MM LUGLIO 2012

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PERIODICO DI CULTURA GIOVANILE diretto da S. Alfredo Sprovieri

Anno VII Numero VI

LO SCO O

IL TR IS CASO TE MIGR DEL ANT IGNO E YO

P

Rosarn

o (RC)

La storica voce della Nazionale racconta quant’è cambiato il calcio

«GIRANO TROPPI SOLDI, AI MIEI TEMPI AI CAMPIONI BASTAVA UNA PARTITA A SCOPA...»


L’

Editoriale

CULTURA CONTRO CRISI E VEDIAMO CHI LA SPUNTA

Se in questi mesi siamo riusciti a chiedere zero e portare uno al territorio abbiamo dimostrato che la cultura è un modo efficace per combattere la crisi. Dateci una mano e rilanciamo la sfida, vale la pena di provarci. Di S. Alfredo Sprovieri Abbiamo deciso di combattere la crisi contrapponendole la cultura. E’ stata un’idea nata in cinque secondi. Si taglia la cultura, dicendo: “Non ci sono più soldi quindi non si può fare niente, ora ci sono altre priorità”. Balle o quantomeno alibi, l’abbiamo dimostrato. Da aprile per tre mesi abbiamo presentato libri, organizzato concerti, convegni e dibattiti, attraendo persone dal centro alla in periferia in serate infrasettimanali e lavorative, col caldo e col freddo, come se tutto ciò fosse la normalità. Il nostro primo slogan fu “ac-

cendere le idee” e dopo dieci anni abbiamo spesso avuto la soddisfazione di non avere più posti a sedere per la gente che è intervenuta ai nostri incontri. Certo, altre volte eravamo pochini e si poteva e doveva fare tutto molto meglio, ma la cosa più importante è che i ragazzi ci sono stati, a discutere, interrogare e conoscere i tanti ospiti della rassegna di incontri “Cultura Vs Crisi”. L’abbiamo accostata alla guerriglia semiologica, ricordando la lezione di Umberto Eco. Lottare contro lo strapotere

fondata nel 2002

Vice Direttore: Paolo Vigna, Salvatore Intrieri Grafica: Gabriele Morelli_gabrixmorellix@libero.it Amministrazione: Fausto La Nocara Segreteria di redazione: Irene Napoli Indirizzo mail: ammasciata@libero.it Profilo facebook: mmasciata sampietrese Pagina Twitter: mmasciata

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della comunicazione di massa significa non tanto andare a cambiare il contenuto dei messaggi, ma animare l’analisi pubblica nei luoghi dove essi arrivano (“non occupiamo la televisione, mettiamo una sedia davanti a ogni televisione”); altro non è stato quindi che rendere vivi in mezzo a noi gli autori di quelle inchieste televisive, di quei libri, di quegli articoli di giornale che subiamo ogni giorno senza la possibilità di replicare. Il paragone con “La Repubblica delle Idee” andata di scena di recente a Bologna regge, l’idea è quella, perché un giornale anche questo deve fare, far incontrare e discutere la gente. Il nostro posto ha saputo essere cornice di anteprime importanti e ragionate, attraendo decine di visitatori inusuali. Abbiamo usato luoghi pubblici come la biblioteca e il palazzo municipale, ma abbiamo anche soprattutto coinvolto gli operatori commerciali, organizzando alcuni incontri nei loro locali senza chiedere altro in cambio. Non abbiamo chiesto un euro di finanziamento nemmeno al pubblico, semplicemente perché non ve n’era bisogno. Abbiamo coperto le poche spese in modo autofinanziato e pensiamo di aver portato un piccolissimo contributo a chi ha ristorato e accolto gli ospiti delle numerose serate. L’abbiamo fatto in un periodo solitamente ritenuto “morto”, dimostrando ancora che si può puntare anche sulla primavera e non solo sull’estate per far conoscere le peculiarità del nostro territorio. Al di là di tutto quello che abbiamo imparato e messo in relazione fra di noi - un motore immateriale dal valore inestimabile - se è vero, come è vero, che abbiamo chiesto zero e dato uno al territorio, allora siamo riusciti a dimostrare che la cultura è un modo efficace ed efficiente per com-

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battere la crisi, abbiamo dimostrato economicamente che invece di tagliare bisogna investire in idee e cultura. Ribadiamo, è solo un piccolo esempio, ma in questi mesi troppe volte ci siamo imbattuti nei pistolotti di amministratori di vari livelli che provavano a giustificare il taglio di fondi alla cultura mentre con l’altra mano compivano sprechi grotteschi, con i soldi di tutti. E’ tempo che queste buone pratiche entrino in circolo fra la gente e le associazioni, che chi ci governa si adegui o se ne ritorni a casa. In questo senso siamo felici di potervi annunciare che la rassegna “Cultura VS Crisi” targata Mm continuerà grazie all’impegno dei ragazzi del collettivo, che sono sempre di più e sempre più decisi a vivere questo presente sotto la spinta delle buone idee. Ma bisogna dare una mano a tutti loro; c’è bisogno del protagonismo di ognuno di voi, perché abbiamo deciso di rilanciare il progetto con MMASCIATA.IT il nostro sito-blog che permetterà di connettere tutte le informazioni sulla nostra attività in una veste giornalisticamente originale. Nel Paese che ogni anno spende 3milioni e mezzo di euro pubblici per editare giornali come "Primorski Dnevnik", un quotidiano in sloveno realizzato a Trieste, e nella regione che le statistiche indicano come quella più povera e quella in cui si legge di meno, converrete sull’idea che sia da “ciùati” - da pazzi - provarci con una testata fatta da ragazzi e finanziata dai lettori. Proviamoci lo stesso, noi insieme a voi. Follia e cultura unite contro la crisi, e fra qualche anno vediamo chi avrà vinto. (@sprovio)

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L’

intervista

Bruno Pizzul ha 74 ed è fiuliano, tifa Udinese e Torino e ha anche un passato da calciatore professionista. Era un buon centromediano, prima di rompersi il ginocchio. Si laurea e insegna nelle scuole, poi vince il concorso alla Rai. Diventa il telecronista della Nazionale dal 1986 fino al 2002.

