattamente la posizione dell’autore in merito alla questione della decrescita.

 Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario alla costruzione di una società alternativa (2004) Scopo di questo libro è quello di analizzare, da prospettive diverse, lo sviluppo ed i problemi da esso creati. Il libro propone allo stesso tempo delle soluzioni in grado di risolvere questi problemi o di arginarne gli effetti negativi. L’opera si compone di cinque capitoli, ognuno dei quali indaga una specifica caratteristica dello sviluppo. Non compare nei titoli dell’indice il termine “decrescita”: il lettore potrebbe domandarsi come mai l’autore non abbia trattato di questo tema in maniera più esplicita. Come l’autore spiegherà nella premessa, questo compito sarà svolto da «un’opera specifica» (Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 7), riferendosi evidentemente a La scommessa della decrescita (Latouche, 2006b), pubblicata due anni dopo. Il primo capitolo, Vita, morte e risurrezione di un concetto, racconta come l’ideale di sviluppo sia stato letteralmente imposto ai paesi del Sud senza che venissero preventivamente accertate le effettive condizioni di fattibilità di un simile trapianto. L’opera di occidentalizzazione del globo ha fallito sostanzialmente il suo obiettivo, per due ragioni fondamentali: 1. Negli stati del Terzo mondo mancava completamente il substrato organizzativo compatibile col modello di sviluppo imposto; 2. L’impossibilità fisica di universalizzare lo sviluppo rendeva il progetto inattuabile in partenza: «la finitezza del pianeta renderebbe il tentativo di generalizzazione del modello di vita americano impossibile ed esplosivo» (Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 16). 118


FIGURA IV.5. Indice del libro Come sopravvivere allo sviluppo (Latouche, 2004, trad. it. 2005)

Fonte: Latouche (2004, trad. it. 2005, p. 4-5)

Ultimamente, però, secondo l’autore, l’idea di sviluppo occidentale è ritornato in auge proprio da coloro che ad essa hanno mosso delle critiche (Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 22). Ecco perché Latouche, più che combattere l’idea di sviluppo, cerca piuttosto di eliminarla dall’immaginario sociale. Il secondo capitolo, Lo sviluppo come mito e come realtà, occupa appena cinque pagine. Latouche spiega come lo sviluppo sia in realtà il nuovo nome del colonialismo di cinquecentesca memoria. Esso viene denotato da una connotazione generalmente positiva, ma in realtà esso, ricorda l’economista francese, è prima di tutto il frutto dell’occidentalizzazione del mondo (Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 28).

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Il terzo capitolo è intitolato Le declinazioni dello sviluppo. Con quest’espressione si intendono tutte le connotazioni date nel tempo al termine sviluppo. L’autore ne analizza criticamente alcune: 

Lo sviluppo sociale è a detta dell’autore al contempo un pleonasmo, poiché esso non può che riguardare la società, ed un ossimoro, in quanto «lo sviluppo realmente esistente non può non produrre l’ingiustizia sociale» (Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 33);

Sviluppo umano. L’Indice di Sviluppo Umano, 41 nonostante i buoni propositi di misurare correttamente il benessere di uno Stato, non esce dall’immaginario economico occidentale;

Lo sviluppo locale è un altro ossimoro, dal momento che esso risponde a logiche mondializzanti e non certo localiste;

Il terzo ossimoro è lo sviluppo durevole, in quanto per sua stessa natura legato ad un mondo finito, con limiti ben precisi quanto sconosciuti.

Il quarto capitolo, L’impostura sviluppista, racconta come la parola sviluppo non sia neanche compresa nel vocabolario di alcune popolazioni africane, che ricorrono a locuzioni nominali per ovviare a tale carenza (Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 62). Latouche spiega come sia infondata la credenza che lo sviluppo sia la cura per la situazione di miseria dei paesi del Sud del mondo tramite l’esposizione dei tre paradossi del trickle down effect già esposti ne L’altra Africa (1997).42 In Uscire dallo sviluppo, quinto ed ultimo capitolo del libro, Latouche (2004) mostra come la decrescita, staccandosi dall’immaginario creato dall’economia occidentale, riesca in realtà a proporsi come l’unica alternativa in grado allo stesso tempo di far respirare sia un pianeta

41

L’Indice di Sviluppo Umano, o Human Development Index (HDI), è un indice che misura il benessere interno di uno Stato, prendendo in considerazione oltre al Pil anche caratteristiche non monetarie quali l’alfabetizzazione e la speranza di vita (fonte: Wikipedia). 42 Si rimanda a tal proposito alla Sezione 4.3.2.

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sovrasfruttato, sia le popolazioni martoriate dallo sviluppo occidentale, alle quali viene proposto come unica possibile medicina per sollevarle dalle loro condizioni di degrado.

 La scommessa della decrescita (2006) Latouche ha “aspettato” ben quattro anni a partire dalla conferenza Disfare lo sviluppo, rifare il mondo di Parigi (2002) prima di scrivere un trattato completo sulla decrescita. Non lo ha certo fatto per pigrizia (per dissipare questo dubbio è sufficiente dare un’occhiata alla sua produzione saggistica di questo periodo), ma per cautela, volendosi dare tempo e modo di far maturare le idee in merito all’argomento, come già annunciato nella premessa di Come sopravvivere allo sviluppo (Latouche, 2004, trad. it. 2005, p. 7). Il libro si divide in due parti (si veda la Figura IV.6 alla pagina seguente): una prima, intitolata Perché la decrescita?, ed una seconda, intitolata La decrescita, come? I titoli in sé sono esplicativi: la prima parte evidenzia tutte le contraddizioni di un sistema di crescita, come mai era stato fatto nelle opere precedenti. La seconda si preoccupa di esplicitare come una teoria astratta come quella della decrescita possa avere un’attuazione pratica, evitando così che essa venga relegata nella cerchia delle alternative utopiste. L’introduzione si apre con una sconfortante panoramica sulle problematiche ambientali e gli sconvolgimenti climatici in atto sul nostro pianeta, per passare poi ad una breve trattazione in merito alla nascita della decrescita. Interessante il fatto che Latouche, per spiegare la formazione di tale concetto, parta con l’esaminare quando, per la prima volta, la questione ambientale è stata presa in considerazione nell’ambito della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma del 1972 (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 14). Latouche sottolinea infine l’enorme apporto di Nicholas Georgescu-Roegen e, in seguito, della piccola “Internazionale” ispirata alle idee di François Partant, Ivan Illich e Jacques Ellul, di cui Latouche è membro.

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FIGURA IV.6. Indice del libro La scommessa della decrescita (Latouche, 2006b, trad. it. 2010)

Fonte: Latouche (2006b, trad. it. 2010, p. 17-18)

Il nostro autore decide di inaugurare la parte prima del libro con il capitolo eloquentemente intitolato L’inferno della crescita. Si mostra come un sistema (socialista o capitalista) incentrato sulla crescita non possa sperare di perdurare indefinitamente. E ciò perché la produzione non può aumentare all’infinito, essendo le risorse non solo limitate, ma addirittura sottoposte ad un processo di impoverimento qualitativo. A tal proposito egli cita Nicholas Georgescu-Roegen ed il suo “quarto principio della termodinamica”: «possiamo riciclare le monete di metallo usate, ma non le molecole di rame dissipato attraverso l’uso» (Bonaiuti, 2001, p.140, cit. in Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 28). Latouche continua la sua analisi indicando come, allo stato attuale, le risorse siano utilizzate a ritmi insostenibili. Stiamo prelevando cioè dal pianeta più risorse di quanto esso sia in grado di rigenerare tramite processi naturali. Le foreste

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vengono abbattute, la fauna depredata, le acque inquinate. 43 Se si vuole accrescere la produzione, saranno necessari sempre più input necessari a realizzare i prodotti finiti, ma ciò si scontra inevitabilmente con la scarsità delle risorse naturali. Il capitolo successivo, Si può mettere il vino nuovo in vecchie botti? Decrescita, “disvalore” e misura del benessere, consiste in una sostanziale critica alla più nota misura del benessere: l’indice del Pil. Latouche, forte della sua pluriennale esperienza in Africa e nel sud-est asiatico, dove la vita è maggiormente scandita dalle relazioni sociali e dall’ottica del dono, non può accettare che il benessere di uno Stato venga misurato unicamente in base alla quantità di beni e servizi finali prodotti dall’economia in un anno. Egli passa quindi in rassegna una serie di indicatori alternativi, come i già citati HDI, GPI ed il Pil verde,44 enumerandone i pregi ed i limiti. In conclusione del capitolo, egli afferma che la decrescita non si propone tanto di cambiare la misurazione del benessere al fine di decolonizzare l’immaginario della società, ma di decolonizzare primariamente l’immaginario della società. Usando le parole di Latouche, «Rivalutare viene prima di riconcettualizzare» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 59). Il vino nuovo, ossia la decrescita, non potrà in definitiva essere messo nelle vecchie botti dell’immaginario colonizzato dai valori dominati dal sistema occidentale. Decrescere o arretrare? Con questa nuova domanda, che dà il titolo al terzo capitolo, Latouche esegue una netta dicotomia tra questi due concetti, spesso, per disinformazione, pericolosamente accostati. «Decrescita non significa recessione» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 62). Certamente, i settori che dimostrino una spiccata insostenibilità a livello ambientale saranno costretti ad effettuare un deciso cambio di marcia, ma questa regola non

43

Nello specifico, egli richiama un rapporto del Wwf del 2000, che informa come l’umanità consumi un totale di 2,2 ettari pro capite di spazio bioproduttivo (in altre parole, l’impronta ecologica mondiale pro capite è di 2,2gha) a fronte di un massimo di 1,8 ettari pro capite disponibili. L’ultimo rapporto del Wwf è tutt’altro che incoraggiante. Esso, pubblicato il 13 ottobre 2010, evidenzia come il trend positivo del consumo globale di risorse non si sia arrestato nemmeno nel nuovo millennio. Anzi, tale consumo nel 2007 è salito a 2,7gha pro capite, a fronte sempre di 1,8gha complessivi pro capite disponibili (Pollard, 2010, p. 32). Ci vorrebbe un anno e mezzo per rigenerare tutte le risorse consumate nel 2007, ed il trend non mostra segni di flessione. 44 Si veda il Capitolo 2.4.2.

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varrà a livello assoluto in ogni campo dell’economia. La decrescita si propone di eliminare gli sprechi soprattutto a livello energetico e delle risorse. Di particolare interesse è il Capitolo 4: decrescita e sostenibilità. La resilienza dello sviluppo. Latouche aveva già ripetutamente parlato di sviluppo in passato,45 e di come questo debba essere giudicato un male in senso lato. Non si era mai pronunciato sino a quel momento, però, sul concetto di sviluppo sostenibile. Esso sembrerebbe un concetto compatibile con una società ispirata alla decrescita, o certamente più compatibile rispetto allo sviluppo tout court. E invece, Latouche presenta a sorpresa lo sviluppo sostenibile ad un tempo come ossimoro e pleonasmo: 

Sviluppo sostenibile come ossimoro: lo sviluppo inserito in un ottica di crescita è votato unicamente ad un aumento della produzione. Poiché la produzione non può aumentare indiscriminatamente per colpa della scarsità delle risorse, lo sviluppo sostenibile è da considerarsi ossimorico;

Sviluppo sostenibile come pleonasmo: se si considera che lo sviluppo è un elemento imprescindibile in una società di crescita al fine di permettere a quest’ultima di reiterare nel tempo, lo sviluppo sostenibile è da considerarsi pleonastico.

Il quinto capitolo si intitola È necessaria una decrescita demografica? ed introduce una tematica del tutto nuova nella trattazione di Latouche. Egli si rende conto che neppure la crescita demografica, al pari degli altri tipi di crescita analizzati, può sottrarsi al tema della decrescita. Sarebbe da sprovveduti pensare che una crescita demografica illimitata sia gestibile coi mezzi che il pianeta mette a disposizione (Latouche, 2005a, trad. it. 2010, p. 89). Latouche non pone in questo caso una soluzione a quello che non è ancora diventato un problema, ma a nostro avviso lascia evidentemente trasparire un’apertura in favore di un controllo delle nascite.

45

Si veda, per esempio, Latouche, (1986) e (2004).

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Si conclude così la prima parte del libro. La seconda si occupa di individuare le modalità con le quali si possa instaurare una società di crescita. Latouche propone a tal fine una soluzione, esplicata nel cosiddetto “programma delle otto R”, che occuperà i quattro capitoli successivi (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 101-117, 118-128, 129-138, 139-156): rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. FIGURA IV.7. Lo schema della logica delle otto R.

Riciclare

Rivalutare

Riutilizzare

Riconcettualizzare

Ridurre

Ristrutturare

Ridistribuire

Rilocalizzare

Fonte: nostra rielaborazione da Latouche (2006b, trad. it. 2010, p. 102).

L’ordine è tassativo ed ognuno di questi concetti (che analizzeremo appropriatamente nel prossimo capitolo) ha una sua collocazione ben precisa nel disegno generale, che potrebbe essere visto come un circolo (vedi Figura IV.7). Con una nuova domanda, Il Sud avrà diritto alla decrescita?, Latouche presenta un capitolo, il decimo, destinato a sfatare un altro mito creatosi col tempo intorno alla decrescita. Questa parte del libro è sostanzialmente una ripresa dei concetti presentati nel libro Mondializzazione 125


e decrescita (2007), con una novità sostanziale: l’inserimento delle società del Sud all’interno del circolo delle otto R, integrando l’insieme dei concetti, come rompere, riprendere, ritrovare e così via. È necessario incominciare col rompere, sottolinea Latouche, «con la dipendenza economica e culturale rispetto al nord» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 161). Contemporaneamente, le società del Terzo mondo devono riprendere il cammino dall’istante che ha preceduto l’arrivo dei colonizzatori europei, per poter finalmente ritrovare «la propria specifica identità cuturale» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 162). L’ultimo capitolo del libro, intitolato Ecofascismo o Ecodemocrazia, evidenzia come la decrescita debba mettere dei paletti alla produzione economica di uno Stato compatibilmente alla sostenibilità ambientale, senza però trasformarsi in un ecofascismo che impedisca la libera iniziativa economica dei cittadini. Latouche (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 173) su questo punto è ottimista: una volta decolonizzato l’immaginario, i comportamenti virtuosi verranno da sé, rendendo possibile quella che Latouche definisce ecodemocrazia. Si rispetterà quindi l’ambiente non perché si è obbligati a farlo, ma perché lo si sentirà come necessario. Il libro si conclude ricordando che le catastrofi naturali o quelle dettate da attività umane sono dei sintomi di un profondo stato di sofferenza del pianeta. Si arriverà un punto in cui la decrescita diventerà necessaria. Meglio arrivare ad essa serenamente e con preparazione, piuttosto che trovarsi ad affrontare l’abisso.

