ISTITUTO GONZAGA anno scolastico 2008-09 esami di stato
classe 5° scientifico A
APPUNTI DI STORIA DELL’ARTE dal neoclassicismo all’arte concettuale
IL NEOCLASSICISMO PARAGRAFI IV.4.1 Caratteri fondamentali IV.4.2 Le scoperte archeologiche IV.4.3 La razionalità illuministica e il rifiuto del barocco IV.4.4 Le teorie e lo stile IV.4.5 Cenni sul neoclassicismo in Italia IV.4.6 Jacques-Louis DAVID IV.4.7 Antonio CANOVA IV.4.1 Caratteri fondamentali La vicenda del neoclassicismo inizia alla metà del XVIII secolo (1750), per concludersi con la fine dell’impero napoleonico nel 1815. Ciò che contraddistinse lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai principi dell’arte classica. Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani che, proprio in questo periodo, fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione ed interesse grazie alle numerose scoperte archeologiche. I caratteri principali del neoclassicismo sono diversi: 1. esprime il rifiuto dell’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità; 2. fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann che teorizzò il ritorno al principio classico del «bello ideale»; 3. fu una riscoperta dei valori etici della romanità, e ciò soprattutto in David e negli intellettuali della Rivoluzione Francese; 4. fu l’immagine del potere imperiale di Napoleone che ai segni della romanità affidava la consacrazione dei suoi successi politico-militari; 5. fu un vasto movimento di gusto che finì per riempire con i suoi segni anche gli oggetti d’uso e d’arredamento. I principali protagonisti del neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779), lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che furono anche i teorici del neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova (1757-1822) e Bertel Thorvaldsen (1770-1844), il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825), i pittori italiani Andrea Appiani (1754-1817) e Vincenzo Camuccini (1771-1844). Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen, operarono tutti a Roma, che divenne, nella seconda metà del Settecento, la capitale incontrastata del neoclassicismo, il baricentro dal quale questo 1
nuovo gusto si irradiò per tutta Europa. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. L’Italia nel Settecento fu la destinazione obbligata di quel «Grand Tour» che rappresentava, per la nobiltà e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza di formazione del gusto e dell’estetica artistica. Roma, in particolare, ove si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi vi fu anche il David che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico. Con l’opera del David il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese ed ancor più divenne, in seguito, lo stile ufficiale dell’impero di Napoleone. E dalla fine del Settecento la nuova capitale del neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi. Il neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815 con la sconfitta di Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente soppiantato il neoclassicismo. Tuttavia, pur se non rappresenta più l’immagine di un’epoca, il neoclassicismo di fatto sopravvisse, come fatto stilistico, per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto nella produzione aulica dell’arte ufficiale e di stato e nelle Accademie di Belle Arti. E questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi classicismo. IV.4.2 Le scoperte archeologiche Uno dei motivi di questo rinato interesse per il mondo antico furono le scoperte archeologiche che segnarono tutto il XVIII secolo. In questo secolo furono scoperte prima Ercolano, poi Pompei, quindi Villa Adriana a Tivoli e i templi greci di Paestum; ed infine giunsero dalla Grecia numerosi reperti archeologici che finirono nei principali musei europei: a Londra, Parigi, Monaco. Negli stessi anni si diffusero numerose pubblicazioni tra cui Le rovine dei più bei monumenti della Grecia, 1758, del francese Le Roy, Le antichità di Atene, 1762, degli inglesi Stuart e Revett, e le incisioni di antichità italiane del romano Piranesi che contribuirono notevolmente a diffondere la conoscenza dell’arte classica. Questa opera di divulgazione fu importante non solo per la conoscenza della storia dell’arte ma anche per il diffondersi dell’estetica del neoclassicismo. In particolare, con queste campagne di scavo, non solo si ampliò la conoscenza del passato, ma fu chiaro il rapporto, nel mondo classico, tra arte greca e arte romana. Quest’ultima rispetto alla greca apparve solo un pallido riflesso ed un epigono, se non addirittura una semplice copia. La vera fonte della grandezza dell’arte classica venne riconosciuta nella produzione greca degli artisti del V-IV secolo a.C. Quel periodo eroico che vide sorgere la plastica statuaria di Fidia, Policleto, Mirone, Prassitele, fino a Lisippo. E la perfezione senza tempo di questa scultura influenzò profondamente l’estetica del Settecento, divenendo modello per gli artisti del tempo. IV.4.3 La razionalità illuministica e il rifiuto del barocco Il neoclassicismo nacque come desiderio di un’arte più semplice e pura rispetto a quella barocca, vista come eccessivamente fantasiosa e complicata. Questo desiderio di semplicità si coniugò alla constatazione, fornita dalle scoperte archeologiche, che già in età classica si era ottenuta un’arte semplice ma di nobile grandiosità. Il barocco apparve allora come il frutto malato di una 2
degenerazione stilistica che, pur partita dai principi della classicità rinascimentale, era andata deformandosi per la ricerca dell’effetto spettacolare ed illusionistico. Il barocco è complesso, virtuosistico, sensuale; il neoclassicismo vuole essere semplice, genuino, razionale. Il barocco propone l’immagine delle cose che può anche nascondere, nella sua bellezza esterna, le brutture interiori; il neoclassicismo non si accontenta della sola bellezza esteriore, vuole che questa corrisponda ad una razionalità interiore. Il barocco perseguiva effetti fantasiosi e bizzarri, il neoclassicismo cerca l’equilibrio e la simmetria; se il barocco si affidava alla immaginazione e all’estro, il neoclassicismo si affida alle norme e alle regole. Il principio del razionalismo è una componente fondamentale del neoclassicismo. È da ricordare che il Settecento è stato il secolo dell’Illuminismo. Di una corrente filosofica che cerca di «illuminare» la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la scienza. E per far ciò bisogna innanzitutto liberarsi da tutto ciò che è illusorio. E l’arte barocca ha sempre perseguito l’illusionismo come pratica artistica. Il neoclassicismo ha diversi punti di similitudine con il Rinascimento: come questo fu un ritorno all’arte antica e alla razionalità. Ma le differenze sono sostanziali: la razionalità rinascimentale era di matrice umanistica e tendeva a liberare l’uomo dalla trascendenza medievale, la razionalità neoclassica è invece di matrice illuministica e tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dall’ignoranza e dalla falsità barocca. Il ritorno all’antico, per l’artista rinascimentale era il ritorno ad un atteggiamento naturalistico, nei confronti della rappresentazione, che lo liberasse dal simbolismo astratto del medioevo; per l’artista neoclassico fu invece la codificazione di una serie di norme e di regole che servissero ad imbrigliare quella fantasia che, nell’età barocca, aveva agito con eccessiva licenza e sregolatezza. Infine, rispetto alla grande stagione dell’arte rinascimentale, quella neoclassica ha esiti ben modesti, ove si avverte una frigidità di sentimenti e di sensazioni che la rende poco affascinante. IV.4.4 Le teorie e lo stile Massimo teorico del neoclassicismo fu il Winckelmann. Nel 1755 pubblicava le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, nel 1763 pubblicava la Storia dell’arte nell’antichità. In questi scritti egli affermava il primato dello stile classico (soprattutto greco che lui idealizzava al di là della realtà storica), quale mezzo per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza». Winckelmann considerava l’arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi». Un’arte, quindi, tutta cerebrale e razionale, purificata dalle passioni e fondata su canoni di bellezza astratta. Le sue teorie artistiche trovarono un riscontro immediato nell’attività scultorea di Antonio Canova e di Thorvaldsen. La scultura, più di ogni altra arte, sembrò adatta a far rivivere la classicità. Le maggiori testimonianze artistiche dell’antichità sono infatti sculture. E nella scultura neoclassica si avverte il legame più diretto ed immediato con l’idea di bellezza classica. Una pittura classica, di fatto, non esiste, anche perché le testimonianze di quel periodo sono quasi tutte scomparse. Le uniche pitture ad affresco, a noi note, comparvero proprio in quegli anni negli scavi di Ercolano e Pompei. Esse, tuttavia, per quanto suggestive nella loro iconografia così esotica, si presentavano di una semplificazione stilistica (definita compendiaria) inutilizzabile per la moderna sensibilità pittorica. Così che i pittori neoclassici dovettero ispirarsi stilisticamente più alla pittura rinascimentale italiana, in particolare Raffaello, che non all’arte classica vera e propria. 3
I caratteri della scultura neoclassica sono la perfezione di esecuzione, la estrema levigatezza del modellato, la composizione molto equilibrata e simmetrica, senza scatti dinamici. La pittura neoclassica si riaffidò agli strumenti del naturalismo rinascimentale: la costruzione prospettica, il volume risaltato con il chiaroscuro, la precisione del disegno, immagini nitide senza giochi di luce ad effetto, la mancanza di tonalismi sensuali. I soggetti delle opere d’arte neoclassiche divennero personaggi e situazioni tratte dall’antichità classica e dalla mitologia. Le storie di questo passato, oltre a far rivivere lo spirito di quell’epoca, che tanto suggestionava l’immaginario collettivo di quegli anni, serviva alla riscoperta di valori etici e morali, di alto contenuto civile, che la storia antica proponeva come modelli al presente. La storia antica, quindi, divenne un serbatoio di immagine allegoriche da utilizzare come metafora sulle situazioni del presente. Ciò è maggiormente avvertibile per un pittore come il David nei cui quadri la storia del passato è solo un pretesto, o una metafora, per proporre valori ed idee per il proprio tempo. Il neoclassicismo, nella sua poetica, invertì il precedente atteggiamento dell’arte rococò. Questa, nella sua ricerca della sensazione emotiva o sensuale, sceglieva immagini che materializzavano l’«attimo fuggente». Il neoclassicismo non propone mai attimi fuggenti, ma, coerentemente con la sua impostazione classica, rappresenta solo «momenti pregnanti». I momenti pregnanti sono quelli in cui vi è la maggiore carica simbolica di una storia. In cui si raggiunge l’apice di intensità psicologica, di concentrazione, di significanza: il momento in cui, un certo fatto od evento entra nella storia o nel mito. IV.4.5 Cenni sul neoclassicismo in Italia Il ruolo svolto dall’Italia nella nascita del Neoclassicismo fu determinante. In Italia vennero effettuate le maggiori scoperte archeologiche del secolo: Ercolano, Pompei, Paestum, Tivoli, che si aggiunsero alle già imponenti collezioni di arte romana che, dal Cinquecento in poi, si erano costituite un po’ ovunque. Roma divenne la capitale del neoclassicismo e fu un ruolo centrale che conservò fino allo scoppio della Rivoluzione Francese. A Roma operarono i maggiori protagonisti di questa fase storica: Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi che, con le sue stampe, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. Un gusto, che presto suggestionò soprattutto gli spiriti romantici che nella «rovina» rintracciavano un sentimento che andava al di là della testimonianza archeologica. Ed a Roma giungevano gli altri artisti ed intellettuali di Europa. I primi grazie alle borse di studio messe a loro disposizione dalle scuole ed accademie d’arte, i secondi per quella moda del Grand Tour che imponeva alle persone di un certo rango di effettuare almeno un viaggio in Italia per conoscerne le bellezze e i tesori d’arte. L’Accademia francese assegnava una borsa di studio per un soggiorno di alcuni anni a Roma, chiamata «Prix de Rome». E, grazie a questa borsa di studio, anche David giunse a Roma soggiornandovi in più occasioni. E, proprio a Roma, compose il suo quadro più famoso di questo periodo: «Il giuramento degli Orazi». A Roma un altro personaggio svolse un ruolo fondamentale per il neoclassicismo: il cardinale Albani. Cultore di antichità classiche e mecenate, iniziò la costruzione di una villa-museo che divenne uno dei luoghi più simbolici del nuovo stile. Il suo salotto divenne luogo di incontro per gli artisti e gli studiosi che, a Roma, furono i protagonisti della vicenda neoclassica. Ed infine Roma fu anche la città ove lavorò il maggior artista italiano neoclassico: Antonio Canova. 4
Ma intanto, alla fine del secolo, Roma cedeva la sua centralità a Parigi e, nel contempo, un’altra città italiana divenne importante nella vicenda del neoclassicismo: Milano. Nel capoluogo lombardo il centro della vita artistica divenne l’Accademia di Brera, fondata nel 1776. Da Milano proviene il principale pittore neoclassico italiano: Andrea Appiani (1754-1817), che fu anche ritrattista ufficiale di Napoleone. La sua opera, in parte distrutta dai bombardamenti del 1943, si affida a temi mitologici quali «La toeletta di Giunone», il «Parnaso» o la «Storia di Amore e Psiche». Un altro pittore romano, Vincenzo Camuccini (1771-1844), visse in gioventù la fase del neoclassicismo proponendo quadri di derivazione davidiana quali la «Morte di Giulio Cesare». Il neoclassicismo, come fatto stilistico, è sopravvissuto nell’arte italiana per buona parte dell’Ottocento. Anche pittori, che per i soggetti vengono considerati romantici, quali Hayez o Bezzuoli, continuano a praticare una pittura con quei connotati stilistici neoclassici che tenderanno a scomparire solo dopo la metà del secolo. OPERE Andrea Appiani, La toeletta di Giunone Andrea Appiani (Milano 1754-1817) è sicuramente il pittore italiano più attivo nella definizione del nuovo gusto artistico neoclassico. La sua consacrazione avviene nel 1796 quando fu nominato da Napoleone suo ritrattista ufficiale. In effetti, ad Appiani, pittore non troppo osannato dalla critica posteriore, sono state sempre riconosciute grandi qualità di ritrattista, grazie alla sua capacità di acutezza psicologica nel ritrarre il soggetto. Le sue opere più famose, gli affreschi realizzati nel Palazzo Reale di Milano sono andate distrutte durante la seconda guerra mondiale, e solo pochi frammenti (quali l’Apoteosi di Napoleone) sono oggi conservati nel museo di Villa Carlotta a Tremezzo. Il suo quadro «La toeletta di Giunone», pur non essendo una delle sue opere più celebri, ben sintetizza il gusto del tempo. È in pratica quasi un campionario dei temi prediletti dagli artisti neoclassici, sia nell’ispirazione mitologica (come l’amorino sulla sinistra, o le tre Grazie che attorniano Giunone) sia nella scelta degli arredi ed oggetti vicini al loro gusto (si noti in particolare il tavolinetto sulla destra che sostiene un prezioso servizio di ceramica). La calibrata ricerca di effetti di luce ed ombra riescono a creare un’atmosfera vagamente trasognata, così come la preziosa definizione delle figure che ci attestano come il pittore avesse conquistato uno stile maturo attraverso lo studio di Raffaello e della scuola emiliana tra XVI e XVII secolo. Vincenzo Camuccini, La morte di Cesare, 1793-98 Vincenzo Camuccini (Roma 1771-1844) è autore di uno dei quadri più celebri del neoclassicismo italiano: «La morte di Cesare». La grande tela, conservata al Museo di Capodimonte a Napoli, risente indubbiamente dell’influenza di Jacques-Louis David, sia nella scelta del soggetto, che richiama momenti pregnanti della fede repubblicana dell’antica Roma, sia nel trattamento stilistico della composizione, concepita come fedele ma fredda e distaccata cronaca dell’avvenimento.
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IV.4.6 JACQUES-LOUIS DAVID Jacques-Louis David (1748-1825), dopo un apprendistato presso il pittore tardo-rococò Vien, si recò a Roma nel 1775 avendo vinto il Prix de Rome. Il Prix de Rome era una borsa di studio che l’Accademia di Francia assegnava ai giovani artisti più promettenti per consentire loro un periodo di soggiorno e di studio nella città eterna. Il David si trattenne a Roma fino al 1780. Qui ebbe modo sia di conoscere le teorie artistiche del Winckelmann, sia di studiare l’arte antica e rinascimentale. Predilesse le pitture di storia, utilizzando episodi classici da proporre come «esempi di virtù» al mondo contemporaneo. Infatti il suo fu un neoclassicismo di grossi contenuti etici e virili che egli opponeva alle mollezze ed effeminatezze del mondo rococò. In un suo secondo soggiorno romano, nel 1784, dipinse «Il giuramento degli Orazi» che gli diede notevoli successi. Per le sue idee e temperamento partecipò attivamente alla Rivoluzione Francese e al periodo napoleonico, producendo sempre quadri storici (anche quando raffiguravano eventi a lui coevi) ma dai contenuti di stringente appello civile. Quadri come «Il giuramento della pallacorda» (1790-91), rimasto incompiuto, la «Morte di Marat» (1793), «Il ratto delle Sabine» (1799), «Napoleone che valica il San Bernardo» (1800), «Incoronazione di Napoleone» (1805-07). Dopo la Restaurazione, David concluse la sua vita a Bruxelles dedicandosi alla pittura di soggetti mitologici, allineandosi a quel gusto di accademismo neoclassico che proseguì per tutto l’Ottocento, ma che nella storia classica e nella mitologia non cercava più alcuna finalità etica. OPERE Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784 Il giuramento degli Orazi è di certo il quadro neoclassico più famoso e quello che meglio sintetizza le nuove concezioni artistiche di David. L’immagine è costruita con perfetto equilibrio, con linee nette e colori freddi. La scena è collocata in un ambiente di severa e spartana solidità. L’ambiente è raffigurato secondo i principi della prospettiva centrale. Ciò dà un senso di equilibrio orizzontale che accentua la solennità del momento rappresentato. Il quadro si divide idealmente in tre riquadri distinti, segnati dai tre archi a tutto sesto dello sfondo. Nel primo riquadro ci sono i tre fratelli Orazi. Sono visti di scorcio così che sembrano quasi formare un corpo solo. Hanno le gambe leggermente divaricate in avanti, il braccio proteso. I loro lineamenti sono tesi, le espressioni sono concentrate: esprimono tutta la determinazione che li porta a sacrificare la loro vita per la patria. Al centro, nel secondo riquadro, c’è il padre. Ha un aspetto solenne. Ha in mano le tre spade che sta per consegnare ai figli dopo aver raccolto il loro giuramento. L’altra mano è sollevata in alto, a simboleggiare la superiorità del principio per il quale vanno a combattere: la difesa della patria e delle loro famiglie. Nel terzo riquadro ci sono le moglie degli Orazi con due figli. Sono accasciate ed addolorate anche se non compiono gesti di teatrale disperazione. Non piangono neppure. La loro sofferenza è intensa ma composta. Sopportata con grande dignità, perché comprendono la necessità del sacrificio dei loro uomini. Il soggetto storico è qui utilizzato con un unico contenuto: l’esaltazione dell’eroismo. Eroi sono coloro che volontariamente scelgono di mettere a rischio la propria vita per il bene comune dei propri familiari e della propria terra. L’eroe, in questo quadro, ha caratteri di intensa virilità che contrastano con i molli caratteri dei tanti damerini che affollavano la società aristocratica del Settecento. Ma non è un attributo solo degli uomini. Eroiche sono anche le donne che devono pagare il prezzo del dolore. La differenza psicologica dei personaggi viene resa in forme visibile dalle loro pose: diritte e tese le linee che formano gli uomini, curve e sinuose le linee che disegnano le donne.
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Rispetto alla pittura rococò, che cercava la sensualità della visione con colori tonali, luci calde e ombre accoglienti, la pittura di David si mostra al contrario fortemente idealizzata. La luce che illumina la scena è netta e tagliente, le forme sono disegnate con grossa precisione, il rilievo dei corpi è affidato al più classico del trattamento chiaroscurale. Nulla deve essere seducente per l’occhio o i sensi. L’immagine deve invece colpire la coscienza dell’osservatore. Non deve offrirgli consolanti sensazioni estetiche ma deve smuovergli il cuore. Deve richiamarlo a valori forti. Valori come l’eroismo. Valori tanto necessari in una fase storica come questa in cui la società francese si prepara a quella rivoluzione destinata a cambiare il corso della storia europea. Il richiamo all’eroismo è il grande contenuto di questo quadro. Un contenuto etico. Un contenuto forte. E, per far ciò, il David abbandona del tutto quella sensazione di attimo fuggente che caratterizza tutta la pittura del Settecento rococò. Egli sceglie di rappresentare la vicenda secondo la tecnica del momento pregnante. Il momento eterno. Quel momento in cui la coscienza cambia per sempre per una scelta che non può più farci tornare indietro. Quel momento da consegnare per sempre alla storia. Il quadro di David fu realizzato a Roma e poi trasportato a Parigi. Il successo che ebbe fu immenso e decretò la fama di David. La data della sua esecuzione, a soli quattro anni dallo scoppio della Rivoluzione Francese, fanno sì che questo quadro ben rappresenti il clima prerivoluzionario della Francia. Un clima in cui, anche grazie ai quadri di David, si avvertiva la necessità di un ritorno ai valori etici forti che avrebbero consentito ai francesi il sacrificio di tante vite umane pur di affermare i nuovi valori di libertà, uguaglianza e fraternità. Il David ha utilizzato la storia classica per altri quadri simili a questo. Ricordiamo «Belisario riconosciuto» (1781), «Il dolore di Andromaca», «Le Termopili», «I Littori portano a Bruto i corpi dei suoi figli» (1789), e «Il Ratto delle Sabine» (1799). Ma in nessuno di questi quadri David riesce a raggiungere un uguale livello di comunicatività e di sintesi tra contenuto e forma. Nelle sue altre opere di soggetto storico si avverte un’ispirazione più di maniera ed una eccessiva teatralità scenica che stemperano l’emozione che l’immagine vuole trasmettere. Jacques-Louis David, La morte di Marat, 1793 Se il giuramento degli Orazi è di certo il quadro neoclassico per eccellenza, la morte di Marat è il quadro che più di ogni altro dà immagine al dramma della Rivoluzione Francese. Anche qui il contenuto del quadro è l’eroismo, ma nel doloroso prezzo che tale scelta impone: il sacrificio della propria vita. La Rivoluzione Francese era scoppiata nel 1789. Dopo la deposizione della monarchia si ebbe in Francia un periodo di grossa instabilità politica, caratterizzata da un periodo violento e sanguinoso. Tra i protagonisti di questa cruenta fase della Rivoluzione, che culminò con la condanna e l’esecuzione del re Luigi XVI, ci fu anche Jean-Paul Marat. L’uomo politico fu assassinato nel 1793 da Carlotta Corday. Marat, che soffriva di dolori reumatici, trascorreva la maggior parte del suo tempo immerso in una vasca con l’acqua calda. Carlotta Corday lo sorprese mentre era nella vasca, e lo pugnalò con un coltello. David, che era amico di Marat, ricordò la sua morte con un quadro che divenne immediatamente famoso. L’artista voleva esaltare le virtù eroiche di Marat e, nel contempo, rendere emozionante e densa di significato la sua morte. Scelse così, come «momento pregnante», non il momento in cui venne assassinato, ma il momento successivo in cui il corpo inanimato ci mostra tutta la cruda realtà della morte. Marat è solo. Il quadro nella parte superiore è completamente vuoto e scuro. Nella 7
parte inferiore ci mostra il corpo in tutta la solitudine e il silenzio della morte. Tutta la composizione è giocata su pochissimi elementi rappresentanti con linee orizzontali e verticali. Marat, nel momento in cui fu assassinato, stava rispondendo ad una donna che gli aveva scritto perché era in difficoltà finanziarie. Marat, pur non essendo ricco, le stava inviando un assegno che si intravede sul piccolo tavolino affianco al calamaio. Il coltello, usato dalla donna, è a terra sporco di sangue. Marat ha ancora in una mano la lettera e nell’altra la penna per scrivere. Questo braccio, che ricorda il braccio del Cristo nel quadro della Deposizione di Caravaggio, è abbandonato a terra, creando l’unica linea diagonale della scena. La testa, appoggiata sul bordo della vasca, è reclinata così da mostrarci il viso di Marat. Tutto il quadro ispira un silenzio che non può essere rotto in alcun modo. Esso rimane come la testimonianza più lucida e commovente di quel periodo del Terrore che avrebbe portato al sacrificio di tante vite umane.
Jacques-Louis David, Bonaparte valica il Gran San Bernardo, 1800 Uno dei primi quadri che David dedica a Napoleone è questo ritratto a cavallo in cui il generale còrso viene esaltato nelle sue qualità di stratega militare, al pari di grandi condottieri del passato quali Annibale, che anch’egli valicò le Alpi per portarsi in Italia alla conquista di Roma. Jacques-Louis David, Incoronazione di Napoleone, 1805-07 Quadro di notevoli dimensioni, il cui significato è di immediata comprensione: tramandare a posteri il momento storico della proclamazione nel 1804 di Napoleone quale imperatore della Francia. La scena ha la staticità che ci si attende da un momento così solenne, dove tutto è concepito per dare risalto alla potenza di Napoleone. IV.4.7 ANTONIO CANOVA Antonio Canova (1757-1822), è il maggior artista italiano ad aver partecipato alla vicenda del neoclassicismo ed è anche l’ultimo grande artista italiano di livello europeo. Dopo di lui, per tutto il corso del XIX secolo, l’Italia ha svolto un ruolo molto marginale e periferico nell’ambito della formulazione delle nuove teorie e pratiche artistiche. Formatosi in ambiente veneziano, le sue prime opere rivelano la influenza dello scultore barocco del Seicento Gian Lorenzo Bernini. Trasferitosi a Roma, partecipò al clima cosmopolita della capitale in cui si incontravano i maggiori protagonisti dell’arte neoclassica. A Roma svolse la maggior parte della sua attività, raggiungendo una fama immensa. Fu anche pittore, ma produsse opere di livello decisamente inferiore rispetto alle sue opere scultoree. Nelle sue sculture Canova, più di ogni altro, fece rivivere la bellezza delle antiche statue greche secondo i canoni che insegnava Winckelmann: «la nobile semplicità e la quieta grandezza». Le sculture di Canova sono realizzate in marmo bianco e con un modellato armonioso ed estremamente levigato. Si presentano come oggetti puri ed incontaminati secondo i principi del classicismo più puro: oggetti di una bellezza ideale, universale ed eterna. I soggetti delle sue 8
sculture si dividono in due tipologie principali: le allegorie mitologiche e i monumenti funebri. Al primo gruppo appartengono: «Teseo sul Minotauro», «Amore e Psiche», «Ercole e Lica», «Le tre Grazie»; al secondo gruppo appartengono i monumenti funebri a Clemente XIV, a Clemente XIII, a Maria Cristina d’Austria. Nei monumenti di soggetto mitologico i riferimenti alle sculture greche classiche è scoperto ed immediato: le anatomie sono perfette, i gesti misurati, le psicologie sono assenti o silenziose, le composizioni molto equilibrate e statiche. Il momento scelto per la rappresentazione è quello classico del «momento pregnante», evidente ad esempio nel gruppo di «Teseo sul Minotauro». Canova, invece di rappresentare la lotta tra Teseo e l’essere metà uomo e metà toro, sceglie di rappresentare il momento in cui Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro, ha scaricato tutte le sue energie offensive per lasciar posto ad un vago senso di pietà per l’avversario ucciso. È un momento di quiete assoluta in cui il tempo si congela per sempre. È quello il momento in cui la storia diventa mito universale ed eterno. Nei monumenti funebri Canova parte dallo schema classico a tre piani sovrapposti. Nei monumenti dei due papa Clemente XIII e XIV al primo livello ci sono le immagini allegoriche che rappresentano il senso della morte; al secondo livello vi è il sarcofago; al terzo livello vi è la figura del papa. Questo schema, che dal Trecento aveva caratterizzato tutta la produzione di monumenti funebri, venne dal Canova variata con il monumento a Maria Cristina d’Austria – in esso un corteo funebre si accinge a varcare la soglia dell’oltretomba raffigurata come una piramide – e nei monumenti a stele in cui è evidente il ricordo delle tante stele funerarie provenienti dall’antica Roma. I monumenti funerari rappresentano un tema molto sentito dagli artisti neoclassici. Da ricordare che, negli stessi anni, l’importanza dei «sepolcri» veniva affermata anche dal poeta Ugo Foscolo. Per il Foscolo il sepolcro doveva conservarci la memoria dei grandi personaggi della storia esaltandone il valore quali esempi di virtù. La morte, che nella precedente stagione barocca veniva visto come qualcosa di orrido e di macabro, dall’arte neoclassica era vista come il «momento pregnante» per eccellenza. Il momento in cui si scaricano tutte le contingenze terrene per entrare nel silenzio assoluto ed eterno. Il Canova nel periodo napoleonico divenne il ritrattista ufficiale di Napoleone producendo per l’imperatore diversi ritratti, tra cui quello in bronzo, ora collocato a Brera, che fu rifiutato dall’imperatore perché Canova lo aveva ritratto nudo. Tra i ritratti eseguiti per la famiglia imperiale famoso rimane quello di Paolina Borghese semidistesa su un triclino, seminuda e con una mela in mano, secondo una iconografia di chiara derivazione tizianesca, pur se caricata di significati mitologici. Oltre all’attività di scultore, Canova fu anche impegnato nella tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. Nel 1802 ebbe l’incarico di Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti dello Stato della Chiesa. Nel 1815, dopo la caduta di Napoleone, ottenne di riportare in Italia le tante opere d’arte che l’imperatore aveva trasportato illegalmente in Francia. Morto nel 1822, il suo sepolcro è a Possagno, il paesino in provincia di Treviso dove era nato, e dove egli, a sue spese, fece erigere un tempio dove nel 1830 furono traslate le sue spoglie. OPERE Antonio Canova, Monumento a Maria Cristina d’Austria, 1798-1805
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Il monumento funerario a Maria Cristina d’Austria rappresenta una grossa novità nella tipologia dei monumenti funerari. Il monumento funebre ha sempre avuto come centro compositivo il sarcofago o l’urna in cui materialmente venivano conservare le spoglie del defunto. Al di sopra dell’urna veniva collocata l’effige statuaria del defunto; di sotto o di fianco venivano poste immagini allegoriche sul significato della morte. Nel monumento a Maria Cristina d’Austria l’urna scompare per essere sostituita dalla immagine triangolare di una piramide. L’effigie statuaria viene sostituita da un ritratto di profilo a bassorilievo, inserito in un medaglione di chiara derivazione classica. Notevole importanza assumono le figure allegoriche che, nella intenzione dell’artista, non sono puri e semplici simboli ma devono commuovere per l’azione in divenire che stanno rappresentando. In questo caso, infatti, le figure compongono un singolare corteo funebre che si accinge a salire i gradini che portano alla porta della piramide. Da questa porta fuoriesce un tappeto che scorre sui gradini come un velo leggero e impalpabile. Il corteo è aperto da una giovane ragazza che ha già un piede oltre la soglia della tomba. È seguita da una donna che rappresenta la Pietà con in mano l’urna delle ceneri della defunta. Un’altra ragazzina la sta seguendo. Più indietro un’altra giovane donna avanza, aiutando un vecchio uomo a salire le scale. Sono rappresentate tutte le tre età della vita, dalla gioventù alla vecchiaia, a simboleggiare che la Morte non risparmia nessuno. Le figure procedono con incedere lento e mesto. Hanno tutti la testa chinata in avanti, a simboleggiare che nei confronti della Morte la superbia umana non può nulla. Di fianco la porta della piramide, che quindi simboleggia la porta di passaggio dal mondo terreno al mondo dei morti, c’è l’allegoria del Genio della Morte poggiato sul Leone della Fortezza. In alto, il medaglione con il ritratto di Maria Cristina d’Austria è circondato da un serpente che si morde la coda, simbolo quest’ultimo dell’Eterno Ritorno. Il medaglione è sostenuto dalla allegoria della Felicità, mentre un’altra figura angelica porge alla defunta una palma, simbolo della gloria. La piramide, come simbolo dell’Oltretomba, è decisamente una immagine neoclassica. Contiene la reminescenza delle antiche piramidi egiziane, i più grandi monumenti funebri mai realizzati dall’uomo, e si presenta con una forma geometrica semplice, il triangolo, ma carico di notevoli significati allegorici. La porta che si apre nella piramide assomiglia invece, per fattura, alle porte delle tombe etrusche delle necropoli di Tarquinia o Cerveteri. Ed anche questo riferimento etrusco, nell’immaginario collettivo, finisce per collegarsi al mondo dell’Oltretomba. Il senso della morte, qui rappresentato, ha la dignità profonda e nobile della concezione neoclassica. Tuttavia, la commozione che suscita il corteo funebre finisce per prendere un significato quasi tutto romantico. La scelta di anticipare il momento pregnante, non a quello eterno della Morte oramai sopraggiunta, ma al momento precedente in cui la Morte richiama a sé le persone che, a capo chino, non possono sottrarsi al suo invito, carica di profondo dolore la percezione della morte come azione in divenire. È il profondo strazio di chi, pur restando vivo, non può che guardare con senso di sgomento e di ineluttabilità l’avviarsi alla morte delle persone care. Questa inaspettata rappresentazione di un dolore, che deve suscitare compassione in chi guarda, è la prova della grandezza del genio di Canova che, al di là della facile etichetta di scultore neoclassico, per la inconfondibile fattura stilistica delle sue statue, si presenta come un artista capace di cogliere i fermenti più vivi e nuovi del suo tempo, ed anche anticiparli nelle sue opere d’arte. Antonio Canova, Amore e Psiche, 1787-1793 Il gruppo, oggi conservato al Louvre, appartiene alle allegorie mitologiche della produzione canoviana. Esso rappresenta Amore e Psiche nell’atto di baciarsi. Eseguita in marmo bianco, la scultura ha superfici levigate ed un modellato molto tornito. La composizione ha una straordinaria articolazione: la donna, Psiche, è semidistesa, rivolge il viso e le braccia verso l’alto e, per far ciò, 10
imprime al corpo una torsione ad avvitamento; l’uomo, Amore, si appoggia su un ginocchio mentre con l’altra gamba si spinge in avanti inarcandosi e contemporaneamente piegando la testa di lato per avvicinarsi alle labbra della donna. Il soggetto è probabilmente tratto dalla leggenda di Apuleio, secondo la quale Psiche era una ragazza talmente bella da suscitare l’invidia di Venere, così che la dea le mandò Amore per farla innamorare di un uomo brutto. Ma Amore, dopo averla vista, se ne innamorò e, dopo una serie di vicissitudini, ottenne che Psiche entrasse nell’Olimpo degli dei, per restare con lui. Il soggetto è qui utilizzato come allegoria del potere dell’amore, visto soprattutto nell’intensità del desiderio che riesce a sprigionare: da qui la scelta di fermare la rappresentazione all’istante prima che il bacio avvenga ed il desiderio si consumi. Per comprendere lo spirito della cultura neoclassica è utile confrontare il gruppo scultoreo di Amore e Psiche con un’altra famosa allegoria mitologia: l’«Apollo e Dafne» di Gian Lorenzo Bernini. Quest’ultimo gruppo scultoreo fu realizzato tra il 1622 e il 1625, agli inizi della diffusione del barocco, e rappresenta indubbiamente uno dei maggiori esiti di questo stile di cui Bernini fu uno dei maggiori rappresentanti. Dafne, secondo la mitologia, era una bellissima fanciulla di cui si era innamorato Apollo. Dafne, per sfuggirgli, scappò ai piedi del Parnaso e qui, nel momento in cui stava per essere raggiunta da Apollo, chiese aiuto alla madre che la trasformò in una pianta di alloro. Il gruppo del Bernini rappresenta indubbiamente un attimo fuggente: Dafne viene appena sfiorata da Apollo ed ha già i capelli che stanno divenendo dei rami di alloro. È giusto un attimo: l’istante successivo Dafne non ci sarà più. Per enfatizzare ciò Bernini dà al gruppo un’apparenza di equilibrio instabile, evidente soprattutto nella curva ad arco che forma il corpo di Dafne. Il gruppo del Canova ha invece una fermezza ed una staticità molto più evidenti. Lo si osservi soprattutto nella visione frontale. Il corpo di Psiche insieme alla gamba e alle ali di Amore formano uno schema ad X simmetrico. Al centro di questa X le braccia di Psiche definiscono un cerchio perfetto che inquadra al centro il punto focale della composizione: quei pochi centimetri che dividono le labbra dei due. In quei pochi centimetri si gioca il momento pregnante, ed eterno, del desiderio senza fine che l’Eros sprigiona. La differenza tra le due sculture non è da ricercarsi sulla differenza stilistica o formale, risultando entrambe di notevolissima fattura per tecnica esecutiva, ma sulla diversa cultura che le ispira. Lo sforzo del Bernini è di cogliere la vitalità della vita in continuo movimento, e per far ciò cerca di annullare la materia per lasciare solo la sensazione del divenire. Canova mostra invece tutta a tensione neoclassica di giungere a quella perfezione senza tempo in cui nulla più può divenire, e per far ciò pietrifica la vita dando alla materia una forma definitiva ed eterna. Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-25 Il gruppo di Apollo e Dafne è una delle prime opere realizzate da Gian Lorenzo Bernini, ed è già un esempio altamente mirabile della sua grande padronanza dei mezzi espressivi della scultura, che ne faranno uno dei più grandi scultori non solo del Seicento ma di tutti i tempi. La storia rappresentata riprende ovviamente il mito di Dafne, la fanciulla che per sfuggire ad Apollo chiese aiuto alla madre Gea che la trasformò in pianta di alloro. Bernini concentra la sua attenzione sull’istante nel quale avviene la metamorfosi. Lo slancio di lì a qualche istante si bloccherà nella fermezza più assoluta, tuttavia Bernini riesce a farci sentire con tutta la struggente intensità possibile l’ultimo palpitante istante di vita. Tutto il monumento è come un arco teso per far scoccare una freccia, che in realtà non parte, ma che ci trasmette la sensazione di quell’attimo fuggente che è la dinamica stessa della vita. Da notare che in questo svolgersi secondo un motivo ad arco, il gruppo ha visivamente uno sbilanciamento in avanti che lo rende altamente instabile. Si tratta ovviamente solo di un effetto ottico ma ottenuto con grande virtuosismo. Ciò rientra in pieno in quella nuova estetica 11
diffusasi con il barocco, che ricerca sempre le linee curve, di contro a quelle rette, per esprimere slancio, vitalità, eleganza e movimento. Tutte qualità che ritroviamo in pieno nel monumento realizzato da Gian Lorenzo Bernini. Antonio Canova, Teseo sul Minotauro, 1781-83 Il gruppo scultoreo è una rappresentazione del mito di Teseo e si pone come una delle opere più esemplari del concetto di arte neoclassica. L’eroe ateniese, aiutato da Arianna, penetrò nel labirinto di Creta, ove era rinchiuso il Minotauro, mostro metà uomo e metà toro, e riuscì ad ucciderlo. L’episodio si prestava a molteplici possibilità: uno scultore barocco come il Bernini ne avrebbe probabilmente approfittato per cogliere il momento di massimo sforzo nello scontro tra Teseo e il Minotauro e scolpire un gruppo di grande dinamicità e tensione. Invece Canova, da artista neoclassico, cerca il momento della quiete e non dell’agitazione. E così preferisce sintetizzare la storia al momento della vittoria di Teseo, quando la tensione si è oramai sciolta e un profondo senso di pace pervade l’eroe. In questo istante si coglie anche un senso di umana pietà che Teseo prova verso il mostro sconfitto, in quanto la sua nobiltà d’animo gli impone di non odiare il nemico. Tutto il gruppo scultoreo trasmette quindi un senso di profonda calma: è il momento in cui l’agitazione delle passioni e delle azioni si spegne e si trasferisce all’eternità del mito. Da un punto di vista stilistico il gruppo ha equilibri molto classici e le forme anatomiche di Teseo richiamano direttamente le inespressive ma perfette fattezze di tante statue dell’antica Grecia. Il gruppo è quindi una espressione paradigmatica delle nuove esigenze estetiche dell’arte neoclassica. Antonio Canova, Le tre Grazie, 1812-16 Il gruppo delle tre Grazie era uno dei temi più in voga nel periodo neoclassico, ed ovviamente non poteva mancare nel repertorio di Antonio Canova. Le tre figure di Aglaia, Eufrosine e Talia erano le protettrici degli artisti, in quanto da loro proveniva tutto ciò che vi è di bello nel mondo umano e naturale. Canova le raffigura nella posizione più canonica, ovvero abbracciate e disposte a circolo. Sono nude, così come le ritroviamo nella tradizione ellenistica, e vengono rappresentata dall’artista nella classica posizione a chiasma. L’incrociarsi delle membra serve qui a dare un molle abbandono alle figure che, nel sostenersi a vicenda, formano quasi un unico gruppo di affetti e sensualità corrisposte. L’immagine è quindi concepita come esaltazione di perfezione e bellezza, sommi canoni estetici per il gusto neoclassico. Antonio Canova, Paolina Borghese, 1804-08 La grande fama acquisita da Antonio Canova, fece sì che tra i suoi committenti ci fosse anche Napoleone Bonaparte. Per Napoleone Canova eseguì diversi lavori che immortalarono non solo la figura dell’imperatore ma anche dei suoi familiari. Uno dei ritratti più famosi è sicuramente questo dedicato a Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, e moglie del nobile romano Camillo Borghese. La rappresentazione segue ovviamente i precetti neoclassici. Innanzitutto Paolina è raffigurata idealisticamente nuda, e con in mano un pomo. La sua immagine richiama quindi quella di Venere vincitrice, con il pomo di Paride in mano, attestato di superiore bellezza. La figura è adagiata mollemente su un triclino, richiamando un po’ la tipologia dei ritratti semidistesi presenti sui sarcofagi etruschi (ad esempio, il "sarcofago degli sposi" conservato a Villa Giulia). Tuttavia, a dispetto di questo richiamo un po’ funereo, la notevole abilità tecnica di Canova riesce ad infondere quasi un palpito di vita all’immagine di marmo, risultando così verosimile l’intera scultura da suscitare apprezzamenti più che entusiastici nei numerosi estimatori di questa oper 12
IL ROMANTICISMO IV.5.1 Caratteri generali e differenze con il neoclassicismo IV.5.2 Le nuove categorie estetiche: il pittoresco e il sublime IV.5.3 La rivalutazione dei sentimenti e delle passioni IV.5.4 La riscoperta del Medioevo IV.5.5 Theodore GERICAULT IV.5.6 Eugene DELACROIX IV.5.7 Caspar David FRIEDRICH IV.5.8 John CONSTABLE IV.5.9 William TURNER IV.5.10 Dante Gabriel ROSSETTI IV.5.11 Cenni sul Romanticismo italiano IV.5.12 Francesco HAYEZ
IV.5.1 Caratteri generali e differenze con il neoclassicismo Il romanticismo è un movimento artistico dai contorni meno definiti rispetto al neoclassicismo. Benché si affermi in Europa dopo che il neoclassicismo ha esaurito la sua vitalità, ossia intorno al 1830, in realtà era nato molto prima. Le prime tematiche che lo preannunciavano sorsero già verso la metà del XVIII secolo. Esse, tuttavia, rimasero in incubazione durante tutto lo sviluppo del neoclassicismo, per riapparire e consolidarsi solo nei primi decenni dell’Ottocento. Il romanticismo ha poi cominciato ad affievolirsi verso la metà del XIX secolo, anche se alcune sue suggestioni e propaggini giungono fino alla fine del secolo. Il romanticismo è un movimento che si definisce bene proprio confrontandolo con il neoclassicismo. In sostanza, mentre il neoclassicismo dà importanza alla razionalità umana, il romanticismo rivaluta la sfera del sentimento, della passione ed anche della irrazionalità. Il neoclassicismo è profondamente laico e persino ateo; per contro il romanticismo è un movimento di grandi suggestioni religiose. Il neoclassicismo aveva preso come riferimento la storia classica; il romanticismo, invece, guarda alla storia del medioevo, rivalutando questo periodo che, fino ad allora, era stato considerato buio e barbarico. Infine, mentre il neoclassicismo impostava la pratica artistica sulle regole e sul metodo, il romanticismo rivalutava l’ispirazione ed il genio individuale. È da considerare, inoltre che, mentre il neoclassicismo è uno stile internazionale, ed in ciò rifiuta le espressioni locali considerandole folkloristiche, ossia di livello inferiore, il romanticismo si presenta con caratteristiche differenziate da nazione a nazione. Così, di fatto, risultano differenti il romanticismo inglese da quello francese, o il romanticismo italiano da quello tedesco, e così via. 13
Il romanticismo, in realtà, a differenza del neoclassicismo, non è uno stile, in quanto non si fonda su dei principi formali definiti. Esso può essere invece considerato una poetica, in quanto, più che alla omogeneità stilistica, tende alla omogeneità dei contenuti. Questi contenuti della poetica romantica sono sintetizzabili in quattro grandi categorie: 1. l’armonia dell’uomo nella natura 2. il sentimento della religione 3. la rivalutazione dei caratteri nazionali dei popoli 4. il riferimento alle storie del medioevo. IV.5.2 Le nuove categorie estetiche: il pittoresco e il sublime La categoria estetica del neoclassicismo è stata sempre e solo una: il bello. Il bello è qualcosa che deve ispirare sensazioni estetiche piacevoli, gradevoli, e per far ciò deve nascere dalla perfezione delle forme, dalla loro armonia, regolarità, equilibrio, eccetera. Il bello, già dalle sue prime formulazioni teoriche presso gli antichi greci, conserva al suo fondo una regolarità geometrica che è il frutto della capacità umana di immaginare e realizzare forme perfette. Pertanto, nella concezione propriamente neoclassica, il bello è la qualità specifica dell’operare umano. La natura non produce il bello, ma produce immagini che possono ispirare due sentimenti fondamentali: il pittoresco o il sublime. Il sublime conosce la sua prima definizione teorica grazie a E. Burke, nel 1756, con un saggio dal titolo: Ricerca filosofica sulla origine delle idee del sublime e del bello. Burke considera il bello e il sublime tra loro opposti. Il sublime non nasce dal piacere della misura e della forma bella, né dalla contemplazione disinteressata dell’oggetto, ma ha la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dalla dismisura, da «tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili» (per es. il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, ecc.; riprendendo questi esempi Kant dirà: sono sublimi le alte querce e belle le aiuole; la notte è sublime, il giorno è bello). Immanuel Kant approfondisce il significato del sublime. Il sublime non deriva, come il bello, dal libero gioco tra sensibilità e intelletto, ma dal conflitto tra sensibilità e ragione. Si ha pertanto quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato sia dall’assolutamente grande e incommensurabile (la serie infinita dei numeri o l’illimitatezza del tempo e dello spazio: sublime matematico), sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali che suscitano nell’uomo il senso della sua fragilità e finitezza (sublime dinamico). Il pittoresco è una categoria estetica che trova la sua prima formulazione solo alla fine del Settecento grazie ad U. Price, che nel 1792 scrisse: Un saggio sul pittoresco, paragonato al sublime e al bello. Tuttavia la sua prima comparsa nel panorama artistico è rintracciabile già agli inizi del Settecento, soprattutto nella pittura inglese, e poi nel rococò francese. Il pittoresco rifiuta la precisione delle geometrie regolari per ritrovare la sensazione gradevole nella irregolarità e nel disordine spontaneo della natura. Il pittoresco è la categoria estetica dei paesaggi. Tutta la pittura romantica di paesaggio conserva questa caratteristica. Essa, nel corso del Settecento, ispirò anche il giardinaggio, facendo nascere il cosiddetto giardino «all’inglese». L’arte del giardinaggio, nel corso del rinascimento e del barocco, 14
aveva prodotto il giardino «all’italiana», ossia una composizione di elementi vegetali (alberi, siepi, aiuole) e artificiali (vialetti, scalinate, panchine, padiglioni, gazebi) ordinati secondo figure geometriche e regolari. Il giardino «all’inglese» rifiuta invece la regolarità geometrica e dispone ogni cosa in un’apparente casualità. Divengono elementi caratteristici di questo tipo di giardino: i vialetti tortuosi, i dislivelli, le pendenze, la disposizione irregolare degli arbusti. Ed un altro elemento caratteristico del giardino «all’inglese» è la falsa rovina. Il sentimento della rovina è tipico della poetica romantica. Le rovine ispirano la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall’uomo, dando allo spettatore la commozione del tempo che passa. Le testimonianze delle civiltà passate, pur se vengono aggredite dalla corrosione del tempo, rimangono comunque presenti in questi rovine del passato. E la rovina, per lo spirito romantico, è più emozionante e piacevole di un edificio, o di un manufatto, intero. Ovviamente, nell’arte del giardinaggio, pur in mancanza di rovine autentiche, ci si accontentava di false rovine. Ossia di copie di edifici o statue del passato riprodotte allo stato cadente. IV.5.3 La rivalutazione dei sentimenti e delle passioni Uno dei tratti più caratteristici del romanticismo è la rivalutazione del lato passionale ed istintivo dell’uomo. Questa tendenza porta a ricercare le atmosfere buie e tenebrose, il mistero, le sensazioni forti, l’orrido ed il pauroso. L’artista romantico ha un animo ipersensibile, sempre pronto a continui turbamenti. L’artista non si sente più un borghese ma inizia a comportarsi sempre più in modo anticonvenzionale. In alcuni casi sono decisamente asociali e amorali. Sono artisti disperati e maledetti che alimentano il proprio genio di trasgressioni ed eccessi. L’artista romantico è un personaggio fondamentalmente pessimista. Vive il proprio malessere psicologico con grande drammaticità. E il risultato di questo atteggiamento è un arte che, non di rado, ricerca l’orrore, come in alcuni quadri di Gericault che raffigurano teste di decapitati o nelle visioni allucinate di Goya quali «Saturno che divora i figli». L’arte romantica riscopre anche la sfera religiosa, dopo un secolo, il Settecento, che era stato fortemente laico ed anticlericale. La riscoperta dei valori religiosi era iniziata già nel 1802 con la pubblicazione, da parte di Chateaubriand, de Il genio del Cristianesimo. Negli stessi anni iniziava, soprattutto in Germania, grazie a von Schlegel e Schelling, una concezione mistica ed idealistica dell’arte intesa come dono divino. L’arte deve scoprire l’anima delle cose, rivelando concetti quali il sentimento, il religioso, l’interiore. Il primo pittore a seguire queste indicazioni fu il tedesco C. D. Friedrich. Questo interesse per la dimensione della interiorità e della spiritualità umana portò, in realtà, il romanticismo a preferire linguaggi artisti non figurativi, come la musica e la letteratura o la poesia. Queste, infatti, sono le arti che, più di altre, incarnano lo spirito del romanticismo. IV.5.4 La riscoperta del Medioevo Sono diversi i motivi che portarono la cultura romantica a rivalutare il medioevo. Le motivazioni principali sono fondamentalmente tre: 1. il medioevo è stato un periodo mistico e religioso 2. nel medioevo si sono formate le nazioni europee 15
3. nel medioevo il lavoro era soprattutto artigianale. Nel medioevo la religione aveva svolto un ruolo fondamentale per la società del tempo. Forniva le coordinate non solo morali, ma anche esistenziali. Allo spirito della religione era improntata tutta l’esistenza umana. Questo aspetto fa sì che, nel romanticismo, si guardi al medioevo come ad un’epoca positiva perché pervasa da un forte misticismo e spiritualità. Inoltre, la rivalutazione del medioevo nasceva da un atteggiamento polemico sul piano politico. È da ricordare, infatti, che il neoclassicismo, nella sua ultima fase, era divenuto lo stile di Napoleone e del suo impero. Di una entità politica, cioè, che aveva cercato di eliminare le varie nazioni europee per fonderle in un unico stato. Il crollo dell’impero napoleonico aveva significato, nelle coscienze europee, soprattutto la rivalutazione delle diverse nazionalità che, nel nostro continente, si erano formate proprio nel medioevo con il crollo di un altro impero sovranazionale: quello romano. Il neoclassicismo, nella sua perfezione senza tempo, aveva cercato di sovrapporsi alle diversità locali. Il romanticismo, invece, vuole rivalutare la diversità dei vari popoli e delle varie nazioni e quindi guarda positivamente a quell’epoca in cui la diversità culturale si era formata in Europa: il medioevo. Il terzo motivo di rivalutazione del medioevo nasce da un atteggiamento polemico nei confronti della rivoluzione industriale. Alla metà del Settecento le nuove conquiste scientifiche e tecnologiche avevano permesso di modificare sostanzialmente i mezzi della produzione, passando da una fase in cui i manufatti erano prodotti artigianalmente, ad una fase in cui venivano prodotti meccanicamente con un ciclo industriale. La nascita delle industrie rivoluzionò molti aspetti della vita sociale ed economica. Permise di produrre una quantità di oggetti notevolmente superiore, ad un costo notevolmente inferiore. Tuttavia, soprattutto nella sua prima fase, la produzione industriale portò ad un peggioramento della qualità estetica degli oggetti prodotti. Questa conseguenza fu avvertita soprattutto dagli intellettuali inglesi che, verso la metà dell’Ottocento, proposero un rifiuto delle industrie per un ritorno all’artigianato. Il lavoro artigianale, secondo questi intellettuali, consentiva la produzione di oggetti qualitativamente migliori, ed inoltre arricchiva il lavoratore del piacere del lavoro, cosa che nelle industrie non era possibile. Le industrie, con il loro ciclo ripetitivo della catena di montaggio, non creavano le possibilità per un lavoratore di amare il proprio lavoro, con la conseguenza della sua alienazione e dell’impoverimento interiore. Sorsero così, in Inghilterra, delle scuole di arte applicata e di mestieri, dette «Arts and Crafts». In queste scuole venivano prodotti manufatti in modo rigorosamente artigianale ma che finivano per costare notevolmente in più rispetto alle analoghe merci prodotte dalle industrie. Tendenzialmente erano quindi destinate ad un pubblico ricco e di élite. E quindi non più alla portata proprio della classe operaia che, dalla rivoluzione industriale, aveva tratto il beneficio di poter acquistare un maggior numero di oggetti perché più economici. La risposta ai mali della rivoluzione industriale data dai movimenti di «Arts and Crafts» era anacronistica. E l’illusione di poter sostituire le industrie con l’artigianato si rivelò fallimentare. La giusta soluzione, alla qualità della produzione industriale, fu data solo alla fine del secolo dalla cultura che si sviluppò nell’ambito del Liberty. La soluzione fu la definizione di una nuova specificità estetica, il design industriale, che avrebbe portato ad una nuova figura professionale: il designer.
