TUTTO IL MONDO È UN PALCOSCENICO Ellie Goulding @Paris Fashion Week 1
La casa a pagina 32 è arredata da MEOZZI
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Via A. Gramsci, 62 - Foligno (PG) - Tel. 348 69 51 047 - terrazzaliberty@hotmail.it
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l'editoriale del direttore
Andrea Luccioli
Praticate atti di gentilezza sconsiderata Lo scrittore americano Kurt Vonnegut, al termine di quel libricino delizioso che sui social è andato molto di moda tempo fa (e ciclicamente ritorna) intitolato “Quando siete felici, fateci caso”, riporta una serie di “Citazioni su cui riflettere”. Tra queste ce ne è una che mi ha colpito molto: “Dobbiamo costantemente buttarci giù dagli strapiombi e farci crescere le ali mentre precipitiamo”. Ho pensato a più riprese a questa frase che, nella sua banalità, spiega però un meccanismo umano che è un’esigenza di crescita, di rinascita e di elevazione. Ma a farmi riflettere è stato soprattutto quel “dobbiamo costantemente”, che mostra la consapevolezza di un uomo circa il fatto che, per sua stessa natura, egli è spinto ad affrontare l’abisso e volarci sopra. Mi è venuto in mente che bisognerebbe aggiungere una “spiega” a quella frase. Mi riferisco al fatto che gli abissi sono ovunque, innanzitutto nel nostro quotidiano. Dei piccoli e infinitesimi salti che ci troviamo a compire soprattutto ogni volta che abbiamo a che fare qualcuno a noi estraneo. Ecco, io credo che per volare sopra i nostri piccoli grandi abissi quotidiani occorra delicatezza e gentilezza, sempre. Soprattutto quando abbiamo di fronte l’altro. Fosse anche il primo sconosciuto che ci capita a tiro, siate gentili in maniera
sconsiderata. Perché iniziare un editoriale in questo modo (forse un po’ romantico, forse un po’ sognatore, forse un po’ sciocco)? Perché in questo numero di The Mag c’è un reportage su un posto di cui fino a pochissimo tempo fa ignoravo l’esistenza, ovvero il Piccolo museo del diario. Uno spazio dove sono raccolte le storie, fatte di carne e sangue, di centinaia di persone. L’ho trovata una cosa eccezionale e potentissima. Migliaia di pagine di abissi umani e di voli spiccati. Ma anche di disgraziate cadute. Qualcosa di terribilmente umano, vero. Ok, la chiudo qui con i grandi temi. Cambiamo registro e andiamo a respirare un po’ di buona (e bella) leggerezza. In questo numero lo abbiamo fatto con un’intervista ad Andrea Adriani, perugino che da anni calca tutte, e sottolineo tutte, le passerelle delle fashion week più importanti nel mondo. Fotografo di un’agenzia che rifornisce le principali testate di settore (di recente è arrivato anche Vogue), Adriani non è solo uno fotografo di moda, lui ruba istanti alle persone. E lo fa da osservatore protagonista. Bravo. Così come grandi osservatori attenti sono i nostri amici dell’associazione Architetti nell’Altotevere che, da questo
numero, iniziano un viaggio in giro per l’Europa per mostrarci tante meraviglie da scoprire. Si comincia da Parigi. Come dicevo all’inizio, poi, a noi piacciono le storie e per questo abbiamo scambiato qualche battuta con Federico Buffa, probabilmente il più grande storyteller sportivo nazionale che nelle scorse settimane è atterrato a Foligno con uno spettacolo che di storie ne mette in fila davvero tante. Abbiamo anche conosciuto un gruppo di ragazzi che da qualche tempo ha deciso di reinventare il pranzo della domenica. Sono quelli dei PDU, i Pranzi Domenicali Umbri, un appuntamento che, anche grazie ai social, è diventato una specie di cult e che unisce amicizia, musica e soprattutto tanta voglia di stare insieme come tradizione regionale impone nel giorno di festa per antonomasia. C’è molto, davvero molto altro ancora in questo numero di The Mag, ma lascio a voi il gusto della scoperta. Io vado a imparare a planare sopra gli strapiombi.