4.4.3 – Il pensiero del Latouche maturo – Le caratteristiche La scommessa della decrescita (Latouche, 2006b) segna l’arrivo di un cammino durato oltre quarant’anni. Un cammino fatto di scoperte, di ravvedimenti, di cambi di prospettiva, di prese di posizione, di valutazioni cangevoli. Ogni uomo è frutto del suo tempo, e questo si dimostra particolarmente vero nel caso di Serge Latouche. Egli aveva fin da subito mostrato insofferenza per il sistema occidentale, ma in un primo momento non fu in grado di identificare l’oggetto della sua critica. Inizialmente ipotizzò che questo coincidesse con l’economia capitalista, accorgendosi ben presto che questa ipotesi non reggeva ad un’analisi più accurata. Identificò 126


quindi, nel periodo adulto, il problema nel sistema di sviluppo occidentale: con il procedere delle sue ricerche, egli si convinse sempre di più di questa interpretazione. Per diversi anni egli affinò la sua critica, definendo i contorni di ciò che bisognava proteggere e di ciò che doveva essere cambiato, senza, purtroppo, giungere ad indicare una via soddisfacente su come tale cambiamento dovesse avvenire. In altre parole, dalle sue ripetute critiche focalizzate prima contro il modello economico capitalista, e solo in un secondo momento contro il modello di crescita, non emergeva un’alternativa valida ai sistemi economici presi in esame. La motivazione della sua incapacità di individuare un sistema alternativo a quello già esistente viene fornita solo nel 2003 all’interno del libro Decolonizzare l’immaginario (Latouche, 2003). Qui, egli riporta come il suo stesso immaginario fosse stato colonizzato, col tempo, dall’immaginario della crescita. Per questa ragione la ricerca di una soluzione al sistema economico occidentale fu così difficoltosa. Egli da una parte cercava un sistema economico che non prevedesse la crescita economica, dall’altra non riusciva a descriverne le caratterstiche. Il motivo delle sue ripetute critiche distruttive, tipiche del periodo del Latouche adulto non trova giustificazione in uno sterile astio contro il sistema di crescita. La pars costruens nella sua dialettica è stata concepita gradualmente nel lungo processo di maturazione (da cui il nome di Latouche maturo), sfociato solo con il lavoro del 2006. Il teorico preferì affrontare direttamente l’argomento solo una volta acquisite le conoscenze necessarie a dar corpo alla sua tesi. Ne La scommessa della decrescita (2006b) la critica all’Occidente si inserisce perfettamente in una critica al concetto sia di sviluppo sia di crescita. Una società costruita su questi concetti genera disuguaglianze sociali (Latouche, 1997, p. 98), in secondo luogo alimenta un appiattimento dei valori (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 12), in terzo luogo produce un deterioramento dell’ambiente (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 7). Il progetto sociale della decrescita viene presentato come la chiave che offre una risposta a questi tre problemi contemporaneamente. 127


Certo, Latouche ha dovuto rivedere alcune delle sue iniziali posizioni, modificandole in modo anche sostanziale. Riportiamo a titolo di esempio un emblematico passaggio tratto da L’occidentalizzazione del mondo (1989): «l’obiezione ecologica è discutibile, poiché il carattere finito del mondo è sempre relativo» (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 98). Appena quindici anni dopo, però, Latouche si accorge che «La quantità di foreste, acqua e terra disponibile è limitata» (Roy, 2001, p. 7, cit. in Latouche, 2004, trad. it. 2005. p. 27). Questo giudizio era già ben presente nel rapporto commissionato dal Club di Roma (Meadows et al, 1973) e Latouche ne matura l’importanza grazie alla stretta collaborazione con la piccola “Internazionale” che si era formata intorno a Ivan Illich. Questo può considerarsi solo uno dei passaggi che lo hanno portato all’elaborazione di una teoria relativamente originale nel panorama economico e sociologico italiano. Proprio il fatto che questa «rivoluzione» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 42) interessa ogni ambito del sociale – dal lavoro, alla produzione, alla scala di valori, al concetto di benessere, all’importanza del dono e dell’attenzione per l’ambiente – essa, per riuscire, richiede una preventiva decolonizzazione dell’immaginario della società. Oggi tale immaginario, come Latouche più volte ha avuto modo di illustrare, è dominato dal paradigma della crescita. Il Latouche maturo è consapevole che non sarà facile superare le abitudini della società odierna: non tutti potranno essere disposti ad effettuare gli spostamenti quotidiani in bicicletta o usando i mezzi pubblici, nel rispetto dell’ambiente. Non tutti potranno essere d’accordo nel lavorare di meno – e guadagnare di meno – per passare più tempo con la famiglia o per dedicarsi a momenti di crescita culturale e personale. Tuttavia essi sono passaggi obbligati al fine della creazione di una società non più basata sull’economia, ma sulle relazioni sociali e sui beni non monetari. Evidente in questo senso è l’influenza africana esercitata dal modello di vita e di organizzazione sociale.

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In sintesi, le caratteristiche che contraddistinguono il Latouche maturo sono quattro: 1. La critica non è più relativa al solo sistema economico occidentale, ma è estesa a qualsiasi sistema di crescita (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 26). Crescita e sviluppo sono congiuntamente accusati di tre crimini principali: a. Essi sono forieri di enormi disuguaglianze a livello mondiale. b. Essi sono le cause principali della deculturazione del Terzo mondo. c. Essi sono fautori di un futuro non sostenibile ai ritmi attuali, ritmi peraltro crescenti (per definizione) col passare del tempo. 2. Il fattore ecologico è adesso incluso nell’elaborazione di una società alternativa. Evidenti sono i passi mossi da quanto detto ne L’occidentalizzazione del mondo (Latouche, 1993): il teorico della decrescita ha infatti preso atto «della finitezza della biosfera» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 34). 3. È necessaria, previamente all’adozione di un sistema economico alternativo, una decolonizzazione dell’immaginario collettivo, che porti ad una presa di coscienza su come il sistema di crescita non sia compatibile con un futuro sostenibile (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 22). 4. Il sistema di decrescita è proposto come unica soluzione ai mali causati dal sistema di crescita. Non è d’altra parte concepibile un’alternativa che, pretendendo di garantire un futuro sostenibile, si prefigga di perseguire allo stesso tempo gli ideali di sviluppo e di crescita economica (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 20).

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Capitolo 5

La politica economica della a-crescita

5.1 – Introduzione La tesi fin qui, dopo (Capitolo 2) una breve panoramica illustrativa della nascita della teoria della decrescita e delle motivazioni che ne giustificano l’attualità, si è focalizzata sulla vita e le opere (Capitoli 3 e 4) di Latouche, che del movimento della decrescita è uno dei massimi esponenti. Di Latouche tuttavia finora sono stati presi in considerazione solo le fondamenta e gli aspetti prettamente teorici della sua teoria e le vicende della sua vita che hanno giustificato certe scelte. Come molte altre teorie, anche in questo caso, oltre all’aspetto dell’economia positiva esiste anche un potenziale aspetto dell’economia normativa. Essa sarà oggetto di indagine nel presente capitolo. Questo elemento assume particolare rilevanza nel caso specifico della decrescita, in quanto essa: 

è una teoria di rottura del paradigma economico dominante;

prevede una rivoluzione dei valori del substrato sociale;

presenta diversi punti in via di costituzione, come tutte le teorie di nuova formazione;

annovera una forte componente di idealità nel tentativo di costruire un mondo nuovo e diverso.

131


Un’analisi mirata dell’economia normativa della decrescita permetterà di osservare più da vicino gli obiettivi che essa si prefigge di raggiungere e gli strumenti di cui intende avvalersi per ottenere o favorire il raggiungimento di essi. Come si è detto (si veda la Sezione 4.4.1 del capitolo precedente), il fine ultimo che la decrescita si prefigge, ossia la nascita di una società egualitaria ecologicamente sostenibile, costituisce a nostro avviso un fine troppo generico e utopistico per poter rappresentare l’elemento distintivo di una teoria economica. In effetti la decrescita economica può sfuggire a questa accusa se è in grado di mostrare le misure da mettere in atto e gli obiettivi intermedi da raggiungere al fine di costruire una nuova società. Ci si può chiedere a questo proposito se gli strumenti propri del paradigma della decrescita siano gli stessi della politica economica tradizionale, oppure se essi siano diversi. La Sezione 5.2 offre una trattazione concisa sulla politica economica tradizionale che viene spesso utilizzata per promuovere la crescita economica. Nelle successive due sezioni sarà analizzata la politica normativa secondo Latouche. Più specificamente la Sezione 5. illustrerà il programma delle otto R e la Sezione 5.4 presenterà il «programma di transizione» dall’economia di oggi a quella futura (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 169). Tale programma, elaborato dal teorico della decrescita, si articola in nove punti, i quali saranno analizzati e confrontati nella Sezione 5.5 con la politica normativa tradizionale per far emergere similitudini e differenze tra i due sistemi di politica economica.

5.2 – Politica economica tradizionale Per politica economica si intende la «branca della scienza economica che studia l’intervento dello Stato nel sistema economico e suggerisce gli strumenti da porre in essere affinché siano raggiunti alcuni obiettivi considerati socialmente desiderabili» (Dizionari Simone Online, 2010). La politica economica è quindi parte dell’economia politica. Se quest’ultima possiede una forte parte di economia positiva, la prima è intrisa di una componente normativa. L’economia politica si occupa infatti di fornire di volta in volta le indicazioni, gli strumenti ed i modelli esplicativi per l’attuazione di determinati obiettivi. 132


Da questa definizione di politica economica, emergono sostanzialmente due mansioni che caratterizzano la disciplina: 1. Fissare gli obiettivi; 2. Definire gli strumenti atti a conseguirli. Per quanto concerne il primo punto, sono molteplici gli obiettivi che la politica economica si prefissa di raggiungere, ne citiamo solo alcuni.1 

Garantire la crescita economica della nazione. Questo, per l’economia dominante, appare come l’obiettivo primario del sistema occidentale (OCSE, 2009);

Perseguire uno sviluppo economico equilibrato, che limiti cioè la frequenza e l’ampiezza delle oscillazioni dei cicli economici. Esso è necessario per assicurare la stabilità del sistema nel suo insieme;

Tenere sotto controllo l’inflazione, al fine di evitare brusche fluttuazioni del valore della moneta;

Ridurre il più possibile la disoccupazione.

La teoria economica dominante, cioè quella neoclassica, presuppone che i privati siano in grado il più delle volte di assicurare la piena occupazione dei fattori produttivi (Blanchard, 2009, p. 164) permettendo quindi di raggiungere il massimo livello possibile del reddito nazionale. L’intervento dello Stato non deve perciò turbare le condizioni di equilibrio determinatesi spontaneamente, in altre parole esso deve essere minimo, specialmente in materia di imposte. Gli economisti vedono con sospetto i fenomeni di reranking, in base al quale lo Stato è in grado di modificare il rapporto tra i redditi dei membri della collettività (Bosi, 2010, p. 151). In altre parole, gli interventi dello Stato non devono essere distorsivi, non devono cioè alterare i prezzi relativi di due beni o di due attività economiche (Bosi, 2010, p.

1

Per avere una visuale d’insieme sugli obiettivi primari di politica economica stabiliti dall’OCSE nei confronti di diversi Stati nel 2007, si veda (OCSE, 2009, p. 33)

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185).2 Tuttavia, una completa neutralità dello Stato sulle operazioni di mercato è possibile solo a livello teorico; l’importante è che esso limiti al massimo la sua ingerenza e non cerchi di sostituirsi arbitrariamente agli agenti economici e al meccanismo di mercato. Il secondo aspetto della politica economica tradizionale riguarda l’individuazione degli strumenti da impiegare al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati. A seconda degli strumenti utilizzati, si può parlare di diversi interventi di politica economica. Ne distinguiamo quattro: 1. Monetario. La politica monetaria, prerogativa della Banca Centrale Europea, si occupa in primo luogo di stabilire degli obiettivi sul tasso di inflazione nel medio e nel lungo periodo, ed in secondo luogo di adottare le misure necessarie per raggiungerli. 2. Fiscale. La politica fiscale utilizza come strumento la spesa pubblica e la tassazione per influenzare il livello di domanda e di produzione. La spesa pubblica agisce principalmente sul lato della domanda. La tassazione agisce soprattutto sul lato dell’offerta. 3. Industriale. La politica industriale ha come obiettivo quello di sostenere il settore produttivo attraverso interventi rivolti alla concorrenza, ai servizi infrastrutturali, incluso quelli della ricerca. 4. Commerciale. La politica commerciale si occupa infine di regolare l’import e l’export, di verificare i trattati di interscambio, con l’obiettivo di promuovere la competitività internazionale dell’economia. Gli strumenti della politica monetaria risiedono essenzialmente nella capacità della BCE di fissare la quantità di moneta presente sul mercato. Agendo su quest’ultima, essa riesce ad influire sia sul livello di inflazione sia sul tasso di interesse, e quindi sul livello di attività economica. In periodi di carenza di liquidità, essa può essere indotta a stampare più moneta al

2

Si definiscono per esempio imposte distorsive le imposte che alterano anche uno solo di questi tre aspetti:  il valore del tempo libero e del tempo lavorativo dell’individuo;  le decisioni di consumo o di risparmio nell’arco temporale del consumatore o del risparmiatore;  i prezzi relativi di due beni.

