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info@itsdifferent.it n.49/ 2018 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà (tobiadona@itsdifferent.it COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Tobia Donà (tobiadonà@itsdifferent.it) Carlo Lanzioni - Claudio Notturni - Mara Pasti Lehila Laconi FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto info@millemedia8.it
Ravenna via Cavina, 19 tel.0544.684226 - 348.7603456 info@millemedia8.it REALIZZAZIONE GRAFICA Luca Vanzi (lucavanzi@itsdifferent.it) WEB DESIGNER Millemedia8 Ravenna www.millemedia8.it STAMPA Tip. GE:GRAF srl Edizione Emilia Romagna
RIVISTA ACCEDITATA
74°MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA La Biennale di Venezia 2017
Copertina Fotografia: Sandra Bourhani modella: Asia Ostiapiuk @nologomgmt styling: Nicole Preziosi art designer: Filomena Guzzo make up and hair: Christophe Lambenne cinematographer: Tommaso Alvisi
di parole faccio arte Milano - Roma -Torino Whitelight Art Gallery, galleria di arte contemporanea fondata da Marta Menegon e Giorgia Sarti e Copernico, piattaforma di spazi e servizi dedicati allo smart working, consolidano la loro collaborazione - nata nel 2016 con la presenza della galleria nell’Art Basement di Copernico Milano Centrale - e presentano “di Parole faccio Arte” un percorso d’arte ambizioso e coraggioso, senza confini geografici ma con precisi confini progettuali e tematici che toccherà 4 sedi di Copernico in Italia a Milano, Torino e Roma. Si tratta della prima mostra tematica composta da tre personali: Giorgio Milani, Sabrina D’Alessandro e Opiemme, tre artisti e tre diverse prospettive per un viaggio itinerante alla riscoperta della parola e della sua rappresentazione nell’arte visiva. La mostra, nata da un’idea di Giorgia Sarti, co-fondatrice di Whitelight Art Gallery e Guido Galimberti, collezionista storico milanese d’arte moderna e fondatore di Opera Art Solutions, ha come unico filo conduttore la
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parola nell’arte visiva. Tre diversi linguaggi per comunicare una forma espressiva che collega parole e immagini, che esalta la poesia trasformandola in pittura, in scultura, in campo di ricerca e installazione interattiva. Una triplice ricerca di interazione tra immagine e parola, un dialogo a tre voci e a tre velocità diverse tra alcuni dei più interessanti autori di questa ricerca. Ad inaugurare l’esposizione itinerante è stata la personale di Giorgio Milani, artista italiano, famoso per i suoi “poetari” e definito “poeta visivo oggettuale”. Inizia la sua ricerca a metà degli anni ’60 sul rapporto fra immagine e scrittura. Dagli anni ’90 il proprio percorso di ricerca si esprime attraverso l’assemblaggio di caratteri tipografici in legno, ormai divenuti introvabili, i cosiddetti “poetari”. Il 7 febbraio 2018 ha aperto a Milano Copernico Castello per spostarsi poi a Roma a giugno e a Torino a settembre.In seguito,sono state le opere di Sabrina D’Alessandro ad occupare gli spazi di Torino Copernico Garibaldi. Nel 2009 Sabrina D’Alessandro fonda l’URPS (Ufficio Resurrezione Parole Smarrite), “ente preposto al recupero di parole smarrite, benché utilissime alla vita sulla terra”. Attraverso questo Ufficio l’artista cerca, esplora e riporta in vita parole altrimenti perdute, trasformandole in video, sculture, installazioni e “azioni”. Le sue opere partono dalla parola per indagare l’animo umano, e lo fanno in modo brillante, spesso ironico, accompagnandoci in un percorso coinvolgente, che getta una luce diversa sulla realtà che ci circonda. Ed, infine, a marzo a Roma in Clubhouse Barberini è stata la volta di Opiemme, artista che inizia scrivendo poesie. Chiedendosi come svecchiarne la comunicazione, reinventa la fruizione e l’occasione di lettura, cercando nuovi modi con cui presentarla. Trasferisce la sua poetica direttamente su tela, su carta, su
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muro e su qualunque superficie possa ospitare la sua personale ricerca, il suo viaggio all’interno del quale poesia e immagine si fondono arricchendosi reciprocamente di nuovi significati. Attivo sotto pseudonimo, l’artista si distingue per unire poesia ad arte pubblica e per aver spinto il movimento della poesia di strada italiana verso nuovi orizzonti. “In un mondo in cui le parole vengono spesso maltrattate, usate velocemente, adattate e forse piegate alle esigenze dei social network, l’idea di proporre a tutti i membri della nostra community una profonda riflessione sulla parola come protagonista di un viaggio a tre corsie ci è sembrato non solo interessante ma soprattutto stimolante” – ha dichiarato Pietro Martani, Amministratore delegato di Copernico Holding S.p.A. – “Il concetto di arte porta con sé un universo di valori che parlano di creatività, cultura, stile, gusto del bello, capacità di aiutarci ad anticipare le tendenze che possono riflettersi sull’impresa. L’obiettivo della partnership è offrire a partire dalla community di Copernico mostre e momenti di incontro, in cui la cultura diventa una delle leve per promuovere la creatività e l’innovazione. Copernico da sempre è attento alla sfera relazionale e al benessere delle persone che lavorano all’interno dei suoi spazi con l’obiettivo di creare un nuovo lifestyle del lavoro e favorire opportunità di crescita personale e professionale. Proprio per questo ha voluto sviluppare e potenziare la collaborazione con Whitelight Art Gallery, proponendo un progetto unico in Italia, in cui ambienti tradizionalmente dedicati all’attività lavorativa e alla creazione di valore finanziario, si aprono per accogliere esposizioni artistiche, performance site specific, eventi e narrazioni con l’obiettivo di diffondere la bellezza e stimolare la creatività.