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Parallelamente ai movimenti di «Arts and Crafts» sorse in Inghilterra un movimento pittorico che diede una ultima interpretazione del Romanticismo, nella seconda metà dell’Ottocento: i Preraffaelliti. Il gruppo, animato da Dante Gabriel Rossetti, si ripropose, anche nel nome, di far rivivere la pittura medievale sviluppatasi appunto prima di Raffaello. IV.5.5 THEODORE GERICAULT Théodore Gericault (1791-1824) svolse le sue prime esperienze pittoriche nell’ambiente neoclassico francese che in quegli anni era influenzato dalle figure di David e Ingres. Dopo un periodo di soggiorno a Roma, dove ebbe modo di studiare le opere di Michelangelo e di Caravaggio, fece ritorno a Parigi, nel 1817, dove conobbe Delacroix. In quegli anni realizzò il suo quadro più famoso: «La zattera della Medusa», che fu esposto nel Salone d’Autunno del 1819 ricevendo aspre critiche. Negli anni successivi, il suo interesse per un naturalismo nudo e crudo lo portò a prediligere temi dal gusto macabro, quali le teste dei decapitati o i ritratti di pazzi e alienati mentali rinchiusi nei manicomi. Di carattere molto introverso, Gericault rappresenta già il prototipo del successivo artista romantico: amorale e asociale, disperato e maledetto, che alimenta il proprio genio di eccessi e trasgressioni. Il gusto per l’orrido e il rifiuto della bellezza dà immediatamente il senso della sua poetica: un’arte che non vuole essere facile e consolatoria ma che deve scuotere i sentimenti più profondi dell’animo umano, proponendogli immagini raccapriccianti. La sua vita si concluse nel 1824, a soli 33 anni. La sua eredità, in campo figurativo, fu presa soprattutto dall’amico Eugene Delacroix. OPERE Theodore Gericault, La zattera della Medusa, 1818 Il quadro di Gericault, la zattera della Medusa, prende spunto, nel suo soggetto, da un fatto di cronaca successo nel 1816: l’affondamento della nave francese Medusa. Gli occupanti della nave si rifugiarono su una zattera che rimase abbandonata alle onde del mare per diverse settimane. Gli sfortunati occupanti di quella zattera vissero una esperienza terribile che condusse alla morte la gran parte di loro. Solo una quindicina di uomini furono tratti in salvo da una nave di passaggio, dopo che su quella zattera era avvenuto di tutto, anche fenomeni di cannibalismo. L’episodio colpì molto l’immaginazione di Gericault che, immediatamente, si mise al lavoro per la realizzazione di questa che rimane la sua opera più famosa. Bisogna ricordare il periodo storico in cui è nata questa tela. La Francia era appena uscita da una esperienza storica che l’aveva profondamente segnata: prima la Rivoluzione e poi l’impero napoleonico. Napoleone, nel 1815, a Waterloo era stato definitivamente sconfitto e confinato nell’isola di Sant’Elena. Nel 1816, con il Congresso di Vienna, gli stati europei avevano ripristinato la situazione geo-politica antecedente la Rivoluzione Francese. Tutto ciò che era successo con questa esperienza francese sembrava definitivamente cancellato con un colpo di spugna. Lo stato d’animo dei francesi, in quegli anni, era soprattutto di sconforto e di delusione. Sentimenti originati dalla constatazione che ciò che essi avevano fatto non era servito a nulla. Il senso di disagio e di deriva finiva per rispecchiarsi direttamente in un quadro che rappresentava appunto un naufragio. Così, volutamente o casualmente, la zattera della Medusa divenne la metafora di un naufragio che, simbolicamente, vedeva coinvolta tutta la nazione francese. Se «Il giuramento degli 17
Orazi» di David rappresenta la Francia prima della Rivoluzione, «La zattera della Medusa» dà l’immagine psicologica della Francia dopo che la Rivoluzione si è conclusa con il fallimento dell’impero. Il quadro di Gericault, dunque, usa un episodio di cronaca quotidiana per esprimere un contenuto preciso: la vita umana in bilico tra speranza e disperazione. Formalmente il quadro è costruito secondo il classico sviluppo piramidale. Nel quadro di Gericault le piramidi sono in realtà due ed esprimono due direzioni che si incrociano tra loro opponendosi. La prima piramide parte dall’uomo morto in basso a sinistra ed ha il vertice nell’uomo che, di spalle, sta agitando un panno. È la direzione umana cha va dalla disperazione, di coloro che sono morti, alla speranza di chi ha ancora la forza di agitarsi con la speranza di essere visto da qualcuno che vada a salvarli. La seconda piramide parte dalle onde del mare per giungere all’albero che sorregge la vela. Questa è la direzione del mare che spinge in direzione opposta rispetto alla direzione delle speranze umane. È proprio la tensione visibile tra queste due forze opposte a dare un primo tratto drammatico alla scena. Nei primi studi, preliminari alla realizzazione finale del quadro, Gericault mise una nave all’orizzonte nella direzione in cui guarda l’uomo che agita il panno. La presenza della nave all’orizzonte dava in realtà la sensazione del lieto fine. La sensazione che oramai, per i sopravvissuti, la brutta avventura stava per volgere all’epilogo. Ciò comportava lo scioglimento della tensione psicologica. Nella stesura definitiva la nave all’orizzonte scompare, proprio per aumentare il senso del pathos. Chi guarda non sa come la vicenda andrà a finire e quindi deve cogliere la sensazione drammatica di chi ancora non sa se verrà salvato o meno. E lo spettatore non può saperlo, anche perché vede lo stesso orizzonte che guarda l’uomo che agita il panno. Se la composizione fosse stata ruotata di 180 gradi, e l’uomo guardava verso lo spettatore del quadro, avrebbe idealmente chiesto a lui aiuto. In questo caso si sarebbe aumentato il senso di pietà da parte dello spettatore nei confronti di chi, dal quadro, gli chiedeva aiuto. Invece, vedendo l’uomo di spalle, è costretto a compenetrarsi nel suo punto di vista. E all’orizzonte di quel punto di vista lo spettatore non vede, e non potrebbe vedere, nulla. Così che deve vivere totalmente il dubbio dell’uomo che non sa quale sarà il finale, la morte o la salvezza, che lo aspetta. In quest’opera, di altissima tensione drammatica, Gericault usa più riferimenti alla storia dell’arte. L’atmosfera e i contrasti luministici rimandano inevitabilmente a Caravaggio. Anche il braccio abbandonato nell’acqua, dell’uomo morto in basso a sinistra, è copiato da Caravaggio. Lo stesso braccio che copiò David nella «Morte di Marat». Le figure hanno una tensione muscolare, e una torsione, che rimandano immediatamente a Michelangelo. Le figure in basso a sinistra, del ragazzo morto e del padre che lo sorregge pensoso, sembrano due statue greche. Da notare il particolare del ragazzo che, benché nudo, ha le calze arrotolate ai piedi. Questo particolare, di crudo realismo, sgombera il campo da qualsiasi lettura mitologica o idealizzata. Quelle calze, così comuni e banali, danno il senso tragico della umanità violata, ossia della morte vera che spegne le persone vere in carne ed ossa. Theodore Gericault, La zattera della Medusa (bozzetto), 1818 Il bozzetto della Zattera è molto interessante e ci rivela molti indizi per comprendere l’evoluzione verso la stesura definitiva del quadro. Il motivo delle due diagonale contrapposte era già presente ma il progetto iniziale, come già detto, prevedeva una nave all’orizzonte verso la quale i naufraghi 18
facevano segnali per farsi notare. Questa nave scompare nella versione finale, e, se si guarda attentamente il quadro definitivo, si nota che lì dove doveva apparire la nave vi è un’onda che si solleva sulla linea d’orizzonte. Probabile quindi che la scelta di non far apparire la nave sia stata presa proprio all’ultimo momento, quando essa era già stata abbozzata sulla tela definitiva e quell’onda all’orizzonte è servita proprio per cancellare la figura del vascello. In effetti il gruppo che si agita non ha motivo di compiere una simile azione se all’orizzonte non c’è nulla: ma qui sta l’effetto di suspense voluto da Gericault, per toglierci il lieto fine ed amplificare il senso di disperazione di chi sta naufragando in mare. Un altro elemento di differenza che si nota è la mancanza, nel bozzetto, dell’ultima figura sulla sinistra in basso, quella per la quale posò Delacroix. Ciò ci dà ulteriore conferma della introduzione di questa figura proprio per la precisa richiesta di Delacroix, il quale, entusiasta del progetto che andava realizzando l’amico, chiese di poter partecipare anche lui alla definizione del quadro.
Theodore Gericault, Alienata monomane del gioco, 1822 Altra ricerca al limite dell’ossessivo fu quella che Gericault condusse sui pazzi. Questa è solo una delle diverse tele che l’artista dedicò ai malati di mente, in uno studio teso a ritrovare nella inespressività degli alienati le linee di confine tra l’umano e ciò che non è più tale. IV.5.6 EUGENE DELACROIX Eugène Delacroix (1798-1863) è il pittore che più di ogni altro ha interpretato il romanticismo in Francia. Dopo una formazione giovanile presso il pittore neoclassico Guerin, entrò in contatto con Gericault per il quale posò nella «Zattera della Medusa». Suggestionato dalla pittura di Michelangelo e di Rubens, sviluppò la sua pittura in due direzioni fondamentali: il colore espressivo, sul versante formale, ed i soggetti esotici, sul versante poetico. Partecipò per la prima volta al Salone d’Autunno nel 1822 con il quadro «La barca di Dante» che mostra una diretta connessione con le suggestioni letterarie del romanticismo. Di due anni dopo è la tela «Il Massacro di Scio» che illustra un episodio della guerra di liberazione dei greci dai turchi. Il crudo realismo e la singolare forza espressiva testimoniano che Delacroix si pone come artista impegnato sui problemi del suo tempo. Ma il quadro che più rappresenta questo suo aspetto è la tela «La Libertà che guida il popolo» del 1830. Delacroix si schiera apertamente dal lato degli oppressi che insorgono per rivendicare una nuova importanza sociale e politica. Dopo questo periodo, anche per via di suoi viaggi in Marocco e in Spagna, la pittura di Delacroix si porta su soggetti sempre più esotici, quali «Le donne di Algeri», per poi passare a soggetti più legati alla storia. L’importanza di Delacroix nella pittura francese dell’Ottocento è notevole soprattutto per gli sviluppi successivi. Egli, molto suggestionato dagli effetti cromatici dei quadri dell’inglese Constable, inizia a sperimentare quella divisione dei colori che sarà il motivo fondamentale di tutta la successiva esperienza impressionista e neo-impressionista. Benché usi una tavolozza di molteplici colori, sia puri sia smorti, la sua tecnica si basa sull’esaltazione cromatica data dall’accostamento di tinte e toni diversi secondo il principio del contrasto luministico. OPERE Eugene Delacroix, La Libertà che guida il popolo, 1830 19
Questa tela di Delacroix ha tanti riferimenti visivi e compositivi alla «Zattera della Medusa» che non si può parlare di questo quadro se prima non lo si confronta con la tela di Gericault. La composizione ha lo stesso sviluppo piramidale, però in questo caso il gruppo ha un orientamento ruotato di 180 gradi. Nella «Zattera» l’uomo che fa da vertice alla piramide guarda verso l’orizzonte interno al quadro, nella «Libertà che guida il popolo» il vertice della piramide, la donna con la bandiera, guarda verso lo spettatore. Questa rotazione ribalta completamente il senso del contenuto: nella «Zattera» il contenuto è pessimistico; nella «Libertà che guida il popolo» il contenuto è ottimista. Nel primo caso, infatti, la «Zattera» esprime il senso di sconforto che è la nota dominante della Francia nel 1818: una nazione che ha perso una rivoluzione ed un impero. Nel 1830 un’altra rivoluzione, meno cruenta, si è svolta: i parigini sono ritornati sulle barricate e ciò significa che hanno ritrovato fiducia in sé. Sono quindi ispirati da ottimismo. Nel quadro di Gericault lo spettatore è portato a guardare nella stessa direzione verso la quale guarda l’uomo che agita il panno. E, come lui, anche lo spettatore non vede nulla all’orizzonte. Il quadro, quindi, gioca sul dubbio per ispirare ansia ed angoscia. Nel caso della «Libertà che guida il popolo» la donna guarda verso lo spettatore. Conduce la sua marcia per coinvolgerlo nella sua azione. Il quadro ha quindi una funzione esortatrice tesa ad ispirare sentimenti di forza e di giusta ribellione. Da considerare inoltre che il quadro di Gericault usa questa rappresentazione così intensa e drammatica utilizzandola come metafora. Il naufragio della Medusa è la metafora del naufragio della Francia e delle idee rivoluzionarie di libertà, uguaglianza e fraternità. La «Libertà che guida il popolo» non è una metafora ma una allegoria. Usa cioè una immagine, quella della donna con la bandiera in mano, per visualizzare un sentimento. Vi è infine un particolare, che Delacroix usa quasi come citazione, per dichiarare apertamente la sua derivazione dall’opera di Gericault: nel suo quadro l’uomo ucciso in basso a sinistra ha le calze ai piedi. Lo stesso particolare che ritroviamo nel giovane morto della «Zattera». Da ricordare che Delacroix aveva posato per l’amico Gericault quando questi aveva realizzato la sua grande tela. L’uomo con la barba in basso a sinistra della zattera, con il braccio destra semi-immerso nell’acqua, è appunto Delacroix. Ricordiamo, infine, che il soggetto del quadro fu ispirato dalle reali vicende storiche che si svolsero in Francia in quegli anni. Dopo la caduta di Napoleone, con il Congresso di Vienna, la Francia venne restituita alla monarchia borbonica di Luigi XVIII che fu re dal 1816 al 1824. Nel 1824 gli successe Carlo X, la cui monarchia dal carattere assolutistico finì per suscitare nuovi sentimenti di ribellione. Egli, infatti, fu destituito nel 1830 con la rivoluzione di luglio. Ed è questo l’episodio che diede a Delacroix lo spunto per il suo quadro. Abbattuta la monarchia borbonica si instaurò in Francia una monarchia costituzionale che fu affidata a Luigi Filippo d’Orleans. Ciò, dunque, che contraddistingue il romanticismo francese di Gericault e Delacroix, è questa aderenza agli episodi della loro storia contemporanea, senza far ricorso a metafore storiche tratte dal medioevo. Questa tendenza tutta francese, di legare la pittura alla storia del presente e non del passato, è una costante che attraversa tutta l’arte dell’Ottocento francese, anche quando si affermò il realismo, l’impressionismo e il post impressionismo.
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Eugene Delacroix, La barca di Dante, 1822 L’ispirazione alla letteratura del medioevo è una costante di tutta l’arte romantica, ed ovviamente anche Dante, con la sua Divina Commedia, è una fonte d’ispirazione notevole. In questo quadro Delacroix rappresenta il momento, descritto nel III terzo canto dell’Inferno in cui Dante e Virgilio attraversano il fiume Acheronte sulla barca di Caronte. Alla barca cercano di aggrapparsi le anime dei dannati, per poter giungere il più presto possibile al luogo loro destinato. Durante il guado un terremoto improvviso scuote la terra e fa apparire in lontananza "una luce vermiglia". Lo spavento fu così forte per il poeta che cadde svenuto, e si ritrovò, senza accorgersi, sull’altra riva del fiume infernale. Delacroix rende la scena con tratti di forte drammaticità, cercando di suscitare una violenta emozione nello spettatore che guarda il quadro. Il riferimento alla Zattera della Medusa di Gericault è fin troppo evidente, e non mancano elementi stilistici, soprattutto nel trattamento vigoroso dei nudi, che rimandano a Michelangelo e a Rubens.
IV.5.7 CASPAR DAVID FRIEDRICH Friedrich (1774-1840) è il pittore tedesco che per primo entrò nel clima del romanticismo tedesco. La Germania ebbe un ruolo fondamentale nella definizione delle teorie romantiche sia grazie ai movimenti letterari quali lo «Sturm and Drung» sia grazie all’opera di alcuni pensatori e filosofi quali von Schlegel e Schelling. Ma l’arte romantica per eccellenza della Germania fu soprattutto la musica che ebbe come massimo interprete Ludwig van Beethoven. Friedrich è interessato, nella poetica del romanticismo, soprattutto al lato mistico della natura. La prima opera che lo rese noto fu la «Croce sulla montagna» o pala di Tetschen, del 1808. Questa pala d’altare è composta unicamente da un paesaggio di montagne, su cui si staglia il segno nero di una croce. Che un paesaggio potesse essere un immagine religiosa è una grossa rivoluzione che non poco stupì i critici del tempo. In essa, tuttavia, è chiaramente avvertibile una suggestione religiosa data dallo spettacolo della natura, intesa come opera divina, in cui la presenza della croce serve principalmente ad elevare il nostro pensiero a Dio. Questi paesaggi di Friedrich sono lo spettacolo della natura ma servono anche a misurare la piccolezza dell’uomo nel confronto con tale vastità di orizzonti. E la categoria che più sfrutta questa pittura è proprio il sublime, così come lo aveva definito Kant: quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato dall’assolutamente grande e incommensurabile. Il sentimento panico della natura, sede dell’infinito che ci riporta a Dio, è la maggiore caratteristica di Friederich. Ed è ciò che lo distingue da altre tendenze romantiche anche tedesche e di ispirazione religiosa, quali i Nazareni, che invece perseguirono una immagine della religione e della fede più aderente ai modelli letterari e medievali. Friedrich, nel cercare Dio solo nella sua creazione, è sicuramente più originale ponendosi come il maggior pittore romantico tedesco. OPERE C. D. Friedrich, Il viaggiatore sopra il mare di nebbia, 1818 In questo quadro di Friedrich, forse tra i suoi il più famoso e anche quello più sfruttato, si avverte immediatamente la poetica del pittore. Il sublime, ossia il senso della natura possente e smisurata, viene qui presentato con una evidenza da teorema matematico. Su una roccia di origine vulcanica 21
un uomo, raffigurato di spalle, ammira il panorama che gli si apre davanti. La nebbia che gli è innanzi è quasi come un mare da cui emergono come isole le cime delle montagne. Non vi è vegetazione che crea angoli accoglienti. Le rocce sono nere e inospitali. Emergono dai fumi di una nebbia che sembra quasi il vapore che sprigiona la terra dal suo interno. Il paesaggio ha qualcosa di così arcaico che sembra di ammirare la Terra subito dopo la Creazione. L’uomo che ammira questo spettacolo ci dà il confronto tra la piccolezza della dimensione umana e la vastità dell’opera della natura. È raffigurato di spalle così che lo spettatore del quadro deve condividere il suo punto di vista e compenetrarsi nel suo stato d’animo. Lo stato d’animo, cioè, di chi avverte dentro di sé il sentimento del sublime: meraviglia e quasi sgomento di fronte all’immensità dell’universo. C. D. Friedrich, Abbazia nel querceto, 1809 In quest’opera di Friedrich si coglie un tema molto caro allo spirito romantico: la visione delle rovine con tutto il loro fascino legato al senso del tempo che passa. In una luce, che ricorda un’alba nordica, si intravedono degli alberi scheletrici e un muro con una finestra in stile gotico, ultimo resto di un’antica abbazia distrutta e trasformata in cimitero. In basso si intravedono dei monaci con una bara sulle spalle, che stanno probabilmente accingendosi a seppellire un loro confratello morto. Il tema delle rovine non è infrequente nella pittura settecentesca di periodo preromantico, basti ricordare artisti quali Gian Paolo Panini o Hubert Robert. Ma qui non è il gusto dello scenografico ad ispirare l’opera di Friedrich, bensì il senso della morte e del disfacimento, che non riguarda solo le persone, ma anche le cose che loro fanno, quali gli edifici, che sembrano dover sfidare i tempi ed invece anch’esse inesorabilmente si polverizzano. Un lavoro lento che compiono il tempo e la natura, quest’ultima quasi inesorabile nel riprendersi le pietre e i materiali che le erano stati tolti per plasmare gli edifici. C. D. Friedrich, Un uomo e una donna davanti alla luna, 1819 Anche il chiaro di luna è un tema molto caro ai romantici, e non poteva mancare nel campionario delle immagini dipinte da Friedrich. In questo quadro il paesaggio notturno si trasforma in una massa scura nella quale si insinua il controluce della luna a delineare le silhouette molto espressive degli alberi e dei due spettatori raffigurati nella scena. C. D. Friedrich, Le bianche scogliere di Rugen, 1818 Anche in questo quadro il tema che Friedrich svolge è il rapporto dell’uomo con lo spettacolo della natura. Due uomini e una donna osservano il mare profilarsi tra uno squarcio delle scogliere di Rugen, un’isola tedesca del mar Baltico. Il senso di vertigine che l’immagine vuole comunicare è un ulteriore esempio della ricerca del sublime, che Friedrich coglie nella visione incantata della grandiosità della natura. IV.5.8 JOHN CONSTABLE La produzione artistica di John Constable (1776-1837) è quasi tutta incentrata sul tema del paesaggio. La natura, nella cultura romantica, svolge sempre un ruolo fondamentale. Ma alla natura gli artisti romantici si accostano con animo diverso: per scoprirvi la potenza imperiosa che spaventa 22
ed atterrisce, e ciò lo si trova soprattutto nel romanticismo tedesco, o per ritrovarvi angoli piacevoli ed accoglienti, ed è ciò che caratterizza il romanticismo inglese. I paesaggi di Constable sono sempre gradevoli. Ritraggono una natura in cui c’è un felice equilibrio tra gli elementi naturali (alberi, fiumi, colline) e gli elementi artificiali (case, stradine, ponticelli). I paesaggi di Constable esprimono il sentimento di armonia tra l’uomo e la natura. Per la loro casuale ed irregolare disposizione i paesaggi di Constable rientrano pienamente in quella categoria estetica del pittoresco. Ciò che manca, in questi quadri, sono le false rovine che davano al pittoresco precedente un carattere eccessivamente artificioso e letterario. La pittura di paesaggio ha conosciuto una grande fortuna nei paesi nordici, ed in Olanda in particolare, per tutto il Seicento e il Settecento. Anche John Constable mosse i suoi primi passi da queste esperienze vedutistiche olandesi, ma la sua capacità di paesaggista fu di superare le qualità descrittive dei quadri precedenti per caricare i suoi paesaggi di intensità lirica. La pittura di Constable produsse notevoli influenze su molti pittori, sia inglesi sia francesi. OPERE John Constable, Il carro di fieno, 1821 Ciò che caratterizza formalmente la pittura di Constable è la capacità di indagare gli elementi visivi che formano un paesaggio. Del tutto assente un disegno compositivo, anche se si avverte la grande progettualità degli elementi che compongono i suoi quadri, lo stile pittorico è tutto affidato al colore. Il suo tocco è filamentoso e sporco. Le forme non hanno un contorno definito ma si riconoscono solo dai passaggi di tono e di colore. La superficie del quadro viene così a presentarsi, ad una visione molto ravvicinata, come un impasto formato da mille tonalità differenti. Questa tecnica fa sì che, ad una certa distanza, le immagini percepite sul quadro sembrano vibrare di una autonoma luce, rendendole più vive e dinamiche delle usuali rappresentazioni pittoriche. L’effetto è decisamente gradevole ed è ciò che suggestionò un pittore come Delacroix che, guardando quadri come questo, trasse le sue ricerche sulla scomposizione del colore. In questo quadro il soggetto, il carro di fieno, è solo un pretesto per consentire la rappresentazione di un paesaggio tipicamente inglese. Il carro sta guadando un piccolo ruscelletto che, nello spazio del quadro, forma una duplice curva ad esse. In una delle due anse del ruscello, a sinistra, c’è una casa che sembra quasi confondersi con il paesaggio circostante. La casa viene protetta da una cortina di alberi che creano una nicchia accogliente in cui si inserisce l’edificio. Sulla destra si apre una pianura che viene chiusa da una fila di alberi che si vede in lontananza. La parte superiore del quadro è occupata da un cielo percorso da nuvole. Da ricordare che Constable ha condotto notevoli studi sulla forma e il colore delle nuvole che egli fece oggetto di quadri autonomi. Anche qui è possibile vedere la sua grande capacità di controllare un elemento, le nuvole, così poco definito come forma ma che realizzano un’immagine molto varia nei suoi tonalismi atmosferici. Tutto il quadro tende ad un naturalismo molto accentuato. La forma non sono le cose, ma la percezione delle cose. Il sentimento che ispira è quella sottile vena di piacere che apre gli occhi per far loro godere l’atmosfera ampia che circola nella scena inquadrata. John Constable, Flatford Mill, 1817 Flatford Mill è una delle prime grandi realizzazioni di Constable realizzate in gran parte en plain air. Benché sia stato preceduto da numerosi studi e schizzi, il quadro cerca una visione quasi casuale del 23
luogo raffigurato. Nella scena, ambientata nei suoi luoghi d’infanzia, vediamo sullo sfondo a sinistra il mulino ad acqua proprietà del padre con un attracco per le barche che venivano trainate da cavalli su e giù lungo il fiume. L’immagine è una ricerca di quella spontaneità della natura, al quale l’uomo adatta le sue necessità e non viceversa. Il gusto per il pittoresco è qui una dimensione non solo estetica, ma di grande partecipazione emotiva, come ci attesta la scelta di raffigurare i proprio luoghi d’infanzia. E qui si coglie la maggior differenza tra il pittoresco rococò e preromantico, che era una scelta fondamentalmente estetica, ed il pittoresco romantico che è dimensione propriamente poetica. John Constable, Studio di nuvole, 1822 L’interesse per lo studio analitico del paesaggio in Constable è attestato da centinaia di tele che egli ha dedicato alle nuvole. Chi conosce l’Inghilterra sa che le nuvole costituiscono, qui più che altrove, un elemento determinante del paesaggio. L’interesse di Constable non si sofferma solo sulla diversa forma che i banchi di nuvole possono assumere, ma ne indaga soprattutto la qualità luminosa e cromatica in riferimento alle diverse ore del giorno. Questi esperimenti, che per certi versi anticipano l’Impressionismo francese, ci dimostrano l’intuizione di Constable che la luce è la grande protagonista del paesaggio.
IV.5.9 WILLIAM TURNER William Turner (1775-1851) è l’altro grande interprete, insieme a Constable, della pittura di paesaggio romantica in Inghilterra. La sua formazione giovanile deriva soprattutto dalla pittura di Cozens, con una progressiva ammirazione per un altro paesaggista francese del Seicento: Claude Lorrain. Le categorie estetiche a cui è improntata la pittura di Turner sono il pittoresco e il sublime. Quel sublime dinamico, come lo definiva Kant, che riguardava le manifestazioni della natura caratterizzate da grande esplosione di energia. Il soggetto di alcuni suoi quadri più tipici sono proprio le tempeste. Quella furia degli elementi che imprime grande velocità all’atmosfera. Nei suoi quadri gioca un elemento fondamentale la luce. Egli cerca di dare un’autonomia alla luce rappresentandola non come riflesso sugli oggetti ma come autonoma entità atmosferica. Per far ciò, usa il colore in totale libertà con pennellate curve ed avvolgenti. Le immagini che ne derivano hanno un aspetto quasi astratto che non poco sconvolse il pubblico del tempo. Secondo alcuni critici egli non dipingeva ma impastava sulla tela ingredienti da cucina, quali uova, cioccolata, panna, ricavandone un miscuglio da pasticciere. Queste critiche dimostrano quanto fosse poco compresa la sua pittura. Essa, tuttavia, divenne un riferimento importante per la successiva pittura impressionista. OPERE William Turner, Pioggia, vapore e velocità, 1844 In questo quadro di Turner sono ben evidenti gli elementi caratteristici della sua pittura che tanto sconvolsero i suoi contemporanei. La tela è un impasto di colori indefiniti che non danno un’immagine molto riconoscibile. Tutto si riduce ad una linea di orizzonte e a due diagonali trasversali, una a sinistra, poco evidente, che rappresenta un ponte ad arcate, una a destra, più 24
evidente, che rappresenta un altro ponte su cui sta correndo un treno. Il resto è solo luce, còlta nelle sue differenti colorazioni, nel momento che attraversa una atmosfera densa e dinamica. L’aria, infatti, è pregna di pioggia e di vapore, come dice il titolo, ed è una presenza che diventa immagine che sovrasta il resto della visione. Nei quadri di Turner tra i soggetti più usuali ci sono le tempeste di neve o le tempeste marine. Sono quadri vorticosi che riescono a curvare lo spazio in base alla energia impetuosa delle tempeste. Tempeste che travolgono tutto, rendendo irriconoscibile lo spazio e gli oggetti. E sono proprio quelle tempeste che rendono il senso del suo sublime dinamico. Un sublime che è caratteristica della sola forza della natura. In questo quadro compare invece un elemento decisamente nuovo: il treno. Le ferrovie sono state inventate solo da qualche anno e questo è probabilmente il primo quadro artistico che abbia a soggetto un treno. Questa invenzione – il primo mezzo di locomozione che sfrutta l’energia del vapore – non poco dovette colpire l’immaginazione di Turner. E l’artista riporta simbolicamente il treno nella stessa categoria del sublime. La categoria della potenza sovraumana ma che, in questo caso, non si curva come la tempesta ma procede per linee rette come è nelle cose fatte dall’uomo. Il taglio decisamente inusuale dato dalla diagonale del ponte, il dinamismo che suggerisce la velocità del treno, ma soprattutto la tecnica fatta di macchie di luce che rendono vaghi gli oggetti, rendono questo quadro uno degli esiti più sintomatici delle ricerche formali di Turner. E lo pongono come uno dei precedenti più diretti di tanta pittura della seconda metà dell’Ottocento che, dagli impressionisti in poi, abbandonerà sempre più la realistica rappresentazione di forme statiche e definite.
IV.5.10 DANTE GABRIEL ROSSETTI Dante Gabriel Rossetti (1828-1882) è il principale esponente della Confraternita dei Preraffaelliti, costituita in Inghilterra nel 1848. Nonostante il nome italiano, Rossetti è un pittore inglese che sviluppa la sua attività nella seconda metà dell’Ottocento. La Confraternita dei Preraffaelliti è la corrente artistica che più di qualsiasi altro movimento romantico si rifà al medioevo. Tanto che già dal nome dichiarano le loro intenzioni poetiche e stilistiche: rifarsi all’epoca tardo-medioevale, in particolare alla spiritualità e allo stile tardo gotico e primo rinascimentale del Trecento e del Quattrocento. Ciò che rifiutano è quel rinascimento maturo che trovava in Raffaello l’esponente più tipico. Il fenomeno dell’arte preraffaellita, anche per il periodo in cui si manifesta, è un ultima manifestazione del romanticismo inglese ed insieme anche il contributo anglosassone alle poetiche simboliste europee che partecipano del decadentismo di fine secolo. Il medioevo dei preraffaelliti è infatti molto letterario, tradendo una rievocazione che sa più di sogno e di mito che non di riscoperta vera del periodo medievale. I quadri preraffaelliti di Rossetti sono pervasi da una dimensione del silenzio che risuona di note sensuali e decadenti. La figura femminile è sempre presente, svolgendo un ruolo simile a quello di Beatrice per Dante: lo svelamento, attraverso la bellezza, della dimensione trascendentale.
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Dante Gabriel Rossetti fu anche poeta, riproponendo nei suoi sonetti la stessa poetica di estetizzazione spiritualizzata ed ultra-raffinata che caratterizza anche i suoi quadri. OPERE Dante Gabriel Rossetti, Ecce ancilla domini, 1850 Il quadro di Rossetti, realizzato nel 1850, è una interpretazione moderna di uno dei soggetti più comuni della pittura religiosa: l’Annunciazione. Il titolo rimanda alle parole che la Madonna pronunciò in risposta all’annuncio dell’arcangelo Gabriele: «ecco la serva del Signore». Il quadro si basa sul colore bianco che omogeneizza tutta l’immagine. In questo bianco si stagliano poche note di colore, il rosso della stola in primo piano, i capelli dorati e le aureole gialle, l’azzurro della tenda dietro al letto. Gli elementi iconografi della Annunciazione presenti sono il giglio, che compare sia in mano all’arcangelo che sulla stola rossa, e la colomba simbolo dello Spirito Santo. La Madonna ha un atteggiamento triste e pensoso. La sua espressione ha un carattere tipicamente femminile portando la vicenda da un piano religioso ad un piano umano molto più universale. Ciò che il pittore rappresenta non è tanto il mistero di un concepimento miracoloso ma il sentimento universale che provano tutte le donne quando sanno che dovranno diventare madri. La maternità è un passaggio fondamentale che viene accolto sempre con un po’ di paura e di timore per le nuove responsabilità a cui si va incontro. La sensualità molto terrena dell’immagine viene accentuata dalla figura dell’arcangelo che qui appare di una virilità molto evidente, a differenza di quanto avveniva nei quadri tardo gotici dove l’arcangelo prendeva un aspetto di indefinita sessualità. Tuttavia il quadro è pervaso da una spiritualità molto accentuata, giocando sulle corde di una malinconia lieve ma struggente. L’arcangelo Gabriele sembra che non poggi i piedi a terra e le lievi fiamme gialle che si notano ai piedi e riflesse sul pavimento lo qualifica come messaggero ultraterreno. Ma è da notare che la sua rappresentazione avviene da un diverso punto di vista, più basso, rispetto al resto dell’immagine che è vista da un punto di vista più alto. Questa incongruenza prospettica è sicuramente voluta, visto che è molto comune in tanta pittura del Quattrocento, e dalla quale Dante Gabriel Rossetti prendeva spunto. Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70 In numerose sue opere Rossetti trae ispirazione da Dante Alighieri. Di soggetto dantesco è anche questo «Beata Beatrix» in cui si confondono suggestioni che gli derivano dal poeta fiorentino con sue esperienze personali. L’immagine di Beatrice, la donna amata da Dante e prematuramente scomparsa, si confonde qui con la figura di Elizabeth Siddal, la moglie anch’ella morta giovane. La donna, infatti, riceve nelle mani da un uccello rosso, simbolo di morte, un papavero bianco. Elizabeth Siddal morì infatti per una overdose di laudano, una droga che si estrae anche dal papavero. In secondo piano compaiono due figure: sono di nuovo Beatrice, la cui testa è circondata da un’aureola, che riceve Dante nel paradiso. Sullo sfondo si apre uno squarcio luminoso che fa intravedere il Ponte Vecchio a Firenze. L’atmosfera di silenzio estatico, insieme ai pensieri funerei impliciti nell’immagine, ci permettono di collocare questa immagine nel gusto decadentista del tempo, di cui i Preraffaelliti rappresentano in qualche modo una notevole anticipazione.
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IV.5.11 CENNI SUL ROMANTICISMO ITALIANO Il romanticismo italiano è un fenomeno che ha tratti caratteristici diversi dal romanticismo europeo. Le tensioni mistiche sono del tutto assenti, così come è assente quel gusto per il tenebroso e l’orrido che caratterizza molto romanticismo nordico. Queste diversità hanno fatto ritenere che l’Italia non abbia avuto una vera e propria arte romantica ma solo una imitazione del vero romanticismo nordico. Se la questione appare oggi superata, ciò che interessa è capire in che cosa si può individuare un’esperienza romantica nell’arte italiana dell’Ottocento. È da premettere che, in Italia, il romanticismo coincide cronologicamente con quella fase storica che definiamo Risorgimento. Ossia il periodo, compreso tra il 1820 e il 1860, in cui si realizzò l’unità d’Italia. Questo processo di unificazione fu accompagnato da molti fermenti che coinvolsero non solo la sfera politica e diplomatica ma anche la cultura del periodo. I contenuti culturali furono indirizzati al risveglio della identità nazionale e alla presa di coscienza dell’importanza della unificazione. Secondo le coordinate del romanticismo, che in tutta Europa rivalutava le radici delle identità nazionale, il riferimento storico divenne il medioevo. E così anche l’Italia, che pure aveva vissuto periodi storici più intensi e pregnanti proprio in età classica con l’impero romano, si rivolse al medioevo per ritrovarvi quegli episodi che ne indicassero l’orgoglio nazionale. Questo impegno civile e politico unifica tutte le arti del romanticismo italiano, dalla letteratura alla pittura, dalla musica al melodramma, eccetera. Ma l’arte che più di ogni altra si affermò nel romanticismo italiano fu soprattutto la letteratura, grazie ad Alessandro Manzoni e al suo romanzo I promessi sposi. Questo predominio della letteratura sulle arti visive è stata una costante di tutta la successiva cultura italiana dell’Ottocento, determinando non poco il ritardo culturale che l’Italia accumulò nel campo delle arti visive rispetto alle altre nazioni europee, e alla Francia in particolare. I due principali temi in cui si esprime la pittura romantica italiana è la pittura di storia e la pittura di paesaggio. Nel primo tema abbiamo il maggior contributo pittorico all’idea risorgimentale dell’unità nazionale. E la pittura di storia, coerentemente a quanto detto prima, rappresenta sempre episodi tratti dalla storia del medioevo quali la Disfida di Barletta, i Vespri siciliani, eccetera. Ma lo fa con spirito che denota la succube dipendenza dalla letteratura, tanto che questi quadri hanno un carattere puramente illustrativo e didascalico. Protagonisti di questa pittura di storia sono stati il milanese Francesco Hayez, il fiorentino Giuseppe Bezzuoli, il piemontese Massimo D’Azeglio. Nel genere del paesaggio il romanticismo italiano trovò invece una sua maggiore autonomia ed ispirazione che la posero al livello delle coeve esperienze pittoriche che si stavano svolgendo in Europa. Anche per la diversità geografica tra l’Italia e l’Europa del nord i paesaggi italiani non sono mai caratterizzati da quella atmosfera a volte tenebrosa e a volte inospitale del paesaggio nordico. Ma il paesaggio italiano si presenta più luminoso, più gradevole, più caratterizzato da un pittoresco accogliente e piacevole. La pittura di paesaggio italiana ha soprattutto due grandi protagonisti: Giacinto Gigante a Napoli, esponente principale della locale Scuola di Posillipo, e Antonio Fontanesi a Torino. La vicenda del romanticismo italiano tende a prolungarsi fin quasi alla fine del secolo collegandosi, in alcuni casi, direttamente con la pittura divisionista. Nell’ambito del romanticismo italiano, un posto a sé lo occupa un altro movimento, detto «Scapigliatura», sviluppatosi a Milano nell’immediato periodo dopo l’unità d’Italia. La Scapigliatura si sviluppa sulle suggestioni di un altro originale pittore romantico, la cui attività si è svolta a Milano: Giovanni Carnovali, detto il Piccio.
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IV.5.12 FRANCESCO HAYEZ Francesco Hayez (1791-1882) ebbe una formazione giovanile neoclassica. Originario di Venezia, nel 1809 si trasferì a Roma dove entrò in contatto con Antonio Canova di cui divenne amico ed allievo. Trasferitosi a Milano nel 1820, in questa città raccolse l’eredità del maggiore pittore neoclassico italiano: Andrea Appiani. Il suo stile pittorico si formò di un linguaggio decisamente neoclassico che non perse mai neppure nella sua fase romantica. Il suo romanticismo è infatti una scelta solo tematica. Nel 1820 realizzò il suo primo quadro di ispirazione medievale «Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri» che venne considerato il manifesto del romanticismo italiano. Due anni dopo realizzò il quadro de «I Vespri siciliani». La sua produzione, oltre ai temi storici, fu proficua anche nel genere dei ritratti. Dal 1850 diresse l’Accademia di Brera, divenendo un personaggio di spicco dell’ambiente culturale milanese. OPERE Francesco Hayez, I Vespri siciliani, 1822 I Vespri siciliani fu una rivolta popolare scoppiata a Palermo nel 1282. In Sicilia dominavano, dal 1266, gli angioini, dinastia francese che era subentrata agli svevi dopo la sconfitta di Manfredi di Svevia da parte di Carlo d’Angiò. I soldati francesi, all’ora vespertina del 31 marzo 1282, arrecarono offesa ad una donna che si era appena sposata e stava uscendo dalla chiesa. Questa fu la causa che fece scoppiare la rivolta popolare nei confronti degli angioini che sfociò in una guerra che durò venti anni. I siciliani furono aiutati da Pietro III d’Aragona. Nel 1302, con la pace di Caltabellotta, la Sicilia passava dalla dominazione angioina a quella aragonese. L’episodio dei Vespri siciliani acquistava il significato simbolico, nell’ottica risorgimentale, di rivolta contro lo straniero. Gli angioini erano francesi ed è da ricordare che l’Italia, ancora nell’Ottocento, era suddivisa in tanti stati e statarelli che erano dominate da dinastie o potenze straniere: i Borboni nel mezzogiorno, gli austriaci nel lombardo-veneto, e così via. Pertanto l’unità d’Italia andava perseguita affermando gli interessi degli italiani contro quelli degli stranieri. Il quadro di Hayez illustra l’episodio in maniera molto letteraria ma poco emozionante. Le figure sono scandite secondo pose molto teatrali che risentono ancora dei quadri storici neoclassici del David. Lo stile di esecuzione è anch’esso fondamentalmente neoclassico, fatto di precisione di disegno, rilievo chiaroscurale, fattura molto levigata, chiarezza di visione. L’unica cosa che fa collocare questo quadro nell’ottica del romanticismo è solo il soggetto ed il contenuto: il riferimento ad una storia del medioevo che ha come messaggio un contenuto patriottico e risorgimentale.
Francesco Hayez, Il bacio, 1859 Opera sicuramente tra le più note di Hayez, «Il bacio» è un po’ la quintessenza del sentimentalismo romantico, per di più vestito di abiti medievali a richiamare molti di quei grandi amori tramandati da novellieri e drammaturghi, da Paolo e Francesca a Giulietta e Romeo, e così via. Così rievocazioni di sapore storico-letterario si uniscono ad atmosfere di facile effetto, creando un’immagine che, se da un lato banalizza alcune delle pulsioni che hanno creato il romanticismo, dall’altro riesce a sintetizzare in modo efficace le suggestioni condivise da gran parte del romanticismo italiano.
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IL REALISMO IV.6.1 Caratteri generali IV.6.2 Gustave COURBET IV.6.3 Jean-François MILLET IV.6.4 Honoré DAUMIER IV.6.5 Il realismo in Italia: i Macchiaioli IV.6.6 Giovanni FATTORI
IV.6.1 Caratteri generali Il romanticismo cominciò a mostrare qualche cedimento già alla metà dell’Ottocento, quando, soprattutto in Francia, gli artisti scelsero una maggiore adesione alla realtà sociale del proprio tempo, senza fughe indietro nella storia del passato o nel mondo dei sentimenti e della religione. Le motivazioni di questo atteggiamento nuovo furono molteplici. Sul piano culturale ci fu l’affermazione della nuova mentalità del positivismo che introduceva elementi di pensiero nuovi. Il grande sviluppo scientifico e tecnologico, che si stava svolgendo in quegli anni, produsse una nuova fiducia nei mezzi del progresso, della scienza e della razionalità umana. Fu una novità che diede un duro colpo a quella mentalità tipicamente romantica che prediligeva una forma di pensiero basata sull’emozione, sul sentimento, sulla religione e, in alcuni casi, anche sull’irrazionalità. Sul piano sociale ed economico si cominciarono a sentire sempre più gli effetti della Rivoluzione industriale. L’abbandono dell’artigianato e dell’agricoltura determinò una notevole riconversione sociale da parte di classi di popolazione che si riversarono sul settore delle industrie. I problemi di questo fenomeno furono l’inurbamento eccessivo delle città e il peggioramento delle condizioni di vita delle classi del proletariato urbano. Questa situazione creò notevoli tensioni sociali e portò alla nascita delle teorie socialiste. Nel 1848 ci furono nuove tensioni politiche in Francia e, dopo nuovi moti rivoluzionari, fu deposta la monarchia e proclamata la seconda repubblica. È in questo clima che iniziarono a sorgere le prime teorie artistiche del realismo nelle arti figurative. Ed avvenne con l’affermazione, sempre in Francia, del naturalismo letterario di Baudelaire, Flaubert e Zola. Di una corrente che preferiva raccontare i dramma e le passioni delle persone comuni, non dei grandi eroi, descrivendo la realtà del proprio tempo in maniera cruda ed impietosa per mostrarne tutta la vera realtà. L’attenzione per le classi piccolo borghesi e del proletariato fu comune, quindi, a più campi del sapere. In campo filosofico il positivismo di Auguste Comte portò alla nascita della sociologia; in campo politico ed economico le analisi e gli scritti di Marx ed Engels portarono alla nascita del socialismo; in campo letterario si sviluppò il naturalismo di Zola e Flaubert; nel campo artistico nacque il realismo di alcuni pittori francesi della metà del secolo: Coubert, Millet, Daumier. Il termine realismo è molto generico ed indica, in genere, ogni movimento artistico che sceglie la rappresentazione fedele della realtà. Il realismo francese della seconda metà dell’Ottocento non si 29
discosta da altri tipi di correnti realiste. In questo caso la scelta ha però un preciso significato culturale e ideologico: rappresentare la vera condizione di vita delle classi lavoratrici senza nessuna trasfigurazione che mascherasse i reali problemi sociali. Protagonista principale del realismo pittorico francese fu soprattutto Gustave Courbet. La sua pittura produsse un grande impatto su quel panorama artistico francese che considerava ancora l’arte il luogo nobile di fatti epici e grandiosi. Courbet propose invece quadri i cui soggetti erano gente povera, semplice, brutta. Questa scelta di Courbet ebbe un effetto provocatorio e polemico proprio perché aveva l’obiettivo di imporre al pubblico dell’arte, fatta di grandi borghesi, la descrizione di quelle sofferenze delle classi inferiori, la cui colpa era socialmente imputabile proprio agli interessi della grande borghesia. Inutile dire che l’arte di Courbet non ricevette una accettazione entusiastica. Analoga sorte fu riservata a Daumier, la cui spietata critica sociale e politica, realizzata con litografie caricaturali, gli procurò notevoli problemi. Maggior accettazione ebbe invece il realismo di Millet, la cui rappresentazione di un mondo rurale, dai caratteri ancora idilliaci e romantici, non infastidiva gli interessi della grande borghesia del tempo. Il realismo fu la premessa per la pittura di Manet e degli impressionisti, la cui grande carica innovativa, sul piano del linguaggio pittorico, non deve far dimenticare che anche l’impressionismo fu soprattutto un movimento di rappresentazione del vero. In realtà l’adesione alla realtà quotidiana e alla storia del presente fu una caratteristica che attraversa tutta l’arte francese dell’Ottocento. Dal tardo neoclassicismo di David e Gros il realismo attraversa il romanticismo di Gericault e Delacroix passa per la pittura di Courbet e degli impressionisti e arriva fino a Cezanne. Ma ciò che porta a definire realista la pittura di Courbet più delle altre fu proprio il diverso contenuto ideologico della sua arte: la rappresentazione della realtà come denuncia della società. E da questo momento qualsiasi arte di forte contenuto ideologico portata sul piano della denuncia sociale ha scelto il realismo come stile documentario, vero ed inoppugnabile, che rappresenta la reale condizione sociale delle classi povere ed emarginate. Il realismo ebbe infatti una eredità nel realismo socialista che si è sviluppato nel XX secolo presso quegli stati, come la Russia e la Cina, che hanno scelto il socialismo reale come forma di governo. IV.6.2 GUSTAVE COURBET Gustave Courbet (1819-1877) è il pittore francese che per primo usò il realismo pittorico in funzione polemica nei confronti della società del tempo. La sua attività di artista iniziò intorno al 1840 a Parigi con opere di ispirazione romantica. La svolta realista avvenne intorno al 1848 anno in cui, con la rivoluzione di febbraio, la Francia proclamò la seconda repubblica. Da quel momento Courbet iniziò a realizzare quadri di grandi dimensioni con figure monumentali ma che rappresentavano persone comuni prese in situazioni del tutto ordinarie. Capolavoro di questo periodo è il «Funerale a Ornans». In questa tela il funerale viene presentato con una fedeltà fotografica tale da rendere la scena, sul piano estetico, decisamente brutta. Sempre di questo periodo è la tela raffigurante «Gli spaccapietre», anch’essa di taglio fotografico e monumentale. Sintetizzano il pensiero di Courbet sull’arte queste sue affermazioni: "Ho studiato l’arte degli antichi e quella dei moderni. Non ho voluto né imitare gli uni, né copiare gli altri. Ho voluto essere capace di rappresentare i costumi, le idee, l’aspetto della mia epoca secondo il mio modo di vedere; fare dell’arte viva, questo è il mio scopo".