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fine di agevolare la stabilità dei mercati finanziari e reali. Se la politica monetaria è necessariamente decisa a livello europeo, gli altri tre ambiti sono prevalentemente di competenza nazionale. Il primo di questi è la politica fiscale. Attraverso l’utilizzo prevalente della spesa pubblica, lo Stato riesce a stabilizzare la produzione, incentivarla quando necessario in base al livello di tassazione e ripartire nel tempo l’onere del debito pubblico (Blanchard, 2009, p. 575-578). Più articolati sono invece gli strumenti a disposizione della politica industriale: essi comprendono, tra gli altri, incentivi statali rivolti alla produzione, imposte pigouviane, imposizione agevolata, regolamentazioni, sussidi ed agevolazioni. La politica economica può modificare la dotazione dei fattori presenti all’interno del paese, spingendo verso una diffusione della formazione professionale, dell’investimento in ricerca e innovazione, dell’attenzione verso il rispetto ambientale (Vitali, 2008, p. 3). Data la grande varietà di strumenti a disposizione, è bene ricordare che ogni strumento presenta indissolubilmente pregi e difetti, una differente efficienza ed efficacia, un diverso effetto su consumatori e produttori. Per questi motivi spesso la politica industriale non agisce solo su un fronte ma su una pluralità di versanti, che, attraverso numerosi strumenti, mirano al raggiungimento di un obiettivo comune. Gli strumenti utilizzabili ai fini di esercitare la politica commerciale includono infine dazi, tariffe, trattati, controlli quantitativi e valutari. Essi permettono di attuare politiche di incentivazione al commercio con l’estero o, conversamente, di innalzare barriere rivolte ai prodotti importati dall’estero, per difendere la produzione locale.

5.3 – La logica delle otto R Dopo una essenziale quanto necessaria presentazione della politica economica tradizionale, degli obiettivi che essa si prefigge e degli strumenti utilizzabili per il loro raggiungimento, si procederà ora ad esaminare la politica economica secondo il Latouche che abbiamo inquadrato nell’età matura. D’altra parte, nei due Latouche precedenti sarebbe stato difficile 135


un abbozzo di politica economica. È il Latouche propositivo del nuovo millennio che avanza soluzioni, alternative e nuovi modelli ad un tempo economici, politici e sociali, ed è per tutti questi motivi che la nostra analisi verterà essenzialmente su quanto Latouche ha scritto solo recentemente. L’economista francese dedica invero una parte molto importante alla politica normativa della decrescita, tanto da destinare completamente la seconda parte del suo libro La scommessa della decrescita (Latouche, 2006b) all’approfondimento di questo tema. È questo un esempio indicativo della natura fortemente pragmatica delle argomentazioni di Latouche, che ha scelto di non lasciare in sospeso il tema della praticabilità di questo paradigma alternativo. Per questo egli ha provveduto a fornire un abbozzo di quella che potremmo definire fin da ora una politica economica altra, come altro è il sistema economico e sociale che egli propone. Gli obiettivi che egli ritiene raggiungibili grazie alla decrescita sono otto, e, come è solito di Latouche, sono proposti sottoforma di slogan, utilizzando altrettante parole chiave: rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ognuno di questi sarà approfondito in maniera particolare nelle sezioni a seguire.

5.3.1 - Rivalutare Il primo obiettivo da raggiungere riguarda necessariamente una cambiamento dei valori su cui si fonda la società occidentale. I libri pubblicati durante il periodo adulto di Latouche hanno denunciato in maniera molto approfondita e decisa come questi nel tempo si siano progressivamente appiattiti. Illuminante in merito è la citazione di Jean-Paul Besset (2007, p.135, cit. in Latouche, 2006b, trad. it. 2010, pp. 101-102): «la religione dell’eccesso (…) propone un’unica morale – avere, mai abbastanza, abusare, mai troppo, gettare, senza ritegno, poi ricominciare, ancora e sempre. Uno spettro agita le notti di questa umanità, la depressione del consumo. Un incubo la ossessiona, le variazioni del prodotto interno lordo».

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Come non pensare, allora, alla ricchezza culturale e di valori dell’altra Africa dipinta da Latouche (1997)? Egli individua quattro poli attorno ai quali ruota una cultura che, per molti versi, è assai più ricca della nostra: la solidarietà comunitaria,3 la fiducia in se stessi, la capacità di apertura verso gli altri e verso il futuro e l’inserimento organico dell’uomo nell’ambiente (Latouche, 1997, p. 126). Non serve certo cercare lontano per notare la carenza di valori in quella che è stata definita come «la società dei consumi» (Gauthier, 1998, p. 84). È evidente che non solo i dis-valori riportati da Besset, ma anche quelli riconducibili all’individualismo smithiano o all’utilitarismo benthamita (già oggetto di critica da parte del M.A.U.S.S.) che malauguratamente permeano la società occidentale non sono compatibili con una società di decrescita. Si avanza la necessità di recuperare valori tra cui, oltre a quelli già presenti nelle società africane, si annovera il senso di giustizia, il piacere del tempo libero, il rispetto della democrazia. Latouche sente l’esigenza di rivisitare la considerazione che l’uomo ha per l’ambiente naturale: esso è visto oggi come un oggetto su cui dominare e da sfruttare per quanto possibile. L’economista francese invece sostiene che l’agire dell’uomo nei confronti del mondo naturale deve essere piuttosto un «inserimento armonioso» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 46). A ben vedere, il primo passaggio del programma in otto punti elaborato da Latouche è allo stesso tempo il più critico. Altrove è stato definito «il punto più debole» (Zippo, 2008, p. 109), ma a nostro avviso non si può propriamente parlare di debolezza dell’argomentazione di Latouche, quanto di criticità, o, per utilizzare le parole dello stesso autore, «difficoltà» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 103). Il motivo risiede naturalmente nell’impervietà dell’obiettivo: esso si prefigge un cambiamento radicale, e certamente non marginale, dell’orientamento culturale, morale e relazionale della società occidentale. Un tale obiettivo risulta forse più ambizioso di quanto non si pensi, e la sua asperità compromette conseguentemente a livello sistemico l’intero programma di Latouche: una società di 3

Essa si esplica principalmente attraverso la pratica del dono (v. Sezione 4.3.1, il lavoro “L’altra Africa. Tra dono e mercato”).

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decrescita presuppone innanzitutto il recupero e la riconsiderazione di valori al momento marginalizzati, e non potrebbe esistere altrimenti.4 Ne risulta che, per avviare una società di decrescita, è necessario prima sensibilizzare le coscienze e mobilitare gli animi.5 È quello che Latouche sta facendo dal 1966.

5.3.2 – Riconcettualizzare Questo ed il passaggio precedente presentano numerose similitudini, in quanto anche in questa sede Latouche intende agire sull’immaginario collettivo, andando a modificare valutazioni a carattere soggettivo che col tempo e l’uso sono state oggettivate: è questo che si intende per riconcettualizzazione. Si aggiunge che questo processo deve accompagnarsi contestualmente a quello di rivalutazione appena analizzato, data la loro stretta correlazione. Di riconcettualizzazione si è parlato quando si è affrontato il discorso della povertà ne L’altra Africa (1997, pp. 138-139):6 essa deve essere sempre ricollegata ad un parametro di giudizio e non può essere slegata da qualsiasi contesto. In altre parole non si può, secondo Latouche, etichettare un intero continente come “povero” senza aver prima specificato i criteri che ne hanno decretato la povertà: se si prende in considerazione il Pil è giusto indicare che la povertà di uno Stato è meramente economica. In un’ottica di decrescita, però, ci si deve rendere conto che il parametro più importante per giudicare la vitalità ed il benessere di un paese non è il Pil né alcuno dei suoi derivati. Latouche arriva persino ad indicare come alternativa ad esso gli indici nutrizionali, «più neutri e più interessanti come indicatori di un problema» (Latouche, 1997, p. 138). La convinzione di Latouche è che la povertà economica sia elemento imprescindibile del sistema occidentale, e che funga a sua volta da giustificazione al perseguimento dello sviluppo economico.

4

Cfr. Brune, 2005, p.1. D’altro canto, Latouche stesso riporta che «La società della decrescita decolonizza l’immaginario, ma la decolonizzazione che produce è il requisito preliminare per costruirla» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 117). Se da un lato non si può che apprezzare la schiettezza del teorico della decrescita, dall’altro è ben evidente l’enorme scoglio da superare. 5 Per un simile richiamo vedasi anche Castoriadis (2005). 6 Vedi Sezione 4.3.2.

138


Così come è stato messo in discussione il concetto di povertà, similarmente dev’essere fatto per il concetto di ricchezza. Il benessere di uno Stato con un certo Pil non necessariamente è maggiore di quello di uno Stato che possiede il Pil più basso.7 Sono molti i fattori che entrano in gioco nella determinazione del benessere di una nazione, e non sono tutti misurabili in termini monetari. Altrettanto importante è «decostruire il binomio infernale scarsità/abbondanza, fondatore dell’immaginario economico» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 103). L’idea di scarsità è infatti generatrice di un sentimento di mancanza, e quindi di bisogno. Ed il mercato altro non è che il luogo in cui i bisogni di beni e servizi vengono soddisfatti in cambio di una controprestazione solitamente monetaria. La pubblicità ha lo scopo di creare sempre nuovi bisogni nei consumatori, e di creare il malcontento per quello che già si possiede. Non c’è da stupirsi se Latouche arriverà a definirla una vera e propria istigazione a delinquere (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 27). La progressiva privatizzazione di quello che una volta apparteneva a tutti 8 è solo un aspetto di come il mercato cerchi di inserirsi in ogni ambito della vita quotidiana, dettando le sue leggi ai consumatori che si trovano in posizione di netta inferiorità. Uscire dall’immaginario generato dal sistema di crescita è cosa tutt’altro che semplice. In prima istanza, il compito maggiore è svolto dalla forza di volontà dell’individuo. Per uscire dall’immaginario, bisogna innanzitutto volerlo. 9 Presente questo presupposto, si può procedere con la delegittimazione dei valori dominanti, ossia una distruzione progressiva dei valori costruiti dall’immaginario e sostituirli con altri, più genuini, reintroducendo ad esempio i rapporti personali nell’arte di consumare (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 110). Il passaggio successivo è osservare come, in questa ottica, lo stesso livello di benessere possa essere raggiunto attraverso una quantità di beni inferiore. Se i beni relazionali prendono il sopravvento, o aumentano di importanza rispetto ai beni materiali, è facile verificare la 7

Vedi Sezione 2.4.1. Gli esempi riportati da Latouche, entrambi di estrema attualità, sono quello della privatizzazione dell’acqua e quello della diffusione degli OGM, i quali hanno espropriato gli agricoltori della fecondità naturale delle piante. 9 Cfr. Castoriadis, 2005, p.275 8

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veridicità di questa affermazione. Rimane comunque l’assenza di una soluzione in grado di produrre una riconcettualizzazione immediata dell’immaginario. Molto è deciso dal comportamento del singolo e dall’esempio che questi riceve e trasmette da e verso l’esterno. Il processo di riconcettualizzazione ed, ancor prima, decolonizzazione, si preannuncia così molto lungo. Una parte fondamentale sarà giocata dai media e dalle lobby che costantemente esercitano pressione sui mezzi di comunicazione. 10 In definitiva, avverte Latouche, se questo processo non sarà effettuato volontariamente, ci sarà la possibilità concreta che l’umanità si ritrovi a doverlo affrontare forzatamente in seguito ad una catastrofe globale causata dal fallimento inevitabile della società dei consumi. È bene che ognuno svolga la sua parte per impedire che questo fallimento non colpisca la società in maniera inaspettata.

5.3.3 – Ristrutturare Ristrutturare significa «adeguare l’apparato produttivo e i rapporti sociali al cambiamento dei valori» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 47). Si tratta quindi di un passaggio che avviene in un momento successivo ai primi due; esso sarà tanto meno drastico quanto più decisi saranno stati i processi di rivalutazione e di riconcettualizzazione. La ristrutturazione implica una conversione parziale dell’economia, che ponga al centro dell’attenzione gli individui e l’ambiente, e non una produzione per certi aspetti fine a se stessa. Anziché chiudere le fabbriche di automobili e licenziare centinaia di impiegati in un sol colpo, ad esempio, Latouche propone la conversione delle stesse in impianti di fabbricazione di cogeneratori. Questi, basati sulla stessa tecnologia del motore a scoppio, permettono la generazione ad un tempo di energia elettrica e calore, garantendo un’efficienza energetica che arriva tranquillamente all’80%. 11 Passi in questa direzione sono già stati compiuti dalla comunità europea, che con la direttiva 2004/8/CE promuove negli Stati dell’Unione la

10

Cfr. Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p.117. Fonte: www.rinnovabili.it/cogenerazione. Sono queste stime prudenti, paragonate a quelle di Latouche: l’economista francese, basandosi anche sui lavori di Pallante (2004), riporta valori di efficienza anche del 94%. 11

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diffusione degli impianti di cogenerazione a livello privato e cittadino (Unione Europea, 2004, p. 50-60). La direttiva è stata recepita in Italia con il d.lgs 20/2007 ma al momento non ha ancora trovato una diffusione degna di nota. Il processo di ristrutturazione prevede l’arresto della costruzione delle centrali nucleari. L’umanità non soffre certo di carenza energetica, e l’elettricità derivante dal nucleare può essere prodotta in svariati altri modi, più rapidi, semplici, economici, sicuri e rispettosi dell’ambiente. Gli impianti di cogenerazione sono una soluzione immediata ma certo non definitiva, poiché, nonostante l’efficienza energetica, per funzionare necessitano comunque dell’impiego di combustibili fossili. È evidente che il futuro della produzione energetica risiede nel fotovoltaico, la cui tecnologia, una volta perfezionata,12 permetterà la generazione di corrente elettrica con un impatto minimo sull’ambiente. Scopo ultimo del processo di ristrutturazione è quello di uscire finalmente, anche a livello pratico, dallo sviluppo e dall’economia di crescita, in modo deciso ma graduale. La rivoluzione auspicata da Latouche non ha niente a che vedere con quella profetizzata da Marx: la ristrutturazione dell’economia deve avvenire in modo autonomo, consapevole e non imposto. Latouche (2006b) condivide con Castoriadis (2005) la critica diretta al pensiero dell’economista dell’Ottocento: il mercato e la merce non devono essere visti come alienanti, poiché il mercato per sua definizione è un punto di incontro tra individui. Esso è di per sé una mediazione, ed abolirlo non avrebbe alcun senso. Il mercato e la moneta sono solo strumenti, e come tali non possono essere definiti a priori giusti o sbagliati, né, quindi, devono essere aboliti durante il processo di ristrutturazione. La ragione risiede nell’utilizzo che dello strumento si fa. È l’utilizzo della moneta che deve essere rivisto: questa non deve essere più votata all’accumulazione di capitale, ma adoperata puramente in quanto mezzo di scambio sul mercato. A questo proposito, si sottolinea come Latouche auspichi una ripresa del modello dei mercati africani, che si contrappongono al Mercato Unico occidentale in quanto prevedono, oltre alla

12

In termini di resa, di praticità e di prezzo.