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Maria Vittoria Malatesta Pierleoni Luca Benni Matteo Cesarini Architetti Altotevere
Simona Polenzani
Christy Mills
Alessia Mariani
febbraio/marzo 2020
Direttore Responsabile Andrea Luccioli
Emanuela Splendorini
Lorenzo Martinelli
44 Dancity Festival Il giorno in cui abbiamo smesso di ascoltare musica e siamo diventati followers
Luca Marconi
Eleonora Coletta in arte MAKKURO Laura Patricia Barberi
Luigi Burroni
Karen Righi
Matteo Trenta
Emanuele Vanni 12
Eleonora Coletta Matita in mano, linee e fantasia Il favoloso mondo di Makkuro pubblicità Simona Polenzani +39 389 05 24 099 Alessia Mariani +39 348 35 45 588 redazione info@the-mag.org
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Data pubblicazione: febbraio 2020 - rivista bimestrale - N°44 Grafica, fotografia e impaginazione: Moka comunicazione, via Cacciatori del Tevere, 3 - Città di Castello (PG) P. IVA 02967110541 - mokacomunicazione.it Stampa: Litograf Editor S.r.l. - Via C. Marx, 10 06011 Città di Castello (PG) P. IVA 02053130544. Editore e Proprietario: Moka comunicazione - Direttore Responsabile: Andrea Luccioli Traduzioni: Christy Mills Iscrizione al Tribunale di Perugia: n. 20/12 del 27/11/2012. Questo numero è stato chiuso il 2 febbraio 2020 alle 13:00
Fotografia
Andrea Adriani: una vita a dare la caccia alla luce perfetta tra sfilate, musica e arte
Sguardi Un architetto a Parigi
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Matteo Trenta / Karen Righi Colori cupi, pareti che si spogliano e cartelle cliniche Il viaggio nell’ex Istituto per i bambini poliomelitici
94 PDU (pranzi domenicali umbri) La domenica, il pranzo e la famiglia: this is (real) Umbria 13
le trovi da
Viale UnitĂ d'Italia, 37 - Umbertide - T. 075 941 14 46 - facebook/Ottica-2M Nuovo punto vendita presso il centro commerciale Fratta
Via G. Di Vittorio, 1 - CittĂ di Castello - T. 075 850 1834 - facebook/Ottica 2M CdC
Testo Andrea Luccioli / Foto Andrea Adriani
Andrea Adriani: una vita a dare la caccia alla luce perfetta tra sfilate, musica e arte 16
fotografia REDEMPTION backstage AW19 17
A
ndrea Adriani scatta foto in passerella dal 2001. I suoi scatti finiscono su Vogue, Elle, Marie Clarie e praticamente tutte le riviste di moda.
Cerchiamo di inquadrare subito il personaggio. Se sfogliate una qualsiasi rivista di moda nel mondo in cui si parla di sfilate, con tutta probabilità starete guardando una foto scattata da Andrea Adriani. Perugino doc, si definisce “fotografo-artigiano” perché tra una fashion week e l’altra si diverte a realizzare alcuni manufatti che poi utilizza per “creare” la luce giusta con cui scattare. Sì, la luce e le persone sono le sue grandi “ossessioni” e il motivo in qualche modo ce lo spiega lui stesso (vedi testo pagina 21). Adriani scatta da quando era ragazzo, ma il “grande salto” è arrivato nel 2001. «La carriera di fotografo a livello professionale è iniziata nel 2001. Già scattavo da tempo, matrimoni, pubblicità, ma volevo di più. Ho speso tutti i soldi che avevo nel conto corrente per partecipare a due master, in Moda e Still life, alla John Kaverdash School of Photography di Milano. Poi un giorno, tra tanti allievi, mi cercarono: c’era un’agenzia che aveva bisogno di un fotografo. Non avevo ancora finito i master ma riuscii a entrare nella squadra che stava nascendo di IMAXtree, agenzia che di lì a poco avrebbe rivoluzionato il mondo della fotografia di moda: crearono un sito dove i 18