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Fondamentali, nella formazione culturale di Courbet, furono il poeta Baudelaire e il filosofo anarchico Proudhon. Il primo gli diede gli elementi polemici nei confronti del sentimentalismo romantico; il secondo gli fornì l’ispirazione politica della sua poetica. Ma non meno importanti, nella sua formazione di artista, risultarono gli studi effettuati sui pittori olandesi del Seicento, tra cui Rembrandt, la cui «Ronda di notte» è uno dei precedenti più significativi per il taglio compositivo dei quadri di Courbet. La sua pittura suscitò notevole scandalo tanto che le sue opere furono sempre rifiutate dai Salon. Egli, polemicamente, nel 1855 le espose in una capanna precaria che chiamò «Il padiglione del realismo». Del 1855 è un’altra delle sue tele più famose: «L’atelier». Del 1857 è il quadro «Le fanciulle in riva alla Senna» in cui due ragazze di vita vengono ritratte in una posa di stanca rilassatezza, in riva al fiume, protette dall’ombra bassa di un albero. Nel 1870 il pittore partecipò all’esperienza della Comune di Parigi e per questo motivo, nel 1873, fu arrestato e condannato a sei mesi di prigione. Si rifugiò in Svizzera dove morì del 1877. OPERE Gustave Courbet, Gli spaccapietre, 1849 Questa tela, già esposta al museo di Dresda, è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale. Ce ne resta solo una documentazione fotografica. Essa, tuttavia, è una delle opere che meglio sintetizza la scelta sia poetica sia stilistica di Courbet. I due personaggi raffigurati sono due lavoratori dediti ad un lavoro rude e pesante. Lavorano in una cava di pietra spaccando la roccia con la sola forza fisica. Dei due uno è più anziano, è piegato su un ginocchio per spaccare i massi e Courbet lo raffigura di profilo. L’altro, più giovane, è intento a trasportare le pietre e viene raffigurato di spalle. Fa da sfondo alla scena il fianco di una montagna che occupa tutto l’orizzonte. Si intravede solo un po’ di cielo in alto a destra. Le due figure sembrano inserite quasi nel fianco del monte. Il lavoro impone loro di vedere solo le pietre senza neppure poter alzare lo sguardo al cielo. Hanno volti inespressivi. Il lavoro che fanno è povero ed è una povertà non solo materiale ma anche interiore. Tutta la scena esprime una condizione di abbrutimento psicologico oltre che materiale. Courbet è cinico e crudo nel rappresentare questa scena. Non gli dà alcuna intonazione lirica per esprimere la nobiltà di un lavoro che, seppure modesto, è comunque un momento di nobilitazione. Denuncia, invece, con un linguaggio obiettivo la reale situazione sociale dei lavoratori. Questo contenuto di polemica sociale era ovviamente poco accettabile dall’ordinario pubblico dell’arte, fatta soprattutto di persone ricche che, quindi, mal sopportavano la rappresentazione della povertà che era, implicitamente, un atto di accusa nei loro confronti. I poveri sono tali per consentire ai ricchi di essere ricchi: questo, in sintesi, l’atto di accusa dei quadri di Courbet. In questa tela oltre al soggetto, dal contenuto evidentemente polemico, anche la composizione risulta inaccettabile per i canoni estetici del tempo. Manca un equilibrio compositivo preciso. Un asse orizzontale non c’è, dato che manca la linea di orizzonte. L’asse verticale risulta troppo decentrato a destra: esso, infatti, passa chiaramente per il punto in cui l’uomo inginocchiato sta per colpire il masso con il suo arnese di lavoro. Non c’è neppure una simmetria tra le due figure. Esse,
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infatti, sono collocate ed orientate in maniera del tutto casuale, senza equilibrare con le loro masse la composizione del quadro. Questa mancanza di esteticità canonica finiva per accentuare ulteriormente l’intento di Courbet: egli non vuole assolutamente proporre un’arte che trova nella bellezza una facile funzione consolatoria ma vuole proporre documenti visivi che creano lo shock della verità. La sua pittura è tutta giocata su questa funzione: i suoi quadri sono essenzialmente dei documenti etnografici. Ma ciò che costituisce lo scandalo della sua pittura è che lui propone questi documenti etnografici nel campo dell’arte. Nel campo di un’attività che, secondo la mentalità ufficiale e borghese dell’Ottocento, era destinata solo alla bellezza, alla grandezza, ai fatti eroici ed aulici, ai grandi avvenimenti storici, ai grandi personaggi del passato e del presente. Courbet pretende invece di imporre la sua povera gente a persone che certo non trovavano valido vedere immortalati uomini e donne considerate a loro inferiori: lavoratori, servi, prostitute, emarginati e reietti della società.
Gustave Courbet, Sepoltura ad Ornans, 1849 Nel quadro la «Sepoltura ad Ornans» Courbet realizza una tela monumentale per rappresentare un funerale di una persona anonima al quale assistono persone assolutamente ordinarie. Anzi, l’aspetto dimesso e umile dei partecipanti al funerale fa pensare che l’evento immortalato non fosse poi così storicamente importante. La tela non ebbe accoglienze favorevoli da parte della critica, e ciò per ulteriore conferma che l’arte di Courbet non era facilmente apprezzabile per via del suo nascere più come fatto ideologico che non estetico. Gustave Courbet, Le ragazze in riva alla Senna, 1857 «Le ragazze in riva alla Senna» è un altro quadro che ben esemplifica la carica innovativa della pittura di Courbet rispetto all’arte borghese del tempo. Le due ragazze che Courbet ritrae sono due donne comuni, dall’aspetto ordinario e anche un po’ volgare nelle loro pose indolenti, colte in una posa non proprio consona alla condizione signorile. Nelle due donne non vi sono quindi valori estetici che potevano essere apprezzati, ma anche il quadro ha nella sua composizione una mancanza assoluta di criteri compositivi affascinanti. Non vi è un punto focale preciso né una linea d’orizzonte; l’inquadratura è bassa e non riesce a cogliere una ariosità adeguata: l’immagine è quasi soffocata dal fogliame dell’albero. In realtà il quadro, come tutta l’opera di Courbet, non chiede di essere giudicato semplicemente come fatto estetico, ma di essere compreso soprattutto come atteggiamento nuovo nei confronti della realtà e dell’uso della pittura.
IV.6.3 JEAN-FRANÇOIS MILLET Jean-François Millet (1814-1875) è considerato un altro interprete importante del realismo francese del secondo Ottocento. La sua attività giovanile, iniziata nell’ambito del romanticismo, conserva una intonazione lirica che manca, in genere, agli altri interpreti del realismo, quali ad esempio Courbet. I soggetti dei suoi quadri sono quasi sempre contadini che vengono presentati con una intonazione poetica molto evidente. Nei quadri di Millet è assente, quindi, qualsiasi intento provocatorio o di polemica sociale. Le sue prime tele di contenuto agreste risalgono al 1848, lo 32
stesso anno della svolta realista di Courbet, e anno della rivoluzione di febbraio che portò all’istituzione in Francia della seconda repubblica. Dal 1863 si dedicò principalmente alla pittura di paesaggio finendo la sua attività con quadri che preannunciano già lo spirito della successiva pittura simbolista. OPERE Jean-François Millet, L’Angelus, 1859 In questa tela, Millet ci presenta due contadini che, prima di iniziare il lavoro della loro giornata, si raccolgono in preghiera. L’Angelus è l’ora del mattino quando i rintocchi delle campane annunciano l’inizio di un nuovo giorno. Le due figure sono stagliate su un orizzonte ampio e basso che dà al quadro un’ampia ariosità. La luce aurorale è molto suggestiva e dà al quadro una colorazione calda, fatta di tonalità arancio. Questa luce, proveniente dall’orizzonte, illumina le figure dei due contadini di spalle, ossia sul lato che noi non vediamo. Questa tecnica di illuminare una scena dal fondo è detta «controluce». In questo caso, Millet usa il controluce con una evidente finalità lirica. Le due figure sembrano proiettate idealmente nella luce (verso la quale stanno probabilmente rivolgendo la loro preghiera) e il lato in ombra che noi vediamo sembra accentuare il loro raccoglimento interiore. Tutta la scena è pervasa da una liricità evidente, fatta di sentimenti buoni, di semplicità ma anche di grandi valori. In Millet, il ricorso a queste scene agresti, ha sempre il significato di una evasione dal mondo urbano, per ritrovare la semplicità e la purezza nel mondo rurale. In questo c’è ancora una idealizzazione di matrice romantica. Manca l’intento polemico di Courbet, che vuole far emergere alla coscienza collettiva i problemi sociali, per scegliere invece la più comoda soluzione della fuga in un mondo idilliaco ma forse inesistente. Ed anche per questo motivo i quadri di Millet risultano più accettabili dal pubblico del tempo. C’è il tono lirico. Vi sono i principi classici di una composizione esteticamente gradevole: l’orizzonte basso e diritto, le figure poste in posizione simmetrica ed equilibrata, l’uso delle luci e del chiaroscuro per modellare le figure. Vi è, inoltre, la raffigurazione di una classe sociale, i contadini, che pongono minori problemi di scontro sociale alla classe dominante del tempo. E, quindi, per il pubblico borghese risulta più facile accettare in un quadro l’immagine di un mondo rurale, dai toni idilliaci ed arcadici, che non quella degli operai, dei proletari e dei reietti urbani in genere. La fortuna di questi quadri di Millet fu notevole anche in Italia dove ha influenzato l’opera di numerosi artisti, dal macchiaiolo Silvestro Lega ai divisionisti Segantini e Pelizza da Volpeda.
IV.6.4 HONORÉ DAUMIER Honoré Daumier (1808-1879) è un artista molto singolare del panorama artistico francese. Il suo interesse iniziale è per la litografia, tecnica di incisione adatta alla diffusione a stampa. Come incisore Daumier iniziò, nel 1831, la sua attività collaborando alla rivista satirica francese «La Caricature». Per questo giornale produceva vignette satiriche, sperimentando in senso espressivo la deformazione caricaturale. La sua attività di caricaturista gli procurò notevoli guai giudiziari, finendo condannato ed imprigionato in più occasioni, determinando, in alcuni casi, anche la chiusura dei giornali per i quali collaborava. Conseguenza, tutto ciò, della profonda carica espressiva e di denuncia sociale e di costume sempre presente nelle sue opere. Dal 1860, ad oltre cinquant’anni, iniziò la sua attività di pittore. Ed anche in questa attività sono presenti quegli gli 33
elementi caratteristici della sua attività di incisore: il tratto molto inciso e netto, la deformazione espressionistica, la satira di costume tipico della caricatura. OPERE Honoré Daumier, Il vagone di terza classe, 1862 Nella produzione pittorica di Daumier il tema del vagone di terza classe occupa un posto molto particolare. Su questo tema l’artista ha eseguito più tele, pur avendo sempre un solo obiettivo: cogliere i tratti caricaturali di quella eterogenea folla di persone che viaggiava nei vagoni più economici dei treni. Ad una prima fila, vista di fronte, ne segue una seconda di persone viste di spalle, e quindi una terza sullo sfondo. Predomina l’atmosfera scura e cupa. Il nero è la nota dominante del quadro. Solo due finestrini del vagone, sulla sinistra, fanno entrare un po’ di luce, facendo apparire un piccolo sprazzo di cielo livido. Questa luce fa intravedere le figure con una luce molto tagliente e fredda, rendendole quasi spettrali. In primo piano ci sono due donne affiancate: al centro una più anziana, sulla sinistra una più giovane. Hanno con sé, simbolicamente, i loro unici averi. La donna anziana tiene sulle ginocchia un canestro. Dentro vi sono probabilmente degli ortaggi o della uova che porta in città per venderle al mercato. La donna più giovane ha un neonato in braccio, che stringe al seno generoso ed ampio. Un ragazzino stanco e addormentato si appoggia su un lato della donna più anziana. È la vecchia a costituire il centro visivo e compositivo del quadro. La sua posizione è molto composta e raccolta. Poggia entrambe le mani sul manico del canestro. Le mani fuoriescono da un mantello con cappuccio che l’avvolge quasi per intero. Da sotto il cappuccio si vede la sua faccia, dallo sguardo stanco e spento. È soprattutto lo sguardo della donna a dare la nota dominante all’immagine. Uno sguardo che esprime tutta la povertà interiore della donna, risultato di quella povertà materiale che è qualcosa che spegne le persone innanzitutto dal di dentro. Il volto della vecchia è una maschera caricaturale e gli altri volti che si intravedono non sono molto diversi. In questo senso la deformazione caricaturale di Daumier precorre in maniera molto diretta la pittura espressionistica di Munch, Ensor, Kirchner o di Egon Schiele. E, come il successivo espressionismo, anche la pittura di Daumier è densa di una notevole carica drammatica. La drammaticità che deriva da una vita dura e disagiata, che è la conseguenza di una società in cui la giustizia sociale è un valore ancora sconosciuto.
IV.6.5 IL REALISMO IN ITALIA: I MACCHIAIOLI In Italia non esiste un movimento realista come quello sorto in Francia. Tuttavia, dopo il 1850 si iniziarono a manifestare fermenti vari, in concomitanza con la diffusione del positivismo, che produssero una maggiore attenzione alla descrizione scientifica ed obiettiva della realtà. Tra queste varie tendenze più o meno embrionali di realismo la più omogenea e definita appare quella dei pittori Macchiaioli. Tra il 1855 e il 1867 si andò costituendo a Firenze un gruppo di artisti che tendono a superare il romanticismo proprio con una riscoperta della realtà quotidiana rappresentata senza sentimentalismi eccessivi. Questo gruppo fu definito «Macchiaioli» in senso denigratorio, per via della particolarità 34
stilistica che li accomunava: dipingere per macchie di colore nette, senza velature e effetti chiaroscurali. Il movimento nacque da un gruppo di artisti che si riuniva nel Caffè Michelangelo di Firenze. Di esso facevano parte gli artisti Adriano Cecioni, Giovanni Fattori, Telemaco Signorini, Silvestro Lega, ed altri. Sono artisti accomunati da una comune militanza nelle campagne militari risorgimentali del 1848 e del 1859. E il tema militaristico ritorna soprattutto nella pittura di Giovanni Fattori, che fu l’illustratore principale dell’aspetto militare della unificazione risorgimentale. Da un punto di vista stilistico, quello dei Macchiaioli fu il gruppo più avanzato della scena pittorica italiana. Il loro fu il movimento che più può essere avvicinato a quello degli impressionisti. Nei macchiaioli è però assente la vivacità cromatica e il tocco a virgole tipico degli impressionisti. La loro pittura può essere maggiormente accostata a quella del primo Manet o del primo Pissarro, con la differenza che i pittori francesi prediligono sempre colori puri, mentre nella pittura dei macchiaioli vi sono anche colori terrosi e spenti. I macchiaioli non perdono mai la forma salda tracciata dal disegno. Ciò che aboliscono del tutto è solo e soltanto il chiaroscuro, cercando una pittura che distingue le varie forme in base al contrasto di luce o di colore. Ottennero una pittura dall’aspetto più vero e realistico che, unendosi ai temi di vita quotidiana, permettono di considerare questo come un movimento fondamentalmente realista. IV.6.6 GIOVANNI FATTORI Considerato il maggior esponente dei Macchiaioli, Giovanni Fattori (1825-1908), livornese di nascita, iniziò la sua formazione a Firenze presso i pittori Bandini e Giuseppe Bezzuoli. I suoi primi quadri hanno soggetti storici nella più pura tradizione romantica. Entrato in contatto con il gruppo del Caffè Michelangelo, semplificò sempre più la sua pittura per giungere a quell’effetto di macchia che caratterizza il gruppo. Partecipò anch’egli alle battaglie unitarie e tra il 1859 e il 1862 realizzò il suo primo quadro di soggetto risorgimentale: «Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta». Il soggetto è trattato senza nessuna concessione eroica o aulica, presentando in maniera impietosa la cruda realtà di uno scontro militare: quello dei tanti uomini che restano feriti e che vengono raccolti da un carro guidato da monache. Da questo momento in poi, Fattori realizzò numerosi quadri di soggetto militare. In essi sono raffigurate battaglie o, a volte, solo dei soldati che segnano con la loro presenza i paesaggi italiani. Oltre ai soggetti militari, tipica della produzione di Fattori sono anche i paesaggi. La maremma toscana, di cui lui era originario, divenne uno dei soggetti preferiti, raffigurata in quadri dal taglio orizzontale molto accentuato. OPERE Giovanni Fattori, In vedetta, 1868-70 Questo quadro di Fattori è di una semplicità unica. Tre soldati a cavallo, in uno spazio vuoto, riempito solo da un muro bianco visto in prospettiva trasversale. Il primo soldato, su un cavallo bianco, è in primo piano ma decentrato sulla destra. Si staglia contro il muro bianco e su di esso proietta un’ombra scura. Gli altri due soldati sono alla estremità più lontana del muro e cavalcano un cavallo bianco e uno nero. La pianura, anch’essa bianca perché assolata, si conclude in una linea
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di orizzonte basso che apre ad un cielo di un azzurro polarizzato: unica nota di colore in un quadro che sembra realizzato in bianco e nero. La magia di questo quadro sta in una sensazione di tempo rallentato che sembra già preannunciare la dimensione onirica della pittura metafisica. I soldati sono fermi, in vedetta, in uno spazio talmente vuoto che non si riesce ad immaginarvi alcun nemico, né presente né futuro. Sono potenzialmente fermi in un’attesa eterna, come i soldati della fortezza sita nel «Deserto dei Tartari» di Dino Buzzati. La sensazione dello spazio ampio ed illimitato si avverte in tutti i quadri di Fattori. È il ricordo della sua maremma toscana che egli trasferisce sempre nello spazio di rappresentazione. I soldati a cavallo, in questo spazio, sono una presenza quasi astratta, anch’essa ricordo di una vicenda, quella risorgimentale, che viene segnata dall’immagine dei soldati. La tecnica è ovviamente tipica dei macchiaioli, qui portata alle estreme conseguenze in quanto le macchie sono alla estremità cromatica: il bianco ed il nero, con pochi e rarefatti toni intermedi. Questa semplificazione cromatica accentua la luminosità della scena dandole un carattere di verità molto netto ed evidente. Giovanni Fattori, Il campo italiano alla battaglia di Magenta, 1862 Nel 1859 Bettino Ricasoli, capo del governo italiano, indisse un concorso per rappresentare le battaglie fondamentali del Risorgimento: Curtatone, Palestro, San Martino e Magenta. Fattori decise di concorrere con un quadro sulla battaglia di Magenta e presentò alla Commissione giudicatrice due bozzetti. La commissione premiò Fattori con il primo premio e scelse il bozzetto dell’opera che poi Fattori realizzò. In questo quadro non è il momento della battaglia a fungere da protagonista, bensì il momento più umano quando i feriti vengono riportati nelle retrovie per essere assistiti dalle crocerossine. Per questo motivo il quadro ha una portata culturale notevole: non è l’idealistica esaltazione dei valori eroici ad essere rappresentati bensì la cruda realtà di una battaglia fatta soprattutto di morti e feriti. Da notare che il quadro non ha ancora lo stile della "macchia", ma si articola secondo un linguaggio ancora accademico fatto di disegno e chiaroscuro.
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L’IMPRESSIONISMO PARAGRAFI IV.7.1 Caratteri generali IV.7.2 Le rivoluzioni tecniche sul colore e sulla luce IV.7.3 La pratica dell’en plain air IV.7.4 La poetica dell’attimo fuggente IV.7.5 I soggetti urbani IV.7.6 Edouard MANET IV.7.7 Claude MONET IV.7.8 Auguste RENOIR IV.7.9 Edgar DEGAS IV.7.1 Caratteri generali L’impressionismo è un movimento pittorico francese che nasce intorno al 1860 a Parigi. È un movimento che deriva direttamente dal realismo, in quanto come questo si interessa soprattutto alla rappresentazione della realtà quotidiana. Ma, rispetto al realismo, non ne condivide l’impegno ideologico o politico: non si occupa dei problemi ma solo dei lati gradevoli della società del tempo. La vicenda dell’impressionismo è quasi una cometa che attraversa la storia dell’arte, rivoluzionandone completamente soprattutto la tecnica. Dura poco meno di venti anni: al 1880 l’impressionismo può già considerarsi una esperienza chiusa. Esso, tuttavia, lascia una eredità con cui faranno i conti tutte le esperienze pittoriche successive. Non è azzardato dire che è l’impressionismo ad aprire la storia dell’arte contemporanea. La grande rivoluzione dell’impressionismo è soprattutto la tecnica, anche se molta della sua fortuna presso il grande pubblico deriva dalla sua poetica. La tecnica impressionista nasce dalla scelta di rappresentare solo e soltanto la realtà sensibile. Evita qualsiasi riferimento alla costruzione ideale della realtà, per occuparsi solo dei fenomeni ottici della visione. E per far ciò cerca di riprodurre la sensazione ottica con la maggior fedeltà possibile. Dal punto di vista della poetica l’impressionismo sembra indifferente ai soggetti. In realtà, proprio perché può rendere piacevole qualsiasi cosa rappresenti, l’impressionismo divenne lo stile della dolce vita parigina di quegli anni. Non c’è, nell’impressionismo, alcuna romantica evasione verso mondi idilliaci, sia rurali sia mitici; c’è invece una volontà dichiarata di calarsi interamente nella realtà urbana di quegli anni per evidenziarne tutti i lati positivi e piacevoli. Ed anche le rappresentazioni paesaggistiche o rurali portano il segno della bellezza e del progresso della civiltà. Sono paesaggi visti con occhi da cittadini.
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I protagonisti dell’impressionismo furono soprattutto pittori francesi. Tra essi, il più impressionista di tutti, fu Claude Monet. Gli altri grandi protagonisti furono: Auguste Renoir, Alfred Sisley, Camille Pissarro e, seppure con qualche originalità, Edgar Degas. Un posto separato lo occupano, tra la schiera dei pittori definiti impressionisti, Edouard Manet, che fu in realtà il precursore del movimento, e Paul Cézanne, la cui opera è quella che per prima supera l’impressionismo degli inizi. Date fondamentali per seguire lo sviluppo dell’impressionismo sono: 1863: Edouard Manet espone «La colazione sull’erba»; 1874: anno della prima mostra dei pittori impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar; 1886: anno dell’ottava e ultima mostra impressionista. L’impressionismo non nacque dal nulla. Esperienze fondamentali, per la sua nascita, sono da rintracciarsi nelle esperienze pittoriche della prima metà del secolo: soprattutto nella pittura di Delacroix e dei pittori inglesi Constable e Turner. Tuttavia, la profonda opzione per una pittura legata alla realtà sensibile portò gli impressionisti, e soprattutto il loro precursore Manet, a rimeditare tutta la pittura dei secoli precedenti che hanno esaltato il tonalismo coloristico: dai pittori veneziani del Cinquecento ai fiamminghi del Seicento, alla pittura degli spagnoli Velazquez e Goya. Punti fondamentali per seguire le specificità dell’impressionismo sono: 1. il problema della luce e del colore; 2. la pittura en plein air; 3. la esaltazione dell’attimo fuggente; 4. i soggetti urbani. IV.7.2 Le rivoluzioni tecniche sul colore e sulla luce La grande specificità del linguaggio pittorico impressionista sta soprattutto nell’uso del colore e della luce. Il colore e la luce sono gli elementi principali della visione: l’occhio umano percepisce inizialmente la luce e i colori, dopo di che, attraverso la sua capacità di elaborazione cerebrale distingue le forme e lo spazio in cui sono collocate. La maggior parte della esperienza pittorica occidentale, tranne alcune eccezioni, si è sempre basata sulla rappresentazione delle forme e dello spazio. Il rinnovamento della tecnica pittorica, iniziata da Manet, parte proprio dalla scelta di rappresentare solo la realtà sensibile. Su questa scelta non poca influenza ebbero le scoperte scientifiche di quegli anni. Il meccanismo della visione umana divenne sempre più chiaro e si capì meglio il procedimento ottico di percezione dei colori e della luce. L’occhio umano ha recettori sensibili soprattutto a tre colori: il rosso, il verde e il blu. La diversa stimolazione di questi tre recettori producono nell’occhio la visione dei diversi colori. Una stimolazione simultanea di tutti e tre i recettori, mediante tre luci pure (rossa, verde e blu), dà la luce bianca. Questo meccanismo è quello che viene definito sintesi additiva. Il colore che percepiamo dagli oggetti è luce riflessa dagli oggetti stessi. In questo caso, l’oggetto di colore verde non riflette le onde di colore rosso e blu, ma solo quelle corrispondenti al verde. In 38
pratica, l’oggetto, tra tutte le onde che costituiscono lo spettro visibile della luce, ne seleziona solo alcune. I colori che l’artista pone su una tela bianca seguono lo stesso meccanismo: selezionano solo alcune onde da riflette. In pratica, i colori sono dei filtri che non consentono la riflessione degli altri colori. In questo caso, sovrapponendo più colori, si ottiene, successivamente, la progressiva filtratura, e quindi soppressione, di varie colorazioni, fino a giungere al nero. In questo caso si ottiene quella che viene definita sintesi sottrattiva. I colori posti su una tela agiscono sempre operando una sintesi sottrattiva: più i colori si mischiano e si sovrappongono, meno luce riflette il quadro. L’intento degli impressionisti è proprio evitare al minimo la perdita di luce riflessa, così da dare alle loro tele la stessa intensità visiva che si ottiene da una percezione diretta della realtà. Per far ciò adottano le seguenti tecniche: 1. utilizzano solo colori puri; 2. non diluiscono i colori per realizzare il chiaro-scuro, che nelle loro tele è del tutto assente; 3. per esaltare la sensazione luminosa accostano colori complementari; 4. non usano mai il nero; 5. anche le ombre sono colorate. Ciò che distingue due atteggiamenti fondamentalmente diversi, tra i pittori impressionisti, è il risultato a cui essi tendono: – da un lato ci sono pittori, come Monet, che propongono sensazioni visive pure, senza preoccuparsi delle forme che producono queste sensazioni ottiche; – dall’altro ci sono pittori, come Cézanne e Degas, che utilizzano la tecnica impressionista per proporre la visione di forme inserite in uno spazio. Monet fa vaporizzare le forme, dissolvendole nella luce; Cezanne ricostruisce le forme, ma utilizzando solo la luce e il colore. IV.7.3 La pratica dell’en plein air La pittura, così come concepita dagli impressionisti, era solo colore. Essi, pertanto, riducono, e in alcuni casi sopprimono del tutto, la pratica del disegno. Questa scelta esecutiva si accostava all’altra caratteristica di questo movimento: la realizzazioni dei quadri non negli atelier ma direttamente sul posto. È ciò che, con termine usuale, viene definito en plein air. L’en plein air non è una invenzione degli impressionisti. Già i paesaggisti della Scuola di Barbizon utilizzavano questa tecnica. Tuttavia, ciò che questi pittori realizzavano all’aria aperta era in genere una stesura iniziale, da cui ottenere il motivo sul quale lavorare poi in studio rifinendolo fino alla stadio definitivo. Gli impressionisti, e soprattutto Monet, portarono al limite estremo questa pratica dell’en plain air realizzando e finendo i loro quadri direttamente sul posto.
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Questa scelta era dettata dalla volontà di cogliere con freschezza e immediatezza tutti gli effetti luministici che la visione diretta fornisce. Una successiva prosecuzione del quadro nello studio avrebbe messo in gioco la memoria che poteva alterare la sensazione immediata di una visione. Gli impressionisti avevano osservato che la luce è estremamente mutevole. Che, quindi, anche i colori erano soggetti a continue variazioni. E questa sensazione di mutevolezza è una delle sensazioni piacevoli della visione diretta che loro temevano si perdesse con una stesura troppo meditata dell’opera. IV.7.4 La poetica dell’attimo fuggente La scelta dei pittori impressionisti, di rappresentare la realtà cogliendone le impressioni istantanee portò questo stile ad esaltare su tutto la sensazione dell’attimo fuggente. Secondo i pittori impressionisti la realtà muta continuamente di aspetto. La luce varia ad ogni istante, le cose si muovono spostandosi nello spazio: la visione di un momento è già diversa nel momento successivo. Tutto scorre. Nella pittura impressionista le immagini trasmettono sempre una sensazione di mobilità. L’attimo fuggente della pittura impressionista è totalmente diverso dal momento pregnante della pittura neoclassica e romantica. Il momento pregnante sintetizza la storia nel suo momento più significativo; l’attimo fuggente non ha nulla a che fare con le storie: esso coglie le sensazioni e le emozioni. E quelle raccolte nella pittura impressionista sono sempre sensazioni e impressioni felici, positive, gradevoli. L’impressionismo, per la prima volta dopo la scomparsa della pittura rococò, rifugge dagli atteggiamenti tragici o drammatici. Torna a rappresentare un mondo felice ed allegro. Un mondo dove si può vivere bene. L’attimo fuggente della pittura impressionista ha analogie evidenti con la fotografia. Anche la fotografia, infatti, coglie una immagine della realtà in una frazione di secondo. E dalla fotografia gli impressionisti non solo prendono la velocità della sensazione, ma anche i particolari tagli di inquadratura che danno alle loro immagini particolare sapore di modernità. IV.7.5 I soggetti urbani Sul piano dei soggetti l’impressionismo si presenta con un’altra notevole caratteristica: quella di rappresentare principalmente gli spazi urbani. E lo fa con una evidente esaltazione della gradevolezza della vita in città. Questo atteggiamento è una novità decisa. Fino a questo momento la città era stata vista come qualcosa di malefico e di infernale. Soprattutto dopo lo sviluppo della Rivoluzione Industriale, i fenomeni di urbanesimo avevano deteriorato gli ambienti cittadini. La nascita delle industrie avevano congestionato le città. Erano sorti i primi effetti dell’inquinamento. I centri storici si erano affollati di immigrati dalle campagne, le periferie sorgevano come baraccopoli senza alcuna qualità estetica ed igienica. Le città erano dunque viste come entità malsane. L’impressionismo è il primo movimento pittorico che ha un atteggiamento positivo nei confronti della città. E di una città in particolare: Parigi. La capitale francese, sul finire dell’Ottocento è, sempre più, la città più importante e gaudente d’Europa. In essa si raccolgono i maggiori intellettuali ed artisti, ci sono i maggiori teatri e locali di spettacolo, si trovano le cose più eleganti e alla moda, si possono godere di tutti i maggiori divertimenti del tempo. Tutto questo fa da sfondo alla pittura degli impressionisti, e ne fornisce molto del suo fascino. I luoghi raffigurati, nei quadri impressionisti, diventano tutti seducenti: le strade, i viali, le piazze, i 40
bar, gli stabilimenti balneari lungo la Senna, i teatri (da ricordare soprattutto le ballerine di Degas), persino le stazioni, come nel famoso quadro di Monet raffigurante «La Gare Saint-Lazare». IV.7.6 EDOUARD MANET Édouard Manet (1832-1883), nato in una famiglia borghese, dopo gli studi classici si arruolò in Marina. Respinto agli esami, decise di iniziare la carriera artistica. Dal 1850 al 1856 studiò presso il pittore accademico Couture, pur non condividendone gli insegnamenti. Viaggiò molto in Italia, Olanda, Germania, Austria, studiando soprattutto i pittori che avevano scelto il linguaggio tonale quali Giorgione, Tiziano, gli olandesi del Seicento, Goya e Velazquez. Notevole influenza ebbe sulla definizione del suo stile anche la conoscenza delle stampe giapponesi. Nell’arte giapponese, infatti, il problema della simulazione tridimensionale viene quasi sempre ignorato, risolvendo la figurazione solo con la linea di contorno sul piano bidimensionale. Manet è stato un pittore poco incline alle posizioni avanguardistiche. Egli voleva giungere al rinnovamento della pittura operando all’interno delle istituzioni accademiche. E, per questo motivo, egli, pur essendo il primo dei pittori moderni, non espose mai con gli altri pittori impressionisti. Rimase sempre su posizione individuale e solitaria anche quando i suoi quadri non furono più accettati dalla giuria del Salon. Le sue prime opere non ebbero problemi ad essere accettate. La rottura con la critica avvenne solo dopo il 1863, quando Manet propose il quadro «La colazione sull’erba». In questa tela sono già evidenti i germi dell’impressionismo. Manet aveva abbandonato del tutto gli strumenti classici del chiaroscuro e della prospettiva per proporre un quadro realizzato con macchie di colori puri e stesi uniformemente. In esso, tuttavia, l’occhio riesce a cogliere una simulazione spaziale precisa se osservato ad una distanza non ravvicinata. Nello stesso anno realizzò l’«Olympia». Come «La colazione sull’erba», anche questo deriva da un soggetto tratto da Tiziano. Da questo momento, infatti, molte delle opere più famose di Manet derivano da soggetti di pittori del passato, quasi a rendere omaggio a quei pittori tonali a cui lui aveva sempre guardato. Ne «Il balcone» riprende un analogo soggetto dipinto da Goya. E sempre da Goya («La fucilazione dell’8 maggio 1808») deriva il suo «Esecuzione dell’imperatore Massimiliano». Da Velazquez («Las meninas») riprende le visioni riflesse che si ritrovano nel suo celeberrimo «Bar aux Folies Bergère». Tutti questi quadri sono la dimostrazione inequivocabile di come la pittura di Manet sia decisamente moderna, sul piano della visione, rispetto a quella del passato. Tuttavia, questo progresso non fu compreso proprio dal mondo accademico del tempo, al quale in realtà Manet si rivolgeva. Fu invece compreso da quei giovani pittori, gli impressionisti, anche loro denigrati e rifiutati dal mondo ufficiale dell’arte. Nei confronti degli impressionisti Manet ebbe sempre un atteggiamento distaccato. Partecipava alle loro discussioni, che si svolgevano soprattutto al Cafè Guerbois, e, in seguito, al Cafè della Nouvelle Athènes, ma non espose mai ad una mostra di pittura impressionista. Egli, tuttavia, non rimase impermeabile allo stile che egli stesso aveva contribuito a far nascere. Dal 1873 in poi, sono evidenti nei suoi quadri le influenze della pittura impressionista. Il tocco diviene più simile a quello di Monet, così come la scelta di soggetti urbani («Bar aux Folies Bergère») rientra appieno nella poetica dell’impressionismo. Egli, tuttavia, conserva sempre una maggior attenzione alla figura e continuerà sempre ad utilizzare il nero come colore, cosa che gli impressionisti non fecero mai.
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Tra tutti i pittori dell’Ottocento francese, Manet è quello che più ha creato una cesura con l’arte precedente. Dopo di lui la pittura non è stata più la stessa. E la sua importanza va ben al di là del suo contributo alla nascita dell’impressionismo. OPERE Edouard Manet, La colazione sull’erba, 1863 Il quadro di Edouard Manet venne presentato al Salon del 1863. La giuria lo rifiutò. Proprio quell’anno gli artisti rifiutati al Salon furono ben 300. Napoleone III, per contenere le loro proteste, fece aprire un altro salone: il Salon dés Refusée. In esso venne esposto anche «La colazione sull’erba» di Manet. Ma, anche qui, le accoglienze del pubblico e della critica furono negative. Il quadro scandalizzava sia per il soggetto, sia per lo stile. In esso vi sono raffigurati, in primo piano, una donna completamente nuda che conversa con due uomini completamente vestiti. In secondo piano vi è una seconda donna che si sta bagnando in uno stagno. Non è il nudo della donna a scandalizzare, ma la sua rappresentazione troppo realistica in una situazione apparentemente quotidiana ma decisamente insolita. Ciò che in sostanza urta è che la nudità della donna rende volgare una conversazione tra normali borghesi. Il soggetto del quadro è una rilettura del «Concerto campestre» di Tiziano. Nel quadro del pittore veneziano le figure hanno un preciso significato allegorico. La donna nuda di spalle, con il flauto in mano, sta insegnando la musica ai due pastorelli innanzi a lei. L’altra sta versando dell’acqua in una vaschetta, per simboleggiare un rito di purificazione. Le due donne sono nude perché rappresentano due ninfe. Sono la natura, mentre i due uomini appartengono alla civiltà e perciò sono vestiti. Il significato allegorico dell’immagine sta in ciò: l’uomo civile riceve dalla natura il dono della musica, che rimane la più trascendentale tra le arti, solo dopo essersi purificato. Questo tipo di allegoria, carica di significati alchemici (l’acqua che purifica), andava molto di moda nel Cinquecento. Il soggetto aveva un significato nascosto ma ben individuabile da chi aveva la cultura per leggere una simile immagine. Nel caso di Manet il soggetto non ha un messaggio così preciso da comunicare. È solo un pretesto per evidenziare la modernità della sua pittura rispetto a quella del passato. Il contenuto del quadro di Manet è solo la novità tecnica della sua pittura. Ma ciò determinò un ulteriore sconcerto da parte del pubblico e della critica. La tecnica pittorica di Manet apparve decisamente poco elaborata e quasi rozza rispetto ai canoni della pittura accademica di quegli anni. Il suo quadro vuole cercare il più possibile la sensazione luminosa della visione dal vero, e per fare ciò Manet evita il più possibile la sintesi sottrattiva dei colori. Accosta solo colori puri, stesi senza alcuna diluizione o velatura per dar loro l’effetto chiaroscurale. Ad una visione ravvicinata il quadro si presenta come una somma di macchie. Acquista maggior suggestione, e senso di verità, solo ad una visione distanziata. Il pubblico del tempo non era, in realtà, abituata a considerare i quadri in questo modo. Per loro uno dei parametri per giudicare la bravura di un pittore era proprio la verifica a distanza ravvicinata che consentiva di apprezzare il livello di definizione e perfezione della stesura pittorica. Tutto ciò era negato nel quadro di Manet che, al contrario, a distanza ravvicinata rendeva manifesto come l’occhio riesce a percepire un’immagine anche tra colori che non definiscono una forma precisa.
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Fu questo che, in realtà, suscitò notevole entusiasmo tra i giovani pittori che presero insegnamento da Manet: la possibilità di usare i colori in totale libertà, svincolandosi dal problema di creare prima una forma e poi attribuirgli un colore. IV.7.7 CLAUDE MONET Claude Monet (1840-1926), tra tutti i pittori dell’impressionismo, può essere considerato il più impressionista di tutti. La sua personale ricerca pittorica non uscirà mai dai confini di questo stile, benché egli sopravviva molto più a lungo dell’impressionismo. La sua formazione avvenne in maniera composita, trovando insegnamento ed ispirazione in numerosi artisti del tempo. A diciotto anni iniziò a dipingere, sotto la direzione di Boudin, che lo indirizzò al paesaggio en plain air. Recatosi a Parigi, ebbe modo di conoscere Pissarro, Sisley, Renoir, Bazille. In questo periodo agisce su di lui soprattutto l’influenza di Courbet e della Scuola di Barbizon. Nel 1863 si entusiasmò per «La Colazione sull’erba» di Manet e cercò di apprenderne il segreto. Nel 1870 conobbe la pittura di Constable e Turner. In questo periodo si definisce sempre più il suo stile impressionistico, fatto di tocchi di colore a rappresentare autonomi effetti di luce senza preoccupazione per le forme. Nel 1872 dipinse il quadro che poi diede il nome al gruppo: «Impression. Soleil levant». Questo quadro fu esposto nella prima mostra tenuta dagli impressionisti nel 1874. In questo periodo lo stile di Monet raggiunge una maturazione che si conserva inalterata per tutta la sua attività posteriore. Partecipa a tutte le otto mostre di pittura impressionista, tenute fino al 1886. I suoi soggetti sono sempre ripetuti infinite volte per esplorarne tutte le varianti coloristiche e luministiche. Tra le sue serie più famose vi è quella che raffigura la cattedrale di Rouen. La facciata di questa cattedrale viene replicata in ore e condizioni di luminosità diverse. Ogni quadro risulta così diverso dall’altro, anche se ne rimane riconoscibile la forma di base pur come traccia evanescente e vaporizzata. Dal 1909 al 1926, anno della sua morte, esegue una serie di quadri aventi a soggetto «Le ninfee». In questi fiori acquatici sono sintetizzati i suoi interessi di pittore, che rimane impressionista anche quando le avanguardie storiche hanno già totalmente demolito la precedente pittura ottocentesca. OPERE Claude Monet, Impression. Soleil levant, 1872 I quadri dei pittori impressionisti venivano sistematicamente rifiutati dai Saloni ufficiali. Alcuni giovani pittori decisero quindi di autopromuovere una loro esposizione. Nel 1874 questi pittori – Claude Monet, Auguste Renoir, Camille Pissarro, Alfred Sisley, Edgar Degas e Paul Cezanne – si unirono in società e realizzarono una loro mostra presso lo studio del fotografo Nadar. A questo gruppo gli artisti diedero il nome di: «Società anonima di pittori, scultori, incisori». Il nome «Impressionisti» fu loro dato dal critico francese Louis Leroy che coniò il termine con intento dispregiativo. E il nome derivava proprio dal titolo di questo quadro dipinto da Claude Monet. Esso è divenuto uno dei simboli della pittura impressionista. In questo quadro ci sono molti degli elementi caratteristici di questa pittura: la luce che svolge il ruolo da protagonista, il colore steso a tocchi e macchie, la sensazione visiva che fa a meno della definizione degli oggetti e delle forme, il soggetto del tutto casuale e al di fuori della ordinaria categoria di paesaggio.
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Il quadro rappresenta uno scorcio del porto di Le Havre. L’immagine è colta all’aurora quando il sole inizia a filtrare attraverso la nebbia mattutina. Monet è del tutto indifferente a ciò che ha innanzi. Non ne cerca la riconoscibilità ma abbozza forme indistinte. Due barche sono solo due ombre scure, il cerchio del sole rimanda alcuni riflessi nell’acqua, un insieme di gru e ciminiere fumose si intravedono in lontananza. Egli, tuttavia, è attento a registrare con immediatezza e verità solo l’impressione visiva che si coglie guardando una immagine del genere. Nella sua pittura esiste solo la realtà sensibile, ossia solo ciò che l’occhio coglie d’istinto: la luce e il colore. Alle forme e allo spazio egli è del tutto indifferente. In questo quadro la sensazione, o meglio l’impressione, visiva è data dalla sintesi di luce e di colore. Ed è una sintesi che si basa sulla percezione istantanea. La registrazione che dà il quadro della percezione riguarda un attimo fuggente. Un istante dopo la visione può essere già diversa, perché la luce è cambiata e, con sé, anche la tonalità di colore che essa diffonde nell’atmosfera. Ma rimane una sensazione, fatta di suggestioni ambientali e atmosferiche, che il pittore coglie come testimonianza del suo vedere e del suo sentire. Da notare che, in questo quadro, benché poco evidente un ruolo essenziale lo svolge lo specchio d’acqua del porto. In moltissima parte della pittura impressionista, e di Monet in particolare, l’acqua svolge sempre un ruolo fondamentale. Essa riflette le immagini distorcendole. E il riflesso varia in continuazione. Questa visione tremolante che si coglie di riflesso nell’acqua è già una immagine impressionista per eccellenza. E permetteva ai pittori di rappresentare le immagini con una libertà di tocco, fatto in genere a tratteggi e virgole, che sintetizzano immediatamente la loro poetica dell’attimo fuggente. Claude Monet, La stazione Saint-Lazare, 1877 Gli impressionisti mostrano sempre un grande interesse per la città, ed in particolare per Parigi, che vedono come luogo di divertimento e mondanità, oltre come luogo della formazione della cultura. A questo interesse si aggiunge anche la predisposizione per tutto ciò che è moderno. Non vi è quindi da stupirsi che le stazioni ferroviarie, grande novità che appare in quegli anni nelle città, attiri la loro attenzione. Monet dedica diversi quadri alle stazioni ferroviarie. In questo vediamo la grande struttura in ferro e vetro che copre la stazione, ma che nel quadro racchiude soprattutto una grande massa di vapore nella quale si intravedono le sagome dei treni, delle persone e degli edifici sullo sfondo. In pratica, come l’acqua, anche il vapore creato dai treni, ben si prestava a quella evanescenza delle immagini che dà alle cose un’impressione di movimento. Claude Monet, Regata ad Argentuil, 1872 Argentuil è una località che sorge lungo la Senna, poco a nord di Parigi, e che ricorre spesso nella produzione di Monet. L’interesse del pittore per l’acqua, e per le immagini che vi si riflettevano, è sempre stato costante in tutta la sua produzione artistica. In questo periodo, del resto, Monet si era fatto costruire un atelier galleggiante: un barcone, in pratica, che egli aveva adattato a studio mobile, con il quale poteva percorrere il fiume Senna e cogliere tutte le immagini che voleva. In questa tela è evidente la sua pennellata a tratti, l’uso di colori puri e la mancanza del nero, che sono i tratti fondamentali dello stile impressionista, insieme alla realizzazione en plain air della tela.
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Claude Monet, Cattedrale di Rouen, 1894 Nel 1894 Monet realizzò una serie di trenta tele dedicate alla facciata della cattedrale di Rouen. In queste tele ciò che l’artista cerca è la luce, e come essa riesce a modificare la percezione della realtà. Così egli rappresenta la cattedrale in diverse ore del giorno e con diverse condizioni atmosferiche, giungendo ogni volta a risultati pittorici diversi. La cattedrale a volte sembra smaterializzarsi, a volte si cristallizza in forme più salde, ma la luce ne modifica in ogni caso la percezione cromatica, così che la sua facciata cambia di colore a seconda dell’ora del giorno. L’insieme delle trenta tele è davvero impressionante e suggestivo, in quanto lo stesso oggetto dà luogo a trenta immagini differenti. E in ciò Monet cerca di dimostrare uno degli assunti fondamentali del movimento impressionista, che la percezione della realtà è cosa ben diversa dalla conoscenza mentale e razionale della medesima, in quanto nella prima entra in gioco il fluire continuo e mutevole della luce e del movimento, così che ogni istante della percezione è sempre diverso da un altro, anche immediatamente successivo. Claude Monet, Ninfee, 1914-17 Ritiratosi nella sua tenuta di Giverny, la ricerca pittorica di Monet si concentrò sempre più sulla rappresentazione dei colori della natura, facendo scomparire del tutto nei suoi quadri la figura umana. Tra le tele realizzate in questo periodo, grande rilevanza hanno i quadri con le ninfee, che compaiono in circa trecento tele realizzate a partire dal 1914 fino alla sua morte. La ninfea, fiore d’acqua che non ha radici e che quindi si muove continuamente sulla superficie dei fiumi e degli stagni, è quasi il simbolo di quella realtà mai fissa e perennemente mobile che gli impressionisti cercavano di rappresentare. In questi quadri Monet giunse ad una ulteriore semplificazione della sua pittura con tele che hanno grande eleganza formale. IV.7.8 AUGUSTE RENOIR Pierre-Auguste Renoir (1841-1919) è il pittore che, dopo Monet, ha meglio sintetizzato la poetica del nuovo stile pittorico. Iniziò la sua attività da ragazzo decorando porcellane, stoffe e ventagli. Si iscrisse all’École des Beaux-Arts e frequentò lo studio del pittore Gleyre dove incontrò Monet e Sisley. Dalla metà degli anni ’60 la sua pittura si configura già pienamente impressionista. Partecipa alla prima mostra impressionista del 1874 presso lo studio di Nadar. I quadri di questo periodo sono caratterizzati dalle immagini en plain air. In essi si avverte una leggerezza e un tono gaio che ne fanno una rappresentazione di gioia suprema. Capolavoro di questo periodo sono «La Grenouillère», o il «Bal au Moulin de la Galette». Renoir è anche insuperabile nella resa delle figura femminile, specie nei nudi. Le sue immagini sono create dalla luce stessa che, attraverso mille riflessi e rifrazioni, compone una immagine insolita ma di grande fascino. Dopo il 1881 la sua pittura entrò in crisi. Abbandonò la leggerezza del periodo impressionista per aprire un nuovo periodo che egli stesso definì «agro». La sua pittura tese ad un maggior spirito neoclassico, e a ciò non fu estraneo un viaggio che egli fece in Italia e che gli permise di conoscere i grandi pittori del passato. Colpito da artrite reumatica continuò imperterrito la sua attività di pittore fino alla morte. OPERE Auguste Renoir, La Grenouillère, 1869 Questo quadro appartiene alla fase in cui Renoir lavorava gomito a gomito con Claude Monet. Entrambi avevano lavorato presso lo studio del pittore svizzero Gleyre; entrambi si riunivano 45
intorno a Edouard Manet nel Café Guerbois; insieme si recavano, nell’estate del ’69, alla Grenouillère per dipingere. La Grenouillère era uno stabilimento balneare che sorgeva lungo la Senna, e ricorre in numerosi quadri sia di Monet che di Renoir. Il luogo sembra un paesaggio ma è in realtà un luogo urbano per eccellenza. Qui si portavano i parigini per passare ore felici e spensierate, passeggiando, nuotando, remando in barca. Il luogo non ha una presenza monumentale che ne segni lo spazio. È un ambiente fatto di elementi impalpabili: acqua, aria, luce che filtra tra gli alberi. Ed è indubbio che siano proprio questi elementi a costruire il fascino di un simile ambiente. Renoir cerca di cogliere la sensazione di essere in un luogo attraverso la percezione di luci e colori. Il tutto è reso con una immediatezza sorprendente. La visione che ha innanzi è in continuo movimento. Variano le luci e i riflessi nell’acqua. Le persone e le barche si spostano in continuazione. Renoir cerca di fissare sulla tela il tutto, senza però congelare il loro continuo divenire. Le forme, grazie a questa sensazione di sfumato e sfocato che la pittura trasmette, sembra che stiano in bilico tra due attimi successivi. Tra due spostamenti successivi. La tela è satura di colori stesi a pennellate divise, più nette nella parte inferiore del quadro, più sfumate nella parte alta, così da trasmettere una sensazione prospettica virtuosisticamente ottenuta solo con luci e colori, nella più pura tradizione tonale. Da notare il verde cupo delle foglie dell’albero sulla rotonda che staccano in maniera perfetta il primo piano dal piano di fondo, trattato con diversa tonalità di verde; in questo secondo piano pochi tocchi di bianco-celeste riescono a dare l’illusione perfetta di un ulteriore piano di profondità. Il quadro, per il suo contenuto lieve e spensierato, per la sua tecnica esecutiva fatta a tocchi staccati, è un’opera già pienamente impressionista, e rimane come una delle più alte testimonianze non solo dell’attività di Renoir, ma di tutta la pittura impressionista francese dell’Ottocento. Auguste Renoir, Bal au Moulin de la Galette, 1876 Questo quadro è divenuto anch’esso un simbolo dell’impressionismo. In esso sono sintetizzati soprattutto quello spirito giovane e ottimista che caratterizza i pittori, ma anche quella gioia di vivere, tipicamente parigina, che coinvolge anche le classi popolari che trovano i loro luoghi di svago nei bar lungo la Senna per una vita apparentemente senza pensieri. Il Moulin de la Galette era un locale popolare di Montmartre ove si andava a ballare all’aperto. Rispetto alla Grenouillère, in questo quadro Renoir si concentra maggiormente sulle figure che riempiono lo spazio della visione. Molti dei personaggi raffigurati sono amici del pittore. Tutto il quadro è pervaso da una sensazione rilassata e tranquilla. Le persone sono tutte sorridenti. Sono protetti da una ombra fresca che riflette su di loro una luce chiara ma non accecante. Nella più pura tradizione tonale, Renoir realizza gli spazi e i volumi solo con accostamenti di colori. La sua pennellata, in questo quadro, non è il solito tocco virgolettato ma si allunga in un andamento sinuoso e filamentoso. Si è molto discusso se questo quadro sia stato o non sia stato realizzato sul posto. La sua complessa elaborazione fanno ritenere che, in realtà, Renoir lo abbia realizzato nel suo studio. Esso, tuttavia, non perde alcunché di freschezza ed immediatezza percettiva. La sensazione è che il quadro sia il fotogramma di un film in continuo svolgimento. E ciò serve appunto non a raccontare una storia ma ad esprimere in profondità una sensazione vitale.