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BROOKLYN Tra i luoghi che rimangono più impressi, dopo un viaggio nella Grande Mela vi è sicuramente Brooklyn, quell’enorme quartiere che profuma di vera New York, che è in grado di far innamorare chiunque, quasi fosse il vero fulcro della metropoli. Non so esattamente il perché, avete presente quelle cose che a pelle vi colpiscono? Ecco più o meno è andata così. Complice sicuramente il fatto di avere avuto l’appartamento in una zona carinissima, a Fulton Street: un appartamentino mansardato che puntualmente vibrava ad ogni passaggio della metropolitana. Per i primi giorni era abbastanza fastidioso, poi è diventato un rito da ascoltare, una cosa
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divertente da ricordare. Poi, non so se avete presente, ma Brooklyn è davvero grande, enorme. Il quartiere ha tre volte la grandezza di Manhattan. È una città, è un mondo in crescita che vuole farsi notare, e lo sta facendo nel modo giusto. Il quartiere di Brooklyn è per me la vera NY, quella fatta di persone del posto e di pochi turisti. La bellezza sta nello scoprire le vie e fermarsi a guardare due ragazzi che improvvisano uno spettacolo a bordo strada e che hanno un talento impressionante, ad esempio: ballano, cantano con passione, quasi fossero in un teatro davanti a centinaia di persone. E non puoi passare diritto, fermarsi qualche minuto è d’obbligo, ed è bello. Ma cosa c’è da vedere? I muri di Brooklyn. Sono colorati e pieni di disegni. Murales artistici astratti dai colori vivaci e dichiarazioni d’amore, o semplicemente scritte di protesta per far sentire che il popolo esiste ed è presente in un quartiere che fino a pochi anni fa era al margine, e che ora sta diventando un cuore pulsante. Il Barclays Center è uno stadio dalla struttura avveniristica fatto costruire per i Brooklyn Nets, una delle squadre di basket dell’ NBA. Ha avuto un impatto pazzesco su di me: una specie di onda gigante traforata, con degli schermi che fanno passare in velocità gli eventi della settimana: concerti, partite di basket e hockey su ghiaccio. Mentre ero lì c’è stato il concerto di Elton John, il
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prezzo era pressoché inavvicinabile, ma per una partita di basket potete trovare dei posti a 35 dollari; dovete decidere subito, perché dopo un minuto possono già essere volati via… (esperienza personale). Mentre salivo le scale che mi avrebbero portato sopra il Ponte di Brooklyn non mi aspettavo di emozionarmi così tanto. La mia visuale ha spaziato oltre al ponte per trovarsi davanti uno spettacolo grandioso: lo skyline di Manhattan. È stato all’improvviso, un ultimo gradino e poi mi si è aperto uno spettacolo che ancora oggi mi scorre davanti. Vi consiglio di visitarlo entro le 11 di mattina per trovarlo poco affollato. Ho visto fare jogging, correre in bicicletta, passeggiare con il naso all’insù. Ho visto gente seduta sulle panchine a leggere o semplicemente a guardare cosa le succedeva attorno. È questo, secondo me, lo spirito giusto nel vedere un luogo nuovo, assaporarlo, rendersi conto di tutto quello che ci ruota attorno, non fermarsi al primo impatto. L’ho percorso tutto, con un sorriso immenso. Se avete sempre visto Coney Island in TV nel film “Big”, o ne “ I guerrieri della notte”, o semplicemente letta nel libro “Cose da salvare in caso di incendio”, beh dovete per forza andarci. Ora, non so se in estate assumerà un aspetto diverso da quello invernale, ma a me ha dato l’impressione di essere alquanto surreale. L’enorme parco giochi che la caratterizza nei mesi più freddi è
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in disuso, quasi abbandonato, uno scenario alquanto particolare, ma splendido, sia chiaro. La spiaggia immensa, l’oceano che mormora, i bambini che schiamazzano, scene di vita quotidiana in una parte di New York che con New York non ha niente a che fare, e mi piace molto! Ci sono stata il primo giorno dell'anno, con un vento che alzava la sabbia e un freddo pungente, mentre gruppi di persone in costume con il cappello di Babbo Natale si preparavano a salutare il nuovo anno tuffandosi in mare. Dumbo non è l’elefantino della Disney, ma un quartiere che si sta aprendo agli artisti, appena sotto il Manatthan Bridge. È l’acronimo di Down Under the Manatthan Bridge Overpass. Una volta sede di fabbriche e magazzini ,ora è diventato un luogo dove passeggiare, visitare mostre o anche solo ammirare il panorama che si estende fino alla Statua della Libertà. Bellissimo è verso sera, quando il sole scende e le luci dei grandi palazzi dall’altra parte del fiume si accendono per dare vita ad uno spettacolo senza pari. Ci sono tornata due volte, e non sono bastate: ancora mi immagino vicino al ponte, imbambolata con le lucine mosse dal vento. Se avete intenzione di visitare New York, non sottovalutate il fatto di alloggiare in un appartamento nel quartiere: il costo scende della metà rispetto a Manhattan, che potete comunque raggiungere con 20 minuti di metropolitana. Non affannatevi nel voler visitare tutto, non ci riuscirete nemmeno se state svegli 24 su 24. Fate delle scelte e godetevi la città…
in disuso, quasi abbandonato, uno scenario alquanto particolare, ma splendido, sia chiaro. La spiaggia immensa, l’oceano che mormora, i bambini che schiamazzano, scene di vita quotidiana in una parte di New York che con New York non ha niente a che fare, e mi piace molto! Ci sono stata il primo giorno dell'anno, con un vento che alzava la sabbia e un freddo pungente, mentre gruppi di persone in costume con il cappello di Babbo Natale si preparavano a salutare il nuovo anno tuffandosi in mare. Dumbo non è l’elefantino della Disney, ma un quartiere che si sta aprendo agli artisti, appena sotto il Manatthan Bridge. È l’acronimo di Down Under the Manatthan Bridge Overpass. Una volta sede di fabbriche e magazzini ,ora è diventato un luogo dove passeggiare, visitare mostre o anche solo ammirare il panorama che si estende fino alla Statua della Libertà. Bellissimo è verso sera, quando il sole scende e le luci dei grandi palazzi dall’altra parte del fiume si accendono per dare vita ad uno spettacolo senza pari. Ci sono tornata due volte, e non sono bastate: ancora mi immagino vicino al ponte, imbambolata con le lucine mosse dal vento. Se avete intenzione di visitare New York, non sottovalutate il fatto di alloggiare in un appartamento nel quartiere: il costo scende della metà rispetto a Manhattan, che potete comunque raggiungere con 20 minuti di