«IL MIO CALCIO NON C’È PIÙ»

A 10 anni dalla sua ultima telecronaca della Nazionale Bruno Pizzul, spiega com’è cambiato il mondo del pallone. Così come la società. E se dovesse scegliere tra Maradona e Messi direbbe… 4

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di Sergio Conti «Partiti». Il participio passato più famoso della storia del calcio lo ha introdotto un omone di quasi due metri. Bruno Pizzul, friulano doc, la voce dal 1986 al 2002 della Nazionale, esordiva così dopo il fischio d’inizio dell’arbitro, per evidenziare l’avvio delle ostilità tra le due compagini sul rettangolo verde. Stile inconfondibile, come quella stazza da centromediano degli anni 50, che archiviò i sogni del pallone all’indomani di un infortunio al ginocchio. Un maestro di giornalismo e di linguistica. Ormai in pensione, tutto il suo tempo è dedicato alla famiglia e al volontariato, come testimonial di diverse campagne. Stavolta è in Calabria per sensibilizzare alla donazione di sangue del cordone ombelicale. E per il più classico degli amarcord. «Il calcio è cambiato. Troppi soldi».

«Dino Zoff, Fabio Capello, Gianni Rivera, Roberto Baggio giusto per fare qualche nome. C’era il piacere di stare insieme, ma non come giornalista e calciatore. Eravamo persone. Anche giocare a scopa era divertente. Così, quando capita, rinverdiamo quest’abitudine che un tempo era consolidata e oggi, invece, si è frantumata». Bella questa continua alternanza tra passato e presente. Mi cimento nel confronto: chi è più forte, Maradona o Messi? «Bella domanda». Che merita una bella risposta. «Messi ha ancora margini di miglioramento straordinari, Maradona faceva alcune cose che andavano addirittura contro le leggi della fisica. Entrambi non si possono definire degli “adoni dello sport”, niente fisici statuari, ma come si fa a scegliere il migliore?».

Ora girano troppi soldi. Ai nostri tempi eravamo prima di tutto persone, con campioni come Zoff, Baggio, Capello, avevamo il piacere della partita a scopa, era divertente.

Dice? «Ma è cambiata anche la società in cui viviamo e non in senso positivo. Questo però non deve diventare un comodo alibi. Anche il calcio, in tutte le sue espressioni, è un tipico fenomeno sociale, interessa tanta gente, suscita passione e attenzione. E quelle che sono le strutture, le contraddizioni, la maleducazione che percorre la nostra società civile, finiscono inevitabilmente per coinvolgere anche il calcio. Che ha assoluto bisogno di recuperare un minimo di respiro etico, del senso dei valori e del rispetto dell’avversario. E, magari, alimentare anche un pizzico di quella cultura della sconfitta che invece noi, in Italia, non siamo proprio capaci di praticare». È cambiato anche il modo di raccontare la partita. Dalle maniere garbate e dalla ricercatezza del linguaggio narrativo, alle (tele e radio)cronache di oggi, in cui la cifra stilistica è rappresentata dalle urla, dal “sopra le righe” a tutti i costi. «Lo fanno nei telegiornali alla lettura dei titoli, va di moda questa maniera “ansiosa”. È una modalità comunicativa che aderisce a questo periodo storico. Una volta si badava maggiormente all’aspetto formale. Altri tempi».

Suvvia non mi dica che ai suoi tempi qualche critica non la rivolgevano anche a lei e ai suoi colleghi di allora? «Ma certo».

Quindi nemmeno lei si è fatto un’idea? «Tutti coloro che hanno giocato con Schiaffino, come compagno di squadra, non accettano che si possa mettere in discussione il primato di Schiaffino. Questo per dire come i criteri di valutazione sono tanti ed è quasi impossibile fare raffronti». Il gol più bello che ha raccontato Bruno Pizzul? «Quello di Marco Van Basten nella finale del campionati d’Europa tra Olanda e Unione Sovietica nel 1988». L’unico cruccio, per questo straordinario esempio per generazioni di aspiranti commentatori sportivi, è il non essere mai riuscito a raccontare l’Italia campione. Un signore si avvicina per salutarlo e gli ricorda i mondiali del 1982. «Ci ha regalato grandi emozioni» dice. Peccato che non fosse stato Pizzul ma Martellini il telecronista del Mundial. Brunone non fa una piega e ringrazia ugualmente per l’apprezzamento. È un campione anche nell’ironia. Campione mondiale.

(@sergioconti9)

Sono tutto orecchie. «Quando facevamo le telecronache Carosio, Martellini e poi anche io, molti ci dicevano: “Parlate troppo, c’è la televisione, ci sono già le immagini”. Avevano ragione». Chissà cosa avrebbero detto quei critici al sentire una cronaca sportiva di oggi, con telecronista, commentatore, due a bordo campo vicino alle panchine, e chi più ne ha…? «Hai la sensazione di avere questo diluvio di parole che ti assale. Tanto da restare un po’ sconcertati. Ma anche il rapporto tra giornalisti e protagonisti del campo è molto diverso». Un campione che le è rimasto nel cuore? Con cui aveva stretto amicizia?