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Questo che rimane, probabilmente, il quadro più celebre di Renoir è quasi la sintesi di tutto ciò che l’impressionismo ha portato come carica innovativa nella pittura francese ed europea. IV.7.9 EDGAR DEGAS Edgar Degas (1834-1917) tra tutti i pittori impressionisti è quello che conserva la maggiore originalità e distanza dagli altri. I suoi quadri non propongono mai immagini di evanescente luminosità ma rimangono ancorati ad una solidità formale assente negli altri pittori. Ciò fu, probabilmente, originato dalla sua formazione giovanile che lo portava ad essere un pittore più borghese degli altri. Degas era infatti figlio di un banchiere e compì, a differenza di altri suoi amici, regolari studi classici. Viaggiò molto in Italia, suggestionato dalla pittura rinascimentale di Raffaello e Botticelli. Nel 1862 realizzò il suo primo quadro che lo rese famoso: «La famiglia Bellelli». In esso raffigura la famiglia della sorella sposata ad un fiorentino di nome Bellelli. Nel quadro compaiono il marito, la moglie e due figlie. L’inedito taglio compositivo, insieme ad una precisa introspezione psicologica dei personaggi, ne fanno un’opera di un realismo e di una modernità che addirittura anticipa alcune delle successive conquiste di Edouard Manet. Negli anni successivi iniziò ad uscire dal suo ambiente borghese per frequentare il Café Guerbois dove strinse amicizia con Manet e gli altri pittori che avrebbero formato il gruppo degli impressionisti. Fu tra i fondatori del gruppo e fu proprio egli ad organizzare la mostra presso il fotografo Nadar. E partecipò a tutte le otto successive mostre impressioniste, tranne quella del 1882. Le sue differenze con gli altri impressionisti sono legate soprattutto alla costruzione disegnata e prospettica dei suoi quadri. Le forme non si dissolvono e non si confondono con la luce. Sono invece rese plastiche con la luce tonale e non con il chiaroscuro, e in questo segue la tecnica impressionista. Ciò che contraddistingue i suoi quadri sono sempre dei tagli prospettici molto arditi. Per questi scorci si è molto parlato dell’influenza delle stampe giapponesi, anche se appare evidente che i suoi quadri hanno una inquadratura tipicamente fotografica. Tra i suoi soggetti preferiti ci sono le ballerine, (che costituiscono un tema del tutto personale), e le scene di teatro. Anche in questo, Degas coincide con l’impressionismo: la scelta poetica di dar immagine alla vita urbana, con i suoi riti e i suoi miti, a volte borghesi, a volte bohemiène. OPERE Edgar Degas, L’assenzio, 1876 La scena di questo quadro è ambientata in un bar. Per l’esattezza è il «Cafè de la NouvelleAthènes». In questo bar si trasferì il gruppo dei pittori impressionisti dopo gli iniziali incontri nel «Cafè Guerbois». Nel quadro sono raffigurate due persone. Si tratta di due amici di Degas. La donna è l’attrice Ellen Andrée, l’uomo è l’incisore Marcellin Desboutin. Il titolo del quadro si riferisce ad un liquore diffuso in Francia: l’assenzio. Esso è nel bicchiere che la donna ha davanti a sé. Rispetto ai quadri impressionisti, qui permane una certa abbreviazione esecutiva, fatta di campiture piatte di colore accostate con contrasto tonale. È invece assente qualsiasi indagine sulla luce. Il quadro ha un senso cupo, differente dalla leggerezza della gran parte dei quadri impressionisti. Il 47
pittore, più che indagare sull’istante della visione ottica, cerca di cogliere un istante di sensazione psicologica. Le due persone nel bar sono vicine ma si ignorano completamente. La solitudine della donna viene accentuata proprio dal bicchiere che ha innanzi. La donna ha lo sguardo perso nel vuoto, l’uomo è una vicinanza che non le dà compagnia, beve da sola: è l’immagine stessa della solitudine. Ciò che risulta tipico della pittura di Degas è questo taglio insolito, che sembra decisamente la inquadratura, a distanza ravvicinata, di una macchina fotografica con un grandangolo. Il taglio compositivo è evidenziato dai piani verdi dei tavoli. Formano un angolo retto che porta fino allo spettatore. Un giornale posto a cavallo di due tavoli dà l’indicazione della prosecuzione del piano orizzontale. Sul tavolino in primo piano c’è un archetto per suonare il violino. Se ne deduce che nella scena c’è un terzo personaggio e che ha il punto di vista del pittore. Un musicista, probabilmente, che sta guardando la donna che beve e l’uomo che fuma. Questa ripresa dal vero è un singolare documento di vita. Degas, il più legato tra tutti i pittori impressionisti alla città di Parigi, scava a fondo nei piaceri e nelle solitudini di una grande città, presentandoci qui il rovescio della medaglia. Questo quadro è l’esatto opposto del Moulin de la Galette di Renoir. Il bar non è più un luogo per incontri piacevoli ma per solitudini confortate solo dall’alcol. Edgar Degas, L’étoile, 1878 Le ballerine sono uno dei soggetti preferiti di Degas, che a loro dedica non solo decine di tele ma anche numerose statue divenute anch’esse famosissime. In questa sua tematica sono diversi i punti interessanti: innanzitutto la ricerca della grazia espressa dalla fanciullezza delle ballerine, quindi l’espressione del movimento ed infine lo studio di inquadrature nuove. Si noti ad esempio in questo quadro l’arditezza dello scorcio dall’alto, che dà all’immagine un fascino tutto particolare. Della ragazza si vede una sola gamba, il che le dà un aspetto del tutto instabile. Ma ciò aumenta la sensazione della dinamica in corso. La sua figura non occupa il centro dell’immagine ma è chiaramente decentrata. Per quasi due terzi del quadro domina quindi il piano del palco, mentre la restante parte ci lascia intravedere parte delle scene dietro le quali si nascondono altre ballerine. Ma l’attenzione dell’osservatore è catturata tutta dall’istante in cui il movimento della ballerina si ferma in una posa di grande leggerezza e grazia.
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IL POST-IMPRESSIONISMO PARAGRAFI IV.8.1 Caratteri generali IV.8.2 Le radici dell’espressionismo IV.8.3 Le tecniche pittoriche dopo l’impressionismo IV.8.4 Vincent VAN GOGH IV.8.5 Paul GAUGUIN IV.8.6 Paul CEZANNE IV.8.7 Georges SEURAT IV.8.9 Edvard MUNCH IV.8.1 Caratteri generali Il postimpressionismo è un termine convenzionale, usato per individuare le molteplici esperienze figurative sorte dopo l’impressionismo. Il denominatore comune di queste esperienze è proprio l’eredità che esse assorbono dallo stile precedente. Il postimpressionismo, tuttavia, non può essere giudicato uno stile in quanto non è assolutamente accomunato da caratteri stilistici unici. Esso è solo un’etichetta per individuare un periodo cronologico che va all’incirca dal 1880 agli inizi del 1900. La grande novità dell’impressionismo è stata la rivendicazione di una specificità del linguaggio pittorico che ponesse la pittura su di un piano totalmente diverso dalla produzione di altre immagini. Da ricordare che, in questi anni, la nascita della fotografia aveva messo a disposizione uno strumento di riproduzione della realtà totalmente naturalistico. La fotografia registra la visione ottica con una fedeltà e velocità a cui nessun pittore potrà mai giungere. La fotografia, pertanto, ha occupato di prepotenza uno dei campi specifici per cui era nata la pittura: quello di riprodurre la realtà. Che l’arte avesse per mezzo espressivo la riproduzione della realtà visibile era un dato implicito e costante di tutta l’esperienza artistica occidentale. Solo nell’altomedioevo, dal VII al IX secolo, si era assistito ad una fase artistica aniconica. Ma, da ricordare, che l’altomedioevo fu il periodo di maggior decadenza della cultura occidentale in genere, periodo che vide l’affermazione della iconoclastia dei bizantini e dell’aniconismo delle culture arabe e barbariche. In sostanza, tutta la cultura occidentale ha sempre inteso l’arte quale riproduzione del reale, avendo come obiettivo qualitativo finale il perfetto naturalismo. Questo atteggiamento culturale di fondo si rompe proprio nel corso del XIX secolo, quando le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche portano alla nascita della fotografia e del cinema, perfezionando allo stesso tempo le tecniche della riproduzione a stampa. La civiltà occidentale diviene sempre più una civiltà delle immagini ma, paradossalmente, la pittura in questo processo si trova a svolgere un ruolo sempre più marginale.
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Competere con la fotografia sul piano del naturalismo sarebbe stato perdente e perfettamente inutile. Alla pittura bisognava trovare un’altra specificità che non fosse quella della riproduzione naturalistica. È quanto, sul piano tecnico, fanno i pittori dell’impressionismo ed è quanto, sul piano dei contenuti, faranno i pittori della fase successiva. Agli inizi del Novecento, l’arte, ed in particolare la pittura, hanno completamento cambiato funzione: non riproducono, ma comunicano. Ovviamente anche l’arte precedente, da sempre, comunicava. Tutto ciò che rientra nell’ambito della creatività umana è anche comunicazione. Solo che nell’arte precedente questa comunicazione avveniva sempre per il tramite della riproduzione del visibile. Ora, dal postimpressionismo in poi, l’arte si pone solo ed unicamente l’obiettivo della comunicazione senza più porsi il problema della riproduzione. Ovvero, l’arte serve a mettere in comunicazione due soggetti – l’artista e lo spettatore – utilizzando la forma che è, essa stessa, realtà, senza riprodurre la realtà visibile. Nel breve volgere di pochi decenni, le premesse di questo nuovo atteggiamento porteranno a rivoluzioni totali nel campo dell’arte dove, la nascita dell’astrattismo, intorno al 1915, sancisce definitivamente la rottura tra arte e rappresentazione del reale. IV.8.2 Le radici dell’espressionismo Nella fase del postimpressionismo l’attività di alcuni pittori crea le premesse di uno degli stili fondamentali del Novecento: l’espressionismo. Il termine «espressionismo» nacque proprio in opposizione a quello di «impressionismo». I pittori impressionisti esprimono le proprie sensazioni visive. Esprimono, in sostanza, le emozioni del proprio occhio. I pittori espressionisti vogliono esprimere molto di più. Vogliono esprimere tutta le proprie emozioni interiori e psicologiche, non solo quelle sensoriali ottiche. Quello che storicamente viene definito «espressionismo», nasce intorno al 1905 contemporaneamente in Francia ed in Germania con due gruppi artistici: i «Fauves» e «Die Brucke». Le loro novità artistiche e stilistiche vengono preparate, dal 1880 in poi, dalla attività di tre principali pittori postimpressionisti: Van Gogh, Gauguin e Munch. In questi tre pittori la pittura non riproduce realtà visibili dall’occhio, ma riproduce il riflesso interiore della realtà esterna. Le motivazioni all’origine dell’opera di questi tre pittori sono molto diverse, così come sono diversi i risultati ai quali giungono. Tuttavia, sia Van Gogh, sia Gauguin, sia Munch, esprimono una forte carica di drammaticità che li pone su un piano opposto rispetto all’impressionismo. L’impressionismo è stato connotato da una gioiosità di fondo. Al contrario l’espressionismo, e tutto ciò che è venuto prima e dopo, a cominciare da Van Gogh, esprime sentimenti e sensazioni più intense e dolorose che toccano alcuni dei centri nervosi più profondi della natura umana. IV.8.3 Le tecniche pittoriche dopo l’impressionismo Su un versante opposto si svolge, negli stessi anni, l’attività pittorica di altri pittori definiti postimpressionisti. Tra essi troviamo pittori quali Cezanne, Seurat, Toulouse-Lautrec, che superano l’impressionismo soprattutto sul piano della tecnica di rappresentazione. Tra queste personalità la più complessa risulta quella di Cezanne, la cui pittura rimane una delle più difficili da decodificare. Egli aveva partecipato a tutta la vicenda artistica della seconda metà dell’Ottocento. Aveva esposto nella prima mostra di pittori impressionisti, nello studio di Nadar, proponendo quadri che già mostravano una certa originalità rispetto a quelli degli altri pittori del gruppo. La sua differenza appare più evidente dopo il 1880, divenendo egli uno dei protagonisti del superamento della pittura impressionista. 50
L’impressionismo si era caratterizzato per due punti fondamentali: le inquadrature di tipo fotografico e la forma evanescente della rappresentazione. Tutto era risolto con il colore, ma per cercare la sensazione di un solo istante. Anche Cezanne risolveva la sua pittura solo con il colore. Ma egli cercava di ottenere una immagine più ferma ed equilibrata. Egli tendeva a cogliere l’equilibrio delle forme per esprimere una sensazione di serenità senza tempo. La sua pittura fu importante soprattutto per le influenze che produsse su un pittore come Picasso, dando vita ad un altro grande movimento avanguardistico del Novecento: il cubismo. La ricerca dell’impressionismo si era basata su un principio tecnico che era già alla base della pittura di Manet: quello di usare solo colori puri, evitandone la sovrapposizione. In tal modo i quadri acquistavano una maggiore luminosità. Questo procedimento fu portato alle estreme conseguenze da George Seurat che fu il fondatore di uno stile definito «pointillisme». La sua pittura, infatti, si componeva di tanti minuscoli punti di colori primari, accostati sulla tela a formare una specie di mosaico. Questo stile, che più correttamente va definito «divisionismo», si basava su un principio ottico fondamentale: il «melange optique», ossia la mescolanza ottica. L’occhio umano, ad una certa distanza, non riesce più a distinguere due puntini accostati tra loro ma vede una sola macchia. Se i due puntini sono blu e giallo l’occhio vede invece una macchia verde. Se i puntini blu e giallo sono puri l’occhio vede un verde molto brillante, più brillante di quanto possa fare un pittore mescolando dei pigmenti per ottenere sulla sua tavolozza un verde da utilizzare sulla tela. La pittura divisionista produsse una influenza notevolissima su tutti i pittori della generazione successiva, molti dei quali saranno protagonisti delle avanguardie storiche del Novecento. Toulouse-Lautrec rappresenta un caso particolare nella vicenda della pittura di fine secolo. Egli potrebbe essere considerato l’ultimo degli impressionisti ma anche un precursore dell’espressionismo per il suo tratto molto inciso e nervoso che lo accomuna alla pittura espressionista. Tuttavia, anche per la sua produzione di manifesti, egli fornì molti stimoli al sorgere di quello stile decorativo, definito Liberty, che contraddistinse la produzione di arte applicata tra fine Ottocento e inizi Novecento. IV.8.4 VINCENT VAN GOGH Vincent Van Gogh (1853-1890), pittore olandese, rappresenta il prototipo più famoso di artista maledetto; di artista che vive la sua breve vita tormentato da enormi angosce ed ansie esistenziali, al punto di concludere tragicamente la sua vita suicidandosi. Ed è un periodo, la fine dell’Ottocento, che vede la maggior parte degli artisti vivere una simile condizione di emarginazione ed angoscia: pittori come Toulouse-Lautrec o poeti come Rimbaud finiscono la loro vita dopo i trent’anni, corrosi dall’alcol e da una vita dissipata. E, come loro, molti altri. Il prototipo di artista maledetto era iniziato già con il romanticismo. In questo periodo, però, la trasgressione era solo sociale: l’artista romantico era essenzialmente un ribelle antiborghese. Viceversa, alla fine del secolo, gli artisti vivono una condizione di profonda ed intensa drammaticità nei confronti non della società ma della vita stessa. Il caso di Van Gogh è uno dei più emblematici. Figlio di un pastore protestante, provò a svolgere diversi lavori fino a quando decise per la vocazione teologica. Divenne predicatore, vivendo in villaggi di minatori. Qui, prese talmente a cuore le sorti dei lavoratori, anche in occasione di scioperi, da essere considerato dalle gerarchie ecclesiastiche socialmente pericoloso. Fu quindi licenziato. Crebbe la sua crisi interiore che lo portò a vivere una vita sempre più tormentata. In questo periodo, era il 1880 e Van Gogh aveva solo 27 anni, iniziò a dipingere. La sua attività di pittore è durata solo dieci anni, essendo egli morto a 37 anni nel 1890.
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Sono stati dieci anni segnati da profondi tormenti, con crisi intense intervallate da momenti di serena euforia. Si innamorò di una prostituta, Sien, e nel 1882 andò a vivere con lei. L’anno dopo, convinto dal fratello, lasciò Sien e si trasferì nel nord dell’Olanda. Intanto sviluppava un intenso legame con il fratello Theo, che molto lo sostenne nella sua attività artistica anche da un punto di vista economico. Nei dieci anni che ha fatto il pittore Van Gogh è riuscito solo una volta a vendere un suo quadro. Il periodo iniziale della sua pittura culmina nella tela «I mangiatori di patate», dipinta nel 1885. L’anno successivo si trasferì a Parigi, dove il fratello si era recato per lavoro. Qui conobbe la grande pittura degli impressionisti, ricavandone notevoli stimoli. Rinnovò infatti il suo stile, acquisendo maggior sensibilità per i colori e per la stesura a tratteggio. Rimase due anni a Parigi, fino al 1888. Si trasferì ad Arles, nel sud della Francia. Dopo qualche mese lo raggiunse Paul Gauguin ed insieme i due iniziarono un sodalizio artistico intenso che però si interruppe poco dopo per la partenza di Gauguin. La partenza di Gauguin procurò una nuova crisi a Van Gogh che si tagliò il lobo di un orecchio. Iniziarono i suoi ricoveri in ospedale, sempre più in bilico tra depressione e brevi momenti di felicità. Il 27 luglio del 1890 si tirò un colpo di pistola al cuore. Dopo due giorni morì. L’attività di Van Gogh è stata breve ed intensa. I suoi quadri più famosi furono realizzati nel breve giro di quattro o cinque anni. Egli, tuttavia, in vita non ebbe alcun riconoscimento o apprezzamento per la sua attività di pittore. Solo una volta era apparso un articolo su di lui. Dopo la sua morte, iniziò la sua riscoperta, fino a farne uno degli artisti più famosi di tutti i tempi. Van Gogh nell’immaginario collettivo rappresenta l’artista moderno per eccellenza. Il pittore maledetto che identifica completamente la sua arte con la sua vita, vivendo l’una e l’altra con profonda drammaticità. L’artista che muore solo e disperato, per essere glorificato solo dopo la morte. Per giungere a quella fama a cui, i grandi, arrivano solo nella riscoperta postuma. OPERE Vincent Van Gogh, Mangiatori di patate, 1885 Questo quadro, dipinto nel 1885, rappresenta il punto di arrivo della prima fase pittorica di Van Gogh. È il periodo che coincide con la sua vocazione religiosa. Aveva iniziato in Inghilterra, predicando accanto ad un pastore metodista di nome Jones. Nel 1877 ritornò a Etten, il villaggio in cui abitavano i genitori. Il padre, anch’egli pastore, volle favorire la sua vocazione e lo mandò ad Amsterdam per iscriversi alla facoltà di teologia, ma Van Gogh non superò gli esami di ammissione. Iniziò così a predicare, pur non avendone titoli ufficiali. L’anno dopo si recò a Borinage, centro minerario belga, dove visse a stretto contatto con i minatori. Matura in questo periodo il suo amore per i poveri, i derelitti, le persone sfortunate. E questo suo legame affettivo con i poveri lo ritroviamo soprattutto in questo quadro, che egli dipinse a Nuenen, dopo altri burrascosi anni in cui egli viaggiò in Francia, in Belgio, e dopo la sua convivenza a L’Aja con Sien. Quando lasciò la donna decise di andare in campagna. Iniziò così ad interessarsi ai contadini. In difficoltà finanziarie, si recò a Nuenen dove il padre si era trasferito per i suoi impegni di pastore. Qui, Van Gogh, invece di andare a vivere con la famiglia, prese in affitto due stanze: in una abitava, nell’altra dipingeva. A «I mangiatori di patate» lavorò molti mesi, eseguendone più versioni. In questo quadro sono già evidenti i caratteri stilistici che rendono immediatamente riconoscibile la sua pittura. Vi è soprattutto il tratto di pennello doppio che plasma le figure dando loro un aspetto di deformazione molle. 52
In questo quadro sono più evidenti le influenze della grande pittura fiamminga del Seicento. Sia per la scelta di rappresentare la scena in un interno, sia per la luce debole che illumina solo parzialmente la stanza e il gruppo di persone sedute intorno al tavolo. Il soggetto del quadro è di immediata evidenza. In una povera casa, un gruppo di contadini sta consumando un misero pasto a base di patate. Sono cinque persone: una bambina di spalle, un uomo di profilo, di fronte una giovane donna e un altro uomo con una tazzina in mano, e una donna anziana che sta versando del caffè in alcune tazze. Hanno pose ed espressioni serie e composte. Esprimono una dignità che li riscatta dalla condizione di miseria in cui vivono. Nel quadro predominano i colori scuri e brunastri. Tra di essi Van Gogh inserisce delle pennellate gialle e bianco-azzurrine, quali riflessi della poca luce che rende possibile la visione. Da notare l’alone biancastro che avvolge la figura della ragazzina di spalle e che crea un suggestivo effetto di controluce. In questo quadro c’è un’evidente partecipazione affettiva di Van Gogh alle condizioni di vita delle persone raffigurate. La serietà con cui stanno consumando il pasto dà una nota quasi religiosa alla scena. È un rito, che essi stanno svolgendo, che attinge ai più profondi valori umani. I valori del lavoro, della famiglia, delle cose semplici ma vere. Non è un’opera di denuncia sociale (come potevano essere i quadri di Courbet), o di esaltazione della nobiltà del lavoro dei campi (come era nei quadri di Millet). Questo quadro di Van Gogh esprime solo la sua profonda solidarietà con i lavoratori dei campi che consumano i cibi che essi stessi hanno ottenuto dalla terra. Vincent Van Gogh, Campo di grano con volo di corvi, 1890 Questa è stata, con molta probabilità, l’ultima tela dipinta da Van Gogh. Dopo pochi giorni, in un campo di grano come quello raffigurato sul quadro, si sparò un colpo di pistola al cuore. È un artista oramai giunto alla soglia della disperazione interiore quello che dipinge questo quadro. Ed è una disperazione talmente forte che riesce a trasfigurare la visione che il pittore ha innanzi: un campo di grano diviene una immagine di massima intensità drammatica. Egli stesso, nello scrivere al fratello, aveva detto: «non ho avuto difficoltà nel cercare di esprimere la tristezza, la solitudine spinta all’eccesso». Dopo aver dipinto «I mangiatori di patate», Van Gogh, nel 1886, si recò in Francia senza più far ritorno in Olanda. A Parigi si era trasferito il fratello Theo per dirigervi una galleria d’arte ed egli lo raggiunse. Si fermò nella capitale francese per due anni. Qui conobbe i maggiori pittori del periodo: Seurat, Gauguin, Toulouse-Lautrec, Pissarro, Bernard. Da loro egli apprese il piacere dei colori brillanti che costituiscono uno dei tratti fondamentali della pittura francese sia impressionista che postimpressionista. Intanto perfezionava sempre più il suo stile personale. Nelle sue tele compaiono i tipici soggetti impressionisti. Vedute cittadine, come i Caffè visti di notte, o di soggetto naturalistico, come i vasi con fiori. Sono anni di relativa serenità. Dopo due anni di permanenza a Parigi decise di trasferirsi in Provenza, per conoscere la campagna francese. Si stabilì ad Arles. Qui, dopo la rottura con Gauguin, Van Gogh ebbe la prima seria crisi depressiva. Dopo il taglio dell’orecchio fu convinto dal dottor Rey a ricoverarsi in una casa di cura di Saint-Rémy-de-Provence. Qui produsse numerosi capolavori, quali «La ronda dei prigionieri», o la bellissima serie dei cipressi, che, come lingue di fuoco si alzano dalla terra verso cieli carichi di elettricità. Uscito dalla casa di cura nel 1890 si recò 53
nuovamente a Parigi dal fratello. Vi restò solo pochi giorni. Si diresse a Auvers-sur-Oise dove lo ebbe in cura il dottor Gachet, di cui Van Gogh ci ha lasciato un famosissimo ritratto. Qui, Van Gogh dipinse, nel luglio del 1890, tre tele raffiguranti i campi di grano intorno al paese. Domenica 27 luglio, si diresse verso quegli stessi campi di grano. Aveva con se una pistola con la quale iniziò a sparare ai corvi che si aggiravano sui campi. E, in un momento di disperazione, si diresse la pistola al petto sparandosi un colpo al cuore. Non morì. Riuscì a trascinarsi fino al Café Revoux dove era a pensione. Il dottor Gachet, dopo averlo visitato, si rese conto della impossibilità di estrargli la pallottola dal cuore. Mandò a chiamare il fratello che giunse nel paese il giorno dopo. Vincent trascorse la giornata tranquillo, fumando la pipa e parlando con il fratello Theo. La sera Theo si stese di fianco al fratello. All’una e mezzo del mattino Vincent morì. Aveva trentasette anni. «Il campo di grano con volo di corvi» è un paesaggio interiore. Un paesaggio fatto di solitudine e disperazione. In questa tela vi è racchiusa non solo la tragica esistenza del pittore ma tutta la sua vibrante tecnica esecutiva. Il quadro è realizzato con pochi colori fondamentali. Su una preparazione rossa, traccia dei segni gialli per indicare il grano, altri segni verdi e rossi per indicare le strade che attraversano i campi. Il cielo è di un blu cobalto cupo ed innaturale. Un cielo pesante ed oppressivo. Pochi tratteggi neri raffigurano un volo di corvi. La loro è una presenza inquietante. Il tutto è realizzato con una mirabile sintesi di colore, materia, gesto, segno, portati ad un livello massimo di esplosione drammatica. «Il campo di grano con volo di corvi» è la più grande sinfonia coloristica mai realizzata sul dolore di vivere. Vincent Van Gogh, Autoritratto, 1887-88 Il tema dell’autoritratto occupa un posto notevole nella produzione di Van Gogh. Non è un fenomeno inconsueto che un artista dedichi opere alla sua immagine (si veda soprattutto i casi di Picasso o di De Chirico), ma nel caso di Van Gogh questo suo esercitarsi sul proprio ritratto indica non tanto spirito di narcisismo ma quanto di profonda solitudine. Quasi che non abbia possibilità di trovare altri modelli se non se stesso. Alcuni suoi ritratti, quali quello dove compare con una benda a ricoprire l’orecchio tagliato, sono divenuti celeberrimi anche per il senso di travaglio esistenziale che comunicano. In questo autoritratto, precedente alla ferita che si fece, appare straordinaria la capacità di comunicare energia. I suoi occhi sono gli unici punti fermi del quadro. Da essi, una serie di studiati tratteggi riesce non solo a costruire i volumi ma anche a trasmettere flusso di energia dagli occhi a tutto lo spazio circostante. I colori sono sempre molto intensi, e si noti soprattutto nel volto l’audace accostamento di tinte diverse. L’effetto è decisamente inedito. L’occhio dello spettatore ha difficoltà a cogliere i particolari della sua figura, che a distanza ravvicinata scompaiono in tocchi di colore che non rappresentano nulla, ma nel suo insieme questa inafferrabile figura trasmette un profondo senso di vitalità psichica, segno di un carattere quanto mai energico e prorompente. Vincent Van Gogh, Camera da letto, 1888 A questa stanza, la camera da letto della casa dove risiedeva ad Arles, Van Gogh, nel periodo in cui era ricoverato a Saint-Rémy, dedicò due tele (questa in figura è la prima). L’immagine ha un vago senso di deformazione prospettica che anticipa le più ardite deformazioni degli artisti espressionisti. Ma qui, tutto sommato, domina il senso di tranquillità e anche le pennellate si dispongono con calma, senza eccessivo nervosismo o concitazione. Sembra come se Van Gogh ripeschi nella memoria la sua vecchia camera da letto come approdo di serenità e di equilibrio, in un momento in cui il suo travaglio psicologico era sicuramente notevole.
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Vincent Van Gogh, Notte stellata, 1889 Quadro tra i più famosi di Van Gogh, «Notte stellata» è pervasa da un senso di poesia molto evidente e di immediata presa. La tela è stata realizzata durante il suo soggiorno all’ospedale SaintRémy. Van Gogh rimase sveglio tre notti ad osservare la campagna che vedeva dalla sua finestra, affascinato soprattutto dal pulsare di Venere, che appare, soprattutto all’alba, come una stella più grande delle altre. Il quadro che realizza non è tuttavia una fedele riproduzione del paesaggio che egli vedeva, ma una immaginaria visione in cui affiorano anche elementi, quali il quieto paesino, presi dai suoi ricordi olandesi. Dei cipressi fanno da immaginario ponte tra la terra e il cielo, diversi luoghi trattati con evidente dualismo: calma e tranquilla la terra assopita nel buio e nel sonno, pulsante di energia e di vitalità il cielo notturno solcato dalla luce vibrante delle stelle.
IV.8.6 PAUL CEZANNE Paul Cezanne (1839-1906) è il pittore francese più singolare ed enigmatico di tutta la pittura francese post-impressionista. Nato ad Aix-en-Provence, nel meridione della Francia, proviene da una famiglia benestante (il padre era proprietario della banca locale). Egli quindi ebbe modo di condurre una vita agiata, a differenza degli altri pittori impressionisti, e di svolgere una ricerca solitaria e del tutto indifferente ai problemi della critica e del mercato. Egli, infatti, nella sua vita, al pari di Van Gogh, vendette una sola tela, solo qualche anno prima di morire. Pur vivendo quasi sempre a Aix-en-Provence, trascorse diversi periodi a Parigi dove ebbe modo di venire a contatto con i pittori impressionisti della prima ora quali Pissarro, Degas, Renoir, Monet e gli altri. Egli, come gli altri impressionisti, si vedeva rifiutato le sue opere dalla giuria del Salon. E così anche egli partecipò alla prima mostra che gli impressionisti tennero nello studio del pittore Nadar nel 1874. A questa mostra egli espose la sua famosissima opera «La casa dell’impiccato a Auvers». La sua aderenza al movimento fu però sempre distaccata. La sua pittura seguiva già agli inizi un diverso cammino che la differenziava nettamente da quella di un Monet o di un Renoir. Mentre questi ultimi erano interessati solo ai fenomeni percettivi della luce e del colore, Cezanne cerca di sintetizzare nella sua pittura anche i fenomeni della interpretazione razionale che portano a riconoscere le forme e lo spazio. Ma, per far ciò, egli non ricorse mai agli strumenti tradizionali del disegno, del chiaroscuro e della prospettiva, ma solo al colore. La sua grande ambizione era di risolvere tutto solo con il colore, arrivando lì dove nessun pittore era mai arrivato: sintetizzare nel colore la visione ottica e la coscienza delle cose. Egli disse infatti che «nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello, ed entrambe devono aiutarsi tra loro». Da questa sua ricerca parte proprio la più grande rivoluzione del ventesimo secolo: la pittura cubista di Picasso. Con il cubismo si perde completamente il primo termine della sintesi di Cezanne (visione-coscienza), per ricercare solo quella rappresentazione che ha la coscienza delle cose. Perdendosi il primo termine il cubismo romperà definitivamente con il naturalismo e la rappresentazione mimetica della realtà per introdurre sempre più l’arte nei territori dell’astrazione e del non figurativo.
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In Cezanne tutto ciò è però ancora assente. Egli non perde mai di vista la realtà e il suo aspetto visivo. Come per i pittori impressionisti, egli è del tutto indifferente ai soggetti. Li utilizza solo per condurre i suoi esperimenti sul colore. Ed i suoi soggetti sono in realtà riducibili a poche tipologie: i paesaggi, le nature morte, i ritratti a figura intera. I paesaggi sono, tra la produzione di Cezanne, quella più emozionante e poetica. Vi dominano i colori verdi, distesi in infinite tonalità diverse, tra cui si inseriscono tenue tinte di colore diverso. Sono paesaggi che nascono da una grande sensibilità d’animo e che cercano nella natura la serenità e l’equilibrio senza tempo. Le nature morte di Cezanne sono quasi sempre dominate dalla frutta. Inconfondibili sono le sue mele che, come perfette sfere rosse, compaiono un po’ ovunque. In questi quadri gli elementi si pongono con grande libertà, cominciando già a mostrare le prime volute rotture con la visione prospettiva. Cezanne è interessato solo ai volumi non allo spazio. Tanto che egli affermò che tutta la realtà può essere sempre riconducibile a tre solidi geometrici fondamentali: il cono, il cilindro e la sfera. La sua tecnica pittorica è decisamente originale ed inconfondibile. Egli sovrapponeva i colori con spalmature successive, senza mai mischiarle. Per far ciò, aspettava che il primo strato di colore si asciugasse per poi intersecarlo con nuove spalmature di colore. Era un metodo molto lento e meticoloso, per certi versi simile a quello di Seurat e dei neoimpressionisti che accostavano infiniti e minuscoli puntini. Cezanne è, tuttavia, molto lontano dai risultati e dagli intenti dei puntinisti. Egli non ricercava una pittura scientifica, bensì poetica. La sua rimane però una pittura molto difficile da decifrare e spiegare. Ma basti il giudizio di Renoir che di lui disse: «Ma come fa? Non mette neanche due macchie di colore su una tela, senza fare una cosa eccezionale!» La sua ricerca fu estremamente solitaria e scevra di clamori. Anche per il suo carattere schivo e introverso condusse una vita molto ritirata nella sua Aix-en-Provence. La sua attività di pittore è del resto contraddistinta da una insoddisfazione perenne. Egli si sentiva sempre alla ricerca di qualcosa che non riusciva mai pienamente a raggiungere. La sua riscoperta e rivalutazione avvenne solo negli ultimi anni della sua vita. Nel 1904, due anni prima della morte, il Salon d’Automne espose le sue opere dedicandogli un’intera sala. Dal 1906, anno della sua morte, la sua eredità venne ripresa soprattutto dai cubisti che in Cezanne videro il loro precursore. OPERE Paul Cezanne, La montagna Sainte-Victorie, 1904-1906 Numerose sono le tele che Cezanne ha dedicato alla montagna Saint-Victorie, soprattutto negli ultimi anni della sua vita. Si può quindi ritenere che, in questi quadri, si sintetizzi molto della sua ricerca pittorica. L’immagine è ottenuta solo con il colore che viene steso a piccole pezzature con direzioni e orientamenti diversi. Prevalgono nel basso i toni arancio e verde, mentre il profilo della montagna è della stessa tonalità azzurrina del cielo in cui si staglia. Ma il verde ritorna anche nel cielo, come riflesso capovolto della terra verso l’alto. Il quadro ha un’idea compositiva molto semplice. Una linea orizzontale, a due terzi dalla base, definisce l’orizzonte dividendo il quadro in due parti distinte e separate. Nella parte inferiore il colore definisce la multiforme varietà dei campi coltivati, degli alberi e delle case inserite tra essi. Nella parte superiore domina, quasi come un simbolo totemico, l’inconfondibile profilo della montagna. 56
Di per sé, il soggetto non ha una forma precisa. Non può essere trattato volumetricamente ma solo spazialmente. Sono quindi elementi imprescindibili della rappresentazione la luce e l’aria. E qui il colore che stende Cezanne sembra compiere il miracolo: socchiudendo gli occhi, ed allontanandosi dal quadro, l’immagine si forma nella nostra percezione come dotato di vera luce e di vera aria. Ma la visione è ferma, immobile, dotata di una sua precisa staticità che rende questo quadro del tutto diverso dai quadri impressionisti. Non c’è la ricerca dell’attimo fuggente né la rappresentazione della mobilità della luce. Gli oggetti non vibrano né si sfaldano. Ogni cosa è al suo posto con un ordine ed un equilibrio ben precisi. Eppure il quadro tende ad una rappresentazione quasi astratta. Le macchie sono colori puri che non permettono la riconoscibilità di un oggetto preciso. Le macchie di colore hanno valore solo nel loro mutuo rapporto. Da qui all’arte astratta il passo è molto breve. Un percorso simile lo svolgeranno molti astrattisti del XX secolo: dalla forma alla stilizzazione segnica. Cezanne cercava invece un diversa costruzione dell’immagine: dalla forma al colore-luce, senza però perdere la forma. E per questo, egli non divenne mai un pittore astratto pur anticipando anche questo sviluppo dell’arte del Novecento. Paul Cezanne, Natura morta con mele e vaso di primule, 1894 Il quadro, conservato nel Metropolitan Museum di New York, è uno degli esempi più noti di natura morta con mele realizzati da Cezanne. La mela è infatti un frutto che appare molto di frequente nelle nature morte dell’artista, divenendo quasi un suo marchio di fabbrica. E a tal proposito è sorta la leggenda che l’intento di Cezanne era di «stupire Parigi con una sola mela». Vale a dire che l’artista voleva ottenere la perfezione nella forma più semplice possibile: quella di una sfera pura. In realtà, dato lo stile che il pittore adotta, fatto di pennellate che tirano il colore stendendolo in maniera uniforme, riuscire nella costruzione tridimensionale di una sfera non era semplice, ma rappresentava un notevole traguardo non solo tecnico ma di grande sensibilità percettiva. In realtà Cezanne, finché è stato in vita, non ha mai visto apprezzati i suoi sforzi, e le sue mele sono divenute un mito della pittura solo molti decenni dopo la sua morte. IV.8.7 GEORGES SEURAT Georges Seurat (1859-1891), è il pittore che porta alle estreme conseguenze la tecnica pittorica degli impressionisti. Il problema di dar maggior luce e brillantezza ai colori posti sulla tela era già stato impostato da Manet e dagli impressionisti. La loro risposta a questo problema era stato il ricorso a colori puri, non mescolati, così da evitare al massimo le sintesi sottrattive che smorzavano i colori rendendoli privi di luminosità. Georges Seurat intese dare una nuova risposta a questo problema. Egli voleva giungere ai risultati di massima brillantezza utilizzando il «melange optique», ossia la mescolanza ottica. Negli stessi anni, le ricerche sul colore avevano trovato un notevole impulso scientifico da parte del chimico francese Chevreul. Egli aveva messo a punto il principio di «contrasto simultaneo», secondo il quale se si accostano due colori complementari le qualità di luminosità di ognuno vengono esaltate. Il principio non era sconosciuto agli impressionisti che anzi lo utilizzavano spesso nella loro tecnica pittorica. Ma la grande novità fu il principio di «melange optique», che per primo formulò proprio Seurat. In sostanza l’occhio ha una capacità di risoluzione che lo porta a distinguere due puntini tra loro accostati se questi non sono troppo piccoli. Se i puntini diventano eccessivamente piccoli, o se aumenta la distanza dell’osservatore dai due puntini, l’occhio dell’osservatore non ha più la capacità di separare i due puntini ma vede un’unica macchia di colore. Se questi due punti sono di colore 57
diverso, l’occhio vede un terzo colore dato dalla somma dei due. In tal modo, secondo il principio di Seurat, un occhio, guardando dei puntini blu e gialli, vede un verde più brillante di qualsiasi verde che possa ottenere il pittore con la mescolanza dei pigmenti. La grande novità tecnica della pittura di Seurat furono i puntini. Egli realizzava i suoi quadri accostando piccoli puntini di colori primari. Ne derivava una specie di mosaico che trasmetteva un’indubbia suggestione. Dalla sua tecnica derivò il nome dato a questo stile, definito «puntinismo» o «pontillisme», alla francese. Altro nome che ebbe questo stile fu di neo-impressionismo, a sottolinearne la sua ideale continuazione con l’impressionismo. Molte sono le affinità tra i due stili artistici, soprattutto sul piano della scelta dei soggetti tratti dalla vita parigina di quegli anni. Tuttavia, sul piano estetico, le differenze sono notevolissime tali da rendere i due stili quasi opposti. Uno dei maggiori fascini della pittura impressionista era la poetica dell’attimo fuggente che veniva materializzata in immagini sfuggenti e tremolanti. Nel neoimpressionismo, invece, non vi sono attimi che trascorrono ma una sorta di congelamento del tempo che rende tutto immobile e statico. Georges Seurat morì molto giovane, nel 1891, a soli trentadue anni. La sua eredità venne raccolta soprattutto dall’amico Paul Signac. Oltre all’attività pittorica, Signac si dedicò anche a quella di teorico e con il suo libro, «Da Delacroix al neoimpressionismo», diede i fondamenti teorici del «pointillisme» che egli proponeva invece di chiamare «divisionismo». Sosteneva infatti che il loro obiettivo non era fare dei puntini ma dividere il colore. Il puntino era quindi solo un mezzo e non un fine. Tanto che gli stessi procedimenti divisionistici potevano ottenersi anche con tratteggi accostati e non solo con piccoli punti. Ed il tratteggio divenne infatti la tecnica preferita dai divisionisti italiani quali Pelizza da Volpeda, Segantini e Previati. Il divisionismo fu infatti un movimento più vasto e che andava oltre il semplice puntinismo. Divisionisti furono molti pittori europei tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, diffondendo questa tecnica per tutto il continente. OPERE Georges Seurat, Una domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte, 1883-1885 Questo è senz’altro il quadro più famoso di Georges Seurat e quello che compendia pienamente la novità della sua pittura neo-impressionista. La Grande Jatte è un’isola di Parigi che sorge in mezzo al fiume Senna. Su questa isola, fatta di alberi e prati, i parigini trascorrevano ore serene e spensierate. L’aria è luminosa e calda. Vi è un notevole affollamento di figure e persone. Gente che passeggia, che è seduta a terra, che fuma, che pesca. Sull’acqua del fiume si vedono vele che passano, rematori che remano. Il soggetto del quadro è tipico da pittura impressionista: una scena di vita urbana vissuta con allegria e spensieratezza. Vi è una aria lieve e rilassata che ispira sensazioni piacevoli. Ma manca assolutamente quel senso di immediatezza dei quadri impressionisti. Qui, non solo il tempo non viene colto nella sua estrema variabilità, ma vi è una stasi ed immobilità che dà l’idea che il tempo si sia del tutto fermato e congelato. Le figure sono assolutamente immobili anche se colte nell’atteggiamento di camminare. Ma hanno soprattutto una identica posa: sono tutti o di profilo o in vista frontale. Ciò dà loro un carattere quasi irreale che ricorda inaspettatamente la pittura egizia.
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Le figure vengono definite da un contorno ben evidente; hanno una resa decisamente chiaroscurale; lo spazio appare del tutto nitido e messo a fuoco. In sostanza, questo quadro è decisamente agli antipodi rispetto alle tele impressioniste dove tutto è vagamente indefinito e mobile, dove il chiaroscuro era stato del tutto eliminato per ricorrere unicamente al contrasto tonale. Il quadro è una tela di notevoli dimensioni (circa 2 metri per 3) che di certo non poteva essere dipinta en plain air. Non solo. La miriade infinita di punti necessari a ricoprire una tela di tali dimensioni ha richiesto oltre due anni di lavoro. Anche in ciò il pointillisme di Seurat andava in direzione opposta rispetto all’impressionismo. Alcuni dei tratti caratteristici della pittura impressionista erano proprio la velocità di esecuzione. Non è però da negare che il quadro trasmette una sua indubbia suggestione, soprattutto per la sua evidente laboriosa esecuzione che ne fanno una specie di mosaico coloristico su tela.
IV.8.9 EDVARD MUNCH Edvard Munch (1863-1944) è senz’altro il pittore che più di ogni altro anticipa l’espressionismo, soprattutto in ambito tedesco e nord-europeo. Egli nacque in Norvegia e svolse la sua attività soprattutto ad Oslo. In una città che, in realtà, era estranea ai grandi circuiti artistici che, in quegli anni, gravitavano soprattutto su Parigi e sulle altre capitali del centro Europa. Nella pittura di Munch troviamo anticipati tutti i grandi temi del successivo espressionismo: dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi, dalla solitudine umana all’incombere della morte, dall’incertezza del futuro alla disumanizzazione di una società borghese e militarista. Del resto tutta la vita di Munch è stata segnata dal dolore e dalle sofferenze sia per le malattie che per problemi familiari. Iniziò a studiare pittura a diciassette anni, nel 1880. Dopo un soggiorno a Parigi, dove ebbe modo di conoscere la pittura impressionista, nel 1892 espose a Berlino una cinquantina di suoi dipinti. Ma la mostra fu duramente stroncata dalla critica. Egli, tuttavia, divenne molto seguito ed apprezzato dai giovani pittori delle avanguardie. Espose nelle loro mostre, compresa la celebre Secessione di Vienna del 1899. Il sorgere dell’espressionismo rese sempre più comprensibile la sua opera. E al pari degli altri pittori espressionisti fu anche egli perseguitato dal regime nazista che dichiarò la sua opera «arte degenerata». 82 sue opere presenti nei musei tedeschi vennero vendute. Egli morì in piena guerra, nel 1944, presso Oslo, lasciando tutte le sue opere al municipio della città. Nell’opera di Munch sono rintracciabili molti elementi della cultura nordica di quegli anni, soprattutto letteraria e filosofica: dai drammi di Ibsen e Strindberg, alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard e alla psicanalisi di Sigmund Freud. Da tutto ciò egli ricava una visione della vita permeata dall’attesa angosciosa della morte. Nei suoi quadri vi è sempre un elemento di inquietudine che rimanda all’incubo. Ma gli incubi di Munch sono di una persona comune, non di uno spirito esaltato come quello di Van Gogh. E così, nei quadri di Munch il tormento affonda le sue radici in una dimensione psichica molto più profonda e per certi versi più angosciante. Una dimensione di pura disperazione che non ha il conforto di nessuna azione salvifica, neppure il suicidio. OPERE Edvard Munch, L’urlo, 1893 59
Questo è senz’altro il quadro più celebre di Munch ed, in assoluto, uno dei più famosi dell’espressionismo nordico. In esso è condensato tutto il rapporto angoscioso che l’artista avverte nei confronti della vita. Lo spunto del quadro lo troviamo descritto nel suo diario: Camminavo lungo la strada con due amici – quando il sole tramontò – il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue – mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto – sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco – i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura – e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. Lo spunto è quindi decisamente autobiografico. L’uomo in primo piano che urla è l’artista stesso. Tuttavia, al di là della sua relativa occasionalità, il quadro ha una indubbia capacità di trasmettere sensazioni universali. E ciò soprattutto per il suo crudo stile pittorico. Il quadro presenta, in primo piano, l’uomo che urla. Lo taglia in diagonale il parapetto del ponte visto in fuga verso sinistra. Sulla destra vi è invece un innaturale paesaggio, desolato e poco accogliente. In alto il cielo è striato di un rosso molto drammatico. L’uomo è rappresentato in maniera molto visionaria. Ha un aspetto sinuoso e molle. Più che ad un corpo, fa pensare ad uno spirito. La testa è completamente calva come un teschio ricoperto da una pelle mummificata. Gli occhi hanno uno sguardo allucinato e terrorizzato. Il naso è quasi assente, mentre la bocca si apre in uno spasmo innaturale. L’ovale della bocca è il vero centro compositivo del quadro. Da esso le onde sonore del grido mettono in movimento tutto il quadro: agitano sia il corpo dell’uomo sia le onde che definiscono il paesaggio e il cielo. Restano diritti solo il ponte e le sagome dei due uomini sullo sfondo. Sono sordi ed impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo. Sono gli amici del pittore, incuranti della sua angoscia, a testimonianza della falsità dei rapporti umani. L’urlo di questo quadro è una intesa esplosione di energia psichica. È tutta l’angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un grido liberatorio. Ma nel quadro non c’è alcun elemento che induca a credere alla liberazione consolatoria. L’urlo rimane solo un grido sordo che non può essere avvertito dagli altri ma rappresenta tutto il dolore che vorrebbe uscire da noi, senza mai riuscirci. E così l’urlo diviene solo un modo per guardare dentro di sé, ritrovandovi angoscia e disperazione. Edvard Munch, Pubertà, 1894 La figura della ragazza nuda, seduta sul bordo del letto, è una delle più famose della produzione di Munch. Non vi è alcun compiacimento sensuale in questo nudo, anzi, l’immagine trasmette, ad uno sguardo più attento, un intenso sentimento di angoscia. Il nudo, in questo caso, è allegoria di condizione indifesa, soprattutto da parte di chi è ancora giovane ed acerbo, nei confronti dei destini della vita. E che ognuno ha un destino che lo aspetta, in questo quadro è simboleggiato dall’ombra che la ragazza proietta sulla parete. Non è un’ombra naturale, ma un grumo nero come un fantasma che si materializza dietro di noi, senza che possiamo evitarlo: è un po’ il simbolo di tutti i dolori che attendono chi vive.