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Liu Bolin Di Tobia Donà Liu Bolin spesso chiamato The Invisible Man, è un fotografo e artista cinese. Una mostra al Vittoriano (visitabile sino al primo luglio) ne racconta la storia attraverso oltre 70 fotografie. Del suo lavoro ha detto: “Ho scelto di mimetizzare il mio corpo nell'ambiente perché in questo modo le persone presteranno maggiore attenzione agli aspetti sociali dello sfondo". E’ questo dunque il senso delle sue immagini: perdendosi nella realtà e immergersi nelle cose del mondo fino farne parte, per mettere in evidenza questioni che ci riguardano tutti. Per creare le sue opere Bolin sceglie accuratamente la location e, con la complicità di un team di pittori ,attende in posa per ore che sia completato quel meticoloso lavoro di body painting, volto a rendere il suo corpo perfettamente mimetizzato nello sfondo. Ed è incredibile notare come immagini di questo tipo, così attraenti e curiose tanto da essere veicolate in modo virale nel web, nascano da un lavoro manuale che niente ha a che vedere con il foto-ritocco e la postproduzione, ma anzi molto più vicino al metodo operativo della bottega di un pittore del XV secolo, dove ad aiutare il maestro erano in molti, ognuno con un proprio e specifico ruolo. Ma, c’è qualcosa di più che lega queste immagini a un’ideale rinascimentale. Pico della Mirandola filosofo del ‘400, affermava che Dio ha posto nell'uomo non una natura determinata, ma un’indeterminatezza che è dunque la sua propria natura e che egli può regolare come crede, per fare ciò che vuole. Questo bisogno di porre una nuova fiducia nell’uomo unitamente alla necessità di rimarcarne la dignità, evidenzia quanto poco vi sia di ludico o superficiale nella fotografia di Liu Bolin. Nato artisticamente come scultore, Liu ha messo in scena il suo primo lavoro “invisibile” nel 2005, quando una vasta zona di Pechino (il Suojia Village International Arts Camp), abitata per lo più da artisti e nella quale anch’egli aveva lo studio, fu abbattuta dal governo cinese per fare spazio a nuove strutture in vista dei Giochi Olimpici. Si tratta di immagini molto toccanti, nelle quali l’artista appare appunto per la prima volta mimetizzato difronte alle macerie del suo atelier. Una presenza evanescente, quasi impercettibile, ma al contempo impossibile da
LIU BOLIN oltre la realta’
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ignorare. E’ questo disturbo nell’immagine, questo corto circuito che dura alcuni attimi prima che il nostro cervello riesca, superando la fatica, metterne a fuoco i contorni, a dare forza e irresistibile fascino al suo lavoro. “È stata un’azione che ha richiesto un dispiegamento di molte energie - ha raccontato l’artista - pur di rappresentare la mia protesta, diventando un’astuta eco di visibilità per puntare i riflettori sulla difesa di un sogno: quello della libertà nell’arte”. Dopo questa prima serie di fotografie, intitolata Hiding in the City, il progetto è continuato prendendo maggiore forma e consistenza, indirizzando le proprie critiche alle politiche di regime allora in atto in Cina. Sono espressione di questo nuovo ciclo le immagini nelle quali l’artista “scompare” davanti agli ideogrammi di propaganda politica, dipinti sui muri in piazza Tienanmen. Inizia così la sua straordinaria carriera, con un successo tanto grande quanto inaspettato. Le sue performance lasciano la Cina per migrare in vari luoghi del mondo, simbolo del nostro contemporaneo, per attivare riflessioni su temi politico-sociali globali, come ad esempio il rapporto tra società civile e potere finanziario, realizzata davanti al Toro di Wall
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Street, nella quale l’artista ne assume i colori e le sembianze (serie Hiding in New York, 2011). Come anche la cospicua serie che riguarda i monumenti, il rapporto con il passato e la conservazione o distruzione della memoria storica, che in Italia l’ha visto davanti ai principali simboli della nostra cultura e del nostro passato: Piazza San Marco a Venezia, il Teatro Alla Scala di Milano o l’Arena di Verona (serie Hiding in Italy, 2010). Immagini tanto potenti capaci creare stupore e meraviglia, non potevano passare inosservate ai grandi brand che se le contendono come icona dei loro prodotti. Sono, Tod's, Ferrari o Moncler, che addirittura crea un piumino con impresso sul tessuto il camuflage usato dall’artista per scomparire davanti un iceberg. La mostra al Vittoriano, meglio di mille parole, vi racconterà oltre dieci anni del suo lavoro, dalla prima perfomance a Pechino fino agli scatti più recenti appositamente realizzati, alla Reggia di Caserta e al Colosseo, per la mostra romana. Una visita nella quale sperimentare il piacere baudelairiano di perdersi o il desiderio pirandelliano di scomparire per sempre, come Mattia Pascal!
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ART CITY BOLOGNA
Arte Fiera 2018, per la seconda volta con la direzione artistica di Angela Vettese è diventata ancora più grande, coinvolgendo più ampliamente la città di Bologna con un ricco calendario di eventi collaterali e mostre sparse per il centro. Particolarmente curata è stata la sezione Modernity, con un approccio alla modernità attraverso piccole mostre personali disseminate tra gli stand di alcune gallerie (Maria Lai, Martino Genchi, Regina José Galindo, Joan Jonas, Terry Atkinson e altre); fuori, la sezione “Polis” che si è arricchita con nuove declinazioni, aggiungendo alcune installazioni in suggestivi e imprevisti spazi della città (Polis / Artworks), un programma di performance tra fiera e Colleggio Venturoli (Special Projects: Performing the gallery), una rassegna di film sul tema di comunismo e postcomunismo, a cura di Mark Nash, sia al MAMbo che in Fiera (Polis / Cinema) e la rassegna BBQ che ha messo in connessione le mostre di alcuni spazi no profit e artist run space.