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L’

esclusiva

ROSARNO ECCO LA LAPIDE DEL

MIGRANTE IGNOTO

Il commento della sociologa Siebert: “Impressionante e struggente, testimonia impotenza e denuncia”.

di Matteo Dalena Ancora Rosarno. Dalle assolate campagne di duro lavoro al cimitero cittadino. Dai lettori ci arriva una foto che lascia senza parole. Siamo nel luogo dove la morte, democratica per antonomasia, appiana differenze d’essenza o di status. O per lo meno dovrebbe. Aprendo il file c’imbattiamo in una sepoltura anonima che riporta una scritta emblematica: «Sconosciuto (Straniero) di colore». Non un volto, solo un lumino/ niuna decenza dinanzi all’omega/ senza colore la fin del cammino/ umano scempio memoria ti nega. Potrebbe risuonare così l’incipit di una nuova “A Livella”. Il cantore moderno è un casuale visitatore di un cimitero del Sud, armato di fotocamera e di sensibilità. Un lettore che ci ha segnalato questa notizia da sviscerare, questa storia anonima su cui riflettere. Una storia sconosciuta che ci si presenta nella sua fase Omega: la fine. Un “Esposito Gennaro netturbino” dei nostri tempi, anzi, nemmeno. Perché quel genio di Antonio De Curtis, non si sarebbe mai neppure sognato

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di privare un proprio personaggio del patrimonio più grande e inviolabile: l’identità. Ancora una volta la questione immigrazione non merita un nome e un cognome, qualsiasi sia la storia siamo abituati a leggere di “afghani” “tunisini”, o di migranti. Il nome e il cognome, l’età e la storia - anche in pochi cenni sembra non interessare a chi scrive e nemmeno a chi legge; così magari tutti evitiamo di immedesimarci nel dramma di un essere umano come noi, di un migrante come lo sono da secoli i calabresi. Nessuno a Rosarno ha inteso scoprire e scrivere il nome di questo “sconosciuto” deceduto. Senza nemmeno la data di scomparsa è praticamente impossibile scoprire cosa gli è successo, è come se non fosse mai esistito. Prima di farcene una ragione, sempre comunque umano, proviamo a chiedere a chi fenomeni di tal sorta li studia da sempre, con attestati di valenza sovranazionale. Chi meglio della nota sociologa Renate Siebert può aiutarci a comprendere? “La foto è davvero impressionante, struggente e di non facile lettura”, commenta la studiosa tedesca dell’Università della Calabria. “Personalmente, però, non mi spaventa, non mi fa venire associazioni a razzismo e simili. Mi fa quasi tenerezza, perché leggo nella scritta una testimonianza di impotenza, ma anche di denuncia“. Impotenza e denuncia, chiediamo alla dotta Renate di sapprofondire il concetto: “Tutto dipende da cosa immaginiamo circa l’autore delle parole scritte: se è stato (a) un (a) bianco (a), rappresenta forse un tentativo di dare una vaga identità al morto (ovviamente dentro una cornice razzista della percezione diffusa, ma non come convincimento di chi scrive, razzista sarebbe piuttosto non scrivere niente). Se, invece, la scritta viene da un(a) compagno (a) di sventure assume insieme un saluto al morto e un gesto beffardo verso la società razzista. Comunque, qualcuno ha messo dei fiori“. I fiori, appunto. Assieme al lumino uniscono nella morte e danno speranza. Colorano la fine del cammino di un povero sconosciuto, immigrato, senza nome. I fiori e il lumino sono gli unici segni di un’accettazione parziale (e magari solamente postuma) della persona estinta. Semplici congetture. Allora ci tranquillizziamo cercando, per la nostra poesia, un finale che appiani e stabilisca orizzontalità, proprio come “A Livella” di Totò. “Ma timido lume rischiara la piana/ pur appassito un fiore affratella/ morte scabrosa, etiopica o ariana/ storia sbagliata, nuova Livella”.

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Identità culturali e colonialismo, due testi nel segno di Renate

Renate Siebert, sociologa di origine tedesca, e’ professoressa ordinaria di sociologia del mutamento. E’ nata a Kassel ed ha studiato a Francoforte, ma vive da molti anni a Cosenza, ed è fieramente calabrese. Allieva di Theodor W. Adorno vive e lavora infatti all’università della Calabria e si occupa di questioni che riguardano il Mezzogiorno e l’area del Mediterraneo con particolar riferimento a questioni di genere, di sessismo e di violenza mafiosa, di razzismo e del colonialismo.

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E’ da poco uscito l'ultimo volume di Renate Siebert dal titolo “Voci e silenzi post-coloniali. Frantz Fanon, Assia Djebar e noi”, edito da Carocci, ma è anche sugli scaffali “Attraverso lo specchio, scritti in onore di Renate Siebert” edito da Pellegrini. In quest’ultimo lavoro un gruppo di studiosi rende omaggio alla persona e al lavoro della sociologa, ponendosi simbolicamente di fronte a uno specchio che riflette, ma che al contempo induce ad andare oltre ciò che appare. Essi assumono come punto di partenza tre parole-chiave del dibattito teorico contemporaneo – i concetti di riconoscimento, culture e identità – e avviano un dialogo che li conduce a esplorare, secondo un approccio multidisciplinare, territori tuttora incogniti della nostra società.