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pratica del dono, anche una intermediazione diretta fra le persone, permettendo in definitiva un’esaltazione delle relazioni umane.

5.3.4 – Ridistribuire Ridistribuire significa «ripartire, tra Nord e Sud e all’interno di ogni società», quindi tra le classi, le generazioni ed i singoli individui, «le ricchezze e l’accesso al patrimonio della natura» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 124). Si può già notare come un primo esempio di ridistribuzione consista nella rivalutazione dei rapporti sociali e nella ristrutturazione degli stessi all’interno dell’ambito economico, se inseriti in un contesto di una pluralità di mercati. Il problema maggiore, secondo Latouche, sarà quello della ridistribuzione delle ricchezze tra il Nord ed il Sud del mondo. È evidente in questo senso l’esperienza maturata nei paesi africani e del Sud-est asiatico, che lo ha reso sempre più cosciente di come queste società siano depredate delle loro ricchezze dall’occidente (Latouche, 1984, p. 17-18). L’Occidente non è creditore nei confronti del Sud del mondo, al contrario, in secoli di colonialismo prima e di imperialismo poi ha contratto nei confronti del Sud un immenso «debito ecologico».13 Tale debito, proprio perché non monetario, e quindi esterno ai parametri di giudizio dell’economia occidentale, non è mai stato rimborsato: sarà necessaria una presa di coscienza da parte della collettività durante le fasi di rivalutazione e riconcettualizzazione per porre, se non altro, almeno un freno all’intromissione dell’Occidente nelle società del Terzo mondo. Una particolare attenzione è dedicata da Latouche al concetto di impronta ecologica, la quale si ricollega alla perfezione in ambito di ridistribuzione. Per non pesare più sulle società del Sud, l’Occidente deve recuperare necessariamente un’impronta ecologica a tutti gli effetti sostenibile, ossia al di sotto di 1,8gha pro capite, a fronte degli attuali 2,7 mondiali e degli 8 del Belgio (Pollard, 2010, p. 34). Non si può e non si deve pensare di fare affidamento sulla povertà del Terzo mondo per sostenere lo sviluppo dell’Occidente. Il Nord, per raggiungere un futuro sostenibile, deve diminuire drasticamente la dipendenza dallo sfruttamento delle risorse che 13

Cfr. Latouche, 2008, p.49.

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non sono presenti sul suo suolo ed imparare a trovare vie alternative, per quanto possibile, di produrre gli stessi beni con risorse inferiori o diverse. Un simile traguardo non sembra irraggiungibile, data la sempre maggiore smaterializzazione dell’economia dei tempi recenti (Calvo-Platero, 1996). Questo è un esempio di ridistribuzione delle ricchezze tra le società, ma Latouche prende in considerazione anche la ridistribuzione tra generazioni (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 48). Un’impronta ecologica pro capite superiore a 1,8gha, ossia l’attuale quantità massima di risorse che il pianeta riesce a rigenerare spontaneamente ogni anno, comporta necessariamente un debito ecologico intergenerazionale. Si pensi che nel 2007 sono stati utilizzati 2,7gha: il 50% in più di quanto il pianeta è in grado di rigenerare. Ciò implica che ci vorrà un anno e mezzo, anziché 365 giorni, per rigenerare le risorse rinnovabili utilizzate nel 2007 (Pollard, 2010, p. 32). Le leggi di crescita esponenziali sono inflessibili a riguardo (Meadows et al, 1993): questo trend è in aumento (si veda il Grafico V.1 alla pagina seguente), l’impronta ecologica globale del 2007 è doppia rispetto a quella del 1996 e ancora non si vede nessun segno di svolta verso un futuro sostenibile. Per avere un’idea più chiara di questo concetto, si immagini la terra come un immenso patrimonio, capace ogni anno di generare frutti. Se si andasse a consumare unicamente i frutti, il patrimonio rimarrebbe inalterato alla fine dell’anno, e non si creerebbe alcuno scompenso futuro. Quello che sta succedendo è il consumo da parte della società non solo dei frutti del pianeta, ma anche dello stesso patrimonio. È questo un comportamento irresponsabile nel pieno senso del termine, poiché si sta pregiudicando la possibilità delle future generazioni di godere del patrimonio. Inoltre, attaccando il patrimonio, i frutti dell’anno successivo con ogni probabilità saranno minori, innescando così una spirale perversa che sarebbe stato meglio non aver mai causato.14

14

Cfr. Meadows et al, 1993.

143


GRAFICO V.1. Aumento dell’impronta ecologica nel tempo.

Fonte: WWF (2010)

Urge il bisogno di una severa regolamentazione che imponga alle società ed agli individui di limitare per quanto possibile i loro consumi, e di evitare lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente: «È necessario togliere sempre maggior quantità di terra all’agricoltura intensiva, alla speculazione fondiaria, all’impatto inquinante dell’asfalto e del cemento, alla desertificazione per darla all’agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 125). Latouche auspica una ridistribuzione dei lavori: molto attivo sarebbe il settore di ricerca in una società di decrescita, sempre in cerca di tecnologie funzionali e rispettose dell’ambiente, non solo in ambito energetico, ma anche in quello dei trasporti e dell’agricoltura. Un'altra ridistribuzione è quella dei redditi, sia all’interno della stessa generazione che fra generazioni diverse. Nel primo caso, essa può essere effettuata sia mediante una forte 144


tassazione del settore automobilistico e pubblicitario, sia attraverso una detassazione del lavoro, secondo la logica “chi più sfrutta, o più esorta a sfruttare l’ambiente, più paga”. Latouche sente l’esigenza di stabilire inoltre dei salari minimi e massimi, al fine di scongiurare il dilagare dell’hybris, la dismisura, che ha ormai corroso il sistema di valori occidentale. Nel secondo caso entra in gioco l’abbandono del sistema di crescita come sistema di finanziamento della spesa pubblica. La crescita è infatti attualmente indispensabile per garantire il corretto funzionamento del sistema pensionistico, che esso sia a ripartizione o a capitalizzazione (Bosi, 2010, p. 384-385). In una società di decrescita, dunque, il sistema pensionistico si baserebbe esclusivamente su un criterio a ripartizione pura, basato su un solido patto intergenerazionale al fine di garantire a tutti una pensione adeguata. Latouche non entra volutamente nel merito della questione, poiché l’argomento è talmente vasto che richiederebbe ben più di un volume interamente dedicato ad esso, ma assicura che il sistema pensionistico non verrebbe sconvolto una volta eliminato il contesto di crescita e reinserito in uno di decrescita.

5.3.5 – Rilocalizzare Col processo di rilocalizzazione si punta a produrre localmente i beni e servizi di cui necessita la popolazione, usufruendo innanzitutto delle materie prime disponibili in loco. Questo passaggio, a ben pensarci, è conseguenza logica del processo di ridistribuzione, e rappresenta «lo strumento strategico più importante della decrescita» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 129). Si può interpretare la localizzazione in due modi: 1. Un fenomeno regionale, se lo si intende come un decentramento urbano, un ripopolamento delle campagne ed una ripresa della produzione a livello locale; 2. Un fenomeno internazionale, se lo si intende come un abbandono della dipendenza dalla fruizione di materie prime provenienti dal Sud e della manodopera a basso prezzo delle popolazioni dell’Est. Il localismo è il cuore della decrescita, ed è naturale che l’economista francese lo difenda con così tanto vigore. Una società di decrescita è innanzitutto una società autosufficiente sia dal 145


punto di vista energetico15 che dal punto di vista della produzione. Maggiore il grado di localismo e di autosufficienza, migliore è la sostenibilità ambientale dell’economia, più intense saranno le relazioni interpersonali degli individui, basate non più sullo scambio mercantile, ma sulla reciprocità e sulla fiducia. Sostenere che Latouche auspichi un livello di localismo simile per molti aspetti a quello già presente nella realtà africana, dove la gente è già, per forza di cose, costretta a vivere con i soli mezzi che l’ambiente fornisce loro, non sarebbe una mera congettura ed anzi, mostra che una società localizzata è possibile. Con un velo di ironia, Latouche informa che, se i movimenti di merci e di capitali «devono essere limitati all’indispensabile» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 49), le idee invece hanno la piena autorizzazione a valicare qualsiasi frontiera. Ma la rilocalizzazione non è soltanto economica: essa è anche politica e culturale. Di conseguenza, qualsiasi decisione che può essere presa a livello locale, essa deve essere presa a tale livello. Estendendo il concetto, si può affermare con tranquillità che Latouche insista, tra le altre cose, anche per la realizzazione di un federalismo fiscale che premi gli sforzi compiuti a livello locale. Il localismo politico è indispensabile, secondo il teorico della décroissance, per ridare nuova linfa alle attività locali. La rilocalizzazione è innanzitutto una rilocalizzazione economica, ma questa non potrà avere luogo senza avere alle spalle una forte partecipazione politica a livello locale: è quello che Takis Fotopoulos (2002) definisce una democrazia di prossimità. Egli propone la suddivisione della società in piccoli gruppi organizzati chiamati dèmoi, di circa trentamila abitanti l’uno. Secondo i calcoli dell’economista greco, questa dimensione basterebbe a garantire il soddisfacimento dei bisogni di ciascuno dei partecipanti e, al contrario, data la relativa ristrettezza del numero, invoglierebbe i cittadini a partecipare alle decisioni della vita pubblica e, conseguentemente, economica. Latouche, dal canto suo, ha già espresso la sua ammirazione per il modello di

15

I pannelli solari, già menzionati, consentono una vera autonomia energetica locale, eliminando la necessità di una centrale energetica e l’importazione di materie prime da trasformare in energia.

146


organizzazione sociale africana, costituita dalla palabre,16 che presenta numerosi punti in comune con quanto teorizzato da Fotopoulos (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 86-92).

5.3.6 – Ridurre Forse il simbolo della decrescita, e l’immagine più evocativa di tutti gli otto passaggi. Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno dalla leggera ambiguità del termine. Ridurre non equivale a risparmiare sui materiali per mantenere immutato il livello di consumo. È solo attraverso la riduzione sia dei consumi sia del loro impatto sull’ambiente che è possibile trovare la chiave di un futuro veramente sostenibile: in definitiva, il grande cambiamento della società consisterà nel soddisfare i propri bisogni evitando di ricorrere forzatamente al consumo, ma dirigendo la propria attenzione alla cura dei legami sociali e a un rinnovato rispetto verso l’ambiente naturale (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 140). Scopo della riduzione è infatti quella di garantire un miglioramento della qualità di vita, attraverso, tra le altre cose, la forte limitazione alla produzione ed al consumo di certi beni individuati come “tossici” per l’individuo.17 Latouche riporta quattro esempi: il nucleare, gli armamenti, la pubblicità e la droga. Interessante l’accostamento tra droga e pubblicità, ma d’altra parte sono noti i motivi dell’avversione dell’economista francese a questo settore (v. Sezione 5.3.2).18 Si è usato il termine forte riduzione non a caso: nonostante le forti limitazioni da imporre, la decrescita non vuole trasformarsi in un regime dittatoriale, e vuole consentire in ogni caso la libera impresa, seppur soggetta a restrizioni. Latouche identifica tre tipologie primarie della riduzione: i trasporti e l’energia, i rifiuti e gli sprechi, il tempo di lavoro.

16

La palabre è un’istituzione sociale tipica dell’Africa alla quale partecipa tutta o parte della comunità di un villaggio. Peculiarità di questa istituzione è quella di regolare un contenzioso senza che alcuna delle parti chiamate in giudizio venga lesa (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 85). 17 Potremmo, riprendendo le parole di Varian (2002, p. 38), assimilarli ai “mali” normalmente presenti in un’economia. 18 Latouche non perderà l’occasione per ribadire anche in questa sede la tossicità e l’ingerenza senza precedenti del settore pubblicitario, avvalendosi dell’aiuto di Jean-Paul Besset (cfr. Latouche, 2006b, trad. it. 2010, pp.140-141).

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I trasporti sono intimamente connessi al quinto punto del programma di Latouche, ossia il passaggio della rilocalizzazione: essi si ridurranno tanto più facilmente e naturalmente quanto più elevato sarà il localismo raggiunto dal sistema. Una riduzione dei trasporti è necessaria per ridurre sia l’inquinamento prodotto dal settore dei trasporti, sia la quantità di infrastrutture ad esso dedicate. Latouche ricorda la enorme quantità di anidride carbonica prodotta non solo durante gli spostamenti, ma anche durante la creazione di prodotti destinati alla vendita. I climatologi hanno stabilito che la Terra non è in grado di smaltire più di 500kg di anidride carbonica pro capite all’anno: l’equivalente di “appena” un volo andata-ritorno da Parigi a New York, o di 5000 chilometri in auto. È ripetitivo rilevare come questi limiti siano ampiamente sorpassati: la produzione media mondiale è doppia rispetto a quella consentita, e la sola produzione statunitense eccede i limiti di ben sedici volte (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 143). I risultati sono riscontrabili immediatamente, tramite le misurazioni di concentrazione di anidride carbonica nel tempo (Grafico V.2): GRAFICO V.2. Concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera

Fonte: BBC (2008).