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Probabilmente migliaia le opere in vendita, con prezzi che oscillavano tra 3mila e due milioni di euro. Centinaia gli artisti, da Picasso, presentato da due o tre gallerie tra le quali Tega di Milano con due preziosissimi disegni su carta, passando per i grandi autori internazionali come Andy Warhol, Christo e Jeanne-Claude, Robert Indiana presentato dalla Contini Art UK, sino ad autori giovanissimi che hanno esordito per la prima volta in questa manifestazione che è, e rimane, un punto di riferimento privilegiato per il collezionismo italiano. Tanta la fotografia e tantissimi gli autori italiani: da Anna Di Prospero e Silvia Camporesi nello stand della MLB di Ferrara, a Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Luigi Ghirri e Mimmo Jodice presentato dalla galleria Valeria Bella di Milano. La sezione di Fotografia era affidata ad Andrea Pertoldeo, docente universitario. Molte le gallerie che hanno scelto di portare in fiera un solo artista, come ad esempio la galleria bolognese De’ Foscherari, che ha scelto Gianni Piacentino artista storicizzato che non ha bisogno di presentazioni. Tra la moltitudine di opere spiccavano Ethnographic MuseumThe Nok and Ife series di Zango Katof, autore proposto da Officine dell’Immagine. Si tratta di un’artista di origine nigeriana ma che vive da diverso tempo negli Stati Uniti, la cui produzione è caratterizzata da un mix di diversi media,
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affrontando diversi temi come la violenza sulle donne, la politica e la società patriarcale, ma anche la maternità e la moda. E non poteva mancare Maurizio Cattelan la star internazionale dell’arte le cui opere stupiscono, incuriosiscono, scandalizzano e lasciano quasi sempre a bocca aperta oltre a suscitare emozioni, un artista che proprio a Bologna ha avuto i suoi esordi. La galleria d’arte Farsetti presentava l’opera Untitled, una grande fotografia che ritrae lo stesso Cattelan, in maniera ironica e divertente. Grande spazio, come consuetudine è stato dedicato all’editoria di settore con le principali e autorevoli riviste; Flash Art, Arte, presenti con un loro stand ed anche molti “Libri d’artista” come quelli proposti dall’editore Danilo Montanari. Per Lorenzo Balbi, neo direttore del MAMbo, nonché nuovo direttore artistico di Art City, il programma istituzionale di iniziative promosso dal Comune di Bologna, questa edizione è stata la sua prima vera prova sul campo con dieci eventi e un progetto speciale affidati ad altrettanti curatori che li hanno ideati, ogni uno per un luogo specifico. Infine, azzeccatissima è stata la rassegna di film della Cineteca per Art City Cinema ed innumerevoli gli eventi ed esposizioni di gallerie, collettivi, scuole e spazi privati che hanno fatto di Bologna il centro dell’arte contemporanea.
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Perché visitare Amsterdam? La risposta corretta è: perché non farlo? Perché non perdersi tra i numerosi canali che circondano il centro storico di Amsterdam e che costituiscono un' attrazione unica al mondo, tanto da essere considerati patrimonio dell’Umanità dall’Unesco? Perché non ammirare i molteplici ponti che la caratterizzano, dai più romantici e antichi ai più tecnologici, magari affacciandosi all’angolo tra Herengracht e Reguliersgracht e abbracciandone ben quindici con un solo sguardo? Perché credere che la luce sia soltanto quella che si può vedere, quella che crea magici sogni e incubi meravigliosi? Esiste una luce più intensa, più forte, più profonda, una luce che entra dentro e che penetra nell’ animo, nella mente. È la luce della cultura che attraversa i vicoli e i canali e pulsa dai bellissimi musei e centri culturali del Museumsplein, un enorme spazio verde circondato dalla più alta concentrazione di arte, non soltanto ad Amsterdam ma in tutti i Paesi Bassi. Tra questi, il Rijksmuseum che raccoglie la più grande collezione al mondo di opere fiamminghe, tra cui alcune di Vermeer e di Rembrandt, in particolare la “Ronda notturna”, dipinto famoso a livello internazionale e caratterizzato da colori particolarmente vividi e intensi. E poi il museo Sedelijk, totalmente dedicato all’arte moderna e contemporanea; il Van Gogh Museum che consta della più grande collezione di dipinti e disegni
dell’eccelso artista, tra cui vari autoritratti eseguiti allo specchio, il dipinto dei girasoli, con i suoi gialli intensi e declinati in varie sfumature, il quadro raffigurante la camera dell’artista e quello incentrato sui mangiatori di patate, in cui è perfettamente riprodotta la situazione dei contadini olandesi nel corso dell’Ottocento, in particolare la loro povertà. Infine, il Concertgebouw che completa il quadrilatero dell’arte della capitale. Amsterdam però non è soltanto luci, non è soltanto cultura ma è anche ricordo, sofferenza, dolore, morte: quella di un’adolescente di nome Anne Frank, la cui casa è diventata ora un museo, per non dimenticare, per non cancellare gli orrori di un passato non così lontano; le luci di Amsterdam illuminano anche il buio di un terrore che non va dimenticato e che la città non smetterà mai di far rivivere, com’è giusto che sia. E quando poi al mattino le luci artificiali cedono il passo a quelle reali, del pallido sole mattutino, la città si mostra nel suo pieno
dell’eccelso artista, tra cui vari autoritratti eseguiti allo specchio, il dipinto dei girasoli, con i suoi gialli intensi e declinati in varie sfumature, il quadro raffigurante la camera dell’artista e quello incentrato sui mangiatori di patate, in cui è perfettamente riprodotta la situazione dei contadini olandesi nel corso dell’Ottocento, in particolare la loro povertà. Infine, il Concertgebouw che completa il quadrilatero dell’arte della capitale. Amsterdam però non è soltanto luci, non è soltanto cultura ma è anche ricordo, sofferenza, dolore, morte: quella di un’adolescente di nome Anne Frank, la cui casa è diventata ora un museo, per non dimenticare, per non cancellare gli orrori di un passato non così lontano; le luci di Amsterdam illuminano anche il buio di un terrore che non va dimenticato e che la città non smetterà mai di far rivivere, com’è giusto che sia. E quando poi al mattino le luci artificiali cedono il passo a quelle reali, del pallido sole mattutino, la città si mostra nel suo pieno
splendore, con il verde del Vondelpark che ossigena la metropoli e la completa, assieme all’ arte e alla vita che la caratterizzano. Ed ecco, quindi, che il giallo del sole, il blu spesso offuscato del cielo, il verde-marrone dei prati e dei parchi, uniti ai colori sgargianti e spesso aggressivi della città e delle sue molteplici e strettissime case, poste l’ una attaccata all’ altra, creano quell’ atmosfera unica che solo Amsterdam è in grado di regalare.