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C

ronache

IL GIORNO CHE NON C’È”… LA ’NDRANGHETA AL FIANCO DI DON GIACOMO PANIZZA E DI CHI LOTTA PER UNA

CALABRIA MIGLIORE

di Paolo Vigna

I

l posto è Lamezia Terme, la data è quella del 29 febbraio, un giorno “raro”. Come raro è il personaggio di don Giacomo Panizza: bresciano doc (come lo conferma il suo accento) ma più calabrese di molti altri. Fondatore di “Progetto sud” nel 1976, una comunità autogestita insieme a persone con disabilità che contribuisce a diverse iniziative della Caritas, divenne bersaglio delle cosche del posto nel 2002, quando prese in gestione un palazzo confiscato ad una famiglia mafiosa. Da allora è costretto ad un programma di protezione. “Sono stato minacciato pesantemente e tuttora lo fanno saltuariamente, però avrei ancor più paura a sottomettermi a questi qua” confessò nella redazione di Mm a San Pietro in Guarano, nell’agosto del 2011 (l‘intervista completa si trova su Youtube). Don Giacomo in questi anni non ha mai arretrato di un passo il suo incedere e anche grazie alla partecipazione ai programmi di Fazio e Saviano è divenuto un simbolo della Calabria che lotta. Non ha cambiato idea e, nonostante le minacce ricevute a pochi giorni dalla manifestazione indetta dalla fondazione da lui creata e dalla Cgil, si trova a sfilare in mezzo a tutti quelli che lottano con lui nel quartiere Capizzaglie di Lamezia Terme. C’eravamo anche noi, quel 29 febbraio. Molte le personalità di spicco che partecipavano alla marcia della legalità, tra cui: il vescovo Luigi Cantafora, il sindaco Gianni Speranza e il procuratore Salvatore Vitello, ma non era una passerella, anzi. La manifestazione partiva dalla scuola “Don Saverio Gatti” che, proprio pochi giorni prima, era stata scenario di un devastante atto vandalico e considerato luogo del riscatto culturale e so-

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ciale di un quartiere, da sempre considerato borderline. Rullo di tamburi, chitarre e leggerezza, quella leggerezza che solo i ragazzi pieni di speranze riescono ad esprimere. Quando invece, la marcia si ferma e dal microfono porta la sua testimonianza un imprenditore locale, lo scenario è totalmente diverso: l’attenzione è generale, la commozione è presente su tutti i volti dei presenti. Al termine dell’intervento, i sentimenti trasmessi, si liberano in un applauso che ha il sapore del riscatto. La marcia, dopo l’accensione di candele simboliche e dopo ancora alla distribuzione del pane locale (il pane, è il simbolo dell’economia lametina), riprese la sua spensieratezza incamminandosi verso il piazzale della Chiesa San Giovanni Calabria, dove era stato montato il palco chiamato ad ospitare il concerto dei “Kalamu“, affermata folkband calabrese; prima però gli interventi del prefetto Antonio Reppucci e dei sopracitati Cantafora, Speranza e Vitello. “Il giorno che non c’è” è stata un’esperienza forte, una manifestazione vera, ribadiamo, sotto i palazzi delle famiglie più potenti della zona. Dimostrazione della Calabria che vuole rinascere e che vuole dire basta allo strapotere delle cosche. Un’iniziativa che fa rumore ed infastidisce in loco (ne sono la dimostrazione gli atti intimidatori commessi pochi giorni prima alla fondazione Progetto Sud e, probabilmente, alla scuola Don Saverio Gatti) non una parata fine a se stessa di cui tutti parlano per dimenticarsene il giorno dopo. La lezione è quella che don Giacomo consegnò a tutti noi in quella serata di un anno fa: “Bisogna sempre parlare, denunciare la mafia, perché la mafia regna ovunque c’è omertà”.

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SE LA MAFIA PORTA

IL TACCO 12 BIAGIO SIMONETTA RACCONTA COME CAMBIANO LE COSCHE,

E COME POSSONO ESSERE SCONFITTE… di Giovanna Marsico

B

iagio Simonetta, 32enne di San Giovanni in Fiore, è considerato da molti una sorta di “Saviano della Calabria”; giornalista e scrittore, si occupa infatti soprattutto di ’ndrangheta e di tematiche legate alle organizzazioni criminali. Ha lavorato per molti anni al Quotidiano della Calabria, dove ha approfondito gli eterni irrisolti della nostra terra per poi approdare ai maggiori quotidiani nazionali, Corriere della Sera su tutti. Nel 2010 lascia, come troppi dei nostri giovani talenti, la sua terra e si trasferisce a Milano, dove collabora con alcuni giornali come freelance. Qui pubblica il suo libro “Faide. L’impero della ’ndrangheta”, per Cairo Editore. Un libro in cui racconta in prima persona come ha conosciuto e ha cercato di far conoscere questo triste fenomeno. Ho avuto occasione di parlarne con lui per un’intervista contenuta nel mio lavoro di tesi sul ruolo delle donne nella cosiddetta Onorata Società, partiamo da lì.

Ti occupi di ‘ndrangheta da anni, e quotidianamente ne racconti i retroscena. Cosa pensi del ruolo che le donne oggi rivestono all’interno di questa organizzazione? “Direi che il ruolo delle donne all’interno della ‘ndrangheta è cambiato con il tempo. Già sul finire dell’800, in realtà, c’è traccia della loro presenza nei clan. Le chiamavano sorelle d’omertà. Potevano partecipare ad eventi delittuosi, ma per farlo dovevano travestirsi da uomini. Oggi non ne hanno più bisogno lo fanno in tacco 12.” Il potere che si trovano a gestire è un potere di delega o è gestito in prima persona? “La figura dominante è sempre quella maschile. Le donne intervengono per gestire latitanze, per mandare avanti il business quando l’uomo è detenuto. Invece è totalmente loro il compito di tirar su la famiglia e soprattutto l’educare i figli.” Come ti spieghi che le donne più affini alla cultura della cura e dell’affetto, gestiscono fatti di sangue? Questa contraddizione le rende più fragili o più pericolose? “E’ una domanda difficile. Penso sia soggettivo e non c’entra l’essere uomo o donna. Ci sono donne più cattive di altre. Ovviamente, però, essendo più fragili sono per natura più pericolose. Gestire certe situazioni con fragilità può partorire cose orrende. Poi se sono madri è ancora peggio.” Sei d’accordo con la tesi che quello femminile nella ‘ndran-