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TRA FINE OTTOCENTO E PRIMI DEL NOVECENTO PARAGRAFI IV.9.1 Il Simbolismo IV.9.2 Il Divisionismo italiano IV.9.3 Il Liberty IV.9.4 Gustav KLIMT IV.9.1 Il Simbolismo Il simbolismo è una corrente artistica che si affermò in Francia a partire dal 1885 circa, come reazione al naturalismo e all’impressionismo. L’arte, in questo movimento, era concepita come espressione concreta e analogica dell’Idea, momento di incontro e di fusione di elementi della percezione sensoriale ed elementi spirituali. La pittura che ne derivava era estremamente raffinata, ricca di simbologie mitologiche-religiose, e si proponeva di esplorare quelle suggestive regioni della coscienza umana all’affascinante confine tra realtà e sogno che fino ad allora erano rimaste sempre escluse da qualsiasi indagine artistica. Precorritori di questo movimento furono i pittori Gustave Moreau (1826-1898) e Pierre Puvis de Chavannes (1824-1898). Nei loro quadri sono già evidenti alcuni dei temi utilizzati dalla pittura simbolista: in particolare, il ricorso alla mitologia e alle storie bibliche rivisitate come l’apparizione di un sogno in cui le immagini e i contenuti hanno la finalità di essere dei simboli. Il simbolo è qualcosa «che sta in luogo di» (ad es. la bilancia che simboleggia la giustizia, ecc.). Si differenzia dall’allegoria in quanto quest’ultima rimane maggiormente confinata nell’ambito della significazione letteraria e logica. Il simbolo è invece analogico in quanto risolve il suo significato solo nella forma. Il simbolismo è una delle componenti fondamentali dell’animo umano che spesso traduce solo in immagini concetti ed emozioni che con le parole necessitano di complesse elaborazioni. Il simbolo, pertanto, ha una sintesi che riesce a racchiudere solo nella sua forma contenuti anche complessi, per lo più universali o mitici. Il simbolismo, in pittura, dà immagine a quelle suggestioni culturali molto più vaste che vanno sotto il nome di Decadentismo e che caratterizzano la fine del XIX secolo. E, al pari del Decadentismo, il simbolismo è caratterizzato da una estetizzazione ultra-raffinata in cui l’azione è pressoché nulla, mentre tutte le passioni e le tensioni vitali vengono vissute nell’ambito del sogno. Il maggior pittore simbolista è Odilon Redon (1840-1916). Benché amico degli impressionisti, egli rifiutò decisamente l’uso di questo stile, soprattutto perché non era interessato a rappresentare la realtà così come essa appare. Nella sua pittura la natura è soprattutto sogno, ed egli ne coglie gli aspetti più sfuggenti, anormali, inspiegabili. Altre suggestioni simboliste, pur su un piano stilistico totalmente diverso, sono rintracciabili anche nella pittura di Paul Gauguin. I soggetti dei suoi quadri hanno sempre un contenuto simbolico, ma in Gauguin è assente qualsiasi suggestione letteraria per esplorare in maniera autonoma i territori della spiritualità ancestrale e primitiva. Da Gauguin prendono però le mosse alcuni dei gruppi artistici che si collocano decisamente nella scia del simbolismo: prima la «Scuola di Pont-Aven» e quindi i «Nabis». 61
La Scuola di Pont-Aven era un gruppo di artisti che si riuniva intorno Gauguin, in Bretagna, dal 1886 al 1894. Temi fondamentali della loro pittura erano il rifiuto della copia dal vero, l’esaltazione della memoria e dell’immaginazione. In tal modo cercavano una dimensione nuova, e più intima, della realtà, effettuando una specie di doppia fuga verso il passato e verso l’esotico. La loro tecnica stilistica divenne il «cloissonisme»: al pari di come erano realizzate le vetrate gotiche, la loro pittura si componeva di stesure di zone piatte di colore delimitate da contorni scuri. I Nabis (nome che in ebraico significa «profeti») fu un movimento della seconda generazione simbolista. Suggestionati dalla pittura di Gauguin, che conobbero nel 1888, i Nabis operarono prevalentemente tra il 1891 e il 1900. Si dedicarono con grande attenzione alle arti applicate (francobolli, carte da gioco, marionette, manifesti, paraventi, carte da parati, decorazioni murali), in cui facevano ampio uso di simboli storici e mitologici, risolti con notevole sintesi espressiva. La loro opera contribuì notevolmente alla nascita dell’estetica liberty. Il simbolismo non interessò solo la Francia ma conobbe una ampia diffusione in tutta Europa. In Svizzera può considerarsi simbolista l’opera pittorica di Arnold Böcklin (1827-1901). Pur esente da quel clima di morboso decadentismo del simbolismo francese, anche la sua pittura si colloca nei territori tra la realtà e il sogno. Il suo stile è più saldo e plastico e meno visionario di quello degli altri pittori simbolisti. Ma le sue immagini (L’isola dei morti, 1880) hanno un indubbio fascino visionario che, reinterpretando i temi del romanticismo nordico, sono contraddistinte da atmosfere tenebrose e lugubri. Di marca simbolista è anche il contenuto della pittura di Gustav Klimt (1862-1918), il maggiore esponente della Secessione viennese. La sua pittura, benché ha una cifra stilistica molto originale, si basa sempre su soggetti di tipo simbolico: «Le tre età della vita», «Salomè», «Danae», «Giuditta», eccetera. IV.9.2 Il Divisionismo italiano Il simbolismo interessò anche l’Italia, dove venne utilizzato soprattutto dai pittori divisionisti. Il Divisionismo è una tendenza artistica sviluppatasi in Italia tra il 1885 e il 1915. I pittori divisionisti adottarono un procedimento molto simile a quello del neo-impressionismo francese. Scomponevano il colore con una separazione metodica delle tinte complementari. Ciò che li differenziava dai neo-impressionisti è che, invece di adottare il punto come elemento di base, utilizzavano un tratto molto più lungo e filamentoso. Ne derivavano delle immagini dalla illuminazione molto diffusa e antinaturalistica, dove le forme perdono peso e consistenza per fondersi in un’unica indistinta ondulazione luminosa. I protagonisti del divisionismo italiano furono soprattutto i tre pittori: Gaetano Previati (1852-1920), Giovanni Segantini (1858-1899) e Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907). Previati e Segantini sono i pittori che maggiormente parteciparono al clima simbolista di quegli anni. Esempi ne sono il quadro di Previati «Maternità», o il quadro di Segantini «L’angelo della vita». Diversa è la ricerca pittorica di Pellizza da Volpedo che, pur adottando un linguaggio divisionista, si interessò ai temi del realismo sociale. Tipico esempio della sua produzione è il famoso «Il quarto stato». Il quadro è quasi un’elegia delle suggestioni socialiste che in quegli anni si diffondevano in Italia. Ed il quadro divenne presto il simbolo di un nuovo coinvolgimento dell’arte nel campo
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dell’impegno sociale. La sua prematura scomparsa, all’età di 39 anni, hanno privato l’Italia di uno dei pochi artisti che in questo periodo si esprimeva a livelli europei. Il divisionismo, oltre l’opera dei tre pittori sopra citati, divenne un linguaggio molto universale nella cultura artistica italiana agli inizi del Nocevento. Divenne la tecnica «nuova» per eccellenza e dal divisionismo partirono molti dei pittori della generazione successiva che avrebbero in seguito dato vita al Futurismo, quali Giacomo Balla, Luigi Russolo, Gino Severini e Umberto Boccioni. IV.9.3 Il Liberty Con il nome di Liberty si intende un vasto movimento artistico che, tra fine Ottocento ed inizi Novecento, interessò soprattutto l’architettura e le arti applicate. Il fenomeno prese nomi diversi a seconda delle nazioni in cui sorse. In Francia prese il nome di «Art Nouveau», in Germania il nome di «Jugendstil», in Austria fu denominato «Secessione», in Spagna «Modernismo». In Italia ebbe inizialmente il nome di «Floreale», per assumere poi il più noto nome di «Liberty», così come veniva chiamato in Inghilterra. Il Liberty nacque dal rifiuto degli stili storici del passato che nell’architettura di quegli anni fornivano gli elementi di morfologia progettuale. Il Liberty cercò invece ispirazione nella natura e nelle forme vegetali, creando uno stile nuovo, totalmente originale rispetto a quelli allora in voga. Caratteri distintivi del Liberty divennero l’accentuato linearismo e l’eleganza decorativa. Nato inizialmente in Belgio, grazie all’architetto Victor Horta, il Liberty si diffuse presto in tutta Europa divenendo in breve lo stile della nuova borghesia in ascesa. Esso si fondò sul concetto di coerenza stilistica e progettuale tra forma e funzione. Adottando le nuove tecniche di produzione industriale, ed i nuovi materiali quali il ferro, il vetro e il cemento, di fatto il Liberty giunse per la prima volta alla definizione di una nuova progettualità: quella progettualità che definiamo industrial design. Il problema di dare qualità alla produzione industriale era stato già avvertito dalla cultura precedente. Ma, nel caso dei movimenti di Arts and Crafts inglesi, la risposta data era semplicemente anacronistica: ritornare alla produzione artigianale. Il Liberty diede per la prima volta la risposta giusta al problema della qualità del prodotto industriale. Il problema andava risolto sul piano della qualità progettuale. L’estetica del Liberty si affidò molto all’uso della linea e degli elementi lineari. Protagonista divenne soprattutto la linea curva definita «a colpo di frusta»: una linea, cioè, che dopo una curvatura ampia si torceva in repentini scatti di curvatura più stretta. Le immagini che si ottenevano producevano effetti decorativi molto suggestivi e di grande eleganza, ma che in genere tendevano all’astrazione più pura. Quando nel Liberty comparivano delle immagini, queste risentivano molto del clima simbolista in voga in quegli anni. La stilizzazione delle figure era sempre molto evidente, risolte tutte sul piano della bidimensionalità con l’uso della linea funzionale di contorno. Nel campo pittorico non vi fu un vero e proprio stile Liberty, che rimase utilizzato soprattutto nella grafica o nelle arti applicate. Influenze e suggestioni liberty sono avvertibili in alcuni pittori che operarono in quegli anni, quali Aubrey Beardsley, Toorop e Hodler. Ma il pittore che più di ogni altro raccolse nel suo stile le indicazioni che derivavano dal Liberty fu Gustav Klimt.
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IV.9.4 GUSTAV KLIMT La vicenda artistica di Gustav Klimt (1862-1918), coincide quasi per intero con la storia della Secessione viennese. Con il termine Secessione si intendono quei movimenti artistici, nati a fine ’800 tra Germania ed Austria, che avevano come obiettivo la creazione di uno stile che si distaccasse da quello accademico. Di fatto, le Secessioni introdussero in Austria e in Germania le novità stilistiche dell’Art Nouveau che in quel momento dilagavano per tutta Europa. La prima Secessione nacque a Monaco di Baviera nel 1892. Fu seguita nel 1897 da quella di Vienna e nel 1898 da quella di Berlino. La Secessione viennese fu un vasto movimento culturale ed artistico che vide coinvolti architetti (Olbrich, Hoffmann e Wagner) e pittori (Klimt, Moll, Moser, Kurzweil, Roller). La Vienna in cui questi artisti si trovarono ad operare era in quel momento una delle capitali europee più raffinate e colte. La presenza di musicisti quali Mahler e Schönberg, di intellettuali quali Freud e Wittegenstein, di scrittori quali Musil, rendevano Vienna una delle città più affascinanti d’Europa. L’aura "biedermeier" di Vienna era tuttavia l’apoteosi di un mondo che stava per scomparire, consapevole della sua prossima fine. Cosa che avvenne effettivamente con lo scoppio della prima guerra mondiale che decretò la dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico. Questa coscienza della fine, tratto comune a molta cultura decadentista di fine secolo, pone anche la Secessione viennese nell’alveo della pittura simbolista. E tale caratteristica è riscontrabile anche nella pittura di Klimt che rimane il personaggio più vitale ed emblematico della Secessione viennese. Gustav Klimt nacque in un sobborgo di Vienna, e in questa città frequentò la Scuola di arti e mestieri. Giovanissimo, insieme al fratello ed un amico, diede vita alla prima società artistica, procurandosi commissioni per decorare edifici pubblici. Ne ricavò una certa notorietà e ulteriori commissioni, quale l’importante incarico di decorare l’aula magna dell’Università. Nel 1897 fu tra i fondatori e primo presidente della Secessione, partecipando sempre attivamente alle attività del gruppo da cui si distaccò in polemica nel 1906 per fondare una nuova formazione: la Kunstschau. Klimt nei suoi primi lavori mostra una precisione di disegno e di esecuzione assolutamente straordinarie, ponendosi però in un filone di eclettismo storicistico tipico di una certa cultura del secolo scorso in cui gli elementi della tradizione, in particolare rinascimentale, vengono ampiamente rivisitati e riutilizzati. La sua personalità comincia ad acquisire una importante caratteristica intorno al 1890 quando la sua pittura partecipa sempre più attivamente al clima simbolista europeo. Ma la svolta che portò Klimt al suo inconfondibile stile avvenne dieci anni dopo con il quadro «Giuditta (I)» del 1901. Da questo momento il suo stile si fa decisamente bidimensionale, con l’accentuazione del linearismo e delle campiture vivacemente decorate. Due viaggi compiuti a Ravenna nel 1903 diedero a Klimt ulteriori stimoli. Da quel momento l’oro, già presente in alcune opere precedenti, acquista una valenza espressiva maggiore, fornendo la trama coloristica principale dei suoi quadri. Il periodo aureo di Klimt si concluse nel 1909 con il quadro «Giuditta (II)». Seguì un periodo di crisi esistenziale ed artistica dal quale Klimt uscì dopo qualche anno. Il suo stile conobbe una nuova fase. Scomparsi gli ori e le eleganti linee liberty, nei suoi quadri diviene protagonista il colore acceso e vivace. Questa fase viene di certo influenzata dalla pittura espressionista che già da qualche anno si era manifestata in area tedesca. E Klimt l’aveva conosciuta soprattutto attraverso all’attività di due artisti viennesi, già suoi allievi: Egon Schiele e Oscar Kokoschka. La sua attività si interruppe nel 1918, quando a cinquantasei anni morì a seguito di un ictus cerebrale.
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OPERE Gustav Klimt, Il bacio, 1907 Il bacio è probabilmente il quadro più famoso di Gustav Klimt, ed uno di quelli che meglio sintetizza la sua arte. Come altri quadri di questo periodo ha formato quadrato. In esso le figure presenti sono due: un uomo ed una donna inginocchiati nell’atto di abbracciarsi. Un prato ricco di fiori colorati funge da indefinibile piano di giacitura, mentre l’oro di fondo annulla l’effetto di profondità spaziale. Il quadro ha quindi un aspetto decisamente bidimensionale. Delle due figure, le uniche parti realizzate in maniera naturalistica sono i volti, le mani e le gambe della donna. Per il resto l’uomo e la donna sono interamente coperte da vesti riccamente decorate. Quella dell’uomo è realizzata con forme rettangolari erette in verticale, mentre la veste della donna è decorata con forme curve concentriche. La differente geometria delle due vesti è espressione della differenza simbolica tra i due sessi. Dell’uomo è visibile solo la nuca ed un parziale profilo molto scorciato. La donna ci mostra invece l’intero viso, piegato su una giacitura orizzontale. Ha gli occhi chiusi ed un’espressione decisamente estatica. È proprio il volto della donna che dà al quadro un aspetto di grande sensualità. Nell’arte di Klimt la donna occupa un posto decisamente primario. Rinnovando il mito della «femme fatale» per Klimt la donna è l’idea stessa di eros. Di quell’eros che è a un tempo amore e morte, salvezza e perdizione. È un idea che serpeggia in tutta la mentalità del tempo, ma con connotazioni decisamente antifemministe. In Klimt la posizione tende invece a ribaltarsi, assumendo la donna ruolo di decisa superiorità rispetto all’uomo. È lei la depositaria di quel gioco amoroso che rinnova continuamente la vita e la bellezza. Ma il tutto si manifesta non tanto nelle azioni ma nelle sensazioni interiori. Ecco così che la donna del Bacio riesce a sublimare un’azione al limite del banale in qualcosa che ha afflato cosmico. Qualcosa che trascende verso la pienezza interiore più intensa. La grande armonia formale del quadro, insieme al contenuto di elegante erotismo, fanno di questo quadro il prodotto di un tempo che stava rapidamente scomparendo. La comparsa in quegli anni dell’espressionismo rese manifesta l’inattualità di questo mondo klimtiano fatto di eleganza e sensualità, che presto scomparve per tempi più drammatici e violenti segnati dagli eventi bellici della prima guerra mondiale. Gustav Klimt, Amore, 1895 Il quadro rappresenta, insieme all’opera «Musica I», il passaggio di Klimt da un’arte naturalistica e classicheggiante ad una di ispirazione più simbolica, che diverrà in seguito tipica del suo stile. Il soggetto allegorico dell’«amore» viene raffigurato ricorrendo al bacio intenso ed appassionato di due amanti, circondati da un buio che li estranea da qualsiasi contesto circostante, ma dal quale, quasi fatti di fumo, emergono spettrali figure a simboleggiare le età della vita, e quindi il trascorrere del tempo di contro alla sensazione di eternità che l’amore ispira, soprattutto al suo primo apparire. In questo quadro l’immagine tende ancora al tutto tondo, e si presenta con un’atmosfera vagamente tardo-romantica molto inusuale nella produzione klimtiana. Basta confrontare questo bacio con quello più famoso del 1907, per capire la profonda distanza che separa questa fase della sua pittura da quella che lo rese giustamente celebre. Ma il particolare della cornice dorata rende il quadro sicuramente esperimento, forse necessario, per quelle scelte stilistiche successive, così tipiche di 65
Klimt, quali l’uso del formato quadrato, in cui per contrasto inserire composizioni verticali, e l’uso simbolico del colore oro. Gustav Klimt, Giuditta I, 1901 Il quadro è la prima versione del soggetto «Giuditta» che Klimt realizza, ed è considerata come la prima opera del periodo aureo. Da questo momento in poi, per circa un decennio, l’uso del colore oro diviene uno dei tratti stilistici del Klimt più noto. Il soggetto è ovviamente una rivisitazione della storia biblica di Giuditta, protagonista della vicenda che la porta a tagliare la testa del generale Oloferne per vincere l’assedio in cui era tenuta la sua città. Il soggetto è stato sempre utilizzato quale metafora del potere di seduzione delle donne, che riesce a vincere anche la forza virile più bruta. In clima simbolista la figura di Giuditta si presta ovviamente alla esaltazione della «femme fatal» quale simbolo di quella esasperazione dell’eros che giunge a confondere i confini tra amore e morte. L’immagine ha un taglio verticale molto accentuato con la figura di Giuditta, di grande valenza erotica, a dominare l’immagine quasi per intero. La testa di Oloferne appare appena di scorcio, in basso a destra, tagliata per oltre la metà dal bordo della cornice. Da notare la notevole differenza tra gli incarnati della figura, che hanno una resa tridimensionale, e le vesti, trattate con un decorativismo bidimensionale molto accentuato. Si tratta di un sistema rappresentativo già utilizzato dalla pittura gotica del Trecento, ma che in Klimt assume una nuova valenza stilistica, riuscendo a fondere mirabilmente figura e decorazione astratta, in uno schema compositivo di grande eleganza formale. I tratti di Giuditta sono probabilmente quelli di Adele Bloch-Bauer, esponente dell’alta società viennese, della quale Klimt eseguì due ritratti. La splendida cornice in rame sbalzato, anch’essa in chiaro stile «secessione viennese», fu realizzata da suo fratello Georg, scultore e cesellatore. Gustav Klimt, Danae, 1907-08 Il quadro è uno dei più noti di Klimt ed appartiene alla sua fase creativa più feconda. Il tema che egli tratta è ancora l’erotismo femminile, che egli rappresenta nella rivisitazione del mito di Danae, personaggio dell’antica mitologia greca, che, secondo la leggenda, fu fecondata nel sonno da Giove, trasformatosi in pioggia d’oro. L’espressione di estatico abbandono della donna rimanda ad una dimensione onirica dell’eros, molto frequente nelle immagini di Klimt, fatta soprattutto di percezioni interiori che non di appagamento dei sensi. Gustav Klimt, Le tre età della donna, 1905 Quadro conservato nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, è una delle poche opere di Klimt presenti in Italia. Nel 1911, nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, fu tenuto un vasto programma di manifestazioni artistiche, tra cui una mostra internazionale svolta a Valle Giulia. In quest’occasione fu allestito anche il padiglione austriaco, su progetto di Hoffmann, e tra le opere esposte vi fu «Le tre età della donna» di Klimt, che si aggiudicò il primo premio e fu acquistato dallo Stato Italiano, che la destinò appunto alla Galleria d’Arte Moderna romana, da poco istituita. Il quadro ha le raffinate eleganze tipiche del periodo aureo. Si noti in particolare l’espressione estatica e con il capo reclinato della donna, che anticipa analoghe soluzioni posteriori. Ma non mancano particolari espressionistici, riscontrabili soprattutto nella resa della donna anziana, che ci mostrano come Klimt fosse, pur nelle sue scelte stilistiche, un pittore molto aggiornato sui tempi, e meno anacronistico di quanto siamo, oggi, indotti a credere.
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IL NOVECENTO PARAGRAFI V.1.1 Caratteri generali sul Novecento V.1.2 Le avanguardie storiche V.1.1 Caratteri generali sul Novecento Mai come nel Novecento la cultura artistica ha conosciuto una tale velocità di evoluzione. Nel corso di questo secolo le novità e le sperimentazioni artistiche si sono susseguite con ritmo talmente incalzante da fornire un quadro molto disomogeneo in cui è difficile la organizzazione del tutto in pochi schemi interpretativi. Decine e decine di movimenti e di stili si sono succeduti, esaurendo la loro presenza, a volte, nel giro di pochi anni o al massimo di qualche decennio. La storiografia di questo secolo, nella maggior parte dei casi, risulta un elenco, più o meno dettagliato, dei tanti movimenti e protagonisti apparsi alla ribalta della scena artistica. Ciò, tuttavia, fornisce scarsi riferimenti di catalogazione critica. Un diverso approccio all’interpretazione artistica del Novecento può ottenersi ricorrendo a categorie dell’ambito culturale più generali. In particolare, con riferimento agli inizi del Novecento, le categorie critiche più agevoli risultano soprattutto tre: 1. la comunicazione 2. la psicologia 3. il relativismo. 1. La comunicazione La comunicazione è quell’atto mediante il quale si ottiene una trasmissione di informazioni da un soggetto (emittente) ad un altro soggetto (ricevente). Il mezzo di trasmissione della comunicazione è il linguaggio. Affinché avvenga una comunicazione, condizione essenziale è che il linguaggio deve essere conosciuto da entrambi i soggetti: l’emittente ed il ricevente. Nell’ambito dell’arte molti possono essere i linguaggi utilizzabili: dalle parole (poesia) alle immagini (pittura), dai suoni (musica) ai movimenti del corpo (danza) e così via. Alcuni linguaggi posseggono una universalità, quali la musica, che possono in genere essere compresi da tutti. Altri linguaggi richiedono una conoscenza specifica: per poter leggere una poesia bisogna conoscere la lingua in cui è stata scritta. Le immagini possono essere considerate un linguaggio anch’esso universale, purché esse rimangano nell’ambito della rappresentazione naturalistica. Ricordiamo che definiamo «naturalistiche» quelle immagini che propongono una rappresentazione della realtà simile a quella che i nostri occhi propongono al cervello. Le immagini naturalistiche rispettano i meccanismi fondamentali della visione umana: la prospettiva, il senso della tridimensionalità, la colorazione tonale data dalla luce, e così via. Il naturalismo è sempre rappresentazione della realtà in quanto ne segue le leggi fondamentali di strutturazione. La gran parte dell’arte occidentale ha sempre utilizzato il naturalismo per la 67
rappresentazione artistica. Ciò ha permesso all’arte figurativa di essere un mezzo di comunicazione più popolare e diffuso che non la scrittura. Nel corso dell’Ottocento, la nascita prima della fotografia e poi della cinematografia, ha permesso la riproduzione della realtà con strumenti tecnici pressoché perfetti. Ciò ha decisamente tolto alla pittura uno dei suoi scopi ritenuti specifici: quello di riprodurre in immagini la realtà. Se la cosa poteva apparire negativa, di fatto ha imposto alla pittura una diversa impostazione del suo fare. Abbandonato il terreno della rappresentazione, e quindi del naturalismo, l’arte figurativa ha cominciato ad esplorare i vasti ed inediti territori della comunicazione. In sostanza, l’arte moderna non ha più interesse a «rappresentare» la realtà. L’arte moderna usa le forme per «comunicare» pensieri, idee, emozioni, ricordi e quanto altro può risultare significativo. Pertanto, nell’approccio all’arte moderna, non bisogna mai porsi l’interrogativo, guardando un’opera d’arte, cosa essa rappresenti ma cosa essa comunichi. Tuttavia, la comunicazione richiede sempre un linguaggio che deve essere noto sia all’artista sia al fruitore dell’opera. Il naturalismo, abbiamo detto, è un linguaggio universale in quanto rispetta le regole universali della visione umana. L’arte moderna, abbandonando il naturalismo, di fatto abbandona il linguaggio comunicativo più diffuso e popolare. E così è costretta, ogni volta, ad inventarsi un nuovo linguaggio. Con il rischio che i linguaggi nuovi non vengono sempre assimilati e compresi, producendo di fatto l’incomprensibilità del messaggio che l’artista voleva trasmettere. E ciò produce un singolare paradosso: l’arte moderna vuole solo comunicare ma per far ciò sceglie spesso la strada della incomunicabilità. O, per lo meno, impone, prima di capire il messaggio, la necessità di studiare il nuovo linguaggio utilizzato dall’artista. Ciò comporta che l’arte moderna necessita di un approccio «colto». Solo studiando da vicino le problematiche, connesse ai movimenti ed ai singoli artisti, diviene possibile comprendere il significato di un’opera d’arte. 2. La psicanalisi La nascita della psicanalisi, grazie a Sigmund Freud, ha rivoluzionato il concetto dell’interiorità umana. Se prima l’articolazione della psiche veniva posta sul dualismo ragione-sentimento, ora viene spostata sul dualismo coscienza-inconscio. L’inconscio è quella parte della nostra psiche in cui sono collocati pensieri ed emozioni nascoste, le quali, senza che l’individuo se ne renda conto, interagiscono con la sua coscienza orientando o influenzando le sue preferenze, motivazioni e scelte esistenziali. L’aver individuato questo nuovo territorio dell’animo umano ha aperto notevoli possibilità all’arte moderna. Il linguaggio delle parole, essendo un linguaggio logico, consente la comunicazione più immediata e diretta con la coscienza delle persone, ove di fatto ha sede la razionalità umana. Il linguaggio delle immagini, data la sua natura di linguaggio analogico, si presta meglio ad esplorare, o a comunicare, con l’inconscio delle persone. Alcuni movimenti artistici sono nati proprio con l’intenzione di tradurre in immagini ciò che ha sede nell’inconscio. Tra tutti, chi ha scelto con maggior impegno questa strada è stato soprattutto il Surrealismo. Ma tale interesse ha alimentato anche la poetica di altri movimenti avanguardistici dell’inizio secolo, quali l’Espressionismo e l’Astrattismo.
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Tuttavia, rimane costante a tutti i movimenti del Novecento, la finalità di una comunicazione che sia «totale»: ossia, giunga anche ai territori più profondi e recessi della psiche umana. 3. Il relativismo Nel corso del Novecento si assiste ad una sempre maggiore frantumazione delle epistemologie forti. Cadono le certezze, sia dovute alla religione, sia quelle riposte nella scienza, sia quelle della politica o della filosofia. L’uomo si sente sempre più immerso in un mondo incerto, dove tutto è relativo. A questa conclusione sembra giungere anche la scienza che, con la Teoria della Relatività di Einstein, porta a riconsiderare tutto l’impianto di certezze fisse su cui era costruito l’edificio della fisica. Ad analoghe posizioni giungono gli scrittori, quali Luigi Pirandello, che con le sue opere letterarie e teatrali vuole dimostrare come la verità sia solo un «punto di vista» che varia da persona a persona. In campo filosofico la comparsa dell’esistenzialismo contribuisce a ridefinire la realtà solo in rapporto al singolo individuo. Questo nuovo clima culturale non poteva non incidere sul panorama artistico. Venuta meno la certezza di una verità assoluta, ogni sperimentazione sembra muoversi nel campo di una preventiva ricerca di sé. Nasce l’esigenza di manifestare preventivamente le proprie intenzioni per dare le coordinate entro cui collocare la nuova esperienza estetica. E ne è la riprova il fatto che quasi tutti i movimenti avanguardistici dei primi anni del secolo nascono con dichiarazioni programmatiche, quali i manifesti, che servono proprio a questo scopo. In seguito, la ulteriore frammentazione della ricerca artistica, rimette in gioco anche la partecipazione del fruitore dell’opera d’arte, al quale si chiede una partecipazione attiva alla significazione del fare artistico. In questo caso, l’arte, più che dare delle risposte, propone delle domande, lasciando il senso di quanto proposto alla libera, e a volte diversa, interpretazione del pubblico e dei critici. La necessità di un rapporto così problematico all’arte contribuisce in maniera, a volte decisiva, a rendere l’arte moderna sempre meno popolare e sempre più élitaria. V.1.2 Le avanguardie storiche I numerosi movimenti artistici sorti all’inizio del Novecento sono stati tutti caratterizzati da una volontà di rottura con il passato. Questa forte carica di rinnovamento li ha di fatto posti in prima linea nell’ambito delle nuove ricerche artistiche. Ciò ha determinato l’appellativo, dato a questi movimenti, di «avanguardie». Tutto il Novecento, in realtà, è stato caratterizzato da un clima di sperimentazione continua. Ma, per delimitare quelli che sono stati i primi movimenti di rinnovamento, vi è la convenzione di definirli «avanguardie storiche». Lo spazio temporale di questo fenomeno coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale. Le prime avanguardie sorgono intorno al 1905, con l’Espressionismo; le ultime agli inizi degli anni ’20, con il Surrealismo (1924). Parigi, nel corso del XIX secolo, si era affermata come la capitale europea in campo artistico. Il fenomeno delle avanguardie storiche interessa invece tutta l’Europa, anche se Parigi continua a conservare un ruolo determinante nel campo artistico. Le prime due avanguardie sorsero infatti nella capitale francese. Nel 1905, si costituì il gruppo dei Fauves, che rappresenta il primo movimento di ispirazione espressionistica. Nello stesso anno l’Espressionismo si diffuse soprattutto
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in Germania e nei paesi nordici. Nel 1907, grazie a Picasso e Braque, sempre a Parigi sorse il movimento del Cubismo. Anche il Futurismo, che è un’avanguardia decisamente italiana, partì da Parigi. Qui, infatti, sul quotidiano Le Figaro, Filippo Tommaso Marinetti pubblicò nel 1909 il «Manifesto del Futurismo». Il Cubismo e il Futurismo produssero influenze notevoli in Russia dove in quegli anni sorsero movimenti quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo. Anche la seconda avanguardia italiana di quegli anni, la Metafisica, in embrione nacque a Parigi, dove Giorgio De Chirico, il massimo rappresentante del movimento, svolse parte della sua attività giovanile. Una cesura notevole nello sviluppo delle avanguardie fu determinato dallo scoppio, nel 1914, della prima guerra mondiale. Numerosi artisti furono costretti a partire per il fronte bellico e molti di essi morirono in guerra. A Zurigo, nella neutrale Svizzera, si rifugiarono numerosi artisti ed intellettuali e qui nacque, nel 1916, il movimento di maggior rottura tra le avanguardie storiche: il Dadaismo. Dal Dadaismo e dalla Metafisica, nel 1924, nacque quella che viene considerata l’ultima delle avanguardie storiche: il Surrealismo. Anche qui, il centro di maggior irradiamento del nuovo movimento fu soprattutto Parigi e la Francia. Infine, pur se non può essere considerato un movimento omogeneo e compatto, le avanguardie storiche produssero il fenomeno di maggior novità nell’arte del Novecento: l’Astrattismo. L’abbandono definitivo della mimesi naturalistica avvenne intorno al 1910, grazie soprattutto ad un artista di origine russa, ma operante in Germania: Wassilj Kandinskij. La sua formazione artistica è di matrice espressionistica, tanto che l’Astrattismo, nella sua fase iniziale, può essere considerato un estremo limite dell’Espressionismo. In seguito, l’Astrattismo conobbe sviluppi notevolissimi, divenendo, soprattutto nel secondo dopoguerra, terreno fertile per numerose sperimentazioni, che attraverso l’arte Informale e l’arte Concettuale, arrivano fino ai giorni nostri. Il fenomeno delle avanguardie si spense intorno agli anni ’30. La foga rinnovatrice aveva momentaneamente esaurito la sua carica rivoluzionaria. A questo momento di pausa artistica corrispose, in quegli anni, l’affermazione, in campo politico, di regimi totalitari e reazionari, quali il fascismo in Italia e il nazismo in Germania, che si fecero fautori di un indirizzo artistico di stampo tradizionalistico e accademico. Avversarono apertamente i nuovi stili artistici, arrivando in Germania a definirli «arte degenerata», eliminandola dai musei e dalle collezioni statali. Molti esponenti artistici, che avevano operato in Germania, furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti dove trasferirono molte delle novità culturali prodotte in Europa. Un fenomeno analogo accadde in Russia dove, sotto Stalin, si affermò un indirizzo artistico, definito «realismo socialista», che rifiutava la sperimentazione in favore di un’arte di matrice popolare con forti contenuti ideologici. Ma le avanguardie storiche avevano oramai totalmente modificato il concetto di arte visiva. In pochi anni avevano accumulato un patrimonio enorme di idee e di concetti che divennero la vera eredità per tutti i futuri movimenti che si sono sviluppati in campo artistico fino ai giorni nostri.
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ESPRESSIONISMO PARAGRAFI V.2.1 Significato generale di espressionismo V.2.2 Differenza con l’impressionismo V.2.3 Henry MATISSE V.2.4 Ernest Ludwig KIRCHNER V.2.1 Significato generale di espressionismo Il termine espressionismo indica, in senso molto generale, un’arte dove prevale la deformazione di alcuni aspetti della realtà, così da accentuarne i valori emozionali ed espressivi. In tal senso, il termine espressionismo prende una valenza molto universale. Al pari del termine «classico», che esprime sempre il concetto di misura ed armonia, o di «barocco», che caratterizza ogni manifestazione legata al fantasioso o all’irregolare, il termine «espressionismo» è sinonimo di deformazione. Nell’ambito delle avanguardie storiche con il termine espressionismo indichiamo una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, che divenne la nazione che più si identificò, in senso non solo artistico, con questo fenomeno culturale. Alla nascita dell’espressionismo contribuirono diversi artisti operanti negli ultimi decenni dell’Ottocento. In particolare possono essere considerati dei pre-espressionisti Van Gogh, Gauguin, Munch ed Ensor. In questi pittori sono già presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche dell’espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la drammaticità dei contenuti. Il primo movimento che può essere considerato espressionistico nacque in Francia nel 1905: i Fauves. Con questo termine vennero spregiativamente indicati alcuni pittori che esposero presso il Salon d’Automne quadri dall’impatto cromatico molto violento. Fauves, in francese, significa «belve». Di questo gruppo facevano parte Matisse, Vlaminck, Derain, Marquet ed altri. La loro caratteristica era il colore steso in tonalità pure. Le immagini che loro ottenevano erano sempre autonome rispetto alla realtà. Il dato visibile veniva reinterpretato con molta libertà, traducendo il tutto in segni colorati che creavano una pittura molto decorativa. Alla definizione dello stile concorsero soprattutto la conoscenza della pittura di Van Gogh e Gauguin. Da questi due pittori i fauves presero la sensibilità per il colore acceso e la risoluzione dell’immagine solo sul piano bidimensionale. Nello stesso 1905 che comparvero i Fauves si costituì a Dresda, in Germania, un gruppo di artisti che si diede il nome «Die Brücke» (il Ponte). I principali protagonisti di questo gruppo furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil Nolde. In essi sono presenti i tratti tipici dell’espressionismo: la violenza cromatica e la deformazione caricaturale, ma in più vi è una forte carica di drammaticità che, ad esempio, nei Fauves non era presente. Nell’espressionismo nordico, infatti, prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la critica ad una società borghese ipocrita e ad uno stato militarista e violento.
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Alla definizione dell’espressionismo nordico fu determinante il contributo di pittori quali Munch ed Ensor. E, proprio da Munch, i pittori espressionisti presero la suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore. Un grido che portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti del tempo. Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco nel 1911: «Der Blaue Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj Kandinskij e Franz Marc. Con questo movimento l’espressionismo prese una svolta decisiva. Nella pittura fauvista, o dei pittori del gruppo Die Brücke, la tecnica era di rendere «espressiva» la realtà esterna così da farla coincidere con le risonanze interiori dell’artista. Der Blaue Reiter propose invece un’arte dove la componente principale era l’espressione interiore dell’artista che, al limite, poteva anche ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui, ad una pittura totalmente astratta, il passo era breve. Ed infatti fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a scegliere la strada dell’astrattismo totale. Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra e Franz Marc, partito per il fronte, morì nel 1916. Alle attività del gruppo partecipò anche il pittore svizzero Paul Klee, che si sarebbe reincontrato con Wassilj Kandiskij nell’ambito della Bauhaus, la scuola d’arte applicata fondata nel 1919 dall’architetto Walter Gropius. All’interno di questa scuola, l’attività didattica di Kandiskij e Klee contribuì in maniera determinante a fondare i principi di una estetica moderna, trasformando l’espressionismo e l’astrattismo da un movimento di intonazione lirica ad un metodo di progettazione razionale di una nuova sensibilità estetica. V.2.2 Differenza con l’impressionismo Il termine espressionismo nacque come alternativa alla definizione di impressionismo. Le differenze tra i due movimenti sono sostanziali e profonde. L’impressionismo rimase sempre legato alla realtà esteriore. L’artista impressionista limitava la sua sfera di azione all’interazione che c’è tra la luce e l’occhio. In tal modo cercava di rappresentare la realtà con una nuova sensibilità, cogliendo solo quegli effetti luministici e coloristici che rendono piacevole ed interessante uno sguardo sul mondo esterno. L’espressionismo, invece, rifiutava il concetto di una pittura sensuale (ossia di una pittura tesa al piacere del senso della vista), spostando la visione dall’occhio all’interiorità più profonda dell’animo umano. L’occhio, secondo l’espressionismo, è solo un mezzo per giungere all’interno, dove la visione interagisce con la nostra sensibilità psicologica. E la pittura che nasce in questo modo, non deve fermarsi all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno. Un’altra profonda differenza divide i due movimenti. L’impressionismo è stato sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla ricerca del bello, e proponeva immagini di indubbia gradevolezza. I soggetti erano scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi piacevoli e vissuta quasi con spensieratezza. Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’espressionismo. La sua matrice di fondo rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol guardare dentro di sé, o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo interno trova l’angoscia, dentro gli altri trova la bruttura mascherata dall’ipocrisia borghese. E per rappresentare tutto ciò, l’artista espressionista non esita a ricorre ad immagini «brutte» e sgradevoli. Anzi, con l’espressionismo il «brutto» diviene una vera e propria categoria estetica, cosa mai prima avvenuta con tanta enfasi nella storia dell’arte occidentale. 72
Da un punto di vista stilistico la pittura espressionista muove soprattutto da Van Gogh e da Gauguin. Dal primo prende il segno profondo e gestuale, dal secondo il colore come simbolo interiore. La pittura espressionistica risulta quindi totalmente antinaturalistica, lì dove l’aderenza alla realtà dell’impressionismo collocava quest’ultimo movimento ancora nei limiti di un naturalismo seppure inteso solo come percezione della realtà. V.2.3 HENRI MATISSE Henri Matisse (1869-1954), pittore francese, è il rappresentante più noto del fauvismo. Il movimento dei Fauves è il contributo francese alla nascita dell’espressionismo. Ma, rispetto agli analoghi movimenti tedeschi, connotati da atmosfere fosche e contenuti drammatici, il fauvismo rappresenta una variante «mediterranea» e solare dell’espressionismo. La vivezza coloristica, che è il vero tratto caratteristico di questo movimento, esprime un’autentica «gioia di vivere» che resterà costante in tutta la produzione di Matisse. Il gruppo dei Fauves, pur non essendo un movimento organico, si riconosceva in alcune comuni convinzioni: soprattutto, il dipinto deve comporsi unicamente di colore. Senza ricercare la verosimiglianza con la natura, il colore deve nascere dal proprio sentire interiore. Il colore viene quindi svincolato dalla realtà che rappresenta ma esprime le sensazioni che l’artista prova di fronte all’oggetto che riproduce. Il fauvismo rappresenta la prima vera rottura con l’impressionismo ed è la prima esperienza moderna che svincola il rapporto tra colore reale delle cose e colore impiegato per la loro rappresentazione pittorica. I presupposti per queste scelte derivarono dalla conoscenza della pittura di Cezanne, Van Gogh e Gauguin. Da Cezanne presero l’idea della scomposizione e ricomposizione non prospettica delle forme, e da Van Gogh e Gauguin l’uso del colore come autonoma espressione interiore. Henri Matisse iniziò la sua attività di pittore a Parigi intorno al 1890. Studiò presso il pittore simbolista Gustave Moreau e presso l’École des Beaux-arts di Parigi. In questi anni conobbe Albert Marquet, André Derain e Maurice de Vlaminck. Dalla loro amicizia nacque il gruppo dei Fauves. La loro prima comparsa pubblica avvenne nel 1905 al Salon d’Automne. Lo stile di Matisse già si definisce in questa fase della sua attività. I suoi quadri sono tutti risolti sul piano della bidimensionalità, sacrificando al colore sia la tridimensionalità, sia la definizione dei dettagli. L’uso del colore in Matisse è quanto di più intenso è vivace si sia mai visto in pittura. Usa colori primari stesi con forza e senza alcuna stemperatura tonale. Ad essi accosta i colori complementari con l’evidente intento di rafforzarne il contrasto timbrico. Ne risulta un insieme molto vivace con un evidente gusto per la decoratività. La sua attività pittorica si svolse per decenni, nel suo quieto ambiente familiare, lontano dai clamori della vita mondana. Svolse la sua ricerca portando il suo stile ad un affinamento progressivo fino a farlo giungere, in tarda età, alle soglie dell’astrattismo. Ma senza mai perdere il gusto per la forza espressiva del colore.
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OPERE Henry Matisse, La danza, 1910 Questo quadro di Matisse, tra i più famosi della sua produzione espressionistica, sintetizza in maniera esemplare la sua poetica e il suo stile. Il quadro trasmette una suggestione immediata. Il senso della danza, che unisce in girotondo cinque persone, è qui sintetizzato con pochi tratti e con appena tre colori. Ne risulta una immagine quasi simbolica che può essere suscettibile di più letture ed interpretazioni. Il verde che occupa la parte inferiore del quadro simboleggia la Terra. Segue la curvatura del nostro mondo e sembra fatto di materiale elastico: il piede di uno dei danzatori imprime alla curvatura una deformazione dovuta al suo peso. Il blu nella parte superiore è ovviamente il cielo. Ma si tratta di un blu così denso e carico che non rappresenta la nostra atmosfera terrestre bensì uno spazio siderale più ampio e vasto da contenere tutto l’universo. E sul confine tra terra e cielo, o tra mondo ed universo, stanno compiendo la loro danza le cinque figure. Le loro braccia sono tese nello slancio di tenere chiuso un cerchio che sta per aprirsi tra le due figure poste in basso a sinistra. Una delle figure è infatti tutta protesa in avanti per afferrare la mano dell’uomo, mentre quest’ultimo ha una torsione del busto per allungare la propria mano alla donna. La loro danza può essere vista come allegoria della vita umana, fatta di un movimento continuo in cui la tensione è sempre tesa all’unione con gli altri. E tutto ciò avviene sul confine del mondo, in quello spazio precario tra l’essere e il non essere. Il vortice circolare in cui sono trascinati ha sia i caratteri gioiosi della vita in movimento, sia il senso angoscioso della necessità di dovere per forza danzare senza sosta. In questo quadro Matisse giunge ad una sintesi totale tra contenuto e forma, riuscendo ad esprimere alcune delle profonde verità che regolano, non solo la vita dell’uomo, ma dell’intero universo. Henry Matisse, Donna con cappello, 1905 Il quadro è stato realizzato solo un anno dopo «Lusso, calma e voluttà», ma si avverte una svolta stilistica quasi radicale. Siamo nel periodo della famosa esposizione al Salon del 1905, quando anche Matisse fu definito «fauve», e il suo stile prende una decisa piega espressionista. I colori sono posti sulla tela in maniera violenta, e quasi sporca. Non vi è alcuna preoccupazione estetica per l’effetto di poca raffinatezza della stesura a pennellate grosse e sovrapposte, e ciò ovviamente suscitò critiche non benevole. Ma l’energia che il quadro trasmette è sicuramente inedita. L’immagine ha una forza espressiva che si può ritrovare solo nelle opere di Van Gogh o Gauguin, due artisti che sono all’origine dell’arte di Matisse. Da notare le pennellate verdi sul volto della donna: sono colori decisamente antinaturalistici, ma che danno forza al volume del volto senza ricorrere a costruzioni chiaroscurali. In pratica la lezione della pittura post-impressionista sull’autonomia del colore, rispetto alla realtà rappresentata, trova ulteriore conferma proprio nella pittura di Matisse.
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Henry Matisse, La stanza rossa, 1908-09 Quadro tra i più famosi di Matisse, «La stanza rossa» è un’immagine vivace ed intensa che porta alle estreme conseguenze la forza del colore dipinto. La quantità di rosso nella scena, presente oltre che sulla tovaglia anche sulle pareti della stanza, crea la sensazione di interno in maniera astratta ma molto suggestiva. Il rosso, infatti, è disposto in maniera talmente piatta ed uniforme da non consentire una facile identificazione dei piani orizzontali e dei piani verticali. Tuttavia crea una sensazione di luce interna molto diffusa e serena. Così come sereno appare l’unico rettangolo non rosso di questa tela: la finestra che si apre su uno scorcio di paesaggio consente la vista di verdi, bianchi, azzurri e gialli che danno la sensazione di una natura calma e tranquilla. Anche l’azione raccontata all’interno della stanza, una cameriera che sta tranquillamente disponendo su una tavola frutta, pane e bevande, trasmette un senso di grande pace e serenità. L’immagine, nel suo complesso, appare quindi come una rappresentazione astratta e simbolica nello stile ma perfettamente aderente alle sensazioni che la situazione in essere universalmente trasmette.
V.2.4 ERNEST LUDWIG KIRCHNER Kirchner (1880-1938) è il rappresentante più importante della prima fase dell’espressionismo in Germania. Egli, dopo aver studiato architettura, comincia a dipingere e nel 1905 è tra i fondatori del gruppo «Die Brucke» insieme a Karl Schmidt-Rottluff, Fritz Bleyl ed Erich Heckel. Qualche anno dopo aderirono al gruppo anche Emil Nolde, Max Pechstein e Otto Mueller. Nel 1910 Kirchner aderì alla Nuova Secessione di Berlino e l’anno successivo si trasferì in questa città e insieme a Pechstein fondò una scuola artistica che però non ebbe alcuna fortuna. Dopo diverse defezioni di amici pittori, nel 1913 Kirchner sciolse il gruppo «Die Brucke». Da questo momento comincia il declino fisico e psicologico di questa singolare figura di artista. L’anno successivo, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, parte volontario per il fronte, ma l’esperienza della guerra lo distrugge nel profondo. Nel 1917 fu congedato per insanità mentale. Gli amici lo portano in Svizzera, a Davos. Qui recuperò parte della sua lucidità, ma l’equilibrio interiore era ormai minato. Nel 1937 i suoi quadri furono esposti nella mostra voluta dai nazisti sull’«arte degenerata». L’anno successivo Kirchner si tolse la vita. OPERE Ernest Ludwig Kirchner, Cinque donne nella strada, 1913 A differenza dei «fauves», l’espressionismo di area tedesca nasce sempre da situazioni più sofferte, che portano a guardare alla realtà con occhio triste e disperato. La realtà non è quella che appare, perché è mascherata da troppe convenzioni e ipocrisie. La verità è dietro le apparenze, ed è una verità che non può essere colta con gli occhi, ma solo con una conoscenza più profonda dell’animo umano. La pittura espressionista tedesca deforma l’aspetto della realtà per renderlo più simile a ciò che l’animo avverte. Così, ad esempio, nei quadri di Kirchner i corpi hanno aspetti sempre spigolosi e taglienti: non ispirano calore umano ma solo freddezza tagliente. Le cinque donne protagoniste di questo quadro non sono molto dissimili da altre donne presenti in altri quadri di Kirchner. Se esse siano delle signore borghesi, o cinque prostitute ferme sotto un lampione in attesa di clienti, non è dato saperlo, ma poco importa. Le spigolosità che le caratterizza, i profili diritti e taglienti, i volti cadaverici, rendono queste cinque donne capaci solo di attrazioni maligne e ferali. 75
Il quadro non ha una spazialità ben definita, benché le cinque donne, nel loro disporsi in angolazioni diversificate, riescono a disegnare un cerchio approssimativo. La gamma cromatica è molto ridotta, dominando nettamente le tonalità del verde, da cui si stacca solo il nero che costruisce e separa dall’ambiente le cinque figure. Una pittura quindi volutamente semplificata, non molto lontana dalle immagini xilografiche molto praticate sia da Kirchner sia dagli altri espressionisti del gruppo «Die Brucke». In questo quadro si ritrovano quindi un po’ tutti gli elementi stilistici tipici dell’espressionismo tedesco: la semplificazione delle forme, l’uso espressivo del colore, le atmosfere cupe e poco allegre, la volontà di una generalizzata denuncia contro una società borghese non amata né stimata, ma soprattutto la volontaria rinuncia alla bellezza come valore tranquillante e consolatorio dell’arte. Valore, quello della bellezza, apprezzato soprattutto dai borghesi, che nell’arte vedevano un idilliaco momento di evasione fantastica, ma che non poteva essere condiviso dagli espressionisti che proprio contro i borghesi rivolgevano la loro arte.