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La produzione energetica, come già anticipato, non solo deve orientarsi verso l’utilizzo di fonti rinnovabili e migliorata dal punto di vista dell’efficienza, ma deve anche essere sottoposta in prima persona, ad un programma di riduzione. Come Latouche ricorda, «l’energia meno costosa e meno inquinante è quella che si evita di produrre e di consumare» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 147). La crescita esponenziale della produzione degli ultimi secoli ha prodotto un relativo incremento esponenziale dei rifiuti: riporta Latouche che le 10 milioni di tonnellate di rifiuti prodotte in Francia negli anni settanta sono diventate 28 nel giro di trent’anni (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 149). Il riciclaggio viene qui presentato come un semplice palliativo, e non certo come la soluzione al delicatissimo problema dei rifiuti. Latouche riesce a risolverlo mediante il suo inserimento nell’ambito teorico della decrescita: riducendo i consumi, automaticamente si ridurrà la quantità di rifiuti prodotti. Non solo: grazie alla rilocalizzazione si potrà ridurre a sua volta il numero di imballaggi. Un esempio, fornito da Maurizio Pallante (2005, p. 17-21), è quello, arcinoto, della produzione artigianale di yogurt: grazie ad un po’di latte e all’azione di qualche colonia di batteri, è possibile produrre il proprio yogurt direttamente in casa. Questo prodotto, decisamente più buono e genuino, consente di risparmiare le materie prime necessarie per reperire la plastica del vasetto e l’alluminio del coperchio un viaggio verso le nostre tavole che va dai 1200 ai 1500 chilometri. Similarmente, si può affermare che nell’agricoltura la decrescita potrà realizzarsi in maniera più efficace, grazie all’incentivazione della produzione biologica già presente nelle campagne di molte città. L’ultimo (ma se ne potrebbero trovare altri) elemento che è possibile ridurre il tempo di lavoro. Latouche riporta, in modo apparentemente provocatorio, l’idea di Jacques Ellul (1982): secondo questo sociologo, il tempo dedicato al lavoro non dovrebbe superare le due ore giornaliere.

19

Conseguenza diretta del minor tempo lavorativo sarebbe una maggiore

occupazione. A ben pensarci, un decremento dei consumi, della produzione e dei trasporti, 19

Ellul si appoggia per sostenere la sua affermazione a quanto sostenuto da un’associazione francese denominata Adret (1977) e (1980).

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unito ad un aumento dell’efficienza dei mezzi di produzione non possono che aumentare il tempo libero a disposizione degli individui. Esso è naturalmente inconcepibile nella società attuale, ma in una società di decrescita, non sembra essere un traguardo irraggiungibile. Latouche avanza già alcune delle critiche che potrebbero essere mosse a questa visione, come la noia ed il senso di vuoto che inizialmente potrebbero permeare le giornate dei lavoratori. Si tratta solo di ripensare l’inserimento dell’individuo all’interno della società, di impiegare il tempo libero in attività creative, relazionali o di servizio verso il prossimo, in modo analogo al funzionamento delle banche del tempo. Il passaggio dalle otto alle due ore lavorative giornaliere non potrà avvenire tutto in una volta, ma dovrà necessariamente avvenire per fasi. Si possono elencare tre fattori che entrano in gioco a questo punto, di cui due che tendono ad aumentare il livello di occupazione e uno che tende a diminuirlo. I primi due fattori sono la diminuzione di produttività dovuta all’abbandono del modello di produzione termoindustriale e la rilocalizzazione delle attività con il conseguente abbandono dello sfruttamento del Sud. In direzione opposta va invece il decremento dei consumi successivo al mutamento del quadro di valori della società.

5.3.7 – Riutilizzare Il settimo obiettivo, il riutilizzo, richiede un’inversione di rotta rispetto alla logica produttiva corrente: basti pensare che l’80% dei beni attualmente immessi sul mercato sono utilizzabili una sola volta prima di finire nella spazzatura (Hulot, 2006, p.237). A questo bisogna aggiungere una serie di fenomeni che hanno preso piede solo in tempi recenti: 

l’accorciamento del ciclo di vita dei beni di consumo duraturi (come gli elettrodomestici);

il deterioramento sempre più rapido dei prodotti (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 155);

l’impossibilità, per colpa delle tecnologie via via più avanzate, di una riparazione degli oggetti da parte del singolo.

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Conseguenza di questo ultimo fenomeno è la spedizione dei prodotti in centri di assistenza, i quali spesso hanno sede in Stati anche diversi da quello dell’acquirente. Sempre più frequente è il consiglio del rivenditore di comprare un nuovo modello poiché la riparazione di quello vecchio comporterebbe una spesa solo di poco inferiore. Latouche, invece, corre contro questa tendenza ed insiste sulla necessità di prevedere un riutilizzo dei componenti dei prodotti alla fine del loro ciclo di vita (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 54). Si potrà così garantire un loro reimpiego all’interno della produzione, evitando così il passaggio preventivo degli stessi in centri di riciclaggio, di smistamento e di reimpiego. Queste pratiche esistono già in aziende svizzere, tedesche e statunitensi (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 53-54), le quali hanno escogitato modi ingegnosi di utilizzare i loro prodotti al termine del loro ciclo di vita.

5.3.8 – Riciclare È questo il passaggio conclusivo, e forse quello che ha meno bisogno di spiegazioni, di tutto il ciclo previsto da Latouche. Quando un prodotto non è più riparabile né riutilizzabile, esso deve essere debitamente riciclato. Non si può affermare che l’Occidente si stia impegnando abbastanza nella promozione di politiche di riciclaggio: in merito Latouche riporta che in Francia (ma si potrebbe tranquillamente aggiungere l’esperienza italiana) il vetro viene recuperato non tramite il reimpiego di vuoto a rendere, ma attraverso il ben più laborioso riutilizzo del vetro recuperato attraverso la raccolta differenziata (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 155). Numerose sono le possibilità di un riciclaggio alternativo: dal rifiuto umido utilizzato in seguito a pratiche di compostaggio come concime naturale fino al riciclaggio dei rifiuti in ambito casalingo.20

20

Per fare un esempio, il popolare sito di Beppe Grillo propone di riciclare l’acqua all’interno delle stesse pareti domestiche, immettendo l’acqua utilizzata per la doccia nello sciacquone del WC. Suggerisce inoltre la possibilità di dotare le case di una cisterna capace di erogare acqua potabile in seguito ad una trattazione dell’acqua piovana (Grillo, 2009). Quest’ultima soluzione è interessante se non fosse che l’acqua piovana è spesso a sua volta inquinata.

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Il riciclaggio nella teoria della decrescita deve assumere un peso decisamente più importante rispetto a quanto assume oggi nell’economia dell’ambiente. Troppo poco è stato fatto in questi anni per risolvere il problema dei rifiuti. La chiave di lettura di questo problema, fornita dalla decrescita, ricorda che il processo di riciclaggio dei rifiuti non costituisce che l’ultima tappa di un percorso: esso deve essere, per quanto possibile, evitato, mediante l’azione congiunta di una minore produzione di beni di consumo e di un loro riutilizzo diretto nel sistema.

5.4 – Gli strumenti della politica economica di Latouche Questi otto obiettivi imposti dalla politica economica della decrescita sono decisamente ambiziosi. Non solo essi si prefiggono di modificare il sistema sociale, ma ancor prima presuppongono una rivoluzione culturale senza precedenti, che tocchi i valori e le abitudini degli individui formatisi nell’arco di secoli. Latouche è pienamente consapevole di questo limite (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 103), ma d’altra parte la decrescita per avere successo non può venire imposta, ma deve essere percepita dalla gente come necessaria. A tal fine Latouche propone nove misure che, presentandosi come un comune programma politico, possono dare il via al circolo virtuoso della decrescita.

5.4.1 - Un impatto ecologico sostenibile In altre parole, è necessario che l’impronta ecologica mondiale torni a scendere sotto gli 1,8gha pro capite. Il sorpasso della biocapacità è avvenuto nei primi anni settanta (Pollard, 2010, p. 34), ed a tale livello è indispensabile ritornare per assicurarsi di non intaccare le riserve naturali del pianeta, assicurando così un futuro meno incerto alle generazioni che verranno. Per raggiungere questo scopo, Latouche propone una politica che imponga restrizioni su tutti i passaggi intermedi della produzione, al fine di incentivare il localismo. I settori da colpire sono quello pubblicitario e dei trasporti, quello energetico e degli imballaggi, «senza colpire il consumo finale» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 84). Ora, è difficile, allo 152


stato attuale delle cose, pensare di colpire dei settori interi del mercato senza aspettarsi ripercussioni sul prezzo e sulla produzione. La soluzione più immediata per disincentivare il ricorso a questi settori durante il ciclo di produzione sarebbe un forte utilizzo di imposte (Latouche rimane fin troppo generico sull’utilizzo di strumenti fiscali), sebbene esse produrrebbero un effetto distorsivo sui beni finali (Bosi, 2010, pp. 180 sgg.).

5.4.2 – Internalizzare i costi dei trasporti Latouche si rende conto che i trasporti costano alla società molto di più di quanto appaia contabilmente. La cura di malattie respiratorie e di tumori causati dall’inquinamento, uniti alle altre esternalità riconducibili a questo settore ammontano nella sola Francia a 25 milioni di euro l’anno, ossia più del gettito della tassa interna sui prodotti petroliferi (Cotillon, 2006, p. 91). Latouche condivide in proposito il programma avanzato da Besset (Besset, 2007, p. 236237), che prevede sistemi diretti ed indiretti per ridurre l’incidenza dei trasporti sulla società: direttamente attraverso un maggior impiego di navi e treni e, grazie all’utilizzo in maniera più intensiva delle Zone a Traffico Limitato, un ritrovato utilizzo della bicicletta, unico mezzo veramente non inquinante. Indirettamente attraverso l’accentramento dei servizi pubblici nei centri urbani, il contenimento dei centri commerciali e la riabilitazione energetica degli abitati. Gli strumenti che consentano di internalizzare i costi dei trasporti sono indicati da Negawatt (Syrota, 2008, p. 196): 

aumento della tassa interna sui prodotti petroliferi di 3 centesimi all’anno per la benzina e di 5 centesimi all’anno per il diesel, così da portarlo allo stesso prezzo della benzina. A partire da quel momento, entrambe le tasse continuerebbero ad aumentare di 3 centesimi all’anno ciascuna;

aumento del bollo automobilistico annuale, proporzionalmente al grado di inquinamento delle vetture;

agevolare contestualmente tramite incentivi statali l’acquisto di vetture elettriche, ibride o a basso consumo di carburante; 153


imporre una tassa sui mezzi pesanti in base ai chilometri percorsi. Questo andrebbe di conseguenza a favorire i mezzi di trasporto alternativi suggeriti da Latouche.

5.4.3 – Rilocalizzare le attività Questo punto è essenzialmente legato al punto precedente. Da una buona rilocalizzazione delle attività, comprese quelle non economiche, nascerà un relativo ricorso ai mezzi pubblici. Come si è accennato prima, occorrerà questa volta fare ricorso allo strumento delle regolamentazioni locali per promuovere le attività del posto, e prevedibilmente tassare quelle provenienti dall’esterno. È chiara l’impostazione protezionista dell’economia voluta da Latouche, che permetta alle piccole imprese locali di produrre senza sentire costantemente sul collo il fiato della concorrenza spietata di paesi dal costo del lavoro più basso rispetto a quello nazionale.

5.4.4 – Restaurare l’agricoltura contadina Questo implica l’incentivazione di una produzione «il più possibile locale, stagionale, naturale, tradizionale». Latouche con questa affermazione si ricollega fortemente soprattutto al discorso della rilocalizzazione dell’attività agricola, aggiungendo, tra le altre cose, di abbandonare la strada intrapresa dalla coltivazione di OGM, che costituiscono a suo avviso una snaturalizzazione dell’agricoltura. Una produzione tradizionale e naturale non vuol dire solo questo, ma implica un rifiuto chiaro di pesticidi ed antiparassitari fortemente tossici anche per le persone. Gli strumenti per restaurare l’agricoltura contadina sono prevedibilmente gli stessi impiegati per la rilocalizzazione delle attività: Latouche rimane molto nel vago su questo punto e purtroppo non fornisce esempi precisi in merito.

5.4.5 – Meno produzione e più tempo libero Si è già parlato di come uno dei cardini della politica economica della decrescita sia la riduzione del tempo di lavoro. Attraverso l’utilizzo di regolamentazioni statali progressive che tengano conto delle mutate esigenze della società, Latouche prevede che, in seguito ad una riduzione 154


della domanda di beni prodotti dal mercato, corrisponda anche una riduzione dell’offerta. Inoltre, permettendo al numero più alto possibile di persone di trovare un lavoro, si abbatterebbe decisamente anche il numero necessario di ore lavorative. La differenza con la società attuale è evidente. Mentre al giorno d’oggi si produce per crescere ed accumulare sempre più il capitale, in una società di decrescita si produce ciò che serve. La creazione del superfluo non è contemplata.

5.4.6 – Stimolare la produzione di beni relazionali Non saranno invece posti limiti alla produzione di beni relazionali, come l’amicizia o la conoscenza. Al contrario, questi beni, non misurabili in denaro, rientrano perfettamente nella tipica produzione di una società di decrescita. Come spiega Latouche, «il sapere, la conoscenza, l’arte possono essere “consumati” da tutti» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 86). È indiscutibile: l’Occidente non presta alla creazione ed allo sviluppo di beni relazionali l’attenzione che essi meriterebbero. Latouche intende ovviare a questo problema soprattutto mediante la diminuzione del tempo di lavoro. Troppo spesso, nella società moderna, progetti od aspirazioni non possono essere raggiunti per colpa della scarsità di tempo libero a disposizione. La decrescita restituirebbe all’uomo il tempo che l’economia gli ha sottratto, permettendogli di realizzarsi in contesti che esulino dall’unico campo del lavoro.