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gheta è un processo di pseudo emancipazione? “Assolutamente sì. Per la mia personale esperienza, non vedo nulla di emancipativo nella ’ndrangheta. E’ un fenomeno vecchio fatto di valori assolutamente passati. Le donne rimangono comunque sotto la direzione dell’uomo. E questo non può essere considerato emancipazione.” Riflettendo sui casi delle donne che si ribellano all’Onorata Società, e per questo rischiano e spesso perdono la vita, come Lea Garofalo, a suo parere questa è la storia di uno Stato impreparato e troppo burocratico, che lascia sole queste donne o è la lotta ad un nemico troppo forte che non dimentica chi tradisce? “Sul fatto che lo Stato italiano è troppo burocrate si potrebbe aprire un discorso lunghissimo. Sicuramente alcune procedure non aiutano i collaboratori di giustizia. Sulla lotta ad armi impari, invece, credo che, purtroppo, sia proprio così. Il clan non dimentica. Si vendicano anche dopo anni. Su di te o su qualcuno vicino a te. La lotta è ad armi impari perché la ‘ndrangheta usa la violenza, e la violenza, per definizione, non può appartenere ad uno Stato civile.” Quale secondo te è il modo più adeguato, da cittadini, per combattere nel quotidiano la ’ndrangheta? “Parlarne, parlarne e ancora parlarne. Sono convinto che la letteratura e le parole possano smuovere le coscienze, molto più di un kalashnikov.”

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L’

inchiesta

LA METRO LEGGERA

L’opera che dovrà ammodernare l’area urbana costa molto e rischia di rimanere senza coperture finanziarie. Uno studio scientifico su una rivista internazionale rivela che c’era un modo per spendere (e inquinare) la metà...

Di S. Alfredo Sprovieri Cento sessanta milioni di euro per i diciannove chilometri che dovranno portare Cosenza nella modernità. Parliamo della famigerata Metropolitana Leggera, ormai diventata verosimile realtà dopo il sopralluogo a Rende e Cosenza dei delegati del ministero dei Trasporti e della commissione Europea nello scorso mese di Aprile. E’ risaputo, la nuova linea di trasporto urbano dovrà collegare il centro della città all’università di Arcavacata: dalla stazione ferroviaria di Cosenza centro, passando per viale Mancini, fino all’Università della Calabria, appunto. La Metro cosentina deve andare di corsa però, ha già perso troppo tempo e per rispettare i canoni imposti dalla Ue bisognerà far diventare presto una solida realtà quello che per decenni è stata solo una meteora. Il primo difficile passo sarà trovare le effettive coperture finanziarie - e a leggere l’interrogazione presentata in questi giorni alla Regione la cosa è tutt’altro che scontata - il secondo sarà avviare i lavori, con imponenti cantieri e rispettivi disagi. In nome di una mobilità moderna la città dovrà rassegnarsi ai binari ferrati e alle importanti opere architettoniche correlate, previste da un progetto che ha ottenuto ottimi riscontri in tutte le sedi istituzionali ma che rischia di restare lettera morta se non si reperiranno in fretta tutte le risorse necessarie. Destino inevitabile? Secondo un giovane ingegnere cosentino c’era un’altra realtà possibile, anzi auspicabile. Alessandro

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Ruvio, che di notte infiamma le platee con ciuffo e chitarra d’autore, si è laureato alla Sapienza di Roma proprio con uno studio sull’“Elettrificazione di un sistema di trasporto urbano di superficie nella città di Cosenza”. Un lavoro di tesi che ha proseguito e specializzato con il contributo di luminari della materia, fino alla possibilità di vederlo pubblicato su una rivista scientifica che raggruppa le ricerche internazionali sulla materia. La pubblicazione ha il titolo "An Environmental Sustainable Transport System: A Trolley-buses Line for Cosenza City (M.C. Falvo, R. Lamedica and A. Ruvio)" ed è già stata preliminarmente presentata, in occasione dello Speedam 2012, all’interno di una conferenza internazionale a Sorrento, ed è già disponibile in Rete. Il progetto ha interrogato la comunità internazionale del settore, ottenendo molti positivi riscontri in fase di presentazione. Perché? Perché un filobus moderno e avanzato costa meno, inquina di meno, ed è più funzionale all’idea di una città a dimensione d’uomo. Tutte le simulazioni e le valutazioni d’impatto eseguite dal team di ingegneri infatti, hanno portato a conclusioni che vanno verso questa linea, ed è particolarmente significativo che il campo di sperimentazione di tali postulati sia stata (anche se in pochi se ne sono accorti) la città dei Bruzi. Significativo anche per come dovrà diventare, o meglio, per come sarebbe potuta diventare, l’area urbana del futuro. Partiamo dai soldi, dai costi inerenti all’elettrificazione della

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CHE LEGGERA NON E' rete filoviaria. Bene, escludendo dall’analisi le sezioni riferite all’eventuale ammodernamento stradale, delle fermate e in particolare di tutte quelle opere civili quali rotonde, svincoli, pensiline, banchine ecc., indispensabili per il servizio filoviario, si scopre che la spesa per garantire lo stesso volume di traffico con i filobus sarebbe stata la metà rispetto alla metro leggera. Secondo la ricerca inoltre, il sistema filoviario si presenta preferibile sia per quanto riguarda l’inquinamento acustico, ridotto rispetto a un sistema su rotaia, sia per quanto riguarda il fenomeno della corrosione elettrolitica nel sottosuolo che, al contrario dei sistemi su rotaia, non è presente nei sistemi filoviari. Infine i moderni filobus si presentano molto più flessibili delle metropolitane leggere, caratteristica che apre un’infinità di scenari più aderenti ai tracciati già esistenti. Spieghiamoci meglio: il filobus è un mezzo ibrido, viaggia su ruote grazie all’elettricità che gli arriva dall’alto. Se ci sono degli eventi speciali in città, che devono servire altre tratte (prendiamo ad esempio il Lungofiume nella stagione estiva) i mezzi possono essere passare all’alimentazione a carburante a bassa emissione e coprire tranquillamente il servizio. Con lo stesso sistema, in caso di guasto alla linea, il mezzo può proseguire la sua marcia cambiando sistema di alimentazione; ancora, in caso di guasto, un filobus sostitutivo può facilmente sorpassare o sostituire quello fermo. Con la metro, se si ferma qualcosa si ferma tutto. Proseguiamo: servono meno cantieri