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FABIO NOVEMBRE Sono veramente pochi gli architetti italiani che possono vantare collaborazioni con i grandi marchi di tutto il mondo. Fabio Novembre è uno di loro! In venti anni di carriera, si è imposto nella nuova generazione di designers milanesi, che con innovazione, stile e cultura, ha naturalmente preso il posto dei padri fondatori di questa disciplina, che ha fatto di Milano e dell’Italia intera, l’icona di stile per eccellenza. Novembre sin dai suoi esordi ha avuto il merito di mettere d’accordo critica e committenza, imponendosi con una forte personalità dagli eccessi sempre misurati e corrispondenti ad un estremo rigore. Egli risponde al minimalismo, al tempo imperante con una straordinaria inventiva che colloca la sua opera molto più vicina all’arte e alla creatività di un artista. La scultura diventa design, e la rappresentazione dell’uomo la sua straordinaria attitudine. Leccese di nascita si trasferisce giovanissimo a Milano, dove si laurea in architettura al Politecnico. Studia regia cinematografica a New York, viaggia, studia, riflette. Il suo esordio avviene nel 1994 quando Anna Molinari gli commissiona l’allestimento dei Blumarine Stores ad Hong Kong, Taipei e Londra. Da questo momento la sua ascesa sarà inarrestabile. All’edizione 2018 del salone di Milano, Fabio Novembre si conferma ancora uno dei più visionari e creativi autori contemporanei del panorama internazionale. Suo il tappeto Sottosopra I di Illulian, una prospettiva da sotto in su, che ci riporta alla tradizione pittorica del’600, dove l’uso sapiente della prospettiva era in grado di ipnotizzare le folle, ne è uno straordinario esempio la volta
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CASA MILAN ARCHITECT FABIO NOVEMBRE DESIGN TEAM CARLO FORMISANO - DINO CICCHETTI - GORGIO TERRANEO - NICOLA BARTOCELLI - LAURA BEVILACQUA - LUCA TROTTA
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dipinta da Andrea Pozzo nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a Roma. Ma la citazione prospettica di Novembre potrebbe avere le sue radici anche negli odierni disegni degli street artist , che simulano crateri e crepacci sull’asfalto che poi diventano virali nel web. Il suo è insomma uno stile che fonde presente e storia, tradizione e innovazione tecnica. Per questa edizione del Fuorisalone, ha presentato a Milano anche una nuova collezione di superfici, attraverso un allestimento da lui stesso progettato per lo showroom Lea Ceramiche. Il nome del prodotto è Concreto, e riflette la filosofia del marchio di mettere al centro una continua evoluzione di idee e tecnologie e una profonda ricerca estetica sui materiale. “Concreto è una collezione pensata per chi non vuole barriere - ha affermato recentemente Fabio Novembre - per chi adotta una vita senza soluzione di continuità, per chi non vuole essere
ingabbiato”. Un’idea di libertà assoluta, che emerge sin dal principio in tutte le sue creazioni, basti pensare al mobile che nel 2002 egli inventa per Cappellini, “And”, un mobile “a spirale” componibile all’infinito, nel quale l’osservatore sembra essere completamente risucchiato come in una sorta di portale cosmico nato per ricongiunge l’uomo allo spazio infinito del cosmo. Da Cappellini a Bisazza, da Carpisa a Meltin’Pot, e poi BMW, Reebok, Kartell, Tommy Hilfiger e tanti altri marchi si contendono la sua creatività per renderla icona del proprio brand. Un prodotto dopo l’altro, un progetto dopo l’altro, Fabio Novembre diviene una vera e propria star e nel 2009 la Triennale di Milano gli dedica una grande mostra antologica, dal titolo “Il fiore di Novembre”. Contradistinta da uno spettacolare allestimento espositivo che si presentava ai visitatori come un vero e proprio tunnel attraverso il quale
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HIT GALLERY - HONG KONG - ARCHITECT FABIO NOVEMBRE DESIGN TEAM CARLO FORMISANO - GIORGIO TERRANEO
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IL FIORE DI NOVEMBRE - TRIENNALE MILANO - ARCHITECT FABIO NOVEMBRE
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immergersi, nel pensiero creativo dell’artista. Impossibile citare qui tutti i brands per i quali ha lavorato come le innumerevoli realizzazioni in Italia e nel mondo, ma non possiamo non citare Abarth, Blumarine, Fiat, Stuart Weitzman, Lavazza, per la quale ha realizzato “The Smoking Cup”, un viaggio sensoriale costruito intorno alla tazzina, elemento iconico dell’azienda in occasione di Expo 2015 al Padiglione Italia. E dello stesso periodo è anche una delle sue più straordinarie realizzazioni, un vero e proprio monumento del suo pensiero artistico e del suo stile inconfondibile. Mi riferisco naturalmente alla nuova sede del Milan in via Aldo Rossi a Milano, a pochi passi da San Siro. Non solo una palazzina per gli uffici della dirigenza rosso nera, ma anche un ristorante, uno store e un museo dedicato alla storia della squadra più amata dai milanesi. Nel raccontare il progetto Novembre
TRIENNALE DESIGN MUSEUM EXHIBITION DESIGN FABIO NOVEMBRE
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ha detto: “Nel linguaggio comune siamo portati ad associare il calcio alla parola gioco, non a sport. Si tratta certamente di uno sport riconosciuto e codificato, ma la sua componente ludica lo ha reso il più diffuso al mondo’’ ed ha aggiunto’’ Io l'ho sempre considerato una grande metafora della natura evolutiva umana”. Consiglio a chi passa da Milano di visitare questo luogo, di fermarsi davanti alla vetrine dello store, dove calciatori giganti, del’inconfondibile colore rosso che, Fabio Novembre ha oramai legato a sé, attraversano delle pesantissime colonne in cemento bianco. Come degli dei, immateriali ed immaginifici, corrono più veloci del tempo e delle mode, scrivendo contemporaneamente la storia delle arti e del design.