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CUBISMO PARAGRAFI V.3.1 La decostruzione della prospettiva V.3.2 Il tempo e la percezione V.3.3 Pablo PICASSO V.3.1 La decostruzione della prospettiva Il percorso dell’arte contemporanea è costituito di tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale. Nella storia artistica occidentale l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo naturalistico. Ossia, le immagini della pittura devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Il tutto era finalizzato a rispettare il principio della verosimiglianza, attraverso la fedeltà plastica e coloristica. Questi principi, dal Rinascimento in poi, sono divenuti legge fondamentale del fare pittorico, istituendo quella prassi che, con termine corrente, viene definita «accademica». Dall’impressionismo in poi, la storia dell’arte ha progressivamente rinnegato questi principi, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori che, fino a quel momento, sembravano posti al di fuori delle regole. Già Manet aveva totalmente abolito il chiaroscuro, risolvendo l’immagine, sia plastica che spaziale, in soli termini coloristici. Le ricerche condotte dal post-impressionismo avevano smontato un altro pilastro della pittura accademica: la fedeltà coloristica. Il colore, in questi movimenti, ha una sua autonomia di espressione che va al di là della imitazione della natura. Ciò consentiva, ad esempio, di rappresentare dei cavalli di colore blu se ciò era più vicino alla sensibilità del pittore e ai suoi obiettivi di comunicazione, anche se nella realtà i cavalli non hanno quella colorazione. Questo principio divenne, poi, uno dei fondamenti dell’espressionismo. Era rimasto da smontare l’ultimo pilastro su cui era costruita la pittura accademica: la prospettiva. Ed è quando fece Picasso nel suo periodo di attività che viene definito «cubista». Già nel periodo post-impressionista gli artisti cominciarono a svincolarsi dalle ferree leggi della costruzione prospettica. La pittura di Gauguin ha una risoluzione bidimensionale che già la rende antiprospettica. Ma colui che volutamente deforma la prospettiva è Paul Cezanne. Le diverse parti che compongono i suoi quadri sono quasi tutte messe in prospettiva, ma da angoli visivi diversi. Gli spostamenti del punto di vista sono a volte minimi, e neppure percepibili ad un primo sguardo, ma di fatto demoliscono il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista. Picasso, meditando la lezione di Cezanne, portò lo spostamento e la molteplicità dei punti di vista alle estreme conseguenze. Nei suoi quadri le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse e miscelati in una sintesi del tutto originale. Nella prospettiva tradizionale la scelta di un unico punto di vista, imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce 77
della realtà. Nei quadri di Picasso l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista così da ottenere una rappresentazione «totale» dell’oggetto. Tuttavia, questa sua particolare tecnica lo portava ad ottenere immagini dalla apparente incomprensibilità, in quanto risultavano del tutto diverse da come la nostra esperienza è abituata a vedere le cose. E da ciò nacque anche il termine «Cubismo», dato a questo movimento, con intento denigratorio, in quanto i quadri di Picasso sembravano comporsi solo di sfaccettature di cubi. Il Cubismo, a differenza degli altri movimenti avanguardistici, non nacque in un momento preciso né con un intento preventivamente dichiarato. Il Cubismo non fu cercato, ma fu semplicemente trovato da Picasso, grazie al suo particolare atteggiamento di non darsi alcun limite, ma di sperimentare tutto ciò che era nelle sue possibilità. Il quadro che, convenzionalmente, viene indicato come l’inizio del Cubismo è «Les demoiselles d’Avignon», realizzato da Picasso tra il 1906 e il 1907. Subito dopo, nella ricerca sul Cubismo si inserì anche George Braque che rappresenta l’altro grande protagonista di questo movimento che negli anni antecedenti la prima guerra mondiale vide la partecipazione di altri artisti quali Juan Gris, Fernand Léger e Robert Delaunay. I confini del Cubismo rimangono però incerti, proprio per questa sua particolarità di non essersi mai costituito come un vero e proprio movimento. Avendo soprattutto a riferimento la ricerca pittorica di Picasso e Braque, il cubismo viene solitamente diviso in due fasi principali: una prima definita «cubismo analitico» ed una seconda definita «cubismo sintetico». Il cubismo analitico è caratterizzato da un procedimento di numerose scomposizioni e ricomposizioni che danno ai quadri di questo periodo la loro inconfondibile trama di angoli variamente incrociati. Il cubismo sintetico, invece, si caratterizza per una rappresentazione più diretta ed immediata della realtà che vuole evocare, annullando del tutto il rapporto tra figurazione e spazio. In questa fase, compaiono nei quadri cubisti dei caratteri e delle scritte, e infine anche i «papier collés»: ossia frammenti, incollati sulla tela, di giornali, carte da parati, carte da gioco e frammenti di legno. Il cubismo sintetico, più di ogni altro movimento pittorico, rivoluziona il concetto stesso di quadro portandolo ad essere esso stesso «realtà» e non «rappresentazione della realtà». V.3.2 Il tempo e la percezione L’immagine naturalistica ha un limite ben preciso: può rappresentare solo un istante della percezione. Avviene da un solo punto di vista e coglie solo un momento. Quando il cubismo rompe la convenzione sull’unicità del punto di vista di fatto introduce nella rappresentazione pittorica un nuovo elemento: il tempo. Per poter vedere un oggetto da più punti di vista è necessario che la percezione avvenga in un tempo prolungato che non si limita ad un solo istante. È necessario che l’artista abbia il tempo di vedere l’oggetto, e quando passa alla rappresentazione porta nel quadro tutta la conoscenza che egli ha acquisito dell’oggetto. La percezione, pertanto, non si limita al solo sguardo ma implica l’indagine sulla struttura delle cose e sul loro funzionamento. I quadri cubisti sconvolgono la visione perché vi introducono quella che viene definita la «quarta dimensione»: il tempo. Negli stessi anni, la definizione di tempo, come quarta dimensione della 78
realtà, veniva postulata in fisica dalla Teoria della Relatività di Albert Einstein. La contemporaneità dei due fenomeni rimane tuttavia casuale, senza un reale nesso di dipendenza reciproca. Appare tuttavia singolare come, in due campi diversissimi tra loro, si avverta la medesima necessità di andare oltre la conoscenza empirica della realtà per giungere a nuovi modelli di descrizione e rappresentazione del reale. L’introduzione di questa nuova variabile, il tempo, è un dato che non riguarda solo la costruzione del quadro ma anche la sua lettura. Un quadro cubista, così come tantissimi quadri di altri movimenti del Novecento, non può essere letto e compreso con uno sguardo istantaneo. Deve, invece, essere percepito con un tempo preciso di lettura. Il tempo, cioè, di analizzarne le singole parti, e ricostruirle mentalmente, per giungere con gradualità dall’immagine al suo significato. V.3.3 PABLO PICASSO Pablo Picasso (1881-1973) nacque a Malaga, in Spagna, da un padre, insegnante nella locale scuola d’arte, che lo avviò precocemente all’apprendistato artistico. A soli quattordici anni venne ammesso all’Accademia di Belle Arti di Barcellona. Due anni dopo si trasferì all’Accademia di Madrid. Dopo un ritorno a Barcellona, effettuò il suo primo viaggio a Parigi nel 1900. Vi ritornò più volte, fino a stabilirvisi definitivamente. Dal 1901 lo stile di Picasso iniziò a mostrare dei tratti originali. Ebbe inizio il cosiddetto «periodo blu» che si protrasse fino al 1904. Il nome a questo periodo deriva dal fatto che Picasso usava dipingere in maniera monocromatica, utilizzando prevalentemente il blu in tutte le tonalità e sfumature possibili. I soggetti erano soprattutto poveri ed emarginati. Picasso li ritraeva preferibilmente a figura intera, in posizioni isolate e con aria mesta e triste. Ne risultavano immagini cariche di tristezza, accentuata dai toni freddi (blu, turchino, grigio) con cui i quadri erano realizzati. Dal 1905 alla fine del 1906, Picasso schiarì la sua tavolozza, utilizzando le gradazioni del rosa che risultano più calde rispetto al blu. Iniziò quello che, infatti, viene definito il «periodo rosa». Oltre a cambiare il colore nei quadri di questo periodo cambiarono anche i soggetti. Ad essere raffigurati sono personaggi presi dal circo, saltimbanchi e maschere della commedia dell’arte, quali Arlecchino. La svolta cubista avvenne tra il 1906 e il 1907. In quegli anni vi fu la grande retrospettiva sulla pittura di Cezanne, da poco scomparso, che molto influenza ebbe su Picasso. E, nello stesso periodo, come molti altri artisti del tempo, anche Picasso si interessò alla scultura africana, sulla scorta di quella riscoperta quell’esotico primitivo che aveva suggestionato molta cultura artistica europea da Gauguin in poi. Da questi incontri, e dalla volontà di continua sperimentazione che ha sempre caratterizzato l’indole del pittore, nacque nel 1907 il quadro «Les demoiselles de Avignon» che segnò l’avvio della stagione cubista di Picasso. In quegli anni fu legato da un intenso sodalizio artistico con George Braque. I due artisti lavorarono a stretto contatto di gomito, producendo opere che sono spesso indistinguibili tra loro. In questo periodo avvenne la definitiva consacrazione dell’artista che raggiunse livelli di notorietà mai raggiunti da altro pittore in questo secolo. La fase cubista fu un periodo di grande sperimentazione, in cui Picasso rimise in discussione il concetto stesso di rappresentazione artistica. Il passaggio dal cubismo analitico al cubismo sintetico rappresentò un momento fondamentale della sua evoluzione artistica. Il pittore appariva sempre più 79
interessato alla semplificazione della forma, per giungere al segno puro che contenesse in sé la struttura della cosa e la sua riconoscibilità concettuale. La fase cubista di Picasso durò circa dieci anni. Nel 1917, anche a seguito di un suo viaggio in Italia, vi fu una inversione totale nel suo stile. Abbandonò la sperimentazione per passare ad una pittura più tradizionale. Le figure divennero solide e quasi monumentali. Questo suo ritorno alla figuratività anticipò di qualche anno un analogo fenomeno che, dalla metà degli anni ’20 in poi, si diffuse in tutta Europa segnando la fine delle Avanguardie Storiche. Ma la vitalità di Picasso non si arrestò lì. La sua capacità di sperimentazione continua lo portarono ad avvicinarsi ai linguaggi dell’espressionismo e del surrealismo, specie nella scultura, che in questo periodo lo vide particolarmente impegnato. Nel 1937 partecipò all’Esposizione Mondiale di Parigi, esponendo nel Padiglione della Spagna il quadro «Guernica» che rimane probabilmente la sua opera più celebre ed una delle più simboliche di tutto il Novecento. Negli anni immediatamente successivi la seconda guerra mondiale si dedicò con impegno alla ceramica, mentre la sua opera pittorica fu caratterizzata da lavori «d’après»: ossia rivisitazioni, in chiave del tutto personale, di famosi quadri del passato quali «Les meninas» di Velazquez, «La colazione sull’erba» di Manet o «Le signorine in riva alla Senna» di Courbet.
OPERE Pablo Picasso, Les demoiselles d’Avignon, 1907 L’opera che inaugura la stagione cubista di Picasso è il quadro «Les demoiselles d’Avignon». Il quadro è stato realizzato tra il 1906 e il 1907. Le numerose rielaborazioni e ridipinture ne fanno quasi un gigantesco «foglio da schizzo» sul quale Picasso ha lavorato per provare le nuove idee che stava elaborando. Il quadro non rappresenta un risultato definitivo: semplicemente ad un certo punto Picasso ha smesso di lavorarci. Lo abbandona nel suo studio, e quasi per caso suscita la curiosità e l’interesse dei suoi amici. Segno che forse neppure l’artista era sicuro del risultato a cui quell’opera era giunta. Anche il titolo in realtà è posticcio, avendolo attribuito il suo amico André Salmon. Il soggetto del quadro è la visione di una casa d’appuntamento in cui figurano cinque donne. In origine doveva contenere anche due uomini, poi scomparsi nelle successive modifiche apportate al quadro da Picasso. L’analogia più evidente è con i quadri di Cézanne del ciclo «Le grandi bagnanti». Ed è praticamente certo che Picasso modifiche continuamente questo quadro proprio per le sollecitazioni che gli vengono dalla conoscenza delle opere di Cézanne. Il risultato a cui giunge è in realtà disomogeneo. Le due figure centrali hanno un aspetto molto diverso dalle figure ai lati. In queste ultime, specie le due di destra, la modellazione dei volti ricorda le sculture africane che in quel periodo conoscevano un momento di grande popolarità tra gli artisti europei. Ciò che costituisce la grande novità dell’opera è l’annullamento di differenza tra pieni e vuoti. L’immagine si compone di una serie di piani solidi che si intersecano secondo angolazioni diverse. Ogni angolazione è il frutto di una visione parziale per cui lo spazio si satura di materia annullando la separazione tra un corpo ed un altro.
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Le singole figure, costruite secondo il criterio della visione simultanea da più lati, si presentano con un aspetto decisamente inconsueto che sembra ignorare qualsiasi legge anatomica. Vediamo così apparire su un volto frontale un naso di profilo, oppure, come nella figura in basso a destra, la testa appare ruotata sulle spalle di un angolo innaturale. Tutto ciò è comunque la premessa di quella grande svolta, che Picasso compie con il cubismo, per cui la rappresentazione tiene conto non solo di ciò che si vede in un solo istante, ma di tutta la percezione e conoscenza che l’artista ha del soggetto che rappresenta. Pablo Picasso, Guernica, 1937 Guernica è il nome di una cittadina spagnola che ha un triste primato. È stata la prima città in assoluto ad aver subìto un bombardamento aereo. Ciò avvenne la sera del 26 aprile del 1937 ad opera dell’aviazione militare tedesca. L’operazione fu decisa con freddo cinismo dai comandi militari nazisti semplicemente come esperimento. In quegli anni era in corso la guerra civile in Spagna, con la quale il generale Franco cercava di attuare un colpo di stato per sostituirsi al legittimo governo. In questa guerra aveva come alleati gli italiani e i tedeschi. Tuttavia la cittadina di Guernica non era teatro di azioni belliche, così che la furia distruttrice del primo bombardamento aereo della storia si abbatté sulla popolazione civile uccidendo soprattutto donne e bambini. Quando la notizia di un tale efferato crimine contro l’umanità si diffuse tra l’opinione pubblica, Picasso era impegnato alla realizzazione di un’opera che rappresentasse la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Decide così di realizzare questo pannello che denunciasse l’atrocità del bombardamento su Guernica. L’opera di notevoli dimensioni (metri 3,5 x 8) fu realizzata in appena due mesi, ma fu preceduta da un’intensa fase di studio, testimoniata da ben 45 schizzi preparatori che Picasso ci ha lasciato. Il quadro è realizzato secondo gli stilemi del cubismo: lo spazio è annullato per consentire la visione simultanea dei vari frammenti che Picasso intende rappresentare. Il colore è del tutto assente per accentuare la carica drammatica di quanto è rappresentato. Il posto centrale è occupato dalla figura di un cavallo. Ha un aspetto allucinato da animale impazzito. Nella bocca ha una sagoma che ricorda quella di una bomba. È lui la figura che simboleggia la violenza della furia omicida, la cui irruzione sconvolge gli spazi della vita quotidiana della cittadina basca. Sopra di lui è posta un lampadario con una banalissima lampadina a filamento. È questo il primo elemento di contrasto che rende intensamente drammatica la presenza di un cavallo così imbizzarrito in uno spazio che era fatto di affetti semplici e quotidiani. Il lampadario, unito al lume che gli è di fianco sostenuto dalla mano di un uomo, ha evidenti analogie formali con il lampadario posto al centro in alto nel quadro di Van Gogh «I mangiatori di patate». Di questo quadro è l’unica cosa che Picasso cita, quasi a rendere più esplicito come il resto dell’atmosfera del quadro di Van Gogh – la serenità carica di valori umani di un pasto serale consumato da persone semplici – è stata drammaticamente spazzata via. Al cavallo Picasso contrappone sulla sinistra la figura di un toro. È esso il simbolo della Spagna offesa. Di una Spagna che concepiva la lotta come scontro leale e ad armi pari. Uno scontro leale come quello della corrida dove un uomo ingaggia la lotta con un animale più forte di lui rischiando la propria vita. Invece il bombardamento aereo rappresenta quanto di più vile l’uomo possa attuare, perché la distruzione piove dal cielo senza che gli si possa opporre resistenza. La fine di un modo di concepire la guerra viene rappresentato, anche in basso, da un braccio che ha in mano una spada spezzata: la spada, come simbolo dell’arma bianca, ricorda la lealtà di uno scontro che vede affrontarsi degli uomini ad armi pari.
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Il pannello si compone quindi di una serie di figure che, senza alcun riferimento allegorico, raccontano tutta la drammaticità di quanto è avvenuto. Le figure hanno tratti deformati per accentuare espressionisticamente la brutalità dell’evento. Sulla sinistra una donna si dispera con in braccio il figlio morto. In basso è la testa mutilata di un uomo. Sulla sinistra, tra case e finestre, appaiono altre figure. Alcune hanno il volto incerto di chi si interroga cercando di capire cosa sta succedendo. Un’ultima figura sulla destra mostra il terrore di chi cerca di fuggire da case che si sono improvvisamente incendiate. Guernica è l’opera che emblematicamente rappresenta l’impegno morale di Picasso nelle scelte democratiche e civili. E quest’opera è stata di riferimento per più artisti europei, soprattutto nel periodo post-bellico, quale monito a non esentarsi da un impegno diretto nella vita civile e politica. Pablo Picasso, Ambroise Vollard, 1909-10 Ambroise Vollard è stato uno dei maggiori galleristi e mercanti d’arte parigini nel periodo tra fine Ottocento e inizi Novecento. La sua attività è stata molto importante per consentire la conoscenza e la diffusione di molti artisti del periodo postimpressionista e delle avanguardie storiche. In contatto quindi con grandi talenti, di lui ci rimangono numerosi ritratti, tra cui uno eseguito da Paul Cezanne. Tuttavia questo di Picasso, se confrontato con le foto di Vollard, appare straordinariamente somigliante, pur con una tecnica realizzativa molto poco ortodossa per un ritratto. Siamo, ovviamente, nel periodo del cubismo analitico, e lo stile di Picasso si riconosce soprattutto per queste numerose sfaccettature. I suoi quadri appaiono un po’ come un’immagine riflessa in uno specchio rotto, i cui frammenti riflettono porzioni dell’immagine da diverse angolazioni, ma che riescono a comporsi lo stesso nel nostro occhio per farci capire qual è la cosa riflessa dallo specchio in frantumi. Pablo Picasso, Bottiglia di "Vieux Marc", 1913 Opera del periodo sintetico, questa natura morta, come altre dello stesso periodo, rappresenta un momento di sperimentazione artistica molto importante. In pratica, ricorrendo al collage di frammenti veri quali un giornale e un pezzo di carta da parati, per la prima volta, un pittore non si preoccupa di rappresentare aspetti o frammenti della realtà, ma inserisce la realtà stessa nella sua rappresentazione. Dopo che per secoli e millenni la linea di confine tra realtà e rappresentazione era stata sempre rispettata, improvvisamente l’artista varca questa linea, e l’arte cambia improvvisamente di significato. Non è più lo specchio in cui la realtà si riflette, ma l’arte tende a confondersi con la realtà stessa. L’evento, quindi, ha significati e valori ben più profondi che non la semplice invenzione del nuovo mezzo espressivo del "collage".
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IL FUTURISMO
PARAGRAFI V.4.1 La rottura con il passato V.4.2 I manifesti V.4.3 La modernità e la velocità V.4.4 Umberto BOCCIONI V.4.1 La rottura con il passato Il futurismo è un’avanguardia storica di matrice totalmente italiana. Nato nel 1909, grazie al poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, comprendendo sia poeti che pittori, scultori, musicisti, e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei confronti del concetto stesso di arte. Ciò che il futurismo rifiutava era il concetto di un’arte élitaria e decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in avanti, per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità contro l’antico, la velocità contro la stasi, la violenza contro la quiete, e così via. In sostanza il futurismo si connota già al suo nascere come un movimento che ha due caratteri fondamentali: - l’esaltazione della modernità; - l’impeto irruento del fare artistico. Il futurismo ha una data di nascita precisa: il 20 febbraio 1909. In quel giorno, infatti, Marinetti pubblicò sul «Figaro», giornale parigino, il Manifesto del Futurismo. In questo scritto sono già contenuti tutti i caratteri del nuovo movimento. Dopo una parte introduttiva, Marinetti sintetizza in undici punti i principi del nuovo movimento. 1. Noi vogliamo cantar l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti
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dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. 6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e magnificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. 7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo. 8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente. 9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. 10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica. 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. In un altro suo scritto, Marinetti disse come doveva essere l’artista futurista. «Chi pensa e si esprime con originalità, forza, vivacità, entusiasmo, chiarezza, semplicità, agilità e sintesi. Chi odia i ruderi, i musei, i cimiteri, le biblioteche, il culturismo, il professoralismo, l’accademismo, l’imitazione del passato, il purismo, le lungaggini e le meticolosità. Chi vuole svecchiare, rinvigorire e rallegrare l’arte italiana, liberandola dalle imitazioni del passato, dal tradizionalismo e dall’accademismo e incoraggiando tutte le creazioni audaci dei giovani». Il fenomeno del futurismo ha quindi una spiegazione genetica molto chiara. La cultura dell’Ottocento era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile affrancarsi. Oltre ciò, la tarda cultura ottocentesca si era anche caratterizzata per quel decadentismo che proponeva un’arte fatta di estasi pensose quale fuga dalla realtà nel mondo dei sogni. Contro tutto ciò insorse il futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo per costruire un mondo nuovo basato su una nuova estetica. L’adesione al futurismo coinvolse molte delle giovani leve di artisti, tra cui numerosi pittori che crearono nel giro di pochi anni uno stile futurista ben chiaro e preciso. Tra essi, il maggior
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protagonista fu Umberto Boccioni al quale si affiancarono Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo e Carlo Carrà. Il movimento ebbe due fasi, separate dalla prima guerra mondiale. Lo scoppio della guerra disperse molti degli artisti protagonisti della prima fase del futurismo. Boccioni morì nel 1916 in guerra. Carrà, dopo aver incontrato De Chirico, si rivolse alla pittura metafisica e come lui, altri giovani pittori, quali Mario Sironi e Giorgio Morandi, i cui esordi erano stati da pittori futuristi. Nel dopoguerra il carattere di virile forza di questo movimento finì per farlo integrare nell’ideologia del fascismo, esaurendo così la sua spinta rinnovatrice e finire paradossalmente assorbito negli schemi di una cultura ufficiale e reazionaria. Questa sua adesione al fascismo ne ha molto limitato la critica riscoperta da parte della cultura italiana che ha sempre visto questo movimento come qualcosa di folkloristico e provinciale. La sua rivalutazione sta avvenendo solo da pochi anni e solo dopo che soprattutto la storiografia inglese ha storicamente rivalutato questo fenomeno artistico. Il futurismo, tuttavia, nonostante il suo limite di essere un movimento solo italiano, e non internazionale, ha esercitato notevole influenza nel dibattito artistico di quegli anni, contribuendo in maniera determinante alla nascita delle avanguardie russe, quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo. V.4.2 I manifesti Uno dei tratti più tipici del futurismo è proprio la grande produzione di manifesti. Attraverso questi scritti gli artisti dichiaravano i propri obiettivi e gli strumenti per ottenerli. Essi risultano, quindi, molto importanti per la comprensione del futurismo. Da essi è possibile non solo valutare le intenzioni degli artisti, ma anche in che misura le intenzioni si sono attuate nella loro produzione reale. Il primo manifesto sulla pittura futurista risale al 1910. A firmarlo furono Boccioni, Carrà, Russolo, Severini e Balla. In esso non si va molto oltre della semplici enunciazioni di principi che ricalcano gli obiettivi fondamentali del movimento. Si ribadisce il rifiuto del passato, dell’accademismo, delle convenzioni e delle imitazioni. Molto più interessante appare il secondo manifesto che gli stessi artisti redassero l’anno successivo, e datato 11 febbraio 1911. In esso – La pittura futurista. Manifesto tecnico – si legge: Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza delle immagini nella retina, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono. Così un cavallo da corsa non ha quattro gambe: ne ha venti, e i loro movimenti sono triangolari. In questo passo si coglie già uno dei principali fondamenti della pittura futurista: l’intenzione di rappresentare non degli oggetti statici ma degli oggetti in continuo movimento. E cercando soprattutto di rappresentarli conservando l’immagine visiva del loro dinamismo. La sensazione dinamica doveva ricercarsi moltiplicando le immagini, scomponendole e ricomponendole secondo le direzioni del loro movimento.
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Più oltre segue un passo che ci fornisce un altro dei parametri fondamentali della pittura futurista. Lo spazio non esiste più; una strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici s’inabissa fino al centro della terra. Il Sole dista da noi migliaia di chilometri; ma la casa che ci sta davanti non ci appare forse incastonata nel disco solare? […] Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram che corre sono una, dieci, quattro tre: stanno ferme e si muovo; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada, divorate da una zona di sole, indi tornano a sedersi, simboli persistenti della vibrazione universale. E, talvolta, sulla guancia della persona con cui parliamo nella via noi vediamo il cavallo che passa oltre. I nostri corpi entrano nei divani su cui ci sediamo, e i divani entrano in noi, così che il tram che passa entra nelle case, le quali alla loro volta si scaraventano sul tram e con esso si amalgamano. «I nostri corpi entrano nei divani, e i divani entrano in noi»: la frase esprime con estrema chiarezza uno dei tratti più tipici del futurismo: la scelta di intersercare le immagini, arrivando ad una rappresentazione di sintesi dove tutte le cose si compenetrano tra loro creando un nuovo tipo di spazialità. Parte del manifesto è ovviamente dedicata allo stile, affermando che la nuova pittura deve basarsi sulla scomposizione del colore già attuata dai divisionisti. Ma il divisionismo deve essere solo uno strumento, non un fine della rappresentazione. La scomposizione dei colori (che loro definiscono «complementarismo congenito»), non solo deve esaltare la sensazione di dinamicità, ma deve contribuire a quella nuova spazialità dove è proprio la luce, insieme al moto, a far compenetrare gli oggetti tra loro. Il manifesto si conclude con una sintesi finale espressa in quattro punti: NOI PROCLAMIAMO: 1. Che il complementarismo congenito è una necessità assoluta nella pittura, come il verso libero nella poesia e come la polifonia nella musica; 2. Che il dinamismo universale deve essere reso come sensazione dinamica; 3. Che nell’interpretazione della Natura occorre sincerità e verginità; 4. Che il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi. V.4.3 La modernità e la velocità La pittura futurista ha molte analogie con il cubismo e qualche notevole differenza. Il cubismo scomponeva l’oggetto in varie immagini e poi le ricomponeva in una nuova rappresentazione. Il futurismo non intersecava diverse immagini della stessa cosa ma interseca direttamente diverse cose tra loro. Il risultato stilistico a cui si giungeva era, però, molto simile ed affine. Del resto, non bisogna dimenticare che gli artisti futuristi erano ben a conoscenza di ciò che il cubismo faceva in Francia. Non solo perché il futurismo nacque, di fatto, a Parigi con Marinetti, ma anche perché uno di loro, Gino Severini, viveva ed operava nella capitale francese. Ciò che invece distingue principalmente i due movimenti fu soprattutto il diverso valore dato al tempo. Come detto, la dimensione temporale era già stata introdotta nella pittura dal cubismo. Ma si
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trattava di un tempo lento, fatto di osservazione, riflessione e meditazione. Il futurismo ha invece il culto del tempo veloce. Del dinamismo che agita tutto e deforma l’immagine delle cose. È proprio la velocità il parametro estetico della modernità. Del resto il mito della velocità per il futurismo ha degli impeti quasi religiosi. Disse Marinetti in un suo scritto: «Se pregare vuol dire comunicare con la divinità, correre a grande velocità è una preghiera». Nei quadri futuristi, la velocità si traduceva in linee di forza rette che davano l’idea della scia che lasciava un oggetto che correva a grande velocità. Mentre in altri quadri, soprattutto di Balla, la sensazione dinamica era ricercata come moltiplicazione di immagini messe in sequenza tra loro. Così che le innumerevoli gambe che compaiono su un suo quadro non appartengono a più persone, ma sempre alla stessa bambina vista nell’atto di correre («Bambina che corre sul balcone»). V.4.3 UMBERTO BOCCIONI Umberto Boccioni (1882-1916) è stato il maggior esponente del futurismo italiano. Nato a Reggio Calabria, si trasferì a Roma all’età di diciotto anni. Qui iniziò il suo apprendistato artistico prendendo lezioni di disegno e frequentando la Scuola libera del nudo. A Roma Boccioni entrò in contatto con Severini e Sironi ed insieme ai due frequentò lo studio del più anziano Giacomo Balla, da poco rientrato da Parigi. Nel 1907 si trasferì a Venezia e, dopo altri viaggi compiuti a Parigi e in Russia, si stabilì a Milano. In questa fase prefuturista la pittura di Boccioni si modella soprattutto sulla lezione di Balla: la pittura dal vero e la tecnica divisionista. I suoi interessi per la vibrazione del colore e della luce lo portano ad esiti molto vicini all’ambiente divisionista del nord Italia, dove il maggior rappresentante restava Pellizza da Volpedo, scomparso proprio in quegli anni (1907). I soggetti dei quadri di questo periodo, soprattutto nella scelta di periferie urbane in costruzione, anticipano i successivi sviluppi del futurismo. A Milano Boccioni ha anche modo di conoscere la pittura simbolista di Previati e della Secessione viennese e la pittura espressionista tedesca. L’incontro con queste tendenze lo porterà ad attenuare i suoi interessi per il naturalismo e a ricercare una pittura più intensa sul piano psicologico ed espressivo. Nacquero così alcune sue celebri tele, quali il famoso trittico degli «Stati d’animo». Il suo interesse per la psicologia, tuttavia, non ebbe mai i toni decadenti e raffinati della pittura simbolista, ma si concentrò sui temi della interiorità dell’uomo moderno, coniugando a ciò le suggestioni più intense del futurismo. Nel gennaio del 1910 conobbe Marinetti, e l’incontro risultò decisivo per i successivi sviluppi della sua pittura. La sua adesione alle idee futuriste di Marinetti fu immediata e dopo pochi mesi firmò il primo manifesto della pittura futurista. La svolta stilistica avviene con la redazione del quadro «La città che sale» realizzato sempre nel 1910. L’anno successivo fu il principale ispiratore del Manifesto tecnico della pittura futurista. In esso si definisce più chiaramente il parametro fondamentale del futurismo in pittura: la «sensazione dinamica». La scomposizione della luce e del colore si unisce alla scomposizione dei volumi e dello spazio, portando il futurismo ad esiti molto vicini al cubismo. In breve diviene il maggior artista italiano del periodo. Partecipa a numerose manifestazioni in Italia e all’estero. La sua attività si svolge anche sul piano teorico e nel 1914 pubblica due testi fondamentali per comprendere la sua visione artistica: «Pittura Scultura Futuriste» e «Dinamismo plastico».
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Allo scoppio della prima guerra mondiale viene richiamato alle armi. Il 17 agosto del 1916, all’età di soli trentaquattro anni, muore per un banale incidente mentre era nelle retrovie dei campi di battaglia. La sua precoce morte ha privato l’arte moderna di uno degli esponenti più geniali del panorama europeo di quegli anni. La sua attività di pittore si è svolta per un arco di circa dieci anni. In questo periodo Boccioni riesce ad attraversare, e far proprie, le maggiori novità artistiche del periodo, dal divisionismo al futurismo, dall’espressionismo al cubismo. E lo fa con ispirazione tale da consentirgli di produrre opere di sempre elevata qualità. Passa attraverso i territori della psicologia (notevoli sono i suoi quadri intitolati Stati d’animo), pur senza essere un decadente, così come apprende dall’espressionismo la capacità di comunicare, pur senza giungere alle esasperazioni deformistiche di quella corrente. Dal 1911 si dedica alla scultura, nella quale giunge in breve tempo a risultati eccezionali. Nel 1912 redige il Manifesto tecnico della scultura futurista, ma, più che l’attività teorica, appaiono subito straordinari gli esiti a cui giunge con la sua opera. Con la scultura «Forme uniche nella continuità dello spazio» (1913), Boccioni realizza una delle sculture più famose in assoluto di questo secolo. Indaga la deformazione plastica di un corpo umano in movimento, giungendo ad una forma aerodinamica dove il corpo, stilizzato al limite della riconoscibilità, riesce tuttavia a trasmettere una grande sensazione di forza e di potenza. La statua diviene il simbolo stesso dell’uomo futuro, così come lo immaginavano i futuristi: novello Icaro, metà uomo e metà macchina, lanciato in corsa a percorrere il mondo con forza e velocità. OPERE Umberto Boccioni, La città che sale, 1910 Il quadro, realizzato nel 1910, può essere considerata la prima opera pienamente futurista di Boccioni. Il soggetto non si discosta molto da analoghi quadri, realizzati negli anni precedenti, che avevano come soggetto le periferie urbane. Qui, tuttavia, il naturalismo dei quadri precedenti viene meno per lasciare il posto ad una visione più dinamica e movimentata. Solo nella parte superiore del quadro è possibile cogliere una visione da periferia urbana con dei palazzi in costruzione, impalcature e ciminiere. La gran parte del quadro è invece occupata da uomini e cavalli che si fondono in un esasperato sforzo dinamico. Vengono così messi in risalto alcuni elementi tipici del futurismo: l’esaltazione del lavoro umano e l’importanza della città moderna come luogo plasmato sulle esigenze dell’uomo futuro. Ma ciò che rende il quadro un’immagine in linea con lo spirito futurista è soprattutto l’esaltazione visiva della forza e del movimento. Tuttavia, protagonisti di questi sforzi sono uomini e cavalli, non macchine. Questo particolare attesta come Boccioni si muova ancora in coordinate simboliste: l’immagine rende visibile il mito. Ciò che l’artista modifica sostanzialmente è invece proprio il «mito»: non più quello arcaico legato all’esplorazione del mondo psicologico dell’uomo ma il mito dell’uomo moderno come artefice di un mondo nuovo. La tecnica pittorica che egli utilizza è ancora quella del divisionismo. Le pennellate a tratteggio hanno andamenti direzionati funzionali non alla costruzione di masse e volumi ma alla evidenziazione delle linee di forza che caratterizzano i movimenti delle figure. La composizione del quadro conserva ancora un impianto in parte tradizionale. La scansione delle figure avviene su precisi piani di profondità con in basso le figure in primo piano e in alto le immagini sui piani più profondi. Il quadro si divide sostanzialmente in tre fasce orizzontali corrispondenti ad altrettanti 88
piani. Nel primo in basso Boccioni colloca le figure umane: sono realizzate secondo linee oblique per evidenziare lo sforzo dinamico che esse compiono. Nel secondo al centro dominano alcune figure di cavalli. In particolare ne campeggiano tre: uno bianco a sinistra che guarda verso destra, uno al centro che domina la posizione centrale del quadro, ed uno sulla destra. Questi ultimi due hanno una colorazione rossa e sulla groppa presentano dei profili di colore blu che assomigliano ad ali. Infine nel terzo piano compare lo sfondo di una periferia urbana, che va probabilmente identificata con un quartiere in costruzione di Roma. Umberto Boccioni, Stati d’animo. Gli addii, 1911 Che Boccioni sia interessato all’espressione delle interiorità psicologiche viene ampiamente confermato dai suoi trittici intitolati «Stati d’animo». L’opera si compone di tre quadri, intitolati: «Gli addii», «Quelli che vanno», «Quelli che restano». Del trittico, Boccioni ha eseguito due diverse versioni. La prima, risalente al 1910, utilizza ampiamente la tecnica divisionista, dando alle immagini una risoluzione prevalentemente coloristica. Nella seconda versione, posteriore al suo viaggio a Parigi, è invece avvertibile l’influenza della pittura cubista. La prima versione de «Gli addii» è attualmente conservata al Cimac di Milano. La seconda versione è invece in possesso del Museum of Modern Art di New York. Noi ci occuperemo di questa seconda tela. Il quadro ha per contenuto delle persone che si salutano, abbracciandosi, sullo sfondo di treni e paesaggi ferroviari. Il quadro è diviso verticalmente in due parti dall’immagine frontale di una locomotiva a vapore. Nella metà di destra sono visibili diversi vagoni ferroviari, quasi trasparenti e intersecati tra loro, ma di cui sono chiaramente individuabili le linee costruttive di contorno. Nella metà di sinistra appare invece l’immagine di un traliccio della corrente elettrica e la linea ondulata delle colline. È il tipico paesaggio che si coglie, in genere, dal finestrino di un treno in corsa. Anche il numero, scritto al centro, rimanda ad una immagine ferroviaria: esso è realizzato con gli stessi caratteri che contrassegnano i vagoni ferroviari. Nella parte inferiore del quadro si intravedono diverse sagome di persone che si abbracciano e si salutano. Hanno un aspetto molto stilizzato e sono visti da diverse angolazioni. Sembrano smaterializzarsi nel vapore che fuoriesce dalla caldaia del treno a vapore. L’immagine vuole quindi rappresentare la memoria immediata di chi, dopo aver salutato delle persone, inizia un viaggio in treno. Nella sua mente si sovrappongo le immagini del treno, del paesaggio che percepisce in corsa, e il ricordo dei saluti che ha appena scambiato con chi è rimasto nella stazione. L’intersezione e la sovrapposizione di questi elementi avviene con molto equilibrio, ricorrendo sia alle scomposizioni tipiche del cubismo, sia alla compenetrazione dei corpi teorizzata dal futurismo. Ciò che unifica il quadro è la dominante verde, utilizzata in varie gamme, ma sempre su toni spenti. In questo caso il verde ha un valore tipicamente espressionistico: materializza lo stato d’animo sobrio e mesto di chi ha appena intrapreso un viaggio con la sensazione del distacco da persone care. In questo verde Boccioni inserisce il complementare rosso, sempre su tonalità spente, secondo linee ondulate che sembrano materializzare il senso di ondeggiamento del treno in movimento che dà forma ondulata alla percezione della realtà circostante. La grande maestria di Boccioni sta nel sintetizzare, e far proprie, più suggestioni stilistiche, che egli riesce a padroneggiare con misura e sintesi. In questo quadro vi ritroviamo il futurismo, il cubismo, 89
l’espressionismo, tutto miscelato in una tecnica esecutiva che è ancora divisionista. Ma il quadro riesce pienamente nel suo intento di dare immagine a qualcosa di assolutamente immateriale come uno stato d’animo. Umberto Boccioni, Materia, 1912 Quadro di straordinaria qualità formale, è questa una tela che rappresenta un tema molto caro a Boccioni: il ritratto della madre. Qui la imponente figura acquista una monumentalità straordinaria in un’immagine che è al contempo un brano antologico dei principali stili pittorici europei del momento: la vibrazione del colore è ancora di matrice divisionista, la scomposizione per piani angolati è sicuramente cubista, il particolare delle mani intrecciate ed ingigantite della madre è espressionista, mentre il futurismo emerge soprattutto dal taglio dei piani di luce e dall’integrazione pieni-vuoti ed interni-esterni. Da notare il virtuosismo con cui rende contemporaneamente il volto della madre in maniera frontale, di profilo e a tre quarti: segno che Boccioni riusciva a superare anche Picasso sul suo stesso piano, quello della visione simultanea da più punti di vista. Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 L’interesse di Boccioni per la scultura si manifesta nel 1912 con la pubblicazione del "Manifesto tecnico della scultura futurista" e l’anno successivo, con «Forme uniche nella continuità dello spazio», produce un capolavoro plastico di valore assoluto. Il titolo manifesta l’intenzione di Boccioni di sperimentare, attraverso la scultura, la possibilità di rendere unica la percezione di pieni e vuoti, quasi che la materia sia solo una manifestazione accidentale di un’energia dinamica che riempie tutto lo spazio. Ciò avviene soprattutto attraverso l’uso sapiente di cavità e convessità, che scompone il corpo in parti non più plasmate dall’anatomia ma dal dinamismo del movimento. Il senso di potenza che la figura trasmette è decisamente straordinario. La forma antropomorfa senza braccia diviene così il simbolo dell’uomo moderno lanciato a conquistare il futuro. E, probabilmente, in nessun’altra opera come questa, il futurismo raggiunge il suo apice poetico e formale, dimostrando tutta la straordinaria forza di questo movimento, che se non riuscirà a produrre in seguito analoghi capolavori è stato principalmente per la prematura scomparsa di Umberto Boccioni, che ha privato la cultura italiana ed europea di un talento destinato a svolgere ruoli artistici di primissimo piano.
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IL DADAISMO PARAGRAFI V.6.1 Un’arte contro l’arte V.6.2 La poetica del caso V.6.3 I ready-made V.6.4 Marcel DUCHAMP V.6.1 Un’arte contro l’arte Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. La situazione storica in cui il movimento ha origine è quello della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter, e il loro esordio ufficiale viene fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Alcuni di loro sono tedeschi, come il pittore e scultore Hans Arp, altri rumeni, come il poeta e scrittore Tristan Tzara o l’architetto Marcel Janco. Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate organizzate dai futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed originale. Ed in effetti i due movimenti, futurismo e dadaismo, hanno diversi punti comuni (quale l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte) ma anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono tutto sommato favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Questa diversa impostazione conduce ad una facile, anche se non proprio esatta, valutazione per cui il futurismo è un movimento di destra, mentre il dadaismo è di sinistra. Altri punti in comune tra i due movimenti sono inoltre l’uso dei "manifesti" quale momento di dichiarazione di intenti. Ma veniamo ai contenuti principali del dadaismo. Innanzitutto il titolo. La parola Dada, che identificò il movimento, non significava assolutamente nulla, e già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato come una clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di rinnegare la razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa. Il movimento, dopo il suo esordio a Zurigo, si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e quindi a Parigi. Benché il dadaismo è un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la tendenza di far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni, ebbero luogo a New York negli Stati Uniti. L’esperienza dadaista americana nacque dall’incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz.
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Ma la vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire propositiva necessitava di una trasformazione, e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nacque il surrealismo. V.6.2 La poetica del caso Il dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale, e per poter continuare a produrre opere d’arte si affida ad un meccanismo ben preciso: la casualità. Il "caso", in seguito, troverà diverse applicazioni in arte: lo useranno sia i surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, sia gli espressionisti astratti, per giungere a nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Polloch con l’action painting. Ma torniamo al dadaismo. In un suo scritto, il poeta Tristan Tzara descrive il modo dadaista di produrre una poesia. Il passo, che di seguito riportiamo, è decisamente esplicativo del loro modo di procedere. Per fare un poema dadaista. Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano. Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco. Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà. Ed eccovi "uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada". In un suo passo Hans Arp afferma: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria». Si capisce come il dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma, in effetti, nel surrealismo, movimento, quest’ultimo, che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo. V.6.3 I ready-made Un notevole contributo dato alla definizione di una nuova estetica sono i «ready-made». Il termine indica opere realizzate con oggetti reali, non prodotti con finalità estetiche, e presentati come opere d’arte. In pratica i «ready-made» sono un’invenzione di Marcel Duchamp, il quale inventa anche il termine per definirli che in italiano significa approssimativamente «già fatti», «già pronti».
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I «ready-made» nascono ancor prima del movimento dadaista, dato che il primo «ready-made» di Duchamp, la ruota di bicicletta, è del 1913. Essi diventano, nell’ambito dell’estetica dadaista, uno dei meccanismi di maggior dissacrazione dei concetti tradizionali di arte. Soprattutto quando Duchamp, nel 1917, propose uno dei suoi più noti «ready-made»: fontana. In pratica, con i «ready-made» si ruppe il concetto per cui l’arte era il prodotto di una attività manuale coltivata e ben finalizzata. Opera d’arte poteva essere qualsiasi cosa: posizione che aveva la sua conseguenza che nulla è arte. Ma questa evidente tautologia era superata dal capire che, innanzitutto l’arte non deve separarsi altezzosamente dalla vita reale ma confondersi con questa, e che l’opera dell’artista non consiste nella sua abilità manuale, ma nelle idee che riesce a proporre. Infatti, il valore dei «ready-made» era solo nell’idea. Abolendo qualsiasi significato o valore alla manualità dell’artista, l’artista, non è più colui che sa fare delle cose con le proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose, anche per quelle già esistenti. V.6.4 MARCEL DUCHAMP L’artista francese Marcel Duchamp (1887-1968) viene considerato uno dei maggiori rappresentanti del dadaismo, benché egli non abbia mai accettato l’appartenenza a questo gruppo. La cosa, conoscendo il personaggio, non stupisce affatto: la personalità di Duchamp è assolutamente impossibile da inquadrare in un qualsiasi schema. Egli, in realtà, è stato uno dei più grandi artisti del Novecento, proprio per il suo modo di essere. Ha, di fatto, costruito un nuovo prototipo di artista da intendersi come intellettuale sempre pronto a proporsi in maniera inaspettata, anche solo per il piacere di essere diverso dal normale. Ha elevato l’anormalità, intesa come rifiuto di qualsiasi norma, a pratica sia di arte sia di vita. Nato in un paese della Normandia in una famiglia composta da sette figli, insieme ad alcuni fratelli ed una sorella, si avvia alla professione artistica. Sin dall’inizio mostra tuttavia una irrequietezza culturale che lo porta a sommare esperienze in maniera molto eterogenea. Dal 1904 è a Parigi e qui si occupa di cose diverse: esegue caricature per i giornali, si interessa di teatro, gioca a biliardo, lavora presso una biblioteca, viaggia in automobile. Le sue prime esperienze pittoriche mostrano una facilità di assimilazione delle principali novità stilistiche del momento: dal neoimpressionismo al fauvismo, dal simbolismo al futurismo. Ma è soprattutto nell’ambito del cubismo che egli si muove con maggior disinvoltura. Ma nel 1912, il suo quadro «Nudo che scende le scale n. 2» fu rifiutato dal Salon des Indépendants, proprio perché l’opera sembrava più futurista che cubista. Ciò provocò il definitivo distacco di Duchamp dai cubisti. L’opera, tuttavia, l’anno successivo fu esposta a New York, e qui divenne famosa. Nella capitale statunitense Duchamp vi arriva nel 1915 già preceduto dalla notorietà procuratagli dal «Nudo che scende le scale n. 2». In America entra in contatto con il gallerista Alfred Stieglitz ma soprattutto con Man Ray e con Francis Picabia, quest’ultimo già conosciuto a Parigi. Duchamp in questi anni diviene soprattutto un operatore artistico, impegnato più come consulente di collezionisti e gallerie che non come artista. La sua attività, pur saltuaria, non perde mai il gusto della provocazione, e l’invenzione dei «ready-made» ne è uno degli esempi più classici. Ma l’attività americana di quegli anni si concretizza soprattutto nella realizzazione del «Grande Vetro», opera alla quale smette di lavorare, lasciandola incompiuta, nel 1923. Da quest’anno egli smette sostanzialmente di fare l’artista.
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OPERE Marcel Duchamp, Fontana, 1917 Il «ready-made» dal titolo «Fontana» rappresenta il momento di maggior provocazione dell’opera di Duchamp. Nel 1917 egli era negli Stati Uniti e in quell’anno, sul modello del Salon des Indépendants, venne creata la Society of Independent Artists. Duchamp faceva parte del direttivo di questa associazione. Alla mostra organizzata dal gruppo poteva partecipare chiunque, pagando sei dollari, ed esponendo al massimo due opere. Duchamp mise in atto la sua provocazione in incognito. Presentò alla giuria della mostra un orinatoio firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt. La giuria non capì e, sull’imbarazzo di come considerare la cosa, non fece esporre il pezzo. Una fotografia dell’opera fu tuttavia pubblicata sulla rivista «The Blind Man», edita dallo stesso Duchamp, il quale, fingendo di difendere l’ignoto autore dell’opera, scrisse: «Non è importante se Mr. Mutt abbia fatto Fontana con le sue mani o no. Egli l’ha SCELTA. Egli ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto». L’orinatoio originale utilizzato da Duchamp stranamente andò smarrito quando fu smontata la mostra nel 1917. Solo nel 1964 Duchamp autorizzò una replica di quel suo «ready-made» che fu acquistata dal collezionista milanese Arturo Schwarz. Da qualche anno esso è esposto nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. L’idea dei «ready-made» Duchamp l’aveva avuta qualche anno prima, quando era ancora in Francia. Ma dei diversi «ready-made» da lui realizzati, questo rimane di certo il più provocatorio ed irridente al mondo dell’arte. Opera che segna un punto di non ritorno: accettarla tra i capolavori d’arte significa essere disponibili al gioco ironico del non prendersi mai sul serio. Posizione che, tutto sommato, è da considerarsi con grande attenzione. Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913 Storicamente, il primo «ready-made» prodotto da Duchamp è stato «ruota di bicicletta». Egli, nel suo studio a Parigi, decise di montare una ruota di bicicletta su uno sgabello. L’operazione non aveva alcuna finalità precisa, e probabilmente non fu realizzata per essere esposta. Di fatto, egli aveva creato il suo primo ready-made «rettificato». Con tale termine egli distingueva quei readymade sui quali interveniva con qualche intervento minimo, da quelli sui quali non produceva alcun intervento. Del secondo tipo è sicuramente il suo secondo ready-made: uno scolabottiglie che egli acquistò in un negozio. Non rettificato è anche il ready-made «Scultura da viaggio» che in realtà è un badile per spalare la neve.
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IL SURREALISMO PARAGRAFI V.7.1 Il tema del sogno e dell’inconscio V.7.2 La tecnica surrealista dello spostamento del senso V.7.3 Salvador DALÍ V.7.4 René MAGRITTE V.7.5 Alberto SAVINIO V.7.1 Il tema del sogno e dell’inconscio La nascita della psicologia moderna, grazie a Freud, ha fornito molte suggestioni alla produzione artistica della prima metà del Novecento. Soprattutto nei paesi dell’Europa centro settentrionale, le correnti pre-espressionistiche e espressionistiche hanno ampiamente utilizzato il concetto di inconscio per far emergere alcune delle caratteristiche più profonde dell’animo umano, di solito mascherate dall’ipocrisia della società borghese del tempo. Sempre da Freud, i pittori, che dettero vita al Surrealismo, presero un altro elemento che diede loro la possibilità di scandagliare e far emergere l’inconscio: il sogno. Il sogno è quella produzione psichica che ha luogo durante il sonno ed è caratterizzata da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica. O, per meglio dire, possono essere svincolate dalla normale catena logica degli eventi reali, mostrando situazioni che, in genere, nella realtà sono impossibili a verificarsi. Il primo studio sistematico sull’argomento risale al 1900, quando Freud pubblicò : «L’interpretazione dei sogni». Secondo lo studioso il sogno è la «via regia verso la scoperta dell’inconscio». Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo e può quindi liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico. La funzione interpretativa è necessaria per capire il messaggio che proviene dall’inconscio, in termini di desideri, pulsioni o malesseri e disagi. Il sogno propone soprattutto immagini: si svolge, quindi, secondo un linguaggio analogico. Di qui, spesso, la sua difficoltà ad essere tradotto in parole, ossia in un linguaggio logico. La produzione figurativa può, dunque, risultare più immediata per la rappresentazione diretta ed immediata del sogno. E da qui, nacque la teoria del Surrealismo. Il Surrealismo, come movimento artistico, nacque nel 1924. Alla sua nascita contribuirono in maniera determinante sia il Dadaismo sia la pittura Metafisica. Teorico del gruppo fu soprattutto lo scrittore André Breton. Fu egli, nel 1924, a redigere il Manifesto del Surrealismo. Egli mosse da Freud, per chiedersi come mai sul sogno, che rappresenta molta dell’attività di pensiero dell’uomo, visto che trascorriamo buona parte della nostra vita a dormire, ci si sia interessati così poco. Secondo Breton, bisogna cercare il modo di giungere ad una realtà superiore (appunto una surrealtà), in cui conciliare i due momenti fondamentali del pensiero umano: quello della veglia e quello del sogno.