per realizzare la piattaforma filobus e la rete stradale può praticamente rimanere com’è, senza essere stravolta dai binari. Ovvio inoltre prevedere che un sistema avanzato su gomma praticamente ha il minimo impatto sulla città, non ci sono i rumori delle strade ferrate e non rimanda cicli di corrente ad alto voltaggio nel terreno. Infine: se città medio grandi come Bologna o Genova hanno scelto questa soluzione, se anche grandi metropoli come Roma stanno adeguando alcune linee di trasporto urbano in questo modo, se tutte le città delle dimensioni di Cosenza scelgono il filobus, perché Cosenza ha scelto la Metro Leggera? Come sappiamo, questa importante ricerca infatti non è la sola ad aver ipotizzato altre soluzioni per il trasporto nell’area urbana Cosenza-Rende. Abbiamo già in precedenza parlato su Mm dei progetti per potenziare la rete ferroviaria in disuso o per realizzare una rete di tram-treni come avviene nelle città del Nordeuropa. Tutte parole che verranno spazzate dalla Metro Leggera e dalla sua idea di trasporto urbano. Se trovano i soldi, questa è stata la scelta che diverrà realtà cantierabile. Di questi tempi sarebbe facile affidare all’antipolitica il compito di rispondere ai perché sia stata adottata probabilmente la soluzione più imponente e quindi costosa. Non lo facciamo, ma resta imperante pretendere lo stesso meccanismi che rendano il territorio più partecipe sulle decisioni che riguardano il suo futuro. Dove deve andare e come deve farlo dovrebbe deciderlo lui, con tutti i saperi (spesso giovani) di cui dispone.

#Oil, oltre il labririnto politico potere alla fantasia

#Oil, volenti o nolenti, resta un’esperienza storica per Cosenza e i suoi dintorni. Un movimento nato in Rete che ha portato centinaia e centinaia di persone a discutere, a incontrarsi, a manifestare in piazza per i propri diritti. Mm ha partecipato al creativo Flash Mob contro il precariato organizzato a Piazza XI settembre di Cosenza lo scorso 7 maggio, e ha incontrato portavoce del movimento nella rassegna Cultura VS Crisi. Il tutto ha rappresentato un’esperienza controversa ed esaltante per i tanti ragazzi che ogni giorno vivono mano nella mano con tanti invisibili carcerieri sociale. Da quell’esperienza di piazza però il movimento, lo dice la parola stessa, è mutato. Si è compresso ed espanso a velocità variabili, fra la lenta incudine democratica delle assemblee pubbliche e l’autoritario martello decisionale di Facebook ha creato nuovi legami e ne ha rotti di precedenti, quindi ha anche mutato. Un particolare caso di sfera pubblica che ha attratto la curiosità di tantissimi, soprattutto sul gruppo di discussione nato in seguito al suicidio di una giovane precaria cosentina. PoliticiSì-politiciNo il primo banco di prova di un gruppo che col passare del tempo si è dimostrato un interlocutore politico e culturale più credibile dei partiti, un media più accattivante dei giornali. Solo lì si è potuto senza veli vedere i poteri amministrativi della città pronti a rispondere e litigare sulla gestione degli spazi pubblici, sull’emanazione dei bandi di gara, sull’idea di città. La città scommette sul suo fallimento, bisbiglia pettegolezzi, sfodera machismi e anacronistiche accuse neoborghesi, ma dovrebbe sapere che l’olio non si scioglie con l’acqua. Nel cantiere estivo di questi creativi ribolle un sito Internet e altre iniziative per sostenere un diverso utilizzo della cultura, di #Oil sentiremo ancora parlare. (sas)

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La

storia

LA STRAGE DIMENTICATA Dicembre 1943, nell'incidente sul treno verso San Pietro persero la vita tre ferrovieri, ancora oggi senza un perché

di Igino Iuliano Il 5 dicembre del 1943, un treno merci delle Ferrovie Calabro Lucane con locomotiva a vapore, trasportava, dalla Sila verso San Pietro in Guarano e Cosenza, un carico di tronchi e semilavorati di legno. Intorno alle 22, lasciata la fermata di Fondente, mentre proseguiva la sua corsa per la successiva stazione di Santo Janni, nei pressi di località "Gaddrùzzu" non riusci a frenare, subendo una forte accelerazione in quella tratta di forte discesa. Quella folle corsa causò il deragliamento della locomotiva che, in tal modo, andò a investire violentemente l’imbocco della galleria. L’irrefrenabile urto, provocò lo scoppio della caldaia a vapore e un contraccolpo che fece accavallare i carri del convoglio gli uni sugli altri. Alcuni di essi furono proiettati sopra la galleria, e poi, per il decllivio del terreno, precipitarono nei pressi del ruscello sottostante. Due ferrovieri, Pietro Cozza di San Pietro e Mario Milito di Lappano, che viaggiavano fuori servizio nella cabinetta del carro bagagli, resisi conto della situazione, saltarono dal treno prima dell'impatto e si salvarono; si salvò anche il macchinista Fanelli, ma rimase cieco. Il capotreno Luigi Turano e il frenatore Francesco Gallo, cognati, entrambi di San Pietro e il fuochista