5.4.7 – Ridurre lo spreco di energia Riporta Latouche (2007b, trad. it. 2008, p. 86) che, secondo l’associazione Negawatt, è possibile ridurre l’energia consumata dagli Stati dell’Unione Europea di un fattore 4 entro il 2050. Ciò risulterebbe, a titolo di esempio, in una riduzione delle emissioni di anidride carbonica in Francia di tre quarti rispetto a quelle prodotte nel 1990 (Syrota, 2008). Un grandissimo passo in avanti si otterrebbe anche, ad opinione di chi scrive, se si riuscisse a far passare negli Stati Uniti una regolamentazione che abolisca, o disincentivi fortemente, le

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tariffazioni flat dell’energia. 21 Questo tipo di imposte non incentivano affatto il risparmio energetico, anzi, molto spesso favoriscono gli sprechi. Esse sono in parte all’origine dell’enorme consumo energetico dei 305 milioni di statunitensi, i quali, incoraggiati anche dalla convenienza del prezzo del petrolio, consumano ogni anno 12.156Kwh pro capite, un numero 5 volte superiore alla media mondiale e doppio rispetto a quello europeo (CENSO, 2007). Sempre Negawatt suggerisce quattro strumenti da utilizzare al fine di ridurre il consumo energetico e, quindi, gli sprechi (Syrota, 2008, p. 197): 

fornire incentivi statali che diminuiscano le spese mirate alla riduzione del consumo energetico privato ed industriale, come la costruzione di case con muri ad isolamento termico, doppi vetri, pannelli solari ecc.;

specularmente, regolamentare e supervisionare lo stato di dispersione termica delle abitazioni, impedendo la costruzione di nuove case che oltrepassino determinati limiti;

eliminare gli incentivi statali presenti su tecnologie obsolete per avvantaggiare quelle più recenti, che sono di norma più efficienti e più rispettose dell’ambiente;

eliminare l’agevolazione IVA sull’acquisto di climatizzatori.

5.4.8 – Penalizzare fortemente le spese pubblicitarie Latouche ritorna ancora una volta sul tema della pubblicità. Essa spinge in direzione opposta rispetto a quella auspicata dalla decrescita, spingendo gli individui al consumo e finanche allo spreco. Latouche propone di procedere su due fronti: 1. Il fronte delle imposte. Esse hanno il compito principale di ridurre la quantità complessiva di pubblicità, sui media (internet, radio, televisione, giornali) come nei luoghi pubblici; 2. Il fronte della regolamentazione. Latouche si rifà a Hulot (2006, p. 254), indicando come sia necessaria una progressiva eliminazione della pubblicità nei programmi

21

Una tariffazione flat dell’energia prevede un canone fisso al mese a prescindere dall’effettivo consumo energetico.

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televisivi destinati ai bambini, specialmente quella relativa a prodotti a lungo andare dannosi per la salute.22

5.4.9 – Riordinare l’innovazione tecnico-scientifica Secondo Latouche, l’innovazione tecnico-scientifica non può seguitare ad avanzare a briglia sciolta. Egli chiede di fare «un bilancio serio di questo settore e riorientare la ricerca scientifica e tecnica sulla base delle nuove aspirazioni delle persone» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 87). A supporto della sua tesi, egli cita Castoriadis (2005), il quale aveva già proposto l’adozione di misure simili in passato. Entrambi gli economisti tengono a precisare che questo riorientamento non deve corrispondere ad una dittatura delle menti. Al contrario è essenzialmente quello di ridare all’economia e alla società la phrónesis che col tempo l’uomo ha perduto, impedendo un’«espansione illimitata e sconsiderata» della civiltà (Castoriadis, 2005, p. 238). In termini pratici, questo significherà l’abbandono della ricerca sugli OGM e sui pesticidi artificiali e concentrarsi meglio invece sull’agrobiologia; allo stesso modo, i grandi progetti infrastrutturali come inceneritori, autostrade e TAV dovranno possedere una solida motivazione che ne giustifichi la costruzione.

5.4.10 – Misure ulteriori Latouche mostra come questo elenco sia soltanto una proposta, e come esso non si esaurisca necessariamente nei nove punti da lui individuati. Al contrario, egli stesso indica come si possano individuare ulteriori misure strumentali al raggiungimento degli otto obiettivi che la decrescita si prefigge di raggiungere. La leva fiscale e la leva della regolamentazione possono quindi essere utilizzate anche in altri campi, complementari a quelli già esposti. Latouche, a titolo di esempio, riporta altre misure proposte da Attac (2006, pp. 186-187, cit. in Latouche,

22

Un esempio per tutti è la pubblicità di dolciumi o di altre sostanze ad alto contenuto calorico.

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2007, trad. it. 2008, p. 88),23 in cui si prevede un forte utilizzo di imposte per indirizzare l’orientamento finanziario ed ecologico della collettività. Alcune delle misure prevedono: 

l’introduzione di una tassa sulle transazioni di cambio e di Borsa;

una tassa sul patrimonio a livello mondiale, supportata dallo smantellamento dei paradisi fiscali e la soppressione del segreto bancario;

una tassa addizionale fissa sui profitti delle imprese multinazionali, per ridurre il fenomeno del dumping fiscale;24

una tassa sulle emissioni di anidride carbonica;

una tassa sulle emissioni nucleari a lunga durata e ad alto tenore.

5.5 – Un confronto con la politica economica tradizionale È giunto il momento di confrontare la politica economica della decrescita, così come la propone Latouche, con la politica economica tradizionale, per sottolineare sia i punti di divergenza tra gli obiettivi sia il diverso utilizzo degli strumenti su cui i due sistemi fanno affidamento. Per quanto riguarda gli obiettivi, è immediato notare come le priorità dei due sistemi siano radicalmente diverse. L’economia tradizionale si prefigge innanzitutto di perseguire il duplice ideale di crescita e di stabilità dello sviluppo economico (vedi Sezione 2.3). Al contrario, la decrescita si muove in direzione diametralmente opposta: essa rifiuta in toto l’inquadramento all’interno degli schemi della crescita ed evita inoltre di perseguire l’ideale di sviluppo economico. Non è certo questo un segno di miopia del teorico della décroissance, semplicemente egli ritiene che siano altre le finalità che ci si deve prefiggere di raggiungere,

23

Attac è l’acronimo di Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie e per l’Azione Cittadina. Essa «promuove ed organizza delle azioni di qualsiasi genere al fine di ridare ai cittadini il potere che la sfera finanziaria esercita su ogni aspetto della vita politica, economica, sociale e culturale nel mondo intero» (Attac, 2010). 24 Il dumping è un’azione di vendita di un bene o di un servizio a prezzi più bassi del normale. Il termine è spesso usato nel commercio internazionale quando un’impresa vende beni o servizi sui mercati esteri a prezzi nettamente inferiori a quelli praticati sul mercato interno: in tal caso si parla di “prezzi predatori” (Camera di Commercio, 2008).

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prima fra tutte quella della rivalutazione dell’insieme dei valori della società e la riconcettualizzazione dei modelli di utilizzo dei beni pubblici. Questi obiettivi, sicuramente non strettamente economici, non sono inquadrabili in nessuno schema della politica economica tradizionale: si può affermare che essi costituiscano piuttosto i presupposti della società basata sulla decrescita. I traguardi che la teoria normativa della decrescita si propone di raggiungere non sono pertanto così facilmente sovrapponibili a quelli della crescita, nel senso che il piano di analisi e confronto è diverso. Certo, un confronto può essere più facilmente ottenuto, paragonando gli strumenti, in particolare quello fiscale e regolamentare. Tuttavia un confronto sugli strumenti va operato in modo cauto proprio perché siamo di fronte a finalità divergenti e spesso difficilmente sovrapponibili. Su un altro piano di confronto, si nota come la politica economica ideata da Latouche coinvolga in modo decisamente maggiore le scelte dei singoli, i quali, dalla costruzione della casa alla scelta dei mezzi di trasporto alla responsabilizzazione energetica, sono chiamati in prima persona a partecipare attivamente alla realizzazione di una società altra. Una singolare attenzione è posta all’eliminazione degli sprechi e delle inefficienze in ogni ambito, coinvolgendo alla base le decisioni economiche e comportamentali della società in un contesto a misura d’ambiente. Esaminando più specificamente gli strumenti utilizzati dalla politica economica della decrescita, si noterà come essi siano evasivi in merito alla politica monetaria: semplicemente, questo strumento non è utile ai fini di instaurare e promuovere una società di decrescita. Diverso è invece il discorso rivolto agli altri tre strumenti della politica economica tradizionale, e cioè la politica fiscale, industriale e commerciale. Per quanto attiene la politica fiscale ed industriale, si osservi l’estensivo utilizzo di incentivi statali, sussidi ed imposte, dirette ed indirette, atte a promuovere un diverso orientamento nelle scelte economiche e comportamentali degli individui. Esse sono necessarie per premiare 159


debitamente i comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli contrari alla sostenibilità ambientale. Va sottolineato che la decrescita vuole mantenere la fondamentale istituzione del libero mercato. Infatti Latouche si pone il problema di avere un sistema economico in grado di coordinare efficacemente entrate ed uscite pubbliche, senza creare eccessivi disavanzi di bilancio che possano compromettere un corretto equilibrio tra Stato e mercato. Si tratta, però, di realizzare un’economia di mercato diversa, in cui si avrà un ridimensionamento degli spazi pubblicitari, una riconversione delle imprese e la riduzione degli orari di lavoro, unita ad una nuova politica in ambito occupazionale. In questo senso l’economia della decrescita prevede un ampio utilizzo dello strumento della regolamentazione. La politica commerciale di Latouche, così come si definirebbe utilizzando gli schemi concettuali tradizionali, si esplica (vedi Sezione 5.4.3) in un forte protezionismo, che prevede innanzitutto pesanti dazi sui prodotti provenienti dall’estero. Questo imporrebbe rispetto alla situazione attuale una serie di problemi derivanti, ad esempio, dal ripristino delle dogane all’interno degli stessi Stati dell’Unione Europea. Anche in questo caso, il confronto in termini di strumenti non può essere disgiunto dall’esplicitazione degli obiettivi. Essi nei due paradigmi non coincidono tra loro. Per esempio, il protezionismo in un’ottica di decrescita non è votato all’agevolazione della produzione interna di uno Stato, ma piuttosto all’incentivazione della localizzazione delle attività, dal cui successo dipende la realizzazione di una struttura economica più parsimoniosa e votata al benessere sociale piuttosto che alla crescita economica.

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Capitolo 6

Conclusioni

6.1 – Introduzione Questa tesi si è occupata di Serge Latouche e del tema principale dei suoi studi: la decrescita economica. Nei vari capitoli che la compongono abbiamo cercato di illustrare il percorso storico ed intellettuale dell’autore, dai primi anni della sua formazione fino ai giorni nostri. La critica di Latouche alla società occidentale sottolinea come l’attuale modello economico, improntato alla ricerca spasmodica della crescita economica, non sia sostenibile nel lungo periodo (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 22). In alternativa ad esso, l’economista francese propone un diverso paradigma socio-economico basato sui valori della a-crescita, cioè su valori che non tengono in considerazione l’aumento del Pil fine a se stesso. L’adozione di questo tema come oggetto della tesi non è casuale. A differenza delle generazioni precedenti, quelle nuove non possono smettere di pensare ad un futuro veramente sostenibile, in grado cioè di preservare l’ecosistema e la convivenza civile non strettamente mercificata. Nelle attuali condizioni, i segnali d’allarme lanciati da un pianeta sfruttato oltre misura sono numerosi, come hanno confermato negli anni vari studi.1 D’altra parte, gli sforzi compiuti a livello mondiale per arginare i danni causati dallo sviluppo sono a tutt’oggi ben lontani dall’essere sufficienti. Da qui l’interesse verso un sistema alternativo che

1

Cfr. Meadows et al, (1975), (1992) e (2004), Leape (2008) e Pollard (2010).

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si prefigga di risolvere in modo esplicito il tema della scarsità delle risorse naturali e il tema della ricchezza delle relazioni umane, attraverso un radicale riassetto delle finalità e dell’organizzazione economica. Proprio per cercare questo paradigma alternativo, in un primo momento si era scelto di iniziare la presente ricerca incentrandola sul tema della decrescita. Si volevano analizzare le sue fondamenta teoriche, le critiche da essa mosse all’economia tradizionale e gli apporti forniti nel tempo dai diversi teorici che a questo paradigma alternativo hanno contribuito. Ci si è però immediatamente resi conto che la vastità e la complessità dell’argomento richiedevano una trattazione troppo estesa per essere affrontata in modo esauriente in una tesi triennale, con il rischio di creare un elaborato dispersivo. Si è quindi optato per un restringimento del campo d’azione dell’indagine, senza però ledere l’intenzione originaria. A tal proposito, si è incentrato questo lavoro sullo studio di Serge Latouche e sul modo in cui questo autore ha affrontato il tema della decrescita. Abbiamo potuto individuare con chiarezza le motivazioni che hanno spinto l’economista francese a schierarsi contro il paradigma economico dominante e a favore di un paradigma alternativo: quello appunto basato sulla decrescita economica. Questo restringimento dell’argomento di tesi, oltre ad evitare la dispersione, ha permesso di raggiungere due risultati in qualche modo originali: 1. La stesura di una prima biografia di Latouche, pur nelle sue limitazioni e nella sua forte incompletezza. 2. Una chiave di lettura dell’evoluzione del suo pensiero, che è stato diviso in tre fasi: una prima fase di cieca fede nel marxismo, una seconda fase incentrata sull’importanza dei problemi e degli stili di vita del Terzo mondo, una terza fase che si concentra sulla vera e propria teorizzazione del sistema di decrescita. Fintantoché perdurerà il sistema economico attuale, la decrescita ed il movimento che nel tempo si è costituito attorno ad essa non cesseranno di attrarre attenzione – non fosse altro 162


che per curiosità. Il tema proposto è infatti oggetto di discussione in molteplici convegni, sparsi nei quattro angoli del mondo. L’ultimo in ordine di tempo, che ha visto la partecipazione dello stesso Latouche, è stato organizzato a Parma il 7 e l’8 ottobre 2010, nell’ambito degli eventi Kuminda.2 In questa sede si è evidenziato come l’attuale crisi economica non sia in realtà che la punta di un iceberg di un malessere più profondo (Latouche, 2010b). Di fronte a questi scenari preoccupanti, il movimento della decrescita sembra formulare una proposta in grado di sganciare la società dalla «tossicodipendenza da crescita» (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 26) e ridare ad essa la tranquillità che, allo stato attuale, sembra aver perso. La teoria della decrescita è composta allo stesso tempo sia di una componente profondamente critica, sia di una componente propositiva. Queste due anime del nuovo paradigma della decrescita sono fortemente interrelate: per costruire una società alternativa, basata su valori e su priorità differenti da quelle promosse dall’economia attuale, bisogna necessariamente passare prima per un deciso rifiuto del vigente sistema economico. In questo capitolo conclusivo tireremo le somme sui punti fondamentali della nostra analisi. Nella Sezione 6.2 si riassumeranno le tappe principali del percorso intellettuale di Latouche, mostrando come egli sia passato da una profonda fede nel socialismo marxista all’elaborazione della teoria della decrescita. Nella Sezione 6.3 si esporranno i risultati ottenuti dallo studio delle opere di Latouche. Nella sezione 6.4, infine, ci si rivolgerà al futuro, presentando due scenari: 1. Uno scenario che preveda una rapida adozione del sistema della decrescita. 2. Uno scenario (allo stato attuale più realistico) che ignori i ripetuti allarmi ambientali ed economici e continui a perseguire gli ideali di sviluppo economico così come è stato fatto finora.