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MUSTAFÀ SABBAGH La ver à dell’esperienza umana
di Tobia Donà La bellezza, ma anche la brutalità catastrofica che solo l’essere umano può sprigionare e dare vita. È forse questo il territorio buio, percorso palmo a palmo in modo coraggioso e disincantato da Mustafà Sabbagh. Egli plasma la sua anima attraverso creature inconsuete: manichini viventi interpreti del suo vedere. Inquadrature raffinate, situazioni inverosimili ma che ricalcano a pieno tutto il feticismo e il narcisismo dell’epoca digitale. È appunto uno “strano mondo”, fascinoso specchio di ciò che siamo o, ancor peggio di ciò a qui tendiamo. Una lunga ed interminabile narrazione quasi teatrale nella quale Mustafà Sabbagh, esprime la verità dell’esperienza umana, dove egli condensa ironia e tristezza, gioia e speranza, gli alternati umori più disparati come un sensitivo, che fanno dell’esistenza un imprevedibile palcoscenico. La finzione è il modo migliore per strappare la verità profonda delle cose, ecco che l’invenzione così formidabile dei suoi soggetti, tutti così unici e diversi, sembra non farli appartenere alla stessa specie che, peraltro, si chiama specie umana. Ma chi è Mustafà Sabbagh? A quali enigmi sottende la sua creatività? Scopriamolo insieme.
Come sei approdato alla fotografia? Iniziai da bambino, giocando con una vecchia Polaroid. È sempre stato giocando che mi sono ritrovato innamorato. Mediante il mio gioco amoroso con la fotografia non mi interessava la ricezione visiva del vissuto, ma quel gesto atavico di ricongiungimento con la mia memoria emotiva. Per questo motivo, credo che la fotografia sia un codice trasmissibile del nostro DNA. Da fotografo professionista nell’ambito della moda ad artista che utilizza principalmente la fotografia, - ma anche l’installazione, i suoni… Da nomade ho sempre rigettato i muri divisori - fra le persone, fra i territori, fra le discipline dell’arte e della cultura. Non esistono confini, solo punti di connessione. La fotografia è il mezzo per mettere in atto il mio pensiero. Nessuna mia foto sarà mai isolata dal contesto, che oggi – dopo avere acquisito un certo grado di autoconsapevolezza del mio essere nello spazio - prende anche la forma dell’installazione. I suoni ne rappresentano l’anagramma tra il pensato e il visto, reso visivo.
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Cosa riconosci al nostro paese in ambito artistico: maggiore ispirazione? Maggiori possibilità? Pensare all’Italia semplicemente come ad uno spazio fisico sarebbe riduttivo. Il concetto-arte viene alla luce da un pensiero-società, ed è stata Roma a partorire la prima forma di Stato, il che ha generato una risposta culturale strutturata per riflettere sullo stato delle cose. L’ispirazione non è altro che vivere in modo totale il contesto. Stato, religione, parola, il senso dell’avvenire… È dall’analisi di queste condizioni primarie, condicio sine qua non, che può nascere un artista.
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Hai vissuto all’estero, parli un ottimo inglese, come mai ti sei stabilito in Italia? Non basta parlare la lingua di un posto per sentirsi a casa. Casa è dove la tua mente vive ogni attimo. L’Italia è la mia anima sofferta. Come artista ti esprimi sempre per “cicli”, per “progetti”, con un tuo stile sempre molto preciso e riconoscibile. Come nascono i progetti? Come essere sempre riconoscibili? Il tempo richiesto da un mio progetto è fisiologico, ma la gestazione mentale non è come quella fisica. Niente è prestabilito. Ogni ciclo richiede un suo proprio tempo, ed insegue una sua propria verità. Per questo motivo, credo che non riuscire ad essere riconoscibili sia un limite proprio di chi non lavora sulla sua verità. La mia è quella di riuscire a comunicare un valore etico attraverso una forma sublime come l’estetica. Quanto conta la tecnica, e quanto il pensiero? La tecnica è l’alfabeto, ma chi sa davvero scrivere è solo chi ha un pensiero da mettere in lettere.
A cosa stai lavorando? Ora a nutrirmi, perché ho fame, con i miei più antichi amici, vecchi libri che mi sanno sfamare.
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Sei molto conosciuto e seguito, anche nei social. Senti una responsabilità sociale nel momento in cui inizi un progetto? Assolutamente no. La responsabilità che sento è profondamente, unicamente personale. Da Schopenhauer a Debord, relativismo, situazionismo: nel mondo è fondamentale solo ciò che ciascun uomo vede.