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Salvatore Sangiacomo, purtroppo perirono. Appena la notizia arrivò in paese, molti sampietresi, fra cui molti familiari di ferrovieri, accorsero a piedi sul luogo del disastro, nonostante fosse molto distante e ad un'altitudine di quasi 600 metri oltre quella del paese. Intanto fu chiamato un altro treno da Cosenza che, giunto sul luogo, caricò i feriti e i deceduti e li portò alla stazione di San Pietro. Qui, intanto, erano stati approntati i soccorsi, predisposta un’autoambulanza e si erano radunate molte persone, fra cui i familiari dei ferrovieri deceduti. Accorsero anche le autorità e il parroco di San Pietro, Don Salvatore Loria che benedisse le salme ricomposte nei locali della stazione stessa. L’accaduto rimase a lungo nella memoria popolare del tempo e non si seppe mai se a causare il disastro fu un errore umano o una imprevedibile fatalità. Le voci che circolarono, come sempre, furono tante e spesso discordanti. Presso le Ferrovie della Calabria (ex F.C.L.), pare che non ci siano più tracce documentali, né alcuna relazioni tecnica o solo descrittiva del triste incidente. In una emozionata rievocazione dell’accaduto, Rosario Pietro

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Turano, nipote del capotreno Luigi Turano, ha voluto aggiungere un suo particolare ricordo, riferito all’anno successivo (1944): “A quel tempo, la mia famiglia abitava alla fermata di "Fondente", non lontana dal luogo del disastro. Io, avevo solo cinque anni e, con mio fratello Raffaele, più grande di me, sentivamo spesso i nostri genitori rievocare l’accaduto. In particolare rimanemmo colpiti dal fatto che il corpo di nostro zio Luigi, fosse stato rinvenuto, fra l'altro, senza scarpe. Un giorno, noi due, per conto nostro, decidemmo di andare alla ricerca di quelle scarpe che sapevamo essere di colore marrò chiaro. Ci recammo sul luogo dell’accaduto e dopo scrupolose e difficili ricerche fra i rottami della locomotiva e dei carri e fra i tronchi di legname ovunque sparsi, riuscimmo, con grande emozione, nel nostro intento. Notammo anche che nei carri, alcune lampade elettriche erano ancora integre nella loro sede: con la curiosità e l'ingenuità dovuta all’età le svitammo e le portammo pure a casa. La commozione dei nostri genitori, alla vista di quelle scarpe, fu immensa e noi, tristi ma fieri per aver compiuto quell’azione, le ponemmo, insieme alle lampade, vicino ai nostri letti. Nella notte che seguì ci fu una ventilazione come mai avevamo sentito prima; il vento si manifestò con un sibilo simile al fischio di un treno. In quel luogo isolato, la situazione si fece per noi preoccupante, irreale e insopportabile tanto che nostro padre si alzò dal letto, prese quelle lampade, di cui ricordo ancora la loro piccola forma sferica, e le scaraventò fuori dalla finestra, nel fiumiciattolo. Strano a dirsi e a raccontarsi, ma tutto quel frastuono cessò quasi di colpo. Allora mio padre chiuse la finestra e ripose quelle scarpe, che ovviamente aveva trattenuto, in un armadietto per meglio custodirle, ritenendo che fossero l’unico ricordo degno di essere conservato".

La Scheda: Il disastro ferroviario del 1943 è tornato alla luce grazie alla nuova edizione del “calendario santupetrise” di Igino Iuliano, che ancora una volta si dimostra prezioso strumento di riscoperta storica e identità sociale. Qui riproponiamo il suo scritto; erano passati soli due anni dalla tragedia di Fiumarella, quando nel tragitto Cosenza-Catanzaro un vagone precipitò in un torrente causando la morte di 71 passeggeri. Il nostro territorio veniva sconvolto da questo evento, che oggi non va dimenticato e deve servire da monito. Ancora oggi nessuna una targa per il sacrificio di quei tre lavoratori, nessuna giustizia per i familiari delle vittime, alcuni dei quali abbiamo avuto la possibilità di conoscerli alla presentazione del calendario di Iuliano. Quando ancora oggi troppi uomini e donne muoiono di lavoro, siamo pronti ad onorare l’impegno preso in quella giornata: dignità ai morti di questa tragedia significa onorare il passato, e preparare un futuro migliore.

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usica

LE NUOVE ROTTE

DEI BRIGANTI

Eugenio Bennato parte per la Corea alla ricerca di contaminazioni artistiche: “bisogna resistere alla cultura dell’apparenza”

Eugenio Bennato, dottore in Fisica, fa parte della scuola di cantautori napoletana assieme ai due fratelli Edoardo e Giorgio, Pino Daniele ed altri. Da anni gira il mondo portando nelle piazze internazionali la musica del Sud Italia.

di Matteo Dalena

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l’ho preso in braccio il Re di Musicanova. E ho sentito tutto il “peso” dei Sud, dei briganti e delle streghe, dei vinti che popolano le sue canzoni. La storia pesa, Eugenio Bennato, cantore dell’orgoglio meridionale, lo sa. E mi chiede una mano, un braccio per scendere da un lato del palco senza scaletta. S’accende una sigaretta e, mentre si cambia d’abito perché il concerto di Montalto Uffugo sta per cominciare, parliamo di Sud e di poesia, di rime e documenti storici. Ci risentiamo il giorno seguente. Il maestro è carico per il concerto andato bene e perché, novello Polo, un lungo viaggio verso Est lo attende. Il tuo nuovo disco s’intitola “Questione Meridionale”. In questi anni, davanti ad un pubblico sempre numeroso, canti di un Sud che “ci sta provando”. A che punto siamo? Quali cambiamenti secondo te? Un cambiamento macroscopico e plateale. Una nuova presa di coscienza da parte di tanti giovani come voi, una cultura diciamo “tecnica” che parte dal dato di fatto che qualcosa sta cambiando. I modelli di ieri condizionano l’oggi, quelli di chi si sottrae alla logica imperante nei nuovi media, alla cultura dell’apparenza che regna nei talk show. E i nuovi briganti sono tutti quelli che resistono a questo appiattimento imperante. La riscoperta della musica popolare italiana è anche la riscoperta di nuovi strumenti musicali. Alcuni di loro oggi stanno conoscendo una nuova vita artistica, tipo la battente solista di Loccisano. Come prevedi si svilupperà questo “nuovo che