2

Kuminda è un evento a cadenza annuale promosso dall’associazione Cibopertutti, la quale si occupa di «contribuire attivamente alla creazione di un mercato mondiale del cibo equo e accessibile a tutti, che rispetti la sovranità alimentare dei popoli e garantisca mezzi di vita sostenibili a tutte le comunità del Sud e del Nord del mondo e sostenere un'agricoltura locale e globale basata sull'uso sostenibile e democratico delle risorse naturali» (Kuminda, 2010a).

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6.2 – Latouche: una vita verso la decrescita Avendo al centro il nostro autore, la tesi è stata concepita con alla base due capitoli fondamentali: il Capitolo 3 ed il Capitolo 4. Il Capitolo 3 tenta di ricostruire la biografia intellettuale di Latouche. A questo fine, si sono raccolte tutte le informazioni disponibili sulla vita dell’economista, pur nella loro incompletezza, e si è cercato di esporle ordinatamente secondo una scansione cronologica. Questo ha fornito le basi per una migliore comprensione dell’evoluzione del suo pensiero. Di quest’ultimo e delle opere di Latouche che lo contengono si è occupato in modo specifico il Capitolo 4. In entrambi i capitoli si è operata una suddivisione delle fasi della sua vita (e delle sue opere) in tre momenti fra loro relativamente coerenti: 1. Latouche giovane (vedi Sezioni 3.2 e 4.2). Questo periodo è caratterizzato in primo luogo da una ferma condanna alla società capitalista, in secondo luogo da un attaccamento ai principi economici del marxismo, ritenuti fondamentali per perseguire un ideale di sviluppo equilibrato e non intrusivo nei confronti delle società presenti nel Terzo mondo. 2. Latouche adulto (vedi Sezioni 3.3 e 4.3). L’economista francese avverte che l’Occidente è responsabile della povertà in cui si trova il Terzo Mondo. Egli conferma ed estende le sue forti critiche al sistema economico e culturale dell’Occidente, ma sviluppa una critica altrettanto convinta verso l’approccio marxista che inizialmente lo aveva affascinato. In questa fase egli non sembra essere in grado, però, di trovare una valida alternativa al modello oggi dominante. 3. Latouche maturo (vedi Sezioni 3.4 e 4.4). Risale a questo ultimo periodo l’elaborazione della cosiddetta “società di decrescita”, la quale si propone di affrontare contemporaneamente: a. I problemi del Terzo mondo, grazie all’incentivo della localizzazione e dell’autoproduzione. 164


b. I problemi del mondo Occidentale, una volta liberato dalla schiavitù della crescita. c. I problemi ecologici, grazie ad un rinnovato inserimento dell’agire umano all’interno di un contesto compatibile con l’ambiente. A questi due capitoli centrali ne abbiamo aggiunti due in grado di completare la cornice riguardo al tema della decrescita. Il Capitolo 2 ha avuto il compito di mostrare le radici teoriche che sottendono al paradigma della decrescita. Il Capitolo 5 ha affrontato invece il difficile tema della sua realizzazione pratica, cioè degli obiettivi e degli strumenti che il movimento della decrescita propone per attuare il suo disegno alternativo. Si è messo a confronto la politica economica della decrescita con quella ufficiale, facendone risaltare i punti di convergenza e, soprattutto, i numerosi punti di contrasto. Come si è già chiarito all’inizio della tesi (vedi Sezione 1.3), il metodo di ricerca è stato prevalentemente di tipo storiografico. Si discosta da questo metodo in parte il Capitolo 5, il quale, affrontando in termini normativi l’economia della decrescita in opposizione a quella della crescita, ha dato più spazio a considerazioni logico-teoriche, piuttosto che a considerazioni bio-bibliografiche. Le difficoltà nella realizzazione di questo progetto non sono mancate. Il maggiore ostacolo incontrato durante la ricerca è stato sicuramente il reperimento delle fonti. Esse nella maggior parte dei casi si dimostravano o ripetitive oppure incomplete. In certi casi esse risultavano addirittura di impossibile reperibilità. Le difficoltà oggettive di reperimento del materiale (come per esempio l’assenza di una biografia completa di Latouche) hanno coinvolto in particolare la stesura dei Capitoli 3 e 4, i quali in certi casi non sono così dettagliati come avremmo voluto. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda la vita e gli scritti del giovane Latouche. Dei suoi iniziali scritti, per esempio (vedi la sua tesi di dottorato), possediamo solo dei commenti sparsi ricavati da interviste fatte allo stesso Latouche (2005b e 2006b).

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Questo nostro lavoro, quindi, non esaurisce completamente il compito che ci eravamo prefissati. Ulteriori approfondimenti e ricerche gioverebbero ad una completa comprensione di questo autore e del tema di cui egli è portatore. Sebbene si sia avuta la possibilità di un contatto diretto con questo stesso autore, ottenendovi una schematica autobiografia (Latouche, 2010a), molti rimangono ancora gli interrogativi sulla sua formazione. Le numerose interviste a lui rivolte riguardano essenzialmente il tema della decrescita e della sua fattibilità, e non il tema della formazione intellettuale e dell’evoluzione nel tempo del pensiero del suo maggior teorizzatore (si veda ad es. Latouche, 2009a, 2009b). Come si è più volte sottolineato, l’autore trattato e il tema affrontato non sono circoscrivibili in un ambito strettamente economico e coinvolgono invece diverse discipline. Ne risulta che la terminologia adottata dall’autore, e di conseguenza presente all’interno di questa stessa tesi, segue un suo gergo particolare, che risulta in parte indecifrabile rispetto al linguaggio economico tradizionale. Di conseguenza abbiamo costruito un Glossario essenziale, riportato dopo questo capitolo, in cui compaiono i termini più peculiari riguardo il tema trattato.

6.3 – I risultati ottenuti Riassumiamo di seguito schematicamente i principali risultati che questa tesi ha raccolto, in primo luogo sulla vita e le opere di Latouche, in secondo luogo sul tema della decrescita. Iniziamo prima con alcune considerazioni riassuntive su quanto emerso dall’analisi del pensiero di Latouche: 1. Latouche non è un economista in senso stretto. Non utilizza gli strumenti propri dell’economia, né tantomeno condivide gli obiettivi che un economista tradizionale tipicamente cerca di perseguire. 2. Latouche per molti versi è assimilabile, come orientamento, agli economisti del secolo XVIII. Gli studiosi dell’economia dell’epoca (tra i quali Adam Smith) si occupavano dell’organizzazione sociale e statuale, oltre che di quella economica. Non era inusuale che essi affrontassero temi attinenti alla sfera della psicologia, della filosofia, della 166


morale, non meno di quella più propriamente economica dell’utilità e del valore dei beni e della loro produzione. Similmente Latouche in numerosi suoi libri (cfr. ad es. Latouche, 2000a, 2003, 2005a) spazia nell’affrontare argomenti che sembrano dominio più delle scienze sociali che, in senso stretto, della sola economia. 3. La sua formazione e i suoi studi, d’altra parte, giustificano questa sua atipicità come economista. Egli ricevette una formazione in scienze politiche. Le sue esperienze di lavoro non hanno coinciso con l’attività strettamente accademica (basti pensare agli incarichi svolti in Africa ed in Laos per conto delle autorità governative locali). Le realtà con le quali egli si è confrontato, infine, non sono state strettamente occidentali e spesso offrivano una base culturale di natura quasi opposta a quella del suo paese d’origine. 4. Abbiamo già evidenziato come si possano individuare tre periodi che scandiscono la vita intellettuale di Latouche: il periodo del giovane Latouche, del Latouche adulto e di quello maturo. Esistono, tra di essi, degli elementi di continuità, ma anche delle sostanziali differenze. 5. Gli elementi di continuità nei tre Latouche si possono riassumere in cinque punti principali: a. La critica al sistema occidentale di produzione e di scambio. b. La visione delle relazioni internazionali in chiave Nord-Sud. c. L’antagonismo e lo sfruttamento del Nord a danno del Sud: una visione cioè imperialistica del primo sul secondo. d. L’importanza e l’attenzione riguardo ai temi della disuguaglianza sociale, non solo fra stati, ma anche fra individui e fra classi di individui all’interno di ogni Stato. e. La valorizzazione degli aspetti non commerciali della società e l’importanza delle relazioni umane non mediate dal mercato. 167


6. Gli elementi di discontinuità fra i tre Latouche, invece, possono essere così schematizzati: a. La fede nella teoria marxista-leninista, caratteristica del Latouche giovane, si sfuma progressivamente nel Latouche adulto e nel Latouche maturo. Va notato tuttavia (si vedano i punti di continuità) che diverse categorie di pensiero proprie del marxismo rimangono nelle sue elaborazioni, come ad esempio l’attenzione verso la disuguaglianza. b. Il Latouche giovane accettava gli obiettivi del capitalismo occidentale (cioè la massimizzazione della produzione), ma negava che il modo più efficace per ottenere questi obiettivi fosse il sistema di mercato. Da qui appunto la sua fede nel marxismo, come modo alternativo di organizzazione sociale (si veda il punto precedente). Nel Latouche adulto e in particolare in quello maturo si nega tuttavia la centralità degli stessi obiettivi, oltre che l’inefficacia dei mezzi di organizzazione sociale per ottenerli. Si nega cioè che la società debba concentrarsi sul paradigma della crescita economica. c. Lo sfruttamento del Sud da parte del Nord viene visto in chiave prevalentemente economica nel Latouche giovane. Nel Latouche adulto e maturo, tuttavia, la chiave si amplia e coinvolge soprattutto gli stili di vita e i modelli culturali delle popolazioni. Lo sfruttamento dell’Occidente diventa deleterio proprio perché mina alla radice questi ambiti socio-culturali delle popolazioni non occidentali. La colpa che il Latouche maturo rivolge all’Occidente e al suo stile di crescita è quello di ridurre e in parte distruggere i modelli di vita sviluppatisi altrove. d. Il tema ambientale ed ecologico è quasi del tutto assente nel Latouche giovane, mentre inizia solo ad emergere come uno dei temi fra i tanti nel

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Latouche adulto. Infine, tale tema diventa centrale nella proposta formulata dal Latouche maturo. e. Nei primi due Latouche (giovane ed adulto) prevale una elaborazione critica della società e dell’economia. Si mostrano i mali del sistema senza proporre però esplicite soluzioni alternative. Nell’ultimo Latouche (maturo), invece, la proposta è esplicita e prevale sulla elaborazione puramente critica al modello economico dominante. Più in generale sul tema della decrescita, e sulle proposte che da questo tema provengono, possiamo elencare i seguenti risultati della nostra ricerca: 1. Il movimento della decrescita (che abbiamo chiamato, per la sua organicità, anche paradigma) è certamente alternativo rispetto al modello dominante, ma soffre delle limitazioni proprie di ogni movimento (e paradigma) nascente: esistono diversi studiosi che se ne occupano, ed ognuno di essi offre una propria chiave interpretativa. Quella di Latouche è probabilmente la prevalente, ma non è l’unica. Abbonda quindi la varietà, mentre manca l’essenzialità di un modello interpretativo che si contrapponga a quello dominante. 2. Ancor oggi la teoria della decrescita si può definire un work in progress, tutt’altro che completo. Molti dei temi da essa toccati sono confinanti con aspetti dell’economia già ben sviluppati (come l’economia dell’ambiente, l’economia del benessere, l’economia Nord-Sud). Tuttavia il modo con cui tale paradigma riassembla e riformula questi campi è manca di sistematicità. Ci sono tanti aspetti in cui le domande sono ben più abbondanti delle risposte: ad esempio, riguardo il ruolo che lo Stato e il mercato dovrebbero assumere nell’economia della decrescita. 3. L’alternativa del paradigma della decrescita non coinvolge solo gli aspetti economici, ma più in generale quelli socio-politici. Questo significa che la teoria della decrescita non è esclusiva della professione degli economisti (per quanto eterodossi), ma richiede 169


il contributo di sociologi, psicologi, architetti, ingegneri, urbanisti, ecc. Sotto questo aspetto, essa si presenta più come un progetto di organizzazione sociale, che come una semplice teoria economica che descrive “una realtà” produttiva. 4. La teoria della decrescita affronta il tema della felicità, negando l’importanza quantitativa dei beni materiali, e negando persino l’importanza qualitativa di tali beni. Per essa, invece, esiste uno stretto legame tra i “beni relazionali” e lo stato di benessere di una comunità. Ciò significa che il mercato e lo Stato (in quanto operatore economico) avranno meno importanza in questo paradigma rispetto a quanto lo avranno le relazioni della società civile. 5. La politica economica della teoria della decrescita è molto ricca per quanto riguarda gli obiettivi che intende perseguire, ma è povera (almeno allo stato attuale) per quanto riguarda gli strumenti da utilizzare per raggiungere tali obiettivi. In questo senso, essa presta il fianco alla critica (che molti le rivolgono) di teoria utopica, cioè non praticamente realizzabile (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 95). 6. In ogni caso, se questa “utopia” un giorno si realizzerà, o comunque se l’economia si muoverà verso il paradigma della decrescita, la scienza economica perderà probabilmente lo scettro di scienza principale tra le scienze sociali. Infatti nella società della decrescita il mercato e gli scambi commerciali non saranno più così centrali nelle relazioni umane come lo sono ora. Gli uomini non massimizzeranno la produzione e il guadagno, ma massimizzeranno il tempo libero dedicato alle relazioni sociali e alla loro creatività personale.