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THE PINK FLOYD THEIR MORTAL REMAINS
La mostra The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains è una retrospettiva epocale, a cinquant'anni dalla nascita di uno dei gruppi musicali più innovativi e influenti della storia. Acclamata dalla critica e in esclusiva per l’Italia, l’esposizione – promossa da Roma Capitale Assessorato alla Crescita Culturale – al MACRO Museo d'Arte Contemporanea di Roma di via Nizza fino al 1 luglio 2018, sarà la prima ospitata dal museo con la nuova gestione dell’Azienda Speciale Palaexpo. Dopo l’enorme successo del debutto di qualche mese fa al Victoria and Albert Museum di Londra, che ha visto la partecipazione di più di 400.000 persone, la mostra si sposta a Roma per la prima tappa internazionale e qui visitata per la prima volta in assoluto da Roger Waters. Ideata da Storm Thorgerson e sviluppata da Aubrey ‘Po’ Powell di Hipgnosis, che ha lavorato in stretta collaborazione con Nick Mason (consulente della mostra per conto dei Pink Floyd), The Pink Floyd Exhibition: Their Mortal Remains è un viaggio audiovisivo nella lunghissima carriera di uno dei più leggendari gruppi rock di sempre e offre una visione inedita ed esclusiva del mondo dei Pink Floyd. Esposti in mostra oltre 350 oggetti, mai visti prima, che rappresentano i diversi momenti della storia
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del gruppo, a partire dalla gigantesca ricostruzione del furgone Bedford che usavano per i tour a metà degli anni Sessanta. Il colossale allestimento del Victoria and Albert Museum di Londra, descritto dai quotidiani inglesi come “impressionante”, “un’autentica festa per i sensi” e “quasi altrettanto emozionante che ascoltare i Pink Floyd dal vivo”, è stato il più visitato di sempre nel suo genere. MACRO ospita l’esposizione in esclusiva per l’Italia, e lo stesso Mason ricorda che - a meno di 1 km di distanza – proprio al Piper ebbe luogo uno dei primi concerti dei Pink Floyd in Italia, nell’aprile del 1968. Gli anni che andarono dal '68 al '71, infatti, videro spesso la band in Italia a partire proprio dalle esibizioni dal vivo nel locale di Via Tagliamento. Seguirono la collaborazione con il regista Michelangelo Antonioni, verso la fine del 1969, per il quale composero alcuni brani che venenro inseriti nella
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colonna sonora del film cult Zabriskie Point, e il celebre Live at Pompeii del 1971, dove vennero ripresi mentre suonavano dal vivo tra le suggestive rovine dell'anfiteatro romano e in cui l'unico pubblico era costituito, oltre al regista e ai cameramen, dai roadies e da qualche curioso che era riuscito a intrufolarsi. Il film resta uno dei più amati dai fan, soprattutto perché offre un'immagine della band realizzata appena prima del successo planetario di The dark side of the moon, grazie al quale entreranno nella storia e realizzeranno gli ulteriori capolavori successivi. La mostra racconta quale fu il ruolo della band nel cruciale passaggio culturale dagli anni Sessanta in poi. Grazie al suo approccio sperimentale – che rese il gruppo inglese esponente di spicco del movimento psichedelico che cambiò per sempre l’idea della musica in quegli anni – la band venne riconosciuta come uno dei fenomeni
colonna sonora del film cult Zabriskie Point, e il celebre Live at Pompeii del 1971, dove vennero ripresi mentre suonavano dal vivo tra le suggestive rovine dell'anfiteatro romano e in cui l'unico pubblico era costituito, oltre al regista e ai cameramen, dai roadies e da qualche curioso che era riuscito a intrufolarsi. Il film resta uno dei più amati dai fan, soprattutto perché offre un'immagine della band realizzata appena prima del successo planetario di The dark side of the moon, grazie al quale entreranno nella storia e realizzeranno gli ulteriori capolavori successivi. La mostra racconta quale fu il ruolo della band nel cruciale passaggio culturale dagli anni Sessanta in poi. Grazie al suo approccio sperimentale – che rese il gruppo inglese esponente di spicco del movimento psichedelico che cambiò per sempre l’idea della
musica in quegli anni – la band venne riconosciuta come uno dei fenomeni più importanti della scena musicale contemporanea. I Pink Floyd hanno prodotto alcune delle immagini più leggendarie della cultura pop: dalle mucche al prisma di The Dark Side of the Moon, fino al maiale rosa sopra la Battersea Power Station e ai “Marching Hammers”. La loro personale visione del mondo si è realizzata grazie a creativi come il moderno surrealista e collaboratore di lunga data Storm Thorgerson, l’illustratore satirico Gerald Scarfe e il pioniere dell’illuminazione psichedelica Peter Wynne-Wilson. Il percorso espositivo che guida il visitatore seguendo un ordine cronologico, è sempre accompagnato dalla musica e dalle voci dei membri passati e presenti dei Pink Floyd, tra cui Syd Barrett, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason e David Gilmour. Il momento culminante è la Performance Zone, in
musica in quegli anni la band venne riconosciuta come uno dei fenomeni più importanti della scena musicale contemporanea. I Pink Floyd hanno prodotto alcune delle immagini più leggendarie della cultura pop: dalle mucche al prisma di The Dark Side of the Moon, fino al maiale rosa sopra la Battersea Power Station e ai “Marching Hammers”. La loro personale visione del mondo si è realizzata grazie a creativi come il moderno surrealista e collaboratore di lunga data Storm Thorgerson, l’illustratore satirico Gerald Scarfe e il pioniere dell’illuminazione psichedelica Peter Wynne-Wilson. Il percorso espositivo che guida il visitatore seguendo un ordine cronologico, è sempre accompagnato dalla musica e dalle voci dei membri passati e presenti dei Pink Floyd, tra cui Syd Barrett, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason e David Gilmour. Il momento culminante è la Performance Zone, in cui i visitatori entrano in uno spazio audiovisivo immersivo, che comprende la ricreazione dell’ultimo concerto dei quattro membri della band al Live 8 del 2005 con Comfortably Numb, appositamente mixata con l’avanguardistica tecnologia audio AMBEO 3D della Sennheiser, oltre al video, in esclusiva per Roma, di One Of These Days, tratto dalla storica esibizione del gruppo a Pompei. “La reazione dei fan alla mostra è stata persino più calorosa del previsto. Sono due ore di musica, energia ed emozione in puro stile Pink Floyd” commenta Michael Cohl della Concert Productions International B.V. , che produce e organizza la mostra, oltre ad Azienda Speciale Palaexpo, Mondo Mostre e Live Nation. È curata dal direttore creativo dei Pink Floyd, Aubrey ‘Po’ Powell (dello studio grafico Hipgnosis) e da Paula Webb Stainton, che ha lavorato a stretto contatto con membri del gruppo, con il contributo di Victoria Broackes del Victoria and Albert Museum. La mostra è in collaborazione con lo studio Stufish, uno dei maggiori studi di architetti d’intrattenimento e progettisti di lunga data dei palchi della band, e con gli interpretativi exhibition designer di Real Studios. Il libro ufficiale per i 50 anni della band è edito da Skira ed è disponibile nelle librerie.