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arriva da passato”? Il punto nodale è la creatività artistica. Hai citato Loccisano, un musicista e artista, un creativo nel vero senso della parola che, appunto, cerca uno sviluppo attraverso la “creazione” e si lancia alla scoperta di nuove forme tecniche e compositive. Per farti un esempio: in Spagna si sta cercando di fare altrettanto attraverso la sperimentazione nel Flamengo. Io cerco di fare altrettanto con nuove composizioni che però si basano su modelli del passato. Le tue impressioni, aspettative di questo lungo viaggio (in Corea) che, dopo tanto Sud, ti porterà ad Est. Da Sud ad Est, cambio di rotta anche in musica? Ad ogni viaggio si parte con la speranza di un’esperienza nuova. Posso darti questa anticipazione: in questo viaggio, oltre a portare la mia musica e con essa emozioni, ritmi e questa “freschezza” che viene dal passato, quindi contaminazione reale della storia (come hanno fatto gli africani con il blues negli States) cercherò di ascoltare attentamente segnali musicali provenienti dall’Est. La parola esatta è contaminazione: una probabile doppia contaminazione dunque. Salutandoci il maestro ragiona anche sul sistema dell’informazione, dei novelli Davide contro Golia… Vi dico solo una cosa: il segnale che viene dal nostro Sud è forte e resiste ad ogni cosa. Resisterete.

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LA TRADIZIONE È UN MEZZO

PER RACCONTARE L’OGGI Il Sabatum quartet, premiato a Roma come migliore espressione artistica calabrese, avverte: "L'etnico proposto come una moda si consumerà presto, e resterà solo chi ha qualcosa da dire" di Fausto La Nocara

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rieste Marrelli, frontman del Sabatum Quartet nell’autogrill alle porte di Siena ha ancora negli occhi la soddisfazione della vittoria al festival-concorso “Profumi e Sapori della Calabria”, che si è svolto a Roma a inizio giugno. Il popolare gruppo del Savuto ha trionfato alla kermesse promossa dall’associazione “Profumi della Calabria” da quattro anni all’interno di un grande appuntamento che riunisce i calabresi che vivono a Roma. Una comunità importante, la più grande della Capitale, con le sue oltre 500.000 persone. A Roma i Sabatum suoneranno ancora fra qualche settimana, prima devono risalire lo stivale, proponendo l’etnico calabrese fino alla Lombardia. Ma i Sabatum non sono solo tarantelle, perché oltre a oltre a rivedere le grandi canzoni popolari in chiave originale, propone un ampio repertorio di canzoni scritte e musicate dai componenti del gruppo. “Sì, la tradizione riproposta in chiave musicale è solo un mezzo, quello che vogliamo è raccontare la Calabria attuale con nostri brani che arrivino alla gente. Raccontiamo bellezze e problemi della nostra terra per come noi li vediamo”. Alcuni brani tra i più famosi sono la dimostrazione che una certa tradizione può non solo essere raccontata, ma può avere nuova vita. Raccontaci dov'è che prendete l'ispirazione dei vostri testi e chi li compone. “Lavoriamo tutti insieme e sviluppiamo collettivamente le idee che ci vengono in modo individuale, come un vero gruppo dovrebbe fare. Lo spunto per i testi arriva dall’attualità che va a fondersi con le radici sonore che ci accompagnano da sempre”.

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Quando si parlava di musica popolare prima si pensava a Bennato al Parto delle nuvole pesanti, agli Alla Bua ecc... ora invece si deve fare i conti con tante nuove band, fra i quali voi, che ispirano e appassionano tantissimi giovani. Secondo te cos'è cambiato con questa sorta di ricambio generazionale, e cosa cambierà? “Devo dirti la verità, pensavo che all’inizio fosse un fenomeno commerciale. I gruppi che ora propongono musica tradizionale sono una miriade, ma penso che questa fase si esaurirà presto, e sopravviverà solo chi ha veramente qualcosa di nuovo da dire. Hai citato due mostri sacri, il maestro è stato sicuramente ha il merito di aver riproposto quando nessuno ci credeva la nostra musica tradizionale, ma il Parto è l’esperimento secondo me più interessante e più copiato. E’ riuscito a creare qualcosa di nuovo con quello che avevamo dimenticato della nostra cultura”. Quest’estate girerete lo Stivale, prima siete stati anche in Germania, in Canada, in Sud America. La nostra musica tradizionale, tipo la tarantella, deve per forza parlare italiano, oppure può attecchire in forme nuove anche all'estero? “Lo ha già fatto. In questo vedevamo l’enorme differenza fra Argentina e Canada ad esempio. In Sud America attraverso la nostra musica il nostro dialetto diventava un linguaggio universale e comune per cementare il racconto della nostra terra per così com’è veramente. La musica si fonde, si contamina, e nei concerti il messaggio arriva senza troppi sforzi là dove certe tradizioni sono state preservate”. Forse perché, in fondo, i Sud del mondo parlano la stessa lingua.

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