6.4 – La teoria della decrescita tra apocalisse e “terra promessa” Secondo Latouche l’ideale di una crescita economica illimitata nel tempo è un’illusione. Come evidenziato già nella Sezione 2.3, parlando del movimento della decrescita, esiste una serie di limiti politici, finanziari e fisici (l’entropia) che ne impediscono la realizzazione. Si è sottolineato

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come i limiti del mondo fisico con le sue risorse limitate renda la crescita economica insostenibile nel lungo periodo (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 12). Lo sviluppo delle società umane sembrerebbe così sostenibile unicamente in corrispondenza di una crescita zero dell’economia, ovvero in una società che persegua un «miglioramento qualitativo di una base economica fisica mantenuta in uno Stato stabile definito dai limiti fisici dell’ecosistema» (Daly, 2001, cit. in Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 22). La fattibilità di questo scenario, però, viene respinta da Latouche (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 28), il quale sottolinea la fondamentale differenza tra crescita zero e decrescita. In un’economia di crescita zero ci si limiterebbe «ad un immobilismo conservatore, (…) senza rimettere in discussione i valori e le logiche dello sviluppismo e dell’economicismo» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 22). È necessario quindi un netto distacco da entrambi gli ideali di sviluppo e di crescita. Il motivo sta nel fatto che questi concetti sono intrinsecamente interconnessi, al punto da impedire una loro separazione. Al momento attuale, però, nonostante i ripetuti segnali d’allarme lanciati dal pianeta, si continua ad ignorare l’insostenibilità sia dello sviluppo, sia, in modo più eclatante, della stessa crescita economica. Anzi, negli incontri periodici dei potenti della terra (si veda per esempio anche il recente incontro del G20 a Seoul – Novembre 2010), uno dei punti all’ordine del giorno risulta essere proprio quello di garantire al pianeta una «crescita forte, sostenibile ed equilibrata» (Placido, 2010). Si potrebbe controbattere, alla luce delle considerazioni fatte, che una crescita «forte» non potrà mai per definizione essere sostenibile né tantomeno equilibrata. Se si dovesse ritenere il paradigma della decrescita, secondo Latouche, un progetto fattibile, si dovrebbe ammettere che l’umanità è arrivata davanti ad un bivio, con due possibili opzioni:3 1. Rallentare ed invertire la rotta spontaneamente, adottando quanto prima il sistema economico della decrescita. 3

Cfr. Meadows et al, (1993) e (2004).

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2. Ignorare l’urgenza della decisione e rimandarla ad un momento futuro. La decrescita infatti rappresenta un’alternativa radicale rispetto al modello economico presente, o meglio, per Latouche essa rappresenta la alternativa. Ognuno è personalmente invitato a scegliere, sostiene Latouche, se effettuare responsabilmente «un cambio volontario di direzione nell’interesse di tutti» (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 36) o se trasferire il problema, come si è sempre fatto fino ad oggi, sulle spalle delle generazioni future. L’inefficacia degli sforzi compiuti e le scelte di politica economica intrapresa sinora mostrano come l’umanità e i suoi rappresentanti abbiano preferito cavalcare la seconda opzione, senza mai mettere in discussione la gravità delle conseguenze a cui essa porta. Latouche e Meadows sono concordi riguardo le scelte da fare: prima si effettua il cambiamento (cioè la scelta dell’opzione 1), e più graduale potrà essere l’assestamento economico richiesto. 4 È da notare come secondo Latouche l’abbandono dell’ideale di crescita economica sia in definitiva inevitabile. Non si tratta quindi di decidere se rinunciare o meno al suo perseguimento, ma solo di decidere quando farlo. Continuando al ritmo attuale, arriverà presto il momento in cui le risorse naturali semplicemente non saranno più disponibili: Latouche, abbastanza pessimisticamente, avverte che questo momento potrebbe arrivare addirittura fra meno di trent’anni (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 22). Si tratta di una visione apertamente apocalittica, in assenza dell’opzione 1. L’economia non ha quindi scelta, secondo l’interpretazione data dalla decrescita. Essa dovrà prima o poi inevitabilmente arrestarsi, e nonostante le rassicurazioni date da governanti ed imprenditori, il modello di sviluppo che oggi perseguiamo non è mai stato, né mai potrà esserlo, veramente sostenibile. Se non si interviene presto, un cambiamento di rotta ragionato, graduale e sereno (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 33) non sarà più possibile: l’unica alternativa sarà un brusco riassetto del sistema, la cui portata e le cui conseguenze non sono al momento prevedibili, né auspicabili. Come mostrano le simulazioni dei modelli di

4

Cfr. Meadows et al, (1993) e (2004).

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Meadows et al (1993), gli sforzi a favore di un’economia di crescita provocano permanenti ed irreversibili conseguenze nelle quantità di risorse disponibili in futuro e nella qualità di vita delle generazioni a venire. Fortunatamente, l’apocalisse della «scomparsa programmata della crescita non è necessariamente una cattiva notizia», afferma Latouche (2006b, trad. it. 2010, p. 36) richiamando le idee già formulate da Ivan Illich. Si potrebbe infatti sostenere che decrescere non significa ridurre, ma al contrario, abbandonare un modello, a favore di un’alternativa per nulla peggiore. L’abbondanza della frugalità è non a caso, stando alle dichiarazioni dello stesso Latouche (2010b), il titolo del nuovo libro del teorico della decrescita, di prossima pubblicazione. Tale titolo, anch’esso ispirato alle parole di Illich (cfr. Illich, 1973), è un chiaro ossimoro. Per Latouche, tuttavia, non lo è affatto: produrre più felicità non significa produrre più beni e servizi tradizionali. Significa produrne di meno. Si lascia così più tempo a quelle attività relazionali e di rispetto ambientale che sembrano donarci una dimensione più umana e dunque più felice. Il tema della decrescita, paradossalmente, non è dunque un tema apocalittico, ma diventa una proposta di una “nuova terra promessa”. Quanto fattibile, il futuro ne sarà testimone.

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Glossario

A-CRESCITA: letteralmente “assenza di crescita”, indica un sistema economico slegato dal perseguimento dell’ideale di crescita e di sviluppo economico. Essa si prefigge il raggiungimento di un futuro sostenibile attraverso la sostituzione di beni materiali tramite la sostituzione degli stessi con beni relazionali (Latouche, 2007b, trad. it. 2008, p. 18). Sinonimo di decrescita.

ACCULTURAZIONE: scambio equilibrato, biunivoco ed integrato fra due culture che porta ad arricchimento vicendevole. Contrario di deculturazione (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 68).

BENE

RELAZIONALE: servizi mercantili, ma soprattutto non mercantili, a forte contenuto

interpersonale (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 203).

BENESSERE: stato armonico di salute, di forze fisiche e morali (Devoto & Oli, 1990). BIOCAPACITÀ: capacità di un determinato territorio biologicamente produttivo di generare un approvvigionamento continuo di risorse rinnovabili e assorbire i rifiuti in eccesso (GreenFacts, 2009).

CRESCITA

ECONOMICA: aumento della capacità produttiva di un sistema economico che si

traduce in un aumento del reddito nazionale, cioè del Pil (Bannock et al, 1974, p. 125).

CRESCITA

PER

LA

CRESCITA:

sistema economico orientato, sia oggettivamente, sia

deliberatamente, verso la massimizzazione della crescita economica (Fotopoulos, 2002, p. 31).

DECRESCITA: vedi a-crescita. DECULTURAZIONE: contatto a flusso unico fra due civiltà attraverso un processo di sostituzione della cultura debole per quella dominante. Contrario di acculturazione (Latouche, 1989, trad. it. 1992, p. 68). 175


DUMPING: azione di vendita di un bene o di un servizio a prezzi più bassi del normale. Il termine è spesso usato nel commercio internazionale quando un’impresa vende beni o servizi sui mercati esteri a prezzi nettamente inferiori a quelli praticati sul mercato interno: in tal caso si parla di “prezzi predatori”. Derivato dall’inglese “to dump”, ossia “vendere sotto costo” (Camera di Commercio, 2008).

ECONOMICISMO: termine usato per indicare la riduzione di tutti i fatti sociali a dimensioni economiche. È usato anche per criticare l’ideologia economica che prevede l’offerta e la domanda come unici fattori importanti nelle decisioni, permettendo di ignorare anche altri fattori (Wikipedia, 2010).

ENTROPIA: processo irreversibile di consumo dell’energia e della materia. GLOBALIZZAZIONE: termine di origine anglosassone per indicare l’attuale forma di mondializzazione che concerne, nella sua globalità, tutto il pianeta e tutti gli aspetti della vita (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 175).

IMPRONTA ECOLOGICA: area totale di ecosistemi terrestri ed acquatici richiesta sia per produrre le risorse che una determinata popolazione umana consuma, sia per assimilare i rifiuti che la stessa popolazione produce (Leape, 2008, p. 4).

MIMESI: dal greco μίμησις, ossia imitazione, si identifica con questo termine il processo che consiste nel copiare i comportamenti, i procedimenti, i modi di fare di società straniere, generalmente dominanti. L’imitazione può concernere tanto la tecnica quanto le forme politiche e i modelli di consumo. Il mimetismo è uno dei fattori principali dell’uniformazione planetaria (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 176).

MONDIALIZZAZIONE: può essere economica, tecnica, culturale. Corrisponde alla trasformazione dei problemi e dei fenomeni locali, regionali o nazionali in problemi e fenomeni mondiali (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 176).

NAZIONALITARISMO: neologismo creato da sociologo A. Abdel-Malek per indicare la forma artificiosa di Stato importata nel Terzo mondo, che di solito precede l’esistenza di quella vera e propria nazione che tenta di costruire (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 176).

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NEOCOLONIALISMO: insieme dei rapporti politici ed economici volti a ristabilire il controllo e lo sfruttamento da parte di una grande potenza su quei territori che in passato erano stati sotto il suo dominio (Centri.univr.it, 2001).

OCCIDENTALIZZAZIONE: processo attraverso cui i popoli extraeuropei sono indotti ad assumere le caratteristiche e ad uniformare i loro usi e costumi alla cultura occidentale, assimilandone il modello come punto di riferimento (Latouche, 2000c, trad. it. 2002).

PALABRE: istituzione sociale tipica dell’Africa alla quale partecipa tutta o parte della comunità di un villaggio. Peculiarità di questa istituzione è quella di regolare un contenzioso senza che alcuna delle parti venga lesa (Latouche, 2008b, trad. it. 2009, p. 87).

PRODOTTO INTERNO LORDO (PIL): valore dei beni e dei servizi finali prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo (Blanchard, 2009, p. 39).

PRODOTTO INTERNO NETTO (PIN): valore dei beni e dei servizi finali prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo al netto dell’ammortamento (OCSE, 2001).

PRODOTTO

NAZIONALE LORDO

(PNL): valore del prodotto generato dai fattori produttivi di

proprietà dei cittadini di una nazione, quale che sia il sistema economico in cui sono stati impiegati (Rossi & Tronconi, 2004).

PRODOTTO NAZIONALE NETTO (PNN): Pnl meno gli ammortamenti (Rossi & Tronconi, 2004). PRODUTTIVISMO: aumento indefinito della potenza produttiva allo scopo di soddisfare il benessere sociale attraverso la logica dello sviluppo delle forze produttive (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 206).

REDDITO NAZIONALE NETTO (RNN): valore aggregato dei bilanci dei redditi primari netti sommati in tutti i settori (OCSE, 2001).

REDDITO

NETTO NAZIONALE DISPONIBILE: reddito nazionale netto più trasferimenti correnti in

contanti o in natura verso soggetti residenti da parte di soggetti non residenti, meno trasferimenti correnti in contanti o in natura verso soggetti non residenti da parte di soggetti residenti (OCSE, 2001).

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SOCIETÀ DELLA CRESCITA: società dominata da un’economia della crescita e che da questa tende a farsi assorbire, avente come obiettivo principale (…) se non l’unico, la crescita per la crescita (Latouche, 2006b, trad. it. 2010, p. 25).

SOCIETÀ

DELLA DECRESCITA: società «fondata sulla qualità piuttosto che sulla quantità, sulla

cooperazione piuttosto che sulla competizione, a un’umanità liberata dall’economismo e avente come obiettivo la giustizia sociale» (Latouche, 2003, p. 18-19).

SOVRACRESCITA: l’aumento della produzione «oltre ogni “ragionevole” necessità», provocando sovrapproduzione e sovraconsumo (Latouche, 2006b, trad. it. 2007, p. 206).

SOVRASVILUPPO: contrario di sottosviluppo, indica uno sviluppo eccessivo sia in rapporto ai Paesi meno sviluppati, sia rispetto ai bisogni essenziali e ai limiti degli ecosistemi (Latouche, 2000c, trad. it. 2002, p. 177).

SVILUPPO: incremento sostenuto della produzione economica di uno Stato, normalmente raggiunto attraverso un aumento sia quantitativo che qualitativo del capitale fisico ed umano, e mediante un miglioramento del livello tecnologico (Deardroff, 2010).

SVILUPPO

SOSTENIBILE: forma di sviluppo che permette di soddisfare i bisogni attuali senza

compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i loro (Nazioni Unite, 1987).

UTILITARISMO: Dottrina economica e sociale affermatasi in Inghilterra durante il secolo XIX, il cui maggiore esponente fu Jeremy Bentham, a cui si deve la definizione del concetto. I fondamenti del pensiero utilitaristico sono: 

Le scelte ed il comportamento razionale dei soggetti economici tendono inevitabilmente a massimizzare il benessere e a minimizzare la pena;

Il benessere sociale è dato dalla somma delle utilità individuali, definite come la differenza tra i piaceri e le pene (Dizionari Simone Online, 2010).

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