DIABOLIK ONO arte contemporanea e Marco Lucchetti Art Gallery Lugano presentano la mostra Diabolik: Lui e Lei, una retrospettiva che celebra il ladro più famoso del fumetto italiano attraverso le opere di alcuni dei suoi disegnatori più importanti: Giuseppe Palumbo con Matteo Buffagni e Stefano Babini. In occasione dell’uscita dell’ultimo inedito del fumetto, il quale ha superato ormai gli 800 numeri, ONO arte si concentra sulla storia di uno dei personaggi più amati del mondo della letteratura disegnata, sulla sua evoluzione e su quella della protagonista femminile, Eva Kant. Diabolik nasce dalla penna di Angela Giussani nel 1962 per i tipi della casa editrice Astorina, fondata dalla Giussani stessa. Angela verrà presto affiancata dalla sorella Luciana. L’autrice pensa ad un prodotto che si rivelerà vincente sia nella forma che nei contenuti. Il piccolo formato tascabile, in seguito tanto imitato, è perfetto per i pendolari che cercavano una veloce lettura di intrattenimento con una dimensione comoda da riporre nella tasca della giacca, mentre la tematica
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noir era pienamente in linea con i gusti dei tempi. All'epoca infatti, riviste come “Grand Hotel” avevano un notevole successo pubblicando storie a fumetti tra il torbido e l’erotico e la Giussani, ispirandosi anche alla tradizione editoriale del marito Gino Sansoni fondatore di Astoria - il quale sin dagli anni Cinquanta aveva pubblicato romanzi che solleticavano la curiosità del tempo tramite titoli morbosi e copertine allusive - aveva capito che per attirare l'attenzione dei potenziali lettori doveva puntare su questi elementi, creando un personaggio che intimorisse, suscitando al tempo stesso anche una certa fascinazione. Un soggetto come Diabolik aveva ovviamente dei precedenti illustri, dal ladro assassino Fantomas a quello gentiluomo Arsenio Lupin, ma il successo dell’ epigono italiano fu dovuto alla tridimensionalità del personaggio, che matura e muta col proseguire delle sue avventure e soprattutto dal suo accostamento ad una controparte femminile, Eva. I due si conoscono nel terzo numero, quando Diabolik cerca di rubare ad Eva un prezioso anello e lei diviene subito la sua compagna di vita e di misfatti. Il personaggio di Eva subisce però nel tempo una grande evoluzione: nelle prime storie aveva un ruolo decisamente
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subalterno a Diabolik, in cui spesso veniva ritratta mentre si disperava per essersi ritrovata in una vita dalla quale non poteva fuggire per il grande amore nutrito verso il criminale. Passano gli anni e il rapporto -sia sentimentale sia di partnership tra i due- diventa di perfetta uguaglianza, diversamente da quanto accade nella quasi totalità dei rapporti a due in altri fumetti. Eva si evolve e si emancipa, diventando lo specchio dell’evoluzione della società. Eva è la controparte ideale di Diabolik ed arriva ad influenzarlo nel profondo, ma diventa anche un moderno modello di stile e femminilità, fino ad imporsi come icona visiva sia nella pubblicità che nella moda. Non a caso il fumetto trovò -e trova anche oggi- grande fortuna nel pubblico composto da donne e ragazze, cosa non scontata per il genere. È proprio questa dinamica di coppia e questa evoluzione che la mostra indaga attraverso le tavole originali, i bozzetti preparatori e i disegni di Palumbo, Buffagni e Babini.La mostra, inoltre, presenta anche l’albo inedito Il primo amore dedicato al cinquantacinquesimo “compleanno” di Eva Kant, di cui sono esposte anche le tavole disegnate da Giuseppe Palumbo. Stefano Babini, nato a Ravenna nel 1964, studia presso l’Istituto d’Arte per il
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Mosaico di Ravenna; nel 1993 lavora per Sergio Bonelli e successivamente inizia una collaborazione con la Rivista Aeronautica, per la quale crea un personaggio proprio, l’aviatore Attilio Blasi. Nel 2006 è entrato a fare parte dello staff dei disegnatori di Diabolik. Nel 2009 pubblica per Dada editore il graphic novel Non è stato un pic nic! seguito nel 2010 da Welcome bye bye. Nel 2013, crea un nuovo personaggio, LORD CAINE, che pubblica sotto il (proprio) marchio editoriale DARK CROW a cui ad oggi continua a lavorare. Nel 2015 viene insignito del Romics d’Oro. Matteo Buffagni invece nasce a Parma nel 1984, si diploma nel 2003 all’istituto d’arte P.Toschi, per poi approfondire i suoi studi alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze. Dal 2008 al 2010 disegna i due tomi della miniserie francese Vestiges e Cattivi Soggetti per il mercato italiano per RCS; da Marzo 2011 collabora con la casa editrice MARVEL su alcune testate tra cui DAKEN: Dark Wolverine, X-23 vs. Daken, Captain America & Hawkeye e The Punisher. Al momento lavora su Diabolik e sulla serie Ultimate Iron Man. Giuseppe Palumbo, infine, nato a Matera e coetaneo di Babini, è autore di fumetti dal 1986, anno in cui crea Ramarro, il primo supereroe masochista. Dalle riviste come Frigidaire, alla serie mainstream Diabolik, ai graphic novel come Escobar prodotto da Dargaud, fino alle sperimentazioni con editori come Comma22 e Lavieri, Palumbo, autore completo e disegnatore puro, ha dimostrato che si può vivere anche senza andare mai in vacanza. La mostra, composta da 60 opere originali, è stata realizzata in collaborazione con Marco Lucchetti Art Gallery di Lugano e Astorina e con il patrocinio del Comune di Bologna. ONO arte contemporanea via santa margherita, 10 bologna | www.onoarte.com
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