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Il Surrealismo è dunque il processo mediante il quale si giunge a questa surrealtà. Sempre Breton così definisce il Surrealismo: «Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale». L’automatismo psichico significa quindi liberare la mente dai freni inibitori, razionali, morali, eccetera, così che il pensiero è libero di vagare secondo libere associazioni di immagini e di idee. In tal modo si riesce a portare in superficie quell’inconscio che altrimenti appare solo nel sogno. Al Surrealismo aderirono diversi pittori europei, tra i quali Max Ernst, Juan Mirò, René Magritte e Salvador Dalì. Non vi aderì Giorgio De Chirico, che pure aveva fornito con la sua pittura metafisica un contributo determinante alla nascita del movimento, mentre vi aderì, seppure con una certa originalità, il fratello Andrea, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio. V.7.2. La tecnica surrealista dello spostamento del senso Il surrealismo è un movimento che pratica un’arte figurativa e non astratta. La sua figurazione non è ovviamente naturalistica, anche se ha con il naturalismo un dialogo serrato. E ciò per l’ovvio motivo che vuol trasfigurare la realtà, ma non negarla. L’approccio al surrealismo è stato diverso da artista ad artista, per le ovvie ragioni delle diversità personali di chi lo ha interpretato. Ma, in sostanza, possiamo suddividere la tecnica surrealista in due grosse categorie: quella degli accostamenti inconsueti e quella delle deformazioni irreali. Gli accostamenti inconsueti sono stati spiegati da Max Ernst, pittore e scultore surrealista. Egli, partendo da una frase del poeta Comte de Lautréamont: «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», spiegava che tale bellezza proveniva dall’«accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse». In sostanza, procedendo per libera associazione di idee, si uniscono cose e spazi tra loro apparentemente estranei per ricavarne una sensazione inedita. La bellezza surrealista nasce, allora, dal trovare due oggetti reali, veri, esistenti (l’ombrello e la macchina da cucire), che non hanno nulla in comune, assieme in un luogo ugualmente estraneo ad entrambi. Tale situazione genera una inattesa visione che sorprende per la sua assurdità e perché contraddice le nostre certezze. Le deformazioni irreali riguardano invece la categoria della metamorfosi. Le deformazioni espressionistiche nascevano dal procedimento della caricatura, ed erano tese alla accentuazione dei caratteri e delle sensazioni psicologiche. La metamorfosi è invece la trasformazione di un oggetto in un altro, come, ad esempio, delle donne che si trasformano in alberi (Delvaux) o delle foglie che hanno forma di uccelli (Magritte). Entrambi questi procedimenti hanno un unico fine: lo spostamento del senso. Ossia la trasformazione delle immagini, che abitualmente siamo abituati a vedere in base al senso comune, in immagini che ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della realtà.
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V.7.3 SALVADOR DALÍ Salvador Dalí (1904-1989) nacque a Figueras, in Catalogna, nel 1904. A Madrid frequentò l’Accademia di Belle Arti ma nel 1926 ne fu espulso per indegnità. L’anno successivo si recò a Parigi dove venne a contatto con il vivace ambiente intellettuale della capitale francese. Qui conobbe Pablo Picasso, Juan Mirò, André Breton e il poeta Paul Eluard. È il momento di maggior vitalità del movimento surrealista e Dalí ne venne immediatamente coinvolto. Egli infatti vide nelle teorie del movimento la possibilità di far emergere la sua dirompente immaginazione. Rotti i freni inibitori della coscienza razionale, la sua arte portava in superficie tutte le pulsioni e i desideri inconsci, dando loro l’immagine di allucinazioni iperrealistiche. In Dalí non esiste limite o senso della misura, così che la sua sfrenata fantasia, unita ad un virtuosismo tecnico notevole, ne fecero il più intenso ed eccessivo dei surrealisti al punto che nel 1934 fu espulso dal gruppo dallo stesso Breton. Ciò tuttavia non scalfì minimamente la produzione artistica di Dalí, il quale, dopo essersi professato essere lui l’unico vero artista surrealista esistente, intensificò notevolmente l’universo delle sue forme "surreali". Il Surrealismo per Dalí era l’occasione per far emergere il suo inconscio, secondo quel principio dell’automatismo psichico teorizzato da Breton. E a questo automatismo psichico Dalí diede anche un nome preciso: metodo paranoico-critico. La paranoia, secondo la descrizione che ne dà l’artista stesso, è: «una malattia mentale cronica, la cui sintomatologia più caratteristica consiste nelle delusioni sistematiche, con o senza allucinazioni dei sensi. Le delusioni possono prendere la forma di mania di persecuzione o di grandezza o di ambizione». Dunque le immagini che l’artista cerca di fissare sulla tela nascono dal torbido agitarsi del suo inconscio (la paranoia) e riescono a prendere forma solo grazie alla razionalizzazione del delirio (momento critico). Da questo suo metodo nacquero immagini di straordinaria fantasia, tese a stupire e meravigliare grazie alla grande artificiosità della loro concezione e realizzazione. La tecnica di Dalí si rifà esplicitamente alla pittura del Rinascimento italiano, ma da esso prende solo il nitore del disegno e dei cromatismi, non la misura e l’equilibrio formale. Nei suoi quadri prevalgono effetti illusionistici e complessità di meccanismi che rimandano inevitabilmente alla magniloquenza ed esuberanza del barocco iberico. Al 1929 risale il suo legame con Gala Deluvina Diakonoff, moglie del poeta Paul Eluard. Ella fu prima amante e poi moglie di Dalí, divenendo la sua musa ispiratrice. Appare in numerosissimi quadri, per lo più nuda e sensuale, rappresentando nel mondo figurativo di Dalí uno degli ingredienti più certi del suo inconscio: la libido. In seguito la sua pittura tende a trovare una sinteticità più netta, in cui la concentrazione su pochi elementi permette al quadro di esprimere contenuti più chiari ed univoci. È il caso di un quadro come «La persistenza della memoria» dove Dalí crea una delle sue immagini più celebri: quella degli orologi deformi. Al metodo paranoico-critico si collegano una serie di immagini di virtuosistico effetto. Si tratta di immagini doppie, dove la combinazione delle figure fa apparire più cose simultaneamente. Scrisse Dalí: «Attraverso un processo nettamente paranoico è possibile ottenere un’immagine doppia, rappresentazione di un oggetto che, senza la minima modificazione figurativa o anatomica, sia al 97
tempo stesso la rappresentazione di un oggetto assolutamente diverso». In questo gruppo di opere rientrano alcuni dei quadri più famosi di Dalí, quali «Figure paranoiche», «Cigni che riflettono elefanti», «Apparizione di un volto e di una fruttiera sulla spiaggia», «L’enigma senza fine». Nel 1939 si trasferì negli Stati Uniti dove rimane per quasi un decennio. Negli ultimi decenni della sua vita egli ha continuato ad alimentare a dismisura la sua fama di artista eccentrico, originale e a volte delirante, fino a diventare prigioniero del suo stesso personaggio: sempre più scostante, altezzoso e imprevedibile. Dalí si è spento a Figueras il 23 gennaio 1989. OPERE Salvador Dalí, Donna con testa di rose, 1935 Il quadro si compone di un piano di giacitura innaturalmente piano con linee di pavimentazione che materializzano un punto di fuga esattamente dove è posto il piccolo omino bianco, rappresentazione dell’artista stesso. Su questo piano di giacitura si dispongono, nel senso della profondità spaziale, una serie di figure e di oggetti. Una donna in primo piano, dall’accentuata snellezza, è vista di spalle nell’atto di leggere un foglio di carta. Segue una strana sedia, e quindi la donna con la testa di rose che dà il titolo al quadro. Figura ambigua e leggermente inquietante, ha un vestito che lascia scoperta una gamba che ci appare come parte di un manichino inanimato. Alla vita e ad un braccio le si intrecciano delle implausibili cinture a forma di mani maschili. Segue un tavolinetto simile alla sedia più innanzi, l’omino bianco ed una roccia a forma di testa di cane, su cui si innalzano degli alberi. In questo quadro compaiono più riferimenti diretti alla pittura metafisica di De Chirico. Esso è praticamente un’opera «d’aprés» sul quadro dechirichiano «Le muse inquietanti». Vi è anche qui un piano orizzontale, con una fuga prospettica molto accentuata, su cui si stagliano ombre molto nette e lunghe. Una delle due donne, quella con la testa di rose, è in parte un manichino. I cubi colorati, che De Chirico utilizza per far sedere i manichini, qui diventano degli strani oggetti antropomorfici deformi, fatti di cristallo. Sullo sfondo non vi è il castello di Ferrara, ma una strana roccia a forma di testa di cane con degli alberi sopra. La statua bianca, infine, qui diviene il bianco omino che guarda verso la roccia. Le metamorfosi che mette in atto Dalí servono a creare uno strano senso di continuità tra mondo umano, animale, vegetale e inanimato, dove ogni cosa prende l’aspetto di pertinenza di un altro ambito. Così le cose inanimate hanno aspetto umano o animale, mentre le parti umane prendono l’aspetto vegetale o inanimato, e così via. Il confronto tra il quadro di Dalí e quello di De Chirico rende in modo molto esplicito la differenza che passa tra la poetica metafisica e quella surrealista. «Le muse inquietanti» di De Chirico ci mostrano il mondo di sempre, ma con l’inquietante novità che assume nel momento (metafisico) che la vita e il tempo tende a rarefarsi e scomparire. L’immagine di Dalí ci mostra invece un altro mondo dove la realtà si contamina con le nostre pulsioni inconsce ed oniriche per dare a questo mondo (surreale) la maggiore e più intensa vitalità possibile. Salvador Dalí, Apparizione di un volto e di una fruttiera su una spiaggia, 1938 Quadro di notevole complessità, appartiene a quella produzione di immagini doppie, in cui gli stessi elementi appartengono a più figure realizzati a scale diverse. La ricerca delle molteplici 98
composizioni diviene quasi un gioco di abilità, che induce ad apprezzare il virtuosismo di Dalí nel realizzare simili invenzioni. In questa tela quattro sono le composizioni presenti e intrecciate: un cane, un volto, una natura morta rappresentata da una fruttiera su un tavolo ed infine un paesaggio nel quale sono ancora riconoscibili altre storie. Queste immagini erano uno dei prodotti di quel metodo da Dalí definito paranoico-critico. Salvador Dalí, La persistenza della memoria, 1931 Sicuramente uno dei quadri più famosi di Dalí, nel quale l’invenzione degli «orologi molli» diviene una felice intuizione di grande fascino. Il tempo, inteso nella razionale successione di istanti meccanicamente determinati, viene messo in crisi dalla memoria umana, che del tempo ha una percezione che, in fondo, tanto razionale non è. La dilatazione o la contrazione del senso del tempo è una caratteristica che dipende dalla singola individualità, ma è sensazione certamente universale quella di avvertire lo scorrere del tempo secondo metri assolutamente personali. Salvador Dalí, Sogno causato dal volo di un’ape, 1944 Immagine, tra le tante, in cui compare Gala la moglie di Dalí. L’ispirazione del quadro venne a Dalí dalla puntura di un’ape mentre stava dormendo. Il momento del dolore avvenne quindi in un istante di incoscienza, e produsse quindi una serie di sensazioni ingigantite dalla mancanza momentanea della coscienza di quanto stava avvenendo. L’immagine è una simultanea rappresentazione di istanti precedenti e posteriori: l’istante della puntura è dato dalla punta della baionetta che sta per trafiggere il braccia della donna nuda, l’istante del dolore è invece rappresentato dall’irrompere di allucinazioni quali le tigri inferocite che fuoriescono dalla bocca di un pesce che a sua volta sorge da un melograno. Da notare l’elefante, con l’obelisco sulla groppa, e con le gambe di insetto, che riesce a camminare sul pelo dell’acqua: altra allucinazione che ritornerà spesso in altri quadri di Dalí. V.7.4 RENÉ MAGRITTE Il pittore belga René Magritte (1898-1967) è tra i pittori surrealisti più originali e famosi. Dopo aver studiato all’Accademia di Bruxelles, i suoi inizi di pittore si muovono nell’ambito delle avanguardie del Novecento, assimilando influenze dal cubismo e dal futurismo. Secondo quando egli stesso ha scritto, la svolta surrealista avvenne dopo aver visto il quadro di De Chirico «Canto d’amore», dove sul lato di un edificio sono accostati la testa enorme di una statua greca e un gigantesco guanto di lattice. Nel 1926 prese contatto con Breton, capo del movimento surrealista, e l’anno successivo si trasferì a Parigi, per restarvi tre anni. Dopo di che la sua vita artistica si è svolta interamente in Belgio. Magritte è l’artista surrealista che, più di ogni altro, gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia gli accostamenti inconsueti, sia le deformazioni irreali. Ciò che invece è del tutto estraneo al suo metodo è l’automatismo psichico, in quanto egli, con la sua pittura, non per vuole far emergere l’inconscio dell’uomo ma vuole svelare i lati misteriosi dell’universo. Ed è proprio su questo punto che la sua poetica conserva lati molto affini con quelli della Metafisica. I suoi quadri sono realizzati in uno stile da illustratore, di evidenza quasi infantile. Volutamente le sue immagini conservano un aspetto "pittorico", senza alcuna ricerca di illusionismo fotografico. Già in ciò si avverte una delle costanti poetiche di Magritte: l’insanabile distanza che separa la 99
realtà dalla rappresentazione. E spesso il suo surrealismo nasce proprio dalla confusione che egli opera tra i due termini. È il caso del quadro «Ceci n’est pas une pipe», dove una riproduzione perfetta di una pipa è accompagnata dalla scritta "questa non è una pipa". L’iniziale mistero di una simile incongruenza va ovviamente sciolto nella constatazione che un quadro, anche se rappresenta una pipa, è qualcosa di molto diverso da una pipa reale. In altri quadri Magritte gioca con il rapporto tra immagine naturalistica e realtà, proponendo immagini dove il quadro nel quadro ha lo stesso identico aspetto della realtà che rappresenta, al punto da confondersi con esso. Di notevole suggestione poetica sono anche i suoi accostamenti o le sue metamorfosi. Combina, nel medesimo quadro, cieli diurni e paesaggi notturni. Accosta, sospesi nel cielo, una nuvola ed un enorme masso di pietra. Trasforma gli animali in foglie o in pietra. Il suo surrealismo è dunque uno sguardo molto lucido e sveglio sulla realtà che lo circonda, dove non trovano spazio né il sogno né le pulsioni inconsce. L’unico desiderio che la sua pittura manifesta è quello di "sentire il silenzio del mondo", come egli stesso scrisse. In ciò quindi il surrealismo di Magritte si colloca agli antipodi di quello di Dalí, mancandovi qualsiasi esasperazione onirica o egocentrica. OPERE René Magritte, Le passeggiate di Euclide, 1955 Il quadro appartiene ad una numerosa serie che Magritte ha realizzato sul tema del quadro nel quadro. In esso è raffigurato l’interno di una stanza in cui si apre una finestra. Davanti la finestra è collocato un cavalletto e su di esso una tela che riproduce fedelmente una porzione dell’immagine esterna incorniciata dalla finestra. Il quadro è così fedele che diventa quasi impercettibile: lo si riconosce giusto per una sottile linea bianca sulla sinistra che corrisponde allo spessore del telaio su cui è montata la tela. Già questa coincidenza tra immagine reale e riproduzione pittorica induce ad un attimo di perplessità. La nostra esperienza sa che è impossibile confondere un’immagine tridimensionale con una bidimensionale, ma se qui appare possibile è perché di fatto anche l’immagine "reale" è in realtà un’immagine pittorica: una cosa del genere, in sostanza, può avvenire solo in un quadro. Il titolo, con il richiamo al noto matematico greco Euclide, allude alle geometrie dei due elementi di spicco del quadro nel quadro: due triangoli dove quello a sinistra è il tetto di una torre cilindrica e quello a destra è un viale cittadino tra due file di caseggiati. I due triangoli hanno la stessa forma e dimensione, pur rappresentando due elementi completamenti diversi: un cono quello a sinistra, una lunga striscia rettangolare piana vista in prospettiva quella a destra. Anche in questo caso Magritte gioca sul rapporto tra realtà e rappresentazione, dove la seconda, per essere bidimensionale, può confondere l’apparenza di ciò che nella realtà è tridimensionale. In questo sottile gioco che Magritte instaura tra l’essere e l’apparire, il compito della pittura non è far vedere, ma far pensare. Anche lo stile, tipico di Magritte, rientra in questo obiettivo: pur nella nitidezza fotografica, l’immagine non perde la sua apparenza di dipinto, e ciò contribuisce a tener separata la realtà dalla rappresentazione. Il mondo dell’arte, in sostanza, è altro rispetto al mondo
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reale, e solo in esso possiamo trovare delle possibilità che reali non sono, ma che meglio ci aiutano a comprendere e penetrare i misteri della realtà. René Magritte, Questa non è una pipa, 1948 Il rapporto tra linguaggio ed immagine, ovvero tra rappresentazioni logiche ed analogiche, è un tema sul quale Magritte gioca con grande intelligenza ed ironia. In questo caso, guardando l’immagine di una pipa e leggendo la scritta sottostante che dice: "questa non è una pipa", la prima reazione è di chiedersi: "ma allora, cosa è?". Il sottile inganno si svela ben presto, se si riflette che si sta guardando solo un’immagine, non l’oggetto reale che noi chiamiamo "pipa". Magritte, anche in questo caso, tende a giocare con la confusione tra realtà e rappresentazione, per proporci un nuova riflessione sul confine, non sempre coscientemente chiaro, tra i due termini.
René Magritte, L’impero delle luci, 1954 Quadro straordinario per la sensazione atmosferica che riesce a comunicare. Immagine quasi fin troppo semplice, che lascia la perplessità del perché riesce ad affascinare. In realtà nel quadro Magritte opera un accostamento tra momenti diversi: la metà superiore, il cielo, è vista di giorno; la metà inferiore, dove è la casa con il lampione acceso, è un’immagine notturna. È proprio questa diversità di luci che, passando quasi inosservata, riesce a creare un’atmosfera inedita e affascinante.
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L’ASTRATTISMO PARAGRAFI V.8.1 Il significato di astratto e di astrazione V.8.2 L’interpretazione gestaltica e l’interpretazione esistenziale V.8.3 Wassilj KANDINSKIJ V.8.4 Paul KLEE V.8.1 Il significato di astratto e di astrazione Nelle arti figurative il concetto di astratto assume il significato di «non reale». L’arte astratta è quella che non rappresenta la realtà. L’arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra esperienza visiva. Essa, cioè, cerca di esprimere i propri contenuti nella libera composizione di linee, forme, colori, senza imitare la realtà concreta in cui noi viviamo. L’astratto, in tal senso, nasce agli inizi di questo secolo. Ma esso era già presente in molta produzione estetica precedente, anche molto antica. Sono astratte sia le figurazioni che compaiono sui vasi greci più antichi, sia le miniature altomedievali, solo per fare alcuni esempi. In questi casi, però, la figurazione astratta aveva un solo fine estetico ben preciso: quello della decorazione. L’arte astratta di questo secolo ha, invece, un fine completamente diverso: quello della comunicazione. Vuole esprimere contenuti e significati, senza prendere in prestito nulla dalle immagini già esistenti intorno a noi. All’astratto si è arrivati mediante un processo che può essere definito di astrazione. Il concetto di astrazione è molto generale, ed esprime un procedimento mediante il quale l’intelletto umano descrive la realtà solo in alcune sue caratteristiche. Da processi di astrazione nascono le parole, i numeri, i segni, e così via. Nel campo delle immagini, i segni, intesi come simboli che rimandano a cose o idee, è già un modo "astratto" di rappresentare la realtà. Nel campo dell’astrazione entrano anche la stilizzazioni che, ad esempio, proponeva l’arte liberty. Ed, ovviamente, tutta l’esperienza estetica delle avanguardie storiche è un modo tendenzialmente astratto di rappresentare la realtà. La scomposizione di una bottiglia, ad esempio, che effettua Picasso, gli consente di giungere ad una rappresentazione "astratta" di quella bottiglia. Ma nel suo quadro la bottiglia, intesa come realtà esistente, rimane presente. L’astrattismo nasce, invece, quando nei quadri non vi è più alcun riferimento alla realtà. Nasce quando i pittori procedono in maniera totalmente autonoma rispetto alle forme reali, per cercare e trovare forme ed immagini del tutto inedite e diverse da quelle già esistenti. In questo caso, l’astrattismo ha un procedimento che non è più definibile di astrazione, ma diviene totale invenzione. L’astrattismo nasce intorno al 1910, grazie al pittore russo Wassilj Kandinskij. Egli operava, in quegli anni, a Monaco dove aveva fondato il movimento espressionistico «Der Blaue Reiter». Il suo 102
astrattismo conserva infatti una matrice fondamentalmente espressionistica. È teso a suscitare emozioni interiori, utilizzando solo la capacità dei colori di trasmettere delle sensazioni. Da questo momento, la nascita dell’astrattismo ha la forza di liberare la fantasia di molti artisti, che si sentono totalmente svincolati dalle norme e dalle convenzioni fino ad allora imposte al fare artistico. I campi in cui agire per nuove sperimentazioni si aprono a dismisura. E le direzioni in cui si svolge l’arte astratta appaiono decisamente eterogenee, con premesse ed esiti profondamente diversi. Nel campo dell’architettura e del design, l’arte astratta smuove finalmente un grosso vincolo che aveva condizionato tutta la produzione ottocentesca: quella di mascherare le cose e gli edifici, con una "pelle" stilistica a cui affidare la riuscita estetica del manufatto. L’arte astratta sembra dire che può esistere un’estetica delle cose che nasce dalle cose stesse, senza che esse debbano necessariamente imitare qualcosa di altro. E come l’arte astratta possa divenire metodo di una nuova progettazione estetica, nell’architettura e nelle arti applicate, è un processo che si compie nella Bauhaus, negli anni ’20 e ’30, e che vede protagonista ancora Wassilj Kandinskij. Ma l’idea, che l’astratto potesse servire a costruire un mondo nuovo, era già nata qualche anno prima in Russia con quella avanguardia definita Costruttivismo. Negli anni ’30, in coincidenza con quel fenomeno di ritorno alla figuratività, definito «ritorno all’ordine», l’astrattismo subisce dei momenti di pausa. È un’arte che, al pari di quella delle altre avanguardie, non viene accettata dai regimi totalitari che si formano in quegli anni: il nazismo in Germania, il fascimo in Italia, il comunismo in Russia, il franchismo in Spagna. E, in conseguenza di questo atteggiamento, molti artisti europei emigrarono negli Stati Uniti dove portarono l’eredità delle esperienze artistiche dei primi decenni del Novecento europeo. Le esperienze astrattiste hanno ritrovato nuova vitalità nel secondo dopoguerra, dando luogo a diverse correnti, quali l’Action Painting, l’Informale, il Concettuale, l’Optical art. Nuovi campi di sperimentazioni sono stati tentati dagli artisti, uscendo dal campo delle immagini, per rendere esperienza estetica la gestualità, la materia, e così via. Uno degli esiti più interessanti e suggestivi dell’astrattismo, è dato dall’Action Painting del pittore statunitense Jackson Pollock. Egli, a partire dal 1946, inventò il dripping, ossia la tecnica di porre il colore sulla tela posta a terra, mediante sgocciolatura e spruzzi. I quadri così ottenuti risultano delle immagini assolutamente confuse e indecifrabili. Cosa esprimono? Il senso del caos, che è una rappresentazione della realtà, forse, più vera di quelle che ci propone la razionalità umana. L’arte, in questo modo, non solo nega il concetto di immagine, ma nega il fondamento stesso dell’arte. Di un’attività, cioè, che riesce a mettere ordine nelle cose, per giungere a quel prodotto di qualità che è l’opera d’arte. I quadri di Pollock ci rimandano ad un diverso ordine delle cose, della realtà, dell’universo le cui leggi, come ci insegna la fisica, sono razionali, ma il cui esito, come ci insegna il secondo principio della termodinamica, è il caos più assoluto. V.8.2 L’interpretazione gestaltica e l’interpretazione esistenziale L’arte astratta nasce come volontà di espressione e di comunicazione, ma lo fa con un linguaggio di cui difficilmente si conoscono le regole. Il problema interpretativo dell’arte astratta è stato in genere impostato su due categorie essenziali: la prima si affida alla psicologia gestaltica, la seconda all’esistenzialismo.
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La psicologia gestaltica studia l’iterazione tra l’uomo e le forme. Ossia, come la percezione delle forme diviene esperienza psicologica. Il modo come si struttura questa esperienza psicologica segue leggi universali. Ad esempio, il cerchio tende ad esprimere sempre la medesima sensazione, indipendentemente da cosa abbia forma circolare. E così avviene per i colori. E avviene per l’articolazione tra forme e forme, tra colori e colori, e tra forme e colori. In sostanza l’atto percettivo, affidandosi ad esperienze già possedute e a meccanismi di fondo, tende a interpretare le cose che vede indipendentemente da cosa esse rappresentino. Pertanto anche l’immagine astratta trasmette informazioni percettive che stimolano una reazione di tipo psicologico. Se la psicologia gestaltica può spiegare il meccanismo per cui un’opera astratta può apparire bella o brutta, difficilmente può spiegare quale opera apparirà bella e quale brutta. In sostanza, non può fornire elementi di valutazione critica, restando questi comunque pertinenti al campo specifico della storia dell’arte e alla storia del gusto. Tuttavia la psicologia gestaltica ha fornito numerosi elementi per inquadrare il problema, chiarendo come l’arte astratta riesca a comunicare con la psicologia dell’osservatore. E, soprattutto nella sua fase iniziale, l’astrattismo si è ampiamente appoggiata alle categorie interpretative gestaltiche. Altro metodo di decifrazione dell’arte astratta è quello di rintracciare l’esperienza esistenziale da cui è nata la specifica opera. L’artista, come qualsiasi altra persona di questo mondo, vive la medesima realtà di tutti. Riceve le medesime sollecitazioni, le interpreta con la sua specifica sensibilità, e, in più rispetto agli altri, le sa tradurre in forma. Il gesto creativo, sostanziandosi in un’opera, diviene traccia esistenziale. L’opera creata diviene traccia di tutta l’iterazione tra realtà, sollecitazione, sensibilità e creatività, che può essere comune a tutti, ma che solo l’artista, proprio perché è tale, sa esprimere e oggettivare. In questo caso, l’opera non solo è traccia del proprio essere al mondo, che risulta il valore minimo, ma rimane come testimonianza dell’essere al mondo in un particolare momento, in una particolare situazione, in un particolare contesto e così via. Ed assume, pertanto, valore di documento storicoculturale proprio perché è il frutto di quella particolare storia e di quella particolare cultura. V.8.3 WASSILJ KANDINSKIJ Wassilj Kandinskij (1866-1944) è nato il 4 dicembre 1866. Proviene da una agiata famiglia borghese di Mosca e viene avviato agli studi di legge. Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, gli viene offerta una cattedra all’università che egli però rifiuta per dedicarsi alla pittura. In questa fase della sua gioventù egli si dedica allo studio del pianoforte e del violoncello. Il contatto con la musica si rivelerà in seguito fondamentale per la sua evoluzione artistica come pittore. Un altro avvenimento di questi anni fornirà un contributo fondamentale alla formazione della sua arte. Nel 1889 partecipa ad un programma di ricerca della «Società di scienze naturali, di etnografia e antropologia» che si svolge a Vologda. L’occasione è importante per conoscere il fascino e l’intensità dell’arte popolare russa, alla quale spesso Kandinskij si ispirerà in seguito. Nel 1896 si trasferisce a Monaco, in Germania, per intraprendere studi più approfonditi nel campo della pittura. In questa città viene in contatto con l’ambiente artistico che in quegli anni aveva fatto nascere la Secessione di Monaco (1892). Sono i primi fermenti di un rinnovamento artistico che avrebbe in seguito prodotto il fenomeno dell’espressionismo. Kandinskij partecipa attivamente a questo clima avanguardistico. Nel 1901 fonda la prima associazione di artisti monacensi, cui dette il nome di «Phalanx». La sua attività pittorica lo porta in contatto con gli ambienti artistici europei, organizza mostre in Germania, ed espone a Parigi e Mosca. Nel 1909 fonda una nuova associazione 104
di artisti: la «Neue Künstlervereinigung München» (Associazione degli artisti di Monaco). In questa fase la sua arte è sempre più influenzata dall’espressionismo a cui lui fornisce contributi pittorici e critici. Ed è proprio partendo dall’espressionismo che negli anni dopo il 1910 avviene la sua svolta verso una pittura totalmente astratta. Dopo alcuni contrasti con la NKVM, nel 1911 fonda, insieme all’amico pittore Franz Marc, «Der Blaue Raiter» (Il Cavaliere Azzurro). Inizia così il periodo più intenso e produttivo della sua vita artistica. Nel 1910 pubblica il testo fondamentale della sua concezione artistica: «Lo spirituale nell’arte». È un testo fondamentale per comprendere la sua opera. Al quarto capitolo Kandinskij scrive che in tutte le arti, specie in quelle dei suoi tempi, è avvertibile una tendenza all’antinaturalismo, all’astrazione e all’interiorità. E aggiunge che in un confronto tra le varie arti: «il più ricco insegnamento viene dalla musica. Salvo poche eccezioni, la musica è già da alcuni secoli l’arte che non usa i suoi mezzi per imitare i fenomeni naturali, ma per esprimere la vita psichica dell’artista e creare la vita dei suoni». Le riflessioni sui rapporti tra pittura e musica convincono Kandinskij che la pittura deve essere sempre più simile alla musica e che i colori devono sempre più assimilarsi ai suoni. La musica, infatti, è pura espressione di esigenze interiori e non imita la natura: è astratta. Anche la pittura, secondo Kandinskij, deve essere astratta, abbandonando l’imitazione di un modello. Solamente una pittura astratta, cioè non figurativa, dove le forme non hanno attinenza con alcunché di riconoscibile, liberata dalla dipendenza con l’oggetto fisico, può dare vita alla spiritualità. L’artista affronta la pittura astratta attraverso tre gruppi di opere, che anche nelle loro denominazioni indicano il legame dell’arte di Kandinskij con la musica: "impressioni", "improvvisazioni" e "composizioni". Impressioni sono i quadri nei quali resta ancora visibile l’impressione diretta della natura esteriore; improvvisazioni, quelli nati improvvisamente dall’intimo e inconsciamente; composizioni quelli alla cui costruzione partecipa il cosciente, definiti attraverso una serie di studi. Kandinskij dopo questo passaggio, non ritornerà mai più alla pittura figurativa. Le attività del Cavaliere Azzurro proseguono con l’organizzazione di mostre e la pubblicazione di un almanacco. Si viene così più chiaramente a definire un secondo filone espressionistico, definito "lirico", per distinguerlo da quello più intensamente drammatico che faceva capo al primo gruppo sorto a Dresda nel 1905. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, Kandinskij rientra in Russia. Qui, dopo la rivoluzione del 1917, viene chiamato a ricoprire importanti cariche pubbliche nel campo dell’arte. Crea l’Istituto per la Cultura Pittorica e fonda l’Accademia di Scienze Artistiche. Partecipa al clima avanguardistico russo che in quegli anni conosce importanti fermenti con la nascita del Suprematismo e del Costruttivismo. Tuttavia, avvertita l’imminente svolta normalizzatrice, che avrebbe di fatto tolto spazio alla ricerca delle avanguardie, nel 1921 ritorna in Germania e non farà più ritorno in Russia. Nel 1922 viene chiamato da Walter Gropius ad insegnare al Bauhaus di Weimar. Questa scuola di arti applicate, fondata nel 1919 dall’architetto tedesco, svolge un ruolo fondamentale nel rinnovamento artistico europeo degli anni ’20 e ’30. Qui Kandinskij ha modo di svolgere la sua attività didattica con grande libertà e serenità, stimolato da un ambiente molto ricco di presenze qualificate. In questa scuola operarono in quegli anni i maggiori architetti, designer ed artisti provenienti da tutta Europa. Kandinskij lega in particolare con il pittore svizzero Paul Klee, il pittore russo Alexej Jawlensky e il pittore e fotografo americano Lyonel Feininger. Con essi fonda il gruppo «Die blaue Vier» (I quattro azzurri), che idealmente si lega al precedente gruppo del Cavaliere Azzurro. 105
In questa fase il suo astrattismo conosce una svolta molto decisa. Nella prima fase i suoi quadri si componevano di figure molto informi mischiate senza alcun ordine geometrico. Anche i colori erano molto vari, mischiati tra loro, ottenendo infinite varietà cromatiche intermedie. Nella nuova fase, coincidente con il suo insegnamento al Bauhaus, i quadri di Kandinskij assumono un ordine molto più preciso. Si compongono di forme dalle geometrie più riconoscibili e dalle tinte più separate tra loro. Ciò segna un passaggio ben preciso nel suo approccio all’arte astratta. Nella prima fase il suo astrattismo risponde solo alle sue esigenze interiori di esprimere emozioni e sentimenti. Nella seconda fase prevale la necessità della didattica, e quindi la razionalizzazione di un metodo che possa essere di insegnamento agli allievi. Anche se ciò è stato spesso interpretato come un impoverimento della sua vena creativa, è questo uno sforzo che egli compie che sarà fondamentale per la nascita di una estetica veramente moderna e attuale. Il periodo trascorso al Bauhaus finisce nel 1933 quando la scuola viene chiuso dal regime nazista. L’anno successivo Kandinskij si trasferisce in Francia. A Parigi vive gli ultimi dieci anni della sua vita. Muore nella residenza di Neuilly-sur-Seine il 13 dicembre 1944. OPERE Wassily Kandinskij, Primo acquerello astratto, 1910 Questo acquerello è la prima opera totalmente astratta di Kandinskij. Nacque come studio per un’opera più complessa, realizzata nel 1913. Esso tuttavia ha una sua organicità, e un suo primato, che lo hanno reso una delle opere più famose dell’artista. Al quadro manca una qualsiasi spazialità. Si compone unicamente di macchie di colore e segni neri che non compongono delle forme precise e riconoscibili. Non è quindi possibile ritrovarvi una organizzazione di lettura precisa. Lo si può guardare partendo da un qualsiasi punto e percorrerlo secondo percorsi a piacere. Ma, come le opere musicali, che hanno un tempo preciso di esecuzione, anche i quadri di Kandinskij hanno un tempo di lettura. Non possono essere guardati con un solo sguardo. Sarebbe come ascoltare un concerto eseguito in un solo istante: tutte le note si sovrapporrebbero senza creare alcuna melodia. I quadri di Kandinskij vanno letti alla stessa maniera. Guardando ogni singolo colore, con il tempo necessario affinché la percezione si traduca in sensazione psicologica, che può far risuonare sensazioni già note, o può farne nascere di nuove. Tenendo presente ciò, i quadri di Kandinskij, soprattutto quelli più complessi a cui diede il nome di Composizioni, si rivelano essere popolati di una quantità infinita di immagini. Ogni frammento, comunque preso, piccolo o grande che sia, ha una sua valenza estetica affidata solo alla capacità del colore di sollecitare una sensazione interiore. Si tratta di un approccio all’opera d’arte assolutamente nuovo ed originale che sconvolge i normali parametri di lettura di un quadro. Ma è un approccio che ci apre mondi figurativi totalmente nuovi ed inediti, dove, per usare una espressione di Paul Klee, «l’arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è».
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Wassilj Kandinskij, Giallo-rosso-blu, 1925 Il quadro, realizzato nel 1925 e conservato attualmente in Francia, è tra le opere più famose di Kandinskij. Già dal titolo si intuisce come protagonista del quadro è solo il colore, che qui viene impostato soprattutto sui tre primari. Nelle opere di Kandinskij l’armonia dei colore corrisponde a quella dei suoni musicali, con la ricerca di un effetto psicologico che va al di là del soggetto. Così Kandinskij nelle sue variazioni di motivi trasforma il soggetto in una corrispondenza armoniosa secondo ritmi soprattutto diagonali e secondo toni originati dal blu, rosso, giallo, in diverse gradazioni e sfumature. Kandinskij parte dai colori, anzi, dall’accostamento dei colori con i suoni musicali. Nello «Spirituale nell’arte» fa corrispondere il giallo alla tromba, l’azzurro al flauto, al violoncello, al contrabbasso e all’organo, il verde al violino. Sostiene che il rosso richiama alla mente le fanfare, il rosso di cinabro la tuba o il cembalo, l’arancione una campana di suono medio o un contralto che suoni in largo. Che il viola suona come un corno inglese o come i bassi dei legni. Dopo aver collegato ciascun colore ad un suono, un profumo, un’emozione precisa, l’artista afferma che proprio grazie alle sue risonanze interiori, a seconda della sua diversità, ogni colore produce un effetto particolare sull’anima. Il colore rosso per esempio può provocare l’effetto della sofferenza dolorosa, per la sua somiglianza al sangue. Il giallo invece, per semplice associazione col limone, comunica una impressione di acido. Alcuni colori possono avere una apparenza ruvida, pungente, mentre altri vengono sentiti come qualcosa di liscio, di vellutato, così di dar voglia di accarezzarli. Ma ognuno di essi corrisponde a delle forme che si distinguono nello spazio in modo preciso le une dalle altre. Ogni forma a sua volta, come il colore, ha una precisa corrispondenza: al cerchio associa il blu, al triangolo il giallo, al quadrato il rosso. Kandinskij progetta la composizione di questo quadro in un acquerello preparatorio, eseguito in forma più semplice ma già perfettamente definita nelle sue parti. L’idea compositiva si basa sulla contrapposizione della parte destra con quella sinistra. Nella prima prevalgono i toni atmosferici dell’azzurro contornato dal viola; in essa si inseriscono in prevalenza segni grafici leggeri posti secondo un ordine di armonia geometrica. Nella metà di sinistra fa da sfondo un colore giallo che chiude lo spazio senza sfondamenti in profondità. In questa parte le forme che il pittore inserisce hanno una consistenza materica più densa. Prevalgono le campiture di colore rosse e azzurre in forme rettangolari, triangolari e rotonde. Come in moltissimi altri quadri, anche qui le campiture di colore definiscono dei piani trasparenti: nella sovrapposizione dei piani il colore che ne risulta è la somma dei colori dei piani adiacenti. In questo modo la pittura di Kandinskij, pur giocata solo sul piano del quadro, tende a suggerire una organizzazione tridimensionale che evoca uno spazio percettivo diverso, e più ampio, di quello naturale.
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Wassilj Kandinskij, Composizione VII, 1913 I quadri ai quali Kandinskij riserva maggiore attenzione sono quelli che titola «Composizione». In tutto egli realizza dieci «composizioni» anche se le prime sette vengono realizzate in un breve arco di tempo (circa tre anni dal 1910 al 1913) mentre le ultime le realizza a distanza di decenni. In questa che porta il numero "VII" abbiamo un esempio classico della prima fase del suo astrattismo. Una quantità enorme di segni-colore creano una molteplicità di situazioni osservabili, anche se si fa fatica a cogliere un motivo unitario. Wassilj Kandinskij, Composizione VIII, 1923 La sua ottava «Composizione» Kandinskij la realizza a distanza di dieci anni dalla prima. In realtà in questo decennio che separa i due quadri è successo di tutto. Vi è stata la Prima Guerra Mondiale e la Rivoluzione Russa. Kandinskij torna nella sua patria per partecipare ai primi governi rivoluzionari. Poi ritorna in Germania, e qui, quasi a riallacciare fili che sembravano interrotti, riprende la sua attività pittorica. Il suo stile è però diverso. Il suo astrattismo ha perso ogni componente espressionistica per ricercare forme più rarefatte e regolari. Forse non è stato ininfluente il contatto con le avanguardie russe, quali il Suprematismo e il Costruttivismo. Di certo la sua pittura sembra ora rivolgersi, meno alle situazioni psichiche interiori, ma più alla costruzione di una nuova realtà esteriore. Una realtà in cui le macchine, le industrie, i nuovi materiali, eccetera, richiedono anche una nuova estetica tutta ancora da definire. Wassilj Kandinskij, Composizione X, 1938 La decima è l’ultima grande composizione da lui realizzata. Siamo ad una nuova svolta, che caratterizza per intero il periodo finale della sua attività. Il suo astrattismo tende a volgersi ad una nuova dimensione biomorfica molto diversa dalla dimensione meccanica del precedente periodo. Dalla sua capacità di invenzione nascono ora figure che sembrano micro-organismi galleggianti in una specie di liquido amniotico. Le forme prendono aspetti tattili più organici: assomigliano a bolle di aria, a tentacoli molli, a involucri epidermici. Questo suo ultimo astrattismo è, ancora come prima, ricerca di universi sconosciuti, ricerca di mondi che non sono meno reali di quelli che conosciamo, solo perché non abbiamo la sensibilità di verderli o di sentirli. V.8.4 PAUL KLEE Paul Klee (1879-1940), pittore di origine svizzera, rappresenta, insieme a Wassilj Kandinskij, il pittore che ha dato il maggior contributo ad una nuova pittura fondata su caratteri astratti. Egli però, a differenza di Kandinskij, non ha mai praticato l’astrattismo come unica forma espressiva, ma l’ha inserita in un più ampio bagaglio formale e visivo dove i segni e i colori hanno una maggiore libertà di evocazione e rappresentazione. Si potrebbe dire che, mentre per Kandinskij l’astrattismo rappresenta una meta, per Klee l’astrattismo è un punto di partenza per rifondare una pittura che rappresenti liberamente il mondo delle forme e delle idee. Figlio di un musicista, viene anch’egli educato da giovane alla musica, ma le sue scelte sono ben presto orientate alla pittura. La sua formazione è lenta e solitaria. Egli giunge in contatto con il mondo delle avanguardie storiche solo intorno ai trent’anni, quando nel 1911 conosce gli artisti che hanno dato vita al Cavaliere Azzurro (Alfred Kubin, August Macke, Wassily Kandinskij e Franz Marc). Nella mostra del 1912 di «Der Blaue Reiter» vengono esposti 17 lavori di Klee. Nello stesso 108
anno conosce a Parigi Robert Delaunay, pittore cubista, le sui ricerche sul colore e la luce lo influenzeranno in maniera determinante. Decisivo è un suo viaggio a Tunisi nel 1914. Da quel momento lo stesso Klee afferma di essersi pienamente impadronito del colore. Può così sentirsi un pittore completo, avendo in effetti fino a quel momento esercitato la sua arte più sul piano grafico-disegnativo che pittorico in senso stretto. Lo stesso anno viene però richiamato alle armi per combattere nella prima guerra mondiale. Congedato a Natale del 1918, inizia per lui il periodo più fecondo e felice della sua carriera artistica. Nel 1920 viene chiamato da Gropius ad insegnare nella Bauhaus. Qui Klee si applicherà alla didattica in maniera entusiasta, avendo la possibilità di organizzare in maniera più sistematica l’aspetto teorico del suo fare artistico. Nel 1930 conclude la sua attività di insegnante alla Bauhaus, prima che questa scuola tre anni dopo viene definitivamente chiusa dai nazisti. Dopo un breve periodo trascorso in Germania si trasferisce definitivamente nella natìa Svizzera dove muore nel 1940 a seguito di una sclerodermia. La sua personalità artistica è ricca e multiforme. I suoi interessi lo hanno portato a spaziare molto al di là della sua disciplina, interessandosi di filosofia, poesia, musica e scienze naturali. Nella sua ricerca appare sempre costante il problema di capire cosa è la creatività. Egli infatti ritiene che l’arte si avvicini alla natura non perché la imiti, ma perché riesce a riprodurne le intime leggi della creazione. Così egli piega e modella i suoi segni espressivi con grande padronanza, riuscendo con semplicità a passare dal figurativo all’astratto senza mai far perdere alle sue immagini una grande carica di espressività. Molto affascinato dal mondo figurativo dell’infanzia, egli conserva sempre nella sua opera una levità e leggerezza che danno alle sue immagini semplicità ed eleganza. OPERE Paul Klee, Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte, 1918 Questo di quadro di Klee è l’unione di pittura e poesia in un’opera che vuole superare le specificità linguistiche e formali per giungere ad un nuovo mezzo espressivo in cui parole e colori si fondano insieme. Questo tipo di ricerca prende spunto dalle conoscenze che egli andava acquisendo sulle culture artistiche extra-europee. Da ricordare infatti che nelle culture arabe o estremo-orientali (cinese e giapponese) la scrittura ha un carattere artistico molto ricercato anche sul piano della calligrafia. Lo spunto per questo quadro gli deriva da un libro di poesie cinesi che gli viene regalato dalla moglie Lily. Decide di compiere un ampio ciclo di «quadri-poesia» che però realizza solo in parte. A questa serie appartiene «Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte». Le strofe che compongono il «quadro-poesia» sono probabilmente dello stesso Klee e recitano: Le strofe sono scritte in grafia corsiva nella parte alta del quadro. Sono quindi riscritte nel campo dell’immagine dove la struttura formale è ottenuta da una fitta quadrettatura colorata. Nei quadretti vengono inserite le singole lettere in grafia stampatello maiuscolo con tratti neri molto sottili. La prima e la seconda strofa sono divise da una striscia di carta argentata. La forma geometrica delle lettere (cerchi, triangoli, archi) determina la campitura dei colori che hanno un aspetto chiaro e luminoso. Il tonalismo segue molto sottilmente il significato dei versi, passando da una predominanza di grigio nella parte alta ad una predominanza di blu nella parte bassa.
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L’inserimento di scritte o numeri nei quadri non è un’invenzione di Klee, dato che ciò si ritrovava già nelle opere dei cubisti e dei futuristi. Nuovo è invece il procedimento di partire da un testo per ricavarne un’immagine senz’altra componente figurativa che non siano le lettere stesse. Questo tipo di risultato anticipa di diversi decenni esperienze artistiche più recenti che, dagli anni Sessanta in poi, confluiscono in quelle correnti definite «concettuali», quali la «Narrative art» o la «Poesia visiva». Paul Klee, Strade principali e secondarie, 1929 L’approdo ad una pittura astratta, in Klee, ha esiti molto diversi da quelli di Kandinskij. Mentre il pittore russo pratica un’astrazione totale e rigorosa, Klee sembra divertirsi a depurare le immagini fino a giungere a delle rappresentazioni che sono più ideografiche che astratte. In questo caso realizza un quadro a linee incrociate che simulano la planimetria di una città, da qui il titolo «Strade principali e secondarie». L’effetto è decisamente decorativo, ma non esclude una riflessione sulle nuove realtà metropolitane, che, già negli anni Trenta, diventano paesaggio artificiale totale, escludendo dal proprio interno qualsiasi altra varietà morfologica. Paul Klee, Ha testa, mano, piede e cuore, 1930 Un cuore rosso, disegnato in maniera molto convenzionale, irradia una macchia rosa, a forma di croce, verso i quattro angoli dove sono un volto e degli arti. Una rappresentazione decisamente originale del corpo umano, che ci mostra tutta la disponibilità di Klee a giocare con il significato delle immagini, per giungere a opere di grande leggerezza, sia formale sia concettuale.
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L’ INFORMALE PARAGRAFI V.9.1 Premessa V.9.2 L’informale V.9.3 Jackson POLLOCK V.9.4 Alberto BURRI V.9.1 Premessa Le avanguardie storiche, nei primi due decenni di questo secolo, hanno totalmente rivoluzionato il panorama artistico europeo. In nome di una sperimentazione continua, giungono con l’astrattismo ad un’arte che è totalmente agli antipodi con qualsiasi tradizione precedente. La rottura con il passato appare definitiva. Ma l’apice di questa parabola si esaurì già nel terzo decennio del secolo. Il riflusso ad un’arte più tradizionale si compì soprattutto negli anni ’30. In questo decennio si incontrarono due opposte tendenze che ricondussero il panorama artistico ad un ritorno alla figuratività. Da un lato vi fu l’atteggiamento dei regimi totalitari che si instaurarono in Europa, i quali furono fondamentalmente contrari alle arti di avanguardia ed alle implicite libertà che esse pretendevano, dall’altro vi fu il riflusso degli stessi protagonisti delle avanguardie (emblematico il caso di Picasso) che, inaspettatamente, ritornarono a modelli rappresentativi più tradizionali. Quando nel 1937 Picasso compose la sua grande opera sul bombardamento di Guernica, il suo linguaggio figurativo tornò improvvisamente alle scomposizioni e sintesi cubiste. Ma ciò passò quasi in secondo piano rispetto al grande significato extra-artistico dell’opera: ossia l’impegno che l’artista esplicava nel denunciare una grande tragedia dell’umanità. Il significato di Guernica fu quindi principalmente letto come monito per gli artisti ad impegnarsi nella lotta ideologica e politica. Non bisogna infatti dimenticare che il momento storico era dei più drammatici: la conquista del mondo, tentata dai nazisti, con l’immane conflitto bellico che scatenò, non consentiva ad alcuno di estraniarsi da un impegno attivo. Neppure agli artisti era consentita l’evasione dalla realtà che, in quel momento, si presentava così tragica. Questo atteggiamento si protrasse anche negli anni immediatamente seguenti la fine della seconda guerra mondiale. I grandi problemi lasciati sul campo dal conflitto bellico, ma soprattutto l’inizio della guerra fredda, con lo scontro ideologico tra mondo occidentale capitalistico e paesi a regime comunista, indussero molti artisti a mettere la propria arte al servizio delle idee politiche e sociali. Questo atteggiamento segnò la situazione artistica italiana di quegli anni, determinando la comparsa di due opposti schieramenti: i realisti ed i formalisti. I primi, capeggiati soprattutto da Guttuso, proponevano un’arte che si impegnasse nella realtà sociale del tempo, i secondi (Pietro Consagra, Achille Perilli, Piero Dorazio ed altri) pretendevano una maggior autonomia, rivendicando il diritto alle ricerche formali e stilistiche.
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Questo tipo di polemica culturale ci dà comunque il senso di quell’idealismo ingenuo, tipicamente europeo, di credere che l’arte possa servire a cambiare la realtà e a costruire un mondo migliore. Rispetto a ciò, di tutt’altra portata e segno appare quindi la comparsa sulla scena artistica internazionale dell’espressionismo astratto americano. La sua grande carica rivoluzionaria fu proprio la dichiarata disillusione nelle possibilità dell’arte. Con l’espressionismo astratto si inaugurò un nuovo filone artistico, definito in seguito Informale, e che costituisce di fatto la prima tendenza nuova del secondo dopoguerra. Ma con l’espressionismo astratto abbiamo un’ulteriore novità. Le tendenze innovative dell’arte contemporanea non si formano più solo in Europa, ma anche nel continente americano. Il decennio degli anni ’30 fu infatti significativo per un altro fenomeno: la grande emigrazione di artisti europei verso gli Stati Uniti. Qui la loro presenza fornì grandi stimoli, innescando una serie di esperienze che sul suolo americano avrebbero prodotto molte novità, soprattutto nel dopoguerra. Ed in questi ultimi quarant’anni si è prodotto il netto fenomeno di uno spostamento dei baricentri artistici. Se prima Parigi poteva ben considerarsi la capitale mondiale dell’arte moderna, questo primato si è successivamente spostato verso New York. Tuttavia la rapida evoluzione dei sistemi di comunicazione e spostamenti, hanno creato oggi anche nel mondo dell’arte quel senso di «villaggio globale» che caratterizza la cultura odierna, rendendo di fatto inattuale la definizione di capitale artistica. V.9.2 L’Informale Con il termine «informale» vengono definite una serie di esperienze artistiche, sviluppatesi soprattutto negli anni ’50, e che hanno una fondamentale matrice astratta. La caratteristica dell’«informale» è di essere contrario a qualsiasi «forma». Ma cosa sono le «forme»? Nella realtà sensibile è forma tutto ciò che ha un contorno, con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante, e nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili. Anche l’arte astratta, soprattutto nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazione di forme. Queste, non più imitate dalla natura, nascono solo nella visione (o immaginazione) dell’artista, ma rimangono pur sempre delle forme. L’informale, rifiutando il concetto di forma, si differenzia dalla stessa arte astratta, costituendone al contempo un ampliamento. Questo ampliamento non è da intendersi solo come possibilità di creare immagini nuove, ma anche come allargamento del concetto stesso di creatività artistica in quanto l’informale produrrà in seguito una notevole serie di tendenze che finiscono per sconfinare del tutto dalle tradizionali categorie di pittura e scultura. L’informale è pertanto da considerarsi una matrice fondamentale di tutta l’esperienza artistica contemporanea. Il termine «informale» fu coniato negli anni ’50 dal critico francese Tapié. A questa etichetta sono state variamente attribuite, e poi negate, molte ricerche di quegli anni. Oggi si tende a individuare, nell’ambito dell’informale, due correnti principali: l’informale gestuale e l’informale materico. Ma a queste due tendenze vanno di certo uniti altri due segmenti: quello dello spazialismo e quello della pittura segnica. L’informale gestuale, anche definito «action painting» proviene soprattutto dagli Stati Uniti, e coincide di fatto con l’espressionismo astratto. Suo maggior rappresentante è Jackson Pollock. La sua tecnica pittorica consisteva nello spruzzare o far gocciolare (dripping) i colori sulla tela senza 112
procedere ad alcun intervento manuale diretto sulla superficie pittorica. Le immagini così ottenute si presentano come un caotico intreccio di segni colorati, in cui non è possibile riconoscere alcuna forma. I quadri informali sono pertanto la negazione di una conoscenza razionale della realtà, ossia diventano la rappresentazione di un universo caotico in cui non è possibile porre alcun ordine razionale. In tal modo l’esperienza artistica diventa solo testimonianza dell’essere e dell’agire. E in ciò si lega molto profondamente alle filosofie esistenzialistiche di quegli anni, che proponevano una visione di tipo pessimistico della reale possibilità dell’uomo di realizzarsi nel mondo. Le premesse dell’informale di gesto si legano in maniera molto diretta ad alcune esperienze delle avanguardie storiche. In particolare dal dadaismo si può fa risalire il suo rifiuto per la cultura, dall’espressionismo la violenza delle immagini proposte, ma soprattutto dal surrealismo l’informale prende un principio fondamentale: la valorizzazione dell’inconscio. Nell’informale di gesto infatti il risultato che si ottiene è del tutto automatico: deriva non da scelte formali coscienti ma da gesti compiuti secondo movenze in cui la gestualità deriva dalla liberazione delle proprie energie interiori. In tal modo l’automatismo psichico dei surrealisti arriva alle sue estreme conseguenze: in esso non vi è alcun momento cosciente che cerca di razionalizzare o spiegare ciò che proviene dall’inconscio. Uno dei grandi fascini di quest’arte risiede proprio nel suo farsi. Da essa infatti possiamo far derivare tutte quelle esperienze successive, quali il comportamentismo, la body art o le performance, in cui il risultato estetico non risiede più nell’opera compiuta, ma solo nel vedere l’artista all’opera. Tra i principali artisti americani dell’action painting vanno ricordati, oltre a Pollock, Willem de Kooning e Franz Kline. L’informale di materia è la tendenza che maggiormente si manifesta in Europa. Esso deriva da un’antica dicotomia, da sempre presente nella cultura occidentale, da Platone in poi: la polarità materia-forma. Il primo termine indica il magma informe delle energie primordiali, il secondo definisce l’organizzazione della materia in organismi superiori. Questo contrasto materia-forma divenne un termine problematico nella scultura di Michelangelo, e da lì ha influenzato, attraverso la riscoperta di Rodin, la scultura moderna. Con l’informale si appropriano di questa problematica anche i pittori, proponendo immagini in cui i valori estetici ed espressivi sono appunto quelli dei materiali utilizzati. L’informale di materia inizia nello stesso anno in cui Pollock inventa l’action painting: il 1943. Protagonista è il pittore francese Jean Fautrier. Egli rifacendosi alle esperienze del cubismo sintetico di Picasso e Braque, e alle ricerche surrealiste di Max Ernst, inserisce nei suoi quadri materiali plastici che emergono dalla superficie del quadro. In tal modo rompe il confine tra immagine bidimensionale e immagine plastica, proponendo opere che non sono più classificabili nelle tradizionali categorie di pittura o scultura. Ai valori espressivi dei materiali si rivolgono altri artisti informali europei: tra essi emergono soprattutto il francese Jean Dubuffet, lo spagnolo Antoni Tápies e l’italiano Alberto Burri. Quest’ultimo, in particolare, propone opere dalla singolare forza espressiva, ricorrendo a materiali poveri: legni bruciati, vecchi sacchi di juta, lamiere, plastica, ecc. Lo spazialismo è una corrente non uniforme, che può aggregarsi intorno a due artisti principali: il milanese Lucio Fontana e il russo (ma naturalizzato americano) Marc Rothko. Anche le loro 113
ricerche possono ricondursi all’informale per la comune assenza di «forme», così come sopra definite. Tuttavia la loro ricerca mira ad altri risultati, diversi da quelle degli altri informali. Con le loro opere mirano a suggerire effetti spaziali del tutto inediti, il primo Fontana, ricorrendo a buchi e tagli prodotti nelle tele, il secondo ricorrendo invece alle stesure di colori secondo macchie di sottile variazione tonale. Entrambe queste ricerche hanno la capacità di suscitare atmosfere immateriali e non terrene, proponendo una inedita visione di spazi che vanno al di là dello spazio percettivo naturale. La pittura segnica è, infine, un’ultima versione dell’informale anche se da questa si differenzia per la mancanza di un netto rifiuto della forma. In queste ricerche la forma, benché non del tutto assente, tende a trasformarsi in «segno», cioè in un elemento grafico di riconoscibilità formale ma non contenutistica. Le ricerche della pittura segnica tendono a costruire nuovi alfabeti visivi, ma non concettuali, in cui è evidente la componente calligrafica. Tra gli artisti più significativi di questa tendenza sono da citare l’italiano Giuseppe Capogrossi e in Francia George Mathieu, Wols (pseudonimo di Wolfgang Schultze) e Hans Hartung, questi ultimi due di origine tedesca. V.9.3 JACKSON POLLOCK Jackson Pollock (1912-1956) è il rappresentante più emblematico dell’action painting, la corrente che rappresenta il contributo americano all’informale. La sua breve vita è segnata da eventi drammatici che ripropongono il prototipo dell’artista maledetto, tipico del panorama artistico europeo di fine Ottocento, e che nella cultura americana era stato incarnato maggiormente da divi cinematografici. Svolge un apprendistato artistico irregolare frequentando varie accademie e scuole d’arte applicata. All’età di 25 anni, per gravi problemi di alcolismo, si sottopone a diverse sedute psicanalitiche. Viene così a conoscenza del mondo della psicologia, scoprendo le dimensioni dell’inconscio e dell’irrazionalità, che determineranno la svolta decisiva verso l’arte informale. Prima opera di questo nuovo periodo è il murale realizzato nel 1943 per la casa di Peggy Guggenheim. Da questo momento diviene uno degli artisti americani più noti, acquistando tale fama da divenire quasi un mito. Mette a punto la sua nota tecnica del «dripping» consistente nel far gocciolare il colore su una tela posta in orizzontale, determinando la colatura del colore con gesti rituali e coreografici in cui erano presenti reminescenze dei riti magico-propiziatori praticati dagli indiani d’America. Le opere così realizzate si presentano come un caotico intreccio di linee e macchie colorate, con una totale assenza di organizzazione razionale. In esse venivano ritrovate quelle tipiche istanze dell’esistenzialismo, caratterizzate da sfiducia nelle possibilità dell’uomo di realizzare le sue aspirazioni di un’armonia con il mondo esterno all’individuo. La sua opera si connota dunque per una carica drammatica ed angosciosa, che suggestionò soprattutto il mondo intellettuale di quegli anni. La sua ricerca, durata poco più di un decennio, si interruppe nel ’56, quando, all’età di 44 anni, morì in un incidente stradale.
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OPERE Jackson Pollock, Pali blu, 1953 Questo quadro, come quasi tutte le opere di Pollock, ha dimensioni notevoli (circa metri 2x5), non tanto per esigenze di monumentalità, quanto per evidenziare lo spazio fisico reale in cui si muove l’artista con tutta la sua gestualità. Su questa tela Pollock utilizza colori ad olio, smalti sintetici e vernici all’alluminio, spruzzandoli con batuffoli di cotone, pennelli da imbianchino, pezzi di legno. Su un fondo grigio-nero di metallica colorazione si dispongono vari intrecci di tonalità rosse e gialle. Su tutto emergono otto segmenti neri che danno il titolo al quadro. Da notare che il blu citato dal titolo in realtà è del tutto assente dal campo cromatico del quadro. Esso è quindi elemento suggerito ed evocato più che realmente rappresentato, e la cui assenza introduce un primo elemento di tensione drammatica. Tuttavia il titolo «pali blu» suggerisce un’interpretazione figurativa degli otto segmenti neri, quasi ipotizzando una forzatura dalla concezione dell’opera che, in tal modo, non appare più del tutto informale. Ciò potrebbe suggerire un estremo sforzo di ritornare dal caos informe verso un minimo di ordine e di razionalità. Ma è uno sforzo drammatico che mostra tutta la sua difficoltà (o impossibilità) a compiersi. I pali infatti appaiono contorti e disallineati, quasi presi e riassorbiti dal caos informe dal quale cercano di distaccarsi. Il contenuto del quadro si addensa dunque in queste sue conflittualità: il blu, simbolo di spazio e serenità, che non riesce ad apparire, i pali che non riescono a prendere una forma sicura e stabile. Ma lo sforzo dei pali di prendere forma e colore sembra quasi un’allegoria degli sforzi umani di riemergere dal caos in cui la vita si muove. E l’opera sembra così suggerire che la razionalità non è del tutto assente: da qualche parte sopravvive, ma è praticamente schiacciata dall’irrazionalità, che "forse" vincerà. Ed è proprio il senso di questo ultimo "forse", che non viene sciolto in una soluzione finale ottimistica, a costituire il conflitto interno dell’opera. Jackson Pollock, Number 1, 1950 Questo quadro, conservato nella National Gallery di Washington, è anche conosciuto con il nome «Lavender mist» (nebbia di lavanda) datogli dal critico Clement Greenberg. In realtà, in questo quadro, come nel precedente non vi erano i pali, qui non c’è la lavanda. Questi titoli finiscono più per suggerire possibili lettura che non per identificare in maniera corretta le opere. «Number 1», al di là delle suggestioni atmosferiche o olfattive che può suggerire, rimane uno degli esempi più compiuti dell’arte di Jackson Pollock. V.9.4 ALBERTO BURRI Alberto Burri (1915-1995) è l’artista italiano, insieme a Lucio Fontana, ad aver dato il maggior contributo italiano al panorama artistico internazionale di questo secondo dopoguerra. La sua ricerca artistica è spaziata dalla pittura alla scultura avendo come unico fine l’indagine sulle qualità espressive della materia. Ciò gli fa occupare a pieno titolo un posto di primissimo piano in quella tendenza che viene definita «informale». Nato a Città di Castello in Umbria, segue gli studi di medicina e si laurea nel 1940. Arruolatosi come ufficiale medico, viene fatto prigioniero a Tunisi dagli inglesi nel 1943. L’anno successivo 115
viene trasferito dagli americani in un campo di prigionia in Texas. Qui inizia la sua attività artistica. Tornato in Italia abbandona definitivamente la medicina per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Sin dall’inizio la sua ricerca si svolge nell’ambito di un linguaggio astratto con opere che non concedono assolutamente nulla al figurativo in senso tradizionale. Le prime opere che lo pongono all’attenzione della critica appartengono alla serie delle «muffe», dei «catrami» e dei «gobbi». Questa opere, che esegue tra la fine degli anni Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta, conservano un carattere essenzialmente pittorico, in quanto sono costruite secondo la logica del quadro. Le immagini, ovviamente astratte, sono ottenute, oltre che con colori ad olio, con smalti sintetici, catrame e pietra pomice. Nella serie dei «gobbi» introduce la modellazione della superficie di supporto con una struttura di legno, dando al quadro un aspetto plastico più evidente. Alla prima metà degli anni Cinquanta appartiene la sua serie più famosa: quella dei «sacchi». Sulla tela uniformemente tinta di rosso o di nero incolla dei sacchi di iuta. Questi sacchi hanno sempre un aspetto «povero»: sono logori e pieni di rammenti e cuciture. Al loro apparire fecero notevole scandalo: ma la loro forza espressiva, in linea con il clima culturale del momento dominato dal pessimismo esistenzialistico, ne fecero presto dei «classici» dell’arte. Con alcune mostre tenute da Burri in America tra il 1953 e il 1955 avviene la sua definitiva consacrazione a livello internazionale. La sua ricerca sui sacchi dura solo un quinquennio. Dal 1955 in poi si dedica a nuove sperimentazioni che coinvolgono nuovi materiali. Inizialmente sostituisce i sacchi con indumenti quali stoffe e camicie. La sua ricerca è in sostanza ancora tesa alla sublimazione poetica dei rifiuti: degli oggetti usati e logorati ne evidenzia tutta la carica poetica come residui solidi dell’esistenza non solo umana ma potremmo dire cosmica. Dal 1957 in poi, con la serie delle «combustioni», compie una svolta significativa nella sua arte, introducendo il «fuoco» tra i suoi strumenti artistici. Con la fiamma brucia legni o plastiche con i quali poi realizza i suoi quadri. In questo caso l’usura che segna i materiali non è più quella della «vita», ma di un’energia che ha un valore quasi metaforico primordiale – il fuoco – che accelera la corrosione della materia. Nella sua poetica è sempre presente, quindi, il concetto di «consunzione» che raggiunge il suo maggior afflato cosmico con la serie dei «cretti» che inizia dagli anni Settanta in poi. In queste opere, realizzate con una mistura di caolino, vinavil e pigmento fissata su cellotex, raggiunge il massimo di purezza e di espressività. Le opere, realizzate o in bianco o in nero, hanno l’aspetto della terra essiccata. Anche qui agisce un processo di consunzione che colpisce la terra, vista anch’essa come elemento primordiale, dopo che la scomparsa dell’acqua la devitalizza lasciandola come residuo solido di una vita definitivamente scomparsa dall’intero cosmo. Nell’opera di Burri l’arte interviene sempre «dopo». Dopo che i materiali dell’arte sono già stati «usati» e consumati. Essi ci parlano di un ricordo e ci sollecitano a pensare a tutto ciò che è avvenuto nella vita precedente di quei materiali prima che essi fossero definitivamente fissati nell’immobilità dell’opera d’arte. La poetica di Burri, più che il suo stile, hanno creato influenze enormi in tutta l’arte seguente. La sua opera ha radicalmente rimesso in discussione il concetto di arte, e del suo rapporto con la vita. L’arte come finzione mimetica che imita la vita appare ora definitivamente sorpassata da un’arte che illustra la vita con la sincerità della vita stessa. OPERE Alberto Burri, Sacco e rosso, 1954
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Questa opera di Burri è conservata alla Tate Gallery di Londra. Ha un formato rettangolare. Sullo sfondo vi è un rosso brillante molto intenso. Su questo primo piano l’artista incolla dei sacchi occupando la fascia centrale orizzontale, con due appendici sottili che scendono verso il basso. La composizione ha un rapporto molto equilibrato. Del resto in tutta l’opera di Burri è sempre rintracciabile un equilibrio compositivo di matrice classica. I sacchi che egli incolla sulla tela compongono un insieme plastico che si stacca nettamente dal piano rosso di fondo. Ciò avviene sia per la qualità tattile data dalla trama dei sacchi, sia per la sovrapposizione di più strati di juta, sia per le lacerazioni e gli strappi che creano dei rilievi molto evidenti. Ciò che colpisce immediatamente dell’opera è la qualità «povera» e umile dei sacchi. Da uno stato iniziale che si intuisce, in cui la juta aveva l’aspetto regolare e uniforme delle cose nuove, si è giunti a questa deforme articolazione della materia che ci suggerisce una profonda storia vissuta. Esse sono il residuo materiale di azioni umane vissute e ora spente. Storie che sembrano narrare di sforzi, di lavori umili, di miserie, di dolori. I sacchi usati da Burri sono sacchi come tanti, il cui destino non era di assumere qualità estetiche. Il loro destino era solo ed unicamente quello di servire ad uno scopo. E nel servire a questo scopo hanno acquisito un aspetto che è il risultato sincero della vita che li ha resi per un periodo utili ed anch’essi vitali. L’operazione che compie Burri ha ovviamente dei precedenti. Picasso e Braque furono i primi, durante il periodo del cubismo analitico, ad inserire dei frammenti reali nei loro quadri. Ma l’operazione di Burri è ben più radicale, e dà un senso del tutto inedito alle sue opere. Nelle opere cubiste era la realtà che si adattava alle esigenze della rappresentazione artistica. In Burri, invece, è l’arte che si adatta alla realtà. Non è l’arte che rappresenta la realtà: è la realtà che si presenta da sé facendosi arte. I sacchi di Burri sono «reali», nel senso che egli li ha «trovati» effettivamente così, non li ha ridotti lui in quel modo. Prendere dei frammenti «reali» per proporli quali opera d’arte aveva ovviamente già un precedente con Duchamp e l’invenzione dei ready-made. Tuttavia in Burri non vi è alcun intento derisorio o dissacrante, come era per i dadaisti. Egli compie la sua operazione con una serietà che trascende qualsiasi intento polemico contingente. Tuttavia, se l’opera di Burri è stata sempre letta con un occhio romantico per questa sua esaltazione del dato povero e umile dei suoi sacchi, non è da dimenticare la grande suggestione che queste opere ebbero sulla definizione di un nuovo concetto di arte. La ridefinizione di un rapporto nuovo tra arte e vita è alla base di tutte le nuove tendenze artistiche che si sono sviluppate in questi ultimi decenni. Alberto Burri, SZ1, 1949 Famosissima opera di Alberto Burri, viene considerata una anticipazione importante non solo della sua arte successiva, ma anche di molta produzione americana tra anni Cinquanta e Sessanta, in particolare del New Dada e della Pop Art. L’idea di utilizzare la tela quale protagonista dell’opera, e non come supporto, è sicuramente una sperimentazione linguistica per saggiare possibilità nuove. Ma ciò che rende improvvisamente denso di significati l’opera è che la tele utilizzate sono frammenti di sacchi ritrovati da un vissuto reale, testimoni sopravvissuti di valenze esistenziali che sono reali testimonianze storiche. Così la materia, che via via diverrà sempre più importante nella 117
poetica di Burri, già mostra tutta la potenzialità che l’artista vi cerca: la memoria di eventi che l’hanno modificata in maniera radicale e irreversibile. Alberto Burri, Rosso plastica, 1964 L’uso del fuoco consente a Burri nuove possibilità espressive quando, con l’invenzione, in quegli anni, della plastica avrà a disposizione un nuovo materiale per le sue combustioni. La plastica ha ben altra reattività al fuoco, e le sue contrazioni violente, nonché i residuati carbonati che la combustione della plastica produce, danno alle sue opere caratteri ancora più drammatici. Da notare, comunque, come, nella realizzazione delle sue opere, Burri abbia un controllo assoluto della forma. Il grande cratere che apre nella superficie della plastica rivela un nero, che al pari delle opere di Fontana, rimanda a percezioni spaziali oltre il piano. Ma tutto il corrugarsi della plastica, dal cratere in poi, diviene paesaggio dal disegno perfetto, non il frutto di un evento causale prodotto senza preoccupazioni di tenuta compositiva. Alberto Burri, Cretto G 1, 1975 Con la produzione dei «Cretti» entriamo nell’ultima fase dell’opera di Burri. Le possibilità espressive sono ora date da nuove materie: il caolino e il vinavil (mischiati a pigmento) fissati su cellotex. Ma ciò che egli ottiene è una nuova rappresentazione poetica: non è il fuoco a rendere drammatica la materia, ma la disidratazione. Immagini suggestive di terre spaccate da arsure, diventano queste le ultime rappresentazioni di materie quasi condannate ad apocalittici destini. Partendo dai primi «Cretti» realizzati agli inizi degli anni Settanta, Burri giunge a realizzarne di monumentali, opere non più pittoriche ma decisamente plastiche. Nel ’77 e ’78 ne realizza due ognuno di m. 5 x15 destinati a Los Angeles e al Museo napoletano di Capodimonte. Nel 1981 inizia la realizzazione del gigantesco Cretto di Gibellina in Sicilia, quasi opera da «Land Art», esteso su una superficie di circa 136mila metri quadrati.
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LA POP ART PARAGRAFI V.10.1 Premessa V.10.2 Andy WARHOL V.10.3. Roy LICHTENSTEIN V.10.1 Premessa L’informale ha sicuramente ben rappresentato un certo clima culturale esistenzialistico tipico degli anni Cinquanta. La sua carica pessimistica di fondo fu tuttavia compresa solo da una ristretta cultura d’élite. E ben presto ha mostrato la sua inattualità nei confronti di una società in rapida trasformazione, che si caratterizzava sempre più come società di massa dominata dai tratti positivi ed ottimistici del consumismo. Ed è proprio dall’incontro tra arte e cultura dei mass-media che nacque la pop art. La sua nascita avviene negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’50 con le prime ricerche di Robert Raushenberg e Jasper Johns. Ma la sua esplosione avviene soprattutto nel decennio degli anni ’60, conoscendo una prima diffusione e consacrazione con la Biennale di Venezia del 1964. I maggiori rappresentanti di questa tendenza sono tutti artisti americani: Andy Warhol, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein ed altri. Ed in ciò si definisce anche una componente fondamentale di questo stile: essa appare decisamente il frutto della società e della cultura americana. Cultura largamente dominata dall’immagine, ma immagine che proveniva dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, dai rotocalchi, dal paesaggio urbano largamente dominato dai grandi cartelloni pubblicitari. La pop art ricicla tutto ciò in una pittura che rifà in maniera fredda ed impersonale le immagini proposte dai mass-media. Si va dalle bandiere americane di Jasper Johns alle bottiglie di Coca Cola di Warhol, dai fumetti di Lichtenstein alle locandine cinematografiche di Rosenquist. La pop art documenta quindi in maniera precisa la cultura popolare americana (da qui quindi il suo nome, dove pop sta per diminutivo di popolare), trasformando in icone le immagini più note o simboliche tra quelle proposte dai mass-media. L’apparente indifferenza per le qualità formali dei soggetti proposti, così come il procedimento di pescare tra oggetti che apparivano triviali e non estetici, ha indotto molti critici a considerare la pop art come una specie di nuovo dadaismo. Se ciò può apparire in parte plausibile, diverso è il fine a cui giunge la pop art. In essa infatti è assente qualsiasi intento dissacratorio, ironico o di denuncia. Il più grosso pregio della pop art rimane invece quello di documentare, senza paura di sporcarsi le mani con la cultura popolare, i cambiamenti di valori indotti nella società dal consumismo. Quei cambiamenti che consistono in una preferenza per valori legati al consumo di beni materiali e alla proiezione degli ideali comuni sui valori dell’immagine, intesa in questo caso soprattutto come apparenza. E in ciò testimoniano dei nuovi idoli o miti in cui le masse popolari tendono ad identificarsi. Miti ovviamente creati dalla pubblicità e dai mass-media che proiettano sulle masse sempre più bisogni indotti, e non primari, per trasformarli in consumatori sempre più avidi di beni materiali. 119
In sostanza un quadro di Warhol che ripete l’ossessiva immagine di una bottiglia di Coca Cola ci testimonia come quell’oggetto sia oramai divenuto un referente più importante, rispetto ad altri valori interiori o spirituali, per giungere a quella condizione esistenziale che i mass media propagandano come vincente nella società contemporanea. V.10.2 ANDY WARHOL Andy Warhol (1930-1987) è il rappresentante più tipico della pop art americana. Figlio di un minatore cecoslovacco emigrato negli Stati, egli è uno dei rappresentanti più tipici della cultura nord-americana, soprattutto per la sua voluta ignoranza di qualsiasi esperienza artistica maturata in Europa. Rifiutata per intero la storia dell’arte, con tutta la sua stratificazione di significati e concettualizzazioni, l’arte di Warhol si muove unicamente nelle coordinate delle immagini prodotte dalla cultura di massa americana. La sua arte prende spunto dal cinema, dai fumetti, dalla pubblicità, senza alcuna scelta estetica, ma come puro istante di registrazione delle immagini più note e simboliche. E l’opera intera di Warhol appare quasi un catalogo delle immagini-simbolo della cultura di massa americana: si va dal volto di Marilyn Monroe alle inconfondibili bottigliette di Coca Cola, dal simbolo del dollaro ai detersivi in scatola, e così via. In queste sue opere non vi è alcuna scelta estetica, ma neppure alcuna intenzione polemica nei confronti della società di massa: unicamente esse ci documentano quale è divenuto l’universo visivo in cui si muove quella che noi definiamo la «società dell’immagine» odierna. Ogni altra considerazione è solo consequenziale ed interpretativa, specie da parte della critica europea, che in queste operazioni vede una presa di coscienza nei confronti del kitsch che dilaga nella nostra società, anche se ciò, a detta dello stesso Warhol, sembra del tutto estraneo alle sue intenzioni. Il percorso artistico di Warhol si è mosso tutto nella cultura newyorkese, nel momento in cui New York divenne la capitale mondiale della cultura. Warhol fu in questo ambiente uno dei personaggi più noti, costruendo in maniera attenta il suo personaggio. Si mosse in stretta attinenza agli ambienti underground, legandosi al mondo della musica, del teatro del cinema. Gli inizi della sua pittura risalgono al 1960, dopo un periodo precedente in cui aveva svolto attività di disegnatore industriale. Nel 1963 raccoglie intorno sé numerosi giovani artisti, costituendo una comune a cui diede il nome di «factory». Abbandona la pittura nel 1965 per dedicarsi esclusivamente alla produzione cinematografica. Il ritorno alla pittura avviene intorno al 1972, con una produzione incentrata soprattutto sui ritratti. Nel 1980 fonda una televisione dal nome «Andy Warhol’s TV». Muore il 22 febbraio 1987 nel corso di un intervento chirurgico. OPERE Andy Warhol, Minestra in scatola Campbell I, 1968 L’arte di Andy Warhol è una delle più incomprensibili mai prodotte nella cultura occidentale. La sua personale indifferenza a quanto rappresenta, senza alcun intervento interpretativo, spoglia le sue opere di qualsiasi intento comunicativo. In tal senso la difficoltà di valutare tali opere pone seri problemi, soprattutto ad un europeo. Cosa mai può significare l’immagine di una scatoletta di minestra al pomodoro?
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Visto che l’immagine non ha un valore estetico, si è ricercata in essa un valore etico: la scatoletta, rappresentando l’omogeneizzazione della società moderna che propone alimenti preconfezionati uguali per tutti, può divenire implicitamente una critica a tale società. Ma ciò non sembra nelle intenzioni di Warhol, che anzi, nella società americana, vede un valore positivo proprio per il suo grande livellamento. Il bello degli americani, come lo stesso Warhol ha espresso, è che mangiano tutti le stesse cose, dal presidente degli Stati Uniti al barbone che è seduto ad un angolo di strada. In ciò è molto evidente quella mitica "american way of life" in cui la uguaglianza è realizzata in una società che consente uguali possibilità per tutti. E in ciò appare nuovamente evidente che l’arte di Warhol, troppo americana anche nei suoi più piccoli risvolti, sembra che abbia un solo intento reale: demolire il mito dell’arte europea come espressione di una cultura "alta". E in ciò si ricollega in maniera molto chiara alle esperienze dadaiste, soprattutto ai ready-made di Duchamp, con le quali l’arte di Warhol condivide l’intento dissacratorio. Alle scatolette Campbell Warhol ha dedicato una quantità enorme di quadri. L’ha rappresentata a volte chiusa, come in questo caso, altre volte aperte. Non che la cosa faccia cambiare significato all’immagine, ma la grande ripetizione del medesimo tema sembra sfruttare i meccanismi della pubblicità: il bombardamento costante delle stesse immagini, colpendo in maniera subliminale, provocano quel meccanismo del «riconoscere», che è una delle molle, a livello inconscio (inteso in questo caso più alla maniera di Jung che non di Freud) con cui le masse manifestano le proprie scelte e preferenze. E questo meccanismo lo ritroviamo anche nelle altre opere di Warhol: i ritratti di Marilyn Monroe, le immagini di Elvis Presley, le bottigliette di Coca Cola sono state ripetute in una quantità enorme di opere. Ed è quindi non un caso se egli abbandona sempre più la pittura, intesa come costruzione manuale dell’immagine, per passare alle serigrafie. Anche questo quadro è realizzato con procedimenti serigrafici, sul quale Warhol è poi intervenuto con colori acrilici, dando all’immagine un nitore grafico che ricorda le immagini dei fumetti o della grafica pubblicitaria. Andy Warhol, Cinque bottiglie di Coca Cola, 1962 Andy Warhol è il cantore dell’american way of life in tutti i suoi aspetti più simbolici. Ovviamente uno dei simboli americani per eccellenza è la Coca Cola. La sua inconfondibile bottiglietta, ed anche la grafia del marchio, sono divenuti un emblema di vita giovanile e dinamica. Warhol realizza diverse opere replicando una o molteplici bottiglie di Coca Cola, ma non sarà il solo. Dal famoso marchio trarranno opere d’arte anche altri artisti, quali l’italiano Mario Schifano. Si può dire che la Coca Cola è un simbolo "pop" per eccellenza. E Warhol ebbe il merito di capire, prima di altri, quali erano le immagini fondamentali della cultura di massa che potevano essere assunte a simbolo di una intera epoca. Andy Warhol, Marilyn, 1967 Altro aspetto culturale tipicamente americano è il cinema. L’America, più di qualsiasi altra nazione, può a buon diritto riconoscersi in questo linguaggio. E del cinema americano sicuramente Marilyn Monroe rappresenta un’icona inconfondibile. Il suo viso sorridente viene replicato infinite volte in serigrafia da Andy Warhol, che, sfruttando i procedimenti permessi dalla stampa serigrafica, produce dallo stesso telaio infinite variazioni cambiando l’inchiostrazione. Così il volto di Marilyn
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acquista una varietà di colori e di toni, che producono un processo di astrazione fino a rendere il volto dell’attrice il simbolo astratto di un certo tipo di bellezza tipicamente americano.
V.10.3 ROY LICHTENSTEIN Roy Lichtenstein (1923-97) è un artista la cui immagine si lega indissolubilmente ai fumetti. Tra gli artisti della Pop Art è quello che più riesce a creare una cifra stilistica inconfondibile, restandovi fedele fino all’ultima produzione. Esponente della tipica famiglia medio-borghese americana, la vita di Lichtenstein si svolge in maniera tranquilla, senza le eccentricità o i protagonismi di artisti quali Andy Warhol. Nel 1943, durante la Seconda Guerra Mondiale, viene chiamato alle armi. Qui ha il primo incontro con il mondo militare, che spesso sarà di ispirazione alla sua prima produzione artistica, e con i fumetti ispirati alla guerra. Pare, infatti, che un suo superiore gli chiese di riprodurre ingrandendoli vignette tratte da fumetti di guerra. Da qui nacque forse l’idea stilistica della sua arte, anche se Lichtenstein cominciò a produrre in questo stile solo agli inizi degli anni Sessanta. Nel 1962, con una personale tenuta a New York presso il famoso gallerista Leo Castelli, inizia l’ascesa di Lichtenstein. Siamo negli anni in cui il fenomeno del consumismo e della cultura Pop esplode a livelli mondiali. Il clima di serena fiducia nel presente e nel futuro si contrappongono nettamente al pessimismo precedente di matrice esistenzialista, e le immagini di fumetti ingranditi proposte da Lichtenstein sembrano rispecchiare in pieno l’esigenza di circondarsi di immagini nuove, oggettive e prive di angosce esistenziali. È un modo nuovo di contaminare l’Arte, con la «a» maiuscola, con stili presi dalla cultura "bassa". In realtà, la grande tenuta formale dei quadri realizzati da Lichtenstein, rendono le sue immagini mai banali. Sono fumetti, è vero, ma realizzati con la visione propria dell’artista. Nel corso degli anni, la formula stilistica di Lichtenstein non cambia, ma inizia un confronto sempre più serrato con l’arte del recente passato dagli esiti decisamente originali. Egli, sempre realizzando immagini come fossero fumetti, rivisita tutti gli artisti principali e gli stili sorti nel corso del Novecento, dal cubismo al futurismo, dall’espressionismo all’action painting. La contaminazione tra pittura e fumetti crea un dialogo originale che, negli ultimi anni, coinvolge anche la scultura. La sua arte, prodotta fino alla metà degli anni Novanta, rimane come una delle espressioni più originali della cultura americana del secondo dopoguerra. OPERE Roy Lichtenstein, Hopeless, 1963 Quadro tra i più famosi di Lichtenstein, «Hopeless», come molti quadri realizzati dall’artista, prende titolo dalla vignetta inserita nell’immagine. Il suo stile nasce dall’adozione delle tecniche proprie della stampa. Per stampare un’immagine a colori si ricorre alla "retinatura", ossia l’immagine viene fotograficamente scomposta in quattro colori fondamentali, che sono quelli utilizzati poi nella fase di stampa: nero, giallo, ciano e magenta. Il procedimento di retinatura può essere fatto ricorrendo a punti molto piccoli e stretti (ed è il caso, ad esempio, dei libri d’arte che contengono immagini molto precise e raffinate) oppure ricorrendo a punti molto più grandi e distanziati (è il caso questo soprattutto dei quotidiani). 122
Date le caratteristiche con cui si stampa, i disegnatori di fumetti, soprattutto delle "strisce" che compaiono sui quotidiani, sanno che non possono usare colori sfumati ma solo tinte piatte (piene o retinate a secondo dell’intensità che si vuole ottenere) ed ovviamente le aree devono essere campite con tratti neri non sottili, altrimenti in stampa non escono. In pratica Lichtenstein procede alla stessa maniera: non solo produce quadri che sembrano vignette estrapolate da albi di storie a fumetti, ma li realizza con una tecnica che simula perfettamente la procedura di stampa. La retinatura, che una volta stampata è spesso invisibile a occhio nudo, nei suoi ingrandimenti prende invece una evidenza molto superiore. E questi punti, di un simulato retino di stampa, divengono in pratica l’elemento di maggiore riconoscibilità del suo stile, applicato anche quando produce opere che non sono vignette. Nel caso di Lichtenstein il ricorso al linguaggio dei fumetti non ha probabilmente una valenza ironica o polemica, ma sembra nascere da una precisa convinzione estetica. Da un punto di vista formale i suoi quadri non fanno una grinza, proponendosi come opere compiute e di grande tenuta espressiva. In questo caso, l’astrazione di un singolo momento da una storia che non conosceremo mai, non ci disturba più di tanto, ed anzi amplifica il fascino di un’immagine che risulta piacevole solo per l’espressività della forma. Roy Lichtenstein, Whaam!, 1963 Come già detto, le sue prime esperienze di ingrandimento di fumetti nacquero nel periodo in cui era militare. E, soprattutto agli inizi della sua carriera artistica, non poche sono le opere ispirate ai fumetti di guerra. Questa tela, che in realtà è un dittico, è una delle sue opere più famose, ed è attualmente esposta alla Tate Gallery di Londra.
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ARTE CONCETTUALE PARAGRAFI V.11.1 Premessa V.11.2 Il «pensiero» concettuale V.11.3 L’«evento» concettuale V.11.4 Joseph BEUYS V.11.1 Premessa Il termine «concettuale» ha assunto, nel campo artistico, un significato polivalente, per cui è necessario fare una premessa sul suo utilizzo. Il primo artista ad aver usato programmaticamente la definizione «concettuale» è stato Joseph Kosuth intorno alla metà degli anni Sessanta. Il suo intento era di proporre opere il cui fine non era il godimento estetico bensì l’attività di pensiero. Del 1965 è una delle sue opere più famose, «Una e tre sedie», in cui egli espone una sedia vera, un’immagine fotografica e la definizione scritta della parola "sedia". Ciò a cui egli tende è di avviare nello spettatore la riflessione sul rapporto, problematico e conflittuale, che esiste tra realtà, rappresentazione iconica (immagine) e rappresentazione logica (parola). Si comprende come un’arte di questo tipo tende ad eliminare qualsiasi significato emozionale, per proporsi con lucida e fredda razionalità. Nell’opera di Kosuth ciò avviene ancora attraverso la proposizione di opere concrete, ma ben presto si comincia a comprendere come si può giungere all’obiettivo "concettuale" anche facendo a meno di opere materiali o durature. Arte diviene anche il parlare dell’arte, il comportamento, la riflessione, e così via. E da questo punto comincia il significato più pregnante del termine «concettuale»: un’arte che riesce a fare a meno delle opere d’arte. Se guardiamo all’arte del ventesimo secolo da una particolare ottica, ci accorgiamo che l’evoluzione artistica ha seguito una linea di progressive "riduzioni" o "privamenti". Gli artisti si sono aperti territori nuovi di ricerca "privandosi" di qualcosa che sembrava appartenere indissolubilmente al significato stesso di arte (così come storicamente si era costruito in Occidente). Si inizia con il fare a meno del "naturalismo" e della "mimesi" (post-impressionismo, espressionismo, ecc.), si procede facendo a meno della "prospettiva" (cubismo), del "passato" (futurismo), del "valore venale" dell’opera (dadaismo), della "realtà" (astrattismo), della "forma" (informale), fino a giungere a fare a meno dell’"opera d’arte". Si è così rotto l’ultimo tabù, in quanto un’arte che si manifesti senza opere era decisamente l’ultima frontiera che restava da conquistare. Torniamo al problema iniziale. Il termine «concettuale» può essere utilizzato in una accezione ristretta, riferendoci ad un gruppo limitato di esperienze, o in una accezione più ampia, guardando a tutte le esperienze in cui la mancanza dell’«opera» tradizionalmente intesa appare il dato caratterizzante. Come già fatto con l’«Informale», noi utilizzeremo l’accezione più ampia, comprendendo in questo termine molteplici esperienze, anche tra loro molto diverse, ma che si accomunano per una intenzionalità di fondo che appare molto evidente.
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Cominciamo a delimitare i termini cronologici: il Concettuale inizia alla metà degli anni Sessanta e si esaurisce alla fine degli anni Settanta. Dura appena una quindicina d’anni, e tuttavia rimane una delle fasi più salienti dell’arte contemporanea. In questo periodo troviamo una serie di movimenti e di artisti che, con maggiore o minore consapevolezza, propongono un’arte il cui approccio è effettivamente concettuale: l’Environment, la Land Art, l’Arte Povera, la Body Art, la Narrative Art, ecc. Giusto per comodità di classificazione, possiamo dividere le esperienze concettuali in due gruppi principali: quelle legate al «pensiero» e quelle legate all’«evento». Nel primo caso abbiamo artisti la cui attività, pur legata alla produzione di opere concrete, si pone come messaggio prettamente intellettuale. Nel secondo caso rientrano quelle esperienze artistiche che non producono opere ma solo eventi temporalmente limitati, e la cui traccia rimane solo nella testimonianza (fotografica, filmica o altro) dell’evento stesso. V.11.2 Il «pensiero» concettuale Le premesse più dirette dell’atteggiamento concettuale vanno individuate soprattutto in alcuni movimenti che vengono a definirsi già negli anni Cinquanta e agli inizi degli anni Sessanta. Ci riferiamo soprattutto al «New Dada» e alla «Minimal Art». Con New Dada si intende un movimento nato inizialmente negli Stati Uniti e i cui protagonisti americani confluiranno in seguito nella Pop Art (Rauschenberg e Jasper Johns). Caratteristica di questo movimento fu soprattutto il recupero, in chiave dadaista, dell’oggetto d’uso quotidiano da inserire nelle opere d’arte. Atteggiamento che finirà per attraversare trasversalmente molti fenomeni artistici del dopoguerra: l’uso e la manipolazione di oggetti presi dalla realtà è tratto comune a molti movimenti ed artisti. In Italia il fenomeno del New Dada arriva agli inizi degli anni ’60 con il gruppo dei Nouveaux Réalistes ed in Italia con l’attività di alcuni artisti tra cui il più emblematico rimane Piero Manzoni. Di Manzoni rimangono celebri alcune provocazioni, quali le famose scatolette con i suoi escrementi, il cui significato non può che essere concettuale. Con il termine «Minimal Art» si intende invece un movimento, nato anch’esso negli Stati Uniti negli anni ’60, la cui produzione si caratterizza per grandi strutture tridimensionali, realizzate in forma di geometria assoluta, spesso metalliche a tinte unite, unite secondo criteri di asettica composizione. Le strutture minimaliste si pongono quindi ad una fruizione da cui è del tutto escluso il piacere estetico, ma in cui prevale l’atteggiamento di freddo razionalismo. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, i movimenti che più si pongono in linea con queste premesse sono soprattutto tre: l’«Arte Concettuale», intesa nel senso più proprio, l’«Arte Povera» e la «Narrative Art». Nel primo gruppo possono essere inclusi oltre al già citato Joseph Kosuth, gli americani Bruce Nauman e Lawrence Weiner, il tedesco Joseph Beyus, l’italiano Giulio Paolini. Con il termine «Arte Povera» si fa invece riferimento ad un gruppo di artisti italiani (Mario Merz, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto, e altri), presentati per la prima volta nel 1967 dal critico Germano Celant. Il termine nacque a designare un’arte fatta di elementi primari (acqua, terra, luce, ecc.) che non disdegnava l’uso, alla maniera new dada, degli oggetti presi dalla realtà più umile: stracci, giornali vecchi e così via. Infine nella «Narrative Art» ritroviamo una serie di artisti che lavorano utilizzando testi scritti e immagini fotografiche, spesso a sfondo autobiografico, per costruire percorsi narrativi indipendenti, dove i testi narrano una storia mentre le
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foto ne narrano un’altra. Anche qui la derivazione dall’approccio già sperimentato da Joseph Kosuth appare evidente. V.11.3 L’«evento» concettuale In questa categoria possiamo includere quegli artisti e quei movimenti la cui attività si esprime soprattutto attraverso happening e performance. Ricordiamo che, benché i due termini sono quasi equivalenti nel significato di fondo di "esibizione", la differenza solitamente consiste nel fatto che l’happening è un’azione in cui gioca un ruolo determinante l’improvvisazione e il caso, e spesso prevede anche il coinvolgimento del pubblico, mentre la performance è un’azione o un evento pianificato, il cui esito non è casuale ma è quello che specificamente l’artista vuole ottenere. In senso più generale oggi è maggiormente usato il termine performance per indicare qualsiasi operazione artistica basata sull’esibizione di tipo teatrale. Il precedente più diretto è da individuarsi senz’altro nell’opera di Jackson Pollock, la cui pittura avveniva con una gestualità che, indipendentemente dal prodotto finito, già aveva valenza spettacolari ed estetiche. Ma è anche da ricordare i precedenti più storici, in quanto i primi a pensare all’arte come spettacolo sono stati senz’altro i futuristi, con le loro "Serate futuriste", subito seguiti dai dadaisti del Cabaret Voltaire. Negli anni Sessanta la tendenza all’uso dell’azione teatrale e spettacolare trova sbocco in due direzioni principali: la «Body Art» e la «Land Art». Con il primo termine si indicano quegli artisti che tendono ad utilizzare se stessi in prima persona nell’evento proposto. Spesso, soprattutto negli anni Settanta, queste performance tendevano ad un effetto-choc ai limiti dell’irrazionale, quali il prodursi ferite o nell’infliggersi dolore per produrre negli spettatori livelli di emozione sicuramente inediti. In altri casi la performance aveva effetti meno cruenti, mettendo in gioco meccanismi quali il travestimento o l’azione collettiva. Con il termine «Land Art» si indicano invece quelle operazioni, spesso condotte a scala territoriale, di durata limitata, che, come le performance, lasciano solo una traccia documentaria alla fine del suo accadere. Il caso più emblematico è quello dell’artista bulgaro Christo, divenuto famoso per avere completamente "impacchettato" monumenti di grande dimensione quali il Pont-Neuf a Parigi o il Palazzo del Parlamento di Berlino, o ambienti naturali quali un tratto di scogliera in Australia o un’intera isola in Florida. Ovviamente, l’effetto spettacolare di un simile "impacchettamento" è indubbio, proponendo una diversa percezione della scala di rapporti tra uomo e spazio, ma ovviamente non può che essere contenuta in tempi molto ristretti, qualche ora o al massimo qualche giorno. Altro caso tipico della «Land Art» è l’operazione «Lightning Field» dell’artista americano Walter De Maria, consistente in 400 pali d’acciaio infissi a distanze costanti, in un tratto inaccessibile del deserto del New Mexico. Questa imponente installazione è nota soprattutto attraverso le foto, e alla fine, come altre operazioni concettuali, funziona soprattutto per ciò che fornisce alla definizione di pensieri e concetti nuovi in campo artistico. V.11.4 JOSEPH BEUYS L’artista tedesco Joseph Beuys (1921-1986) è uno dei rappresentanti più emblematici delle correnti concettuali nell’arte della seconda metà del Novecento. La sua è un’arte che si muove lungo percorsi del tutto inediti, fondendo in maniera totale la sua esistenza con il suo essere artista. Vi è qualcosa di così radicale nel suo modo di essere, che verrebbe da pensare che egli abbia davvero identificato completamente l’arte con la vita. 126
Si comprende quindi come, per capire l’arte di Beuys, si debba necessariamente partire dalla sua biografia. Durante la seconda guerra mondiale fu pilota dell’aviazione tedesca. Partecipò all’offensiva nazista contro i russi, ma il suo aereo cadde oltre le linee nemiche. Beuys riuscì a salvarsi perché fu trovato, moribondo e semicongelato, da un gruppo di tartari nomadi, che lo curarono avvolgendolo in grasso e pelli di feltro. Riuscito a sopravvivere, finì in un campo di prigionia inglese. Da questa esperienza egli trasse motivi di ispirazione che lo hanno accompagnato lungo tutta la sua attività artistica, attività condotta lungo un misterioso filo di rinascita spirituale per giungere all’armonia finale dell’uomo con se stesso e con la natura. Questo sentimento di ecologismo molto spiritualizzato hanno portato gran parte della critica a definire Beuys lo "sciamano dell’arte". Finita la guerra egli studiò arte all’Accademia di Dusseldorf, e agli inizi degli anni ’60 divenne professore nella stessa accademia, ma ne fu licenziato nel 1972 per aver organizzato uno sciopero. Intanto, negli anni Sessanta divenne uno dei membri più attivi del gruppo "Fluxus", compagine artistica sia americana sia europea, che riunì molteplici artisti accomunati dalla volontà di ricreare non il linguaggio artistico ma il senso dell’arte in relazione alla fruizione sociale della stessa. Per capire lo spirito di fondo di questo gruppo val la pena citare proprio una frase di Beuys, divenuta celebre: "Ogni uomo è un’artista". È un modo per riaffermare il concetto di «arte totale», riportando l’esperienza estetica (ma più che "estetica" l’esperienza va definita di "ricerca di valori e di significati") al vissuto quotidiano da cui nessuno è escluso. L’opera di Beuys, fatta soprattutto di azioni concettuali e di happening, lo resero famoso soprattutto negli Stati Uniti, dove trovò tra l’altro l’amicizia e la stima di Andy Warhol. Il confronto tra i due artisti rimane una chiave importante per comprendere la base ideologica che attraversa l’arte del secondo dopoguerra, e per meglio capire le differenze che in questo periodo intercorrono tra arte americana e arte europea. Mentre la Pop Art statunitense conserva uno spirito ottimistico con alla base le chiavi del successo americano (ricchezza, consumismo, crescita, espansione continua, ecc.) il Concettuale europeo, impersonato soprattutto da Beuys, ha un rapporto più problematico e complesso con la crisi di coscienza che sempre accompagna l’intellettuale europeo. Crisi che deriva dal peso di una tradizione ingombrante, fatta sia di luci sia di ombre, a differenza degli americani che non hanno passato, e quindi nessun errore da dover rimediare. Beuys, già aviere dell’aviazione tedesca combattente dalla parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, è l’espressione più radicale dell’intellettuale europeo che cerca di rinascere da un passato ingombrante. E lo fa con i tratti, appunto, dello sciamanesimo: una sapienza antichissima costruita non sui rapporti di forza tra gli uomini, ma sul rapporto costante e profondo con la natura. Non a caso Beuys fu uno dei fondatori del movimento dei Verdi in Germania, nazione che per prima trovò momenti di coesione politica intorno alle idee ecologiche. E proprio dall’istanza di diffondere la sensibilità ecologica tra la gente nacque una delle sue opere più interessanti: «7000 querce». Con questa operazione, iniziata nel 1982 e protrattasi fin dopo la sua morte, egli ci ha consegnato un qualcosa, che forse è difficile comprendere nel campo dell’arte, ma che sicuramente ha grandissimo fascino nella possibilità che offre di rimeditare il ruolo sociale dell’artista.
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OPERE Joseph Beuys, 7000 querce, 1982 Nel 1982 Joseph Beuys fu chiamato a partecipare alla settima edizione della mostra «Documenta», che ogni cinque anni viene tenuta nella cittadina tedesca di Kassel. Egli non portò una scultura nel senso tradizionale del termine, ma accumulò davanti al Museo Federiciano di Kassel un triangolo formato da 7000 pietre di basalto. Ognuna di quelle pietre doveva servire a piantare un albero. Chiunque, versando una somma di denaro, poteva "adottare" una di quelle settemila pietre, e la somma ricavata sarebbe servita a piantare una quercia. Così, man mano, il mucchio di pietre andò riducendosi, fino a scomparire, e settemila nuove querce, con alla base una di quelle pietre di basalto, comparvero negli spazi circostanti la città di Kassel. L’operazione si è protratta per cinque anni, in quanto l’ultima quercia è stata piantata nel 1987, quando Beuys era purtroppo già morto, ma in realtà l’opera si compirà in un arco molto più ampio, in quanto ci vorranno circa trecento anni prima che l’insieme delle querce piantate diventi il rigoglioso bosco che Beuys immaginava pensando a questa opera. Non ci si può sottrarre a qualche interrogativo sul significato di questa operazione. L’opera non può essere acquistata né venduta, non può essere esposta in un museo o in una mostra, non può neppure essere fruita come fatto estetico, in quanto non vi si possono rintracciare tratti formali. Un tale concetto di "arte" è sicuramente diverso da quanto finora visto. E tuttavia non si può negare che vi è un significato profondo e suggestivo in questa operazione di Beuys. L’artista ha sicuramente creato qualcosa, addirittura un enorme bosco, ma ciò che ha dimostrato è soprattutto che la nostra sensibilità verso i valori e i significati aumenta se vi è la mediazione dell’arte. Piantare degli alberi è operazione che quotidianamente viene svolta in tutti gli angoli del mondo. Eppure, nella sua banalità, ha significati profondi, soprattutto se consideriamo la crisi ecologica che il mondo industrializzato attraversa. E così, attraverso un rito collettivo, segnato dall’adozione di una pietra, Beuys è riuscito a calamitare l’attenzione di tutta la pubblica opinione internazionale su un’operazione alla quale diversamente non avremmo accordato tutto il valore che necessita. Ecco, dunque, il nuovo ruolo dell’artista nella società contemporanea: ritrovare quei percorsi della vita che ci riportino non ad apprezzare la bellezza, come fatto di edonismo o di piacere, ma a riconoscere i «significati» ed i «valori» che ci circondano e ai quali non possiamo rinunciare.
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