giornali potevano prendere le foto online quasi in tempo reale invece che attendere i cataloghi cartacei. Eravamo agli albori di internet, fu una rivoluzione e noi ne siamo stati protagonisti». IMAXTree fornisce foto a tutte le riviste di moda del Pianeta, da un anno è stata scelta anche da Vogue e in tutte le sue edizioni. Insomma, gli scatti di Adriani adesso sono veramente dappertutto. Una “militanza” sulle passerelle, la sua, che davvero notevole. Due volte l’anno Adriani vola a Parigi, New York, Londra, Berlino, Copenhagen, Milano e via dicendo: in media segue una decina di fashion week per la sua agenzia. Come hai fatto ad arrivare dove sei oggi e come è cambiata la tua professione in questi anni? «Ho avuto la fortuna di essere sempre stato uno curioso. E di trovarmi al posto giusto nel momento giusto. Sono partito scattando gli interi della sfilata, i ‘full lens’. Poi sono passato ai dettagli, al beauty, ai backstage e da tre anni ho realizzato il mio sogno: via tutte le lenti grandi e pesanti, ora giro con una macchina piccola (una Sony Alpha 9, ndr) scatto front row dove si accomodano le celebrity e foto che in agenzia chiamiamo atmosphere, quelle foto che
Perugino e giramondo, ci racconta la sua vita dietro ad un click. raccontano l’atmosfera intorno alle sfilate. Ovviamente, visto l’esperienza maturata un po' in tutti i generi fotografici che servono a coprire l’intero show, mi sono ritrovato ad essere un po' il Jolly dell’agenzia che garantisce di riportare a casa un buon lavoro in ogni condizione, una gran soddisfazione che comporta però delle grandi corse spesso improvvise durante tutta la stagione!». Come è cambiata in questi anni la fotografia di moda durante le sfilate? «Da quando ho cominciato il numero di fotografi in passerella è diminuito dell’80%. Lavoro in un’agenzia che ha cambiato il modo di realizzare foto di sfilata e soprattutto il rapporto con le grandi testate che si occupano di moda. Adesso giriamo tutti con un computer, scattiamo e le foto vengono immediatamente processate e finiscono nel server del cliente. In tempo reale praticamente. Entro pochi minuti i clienti hanno le foto finite delle sfilate pubblicate live nei loro siti». Il mondo dei social, Instagram in particolare, ha cambiato il tuo approccio al lavoro? «Per qualcuno Instagram è un problema, non per me. Io lo trovo un grande strumento di
fotografia Kate Moss kissing Amber Valletta and Rami Malek
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Mario Consiglio portrait "Let's smash electric guitars together" 2017 20
fotografia "A" Anna Wintour at CELINE SS18 21
Lady GAGA and Stephen Gan at Celine atm RS19 22
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COME TUTTO È INIZIATO di Andrea Adriani Era l'estate dei miei 9 anni, una domenica mattina ancora mezzo addormentato uscendo dalla cameretta che dividevo con mio fratello in un palazzone alle porte di Perugia; chiusi la porta alle mie spalle e mi ritrovai nel buio corridoio dove vidi la signora al terzo piano del palazzo di fronte al nostro che stendeva i panni, ma, con mio enorme stupore, la scena in miniatura era proiettata sottosopra nel muro nero davanti a me! Era come guardare la televisione al contrario già in HD (era il 1981); non so per quanto tempo rimasi imbambolato a guardare a testa in giù scene di vita quotidiana, finestre che si aprivano gente che chiacchierava in terrazza, tutto normale se non fosse che ero chiuso in una stanza scura... poi piano piano tutto si
spense, ero sconvolto, convinto di aver visto gli alieni, alieni che però conoscevo bene perché erano i miei vicini! Provai a raccontarlo a qualcuno tipo mia Madre ma... Mi ritrovai almeno altre mille volte nel buio del corridoio Magico... ma mai più niente! Solo qualche anno dopo scoprii cos'era la Stenoscopia e realizzai che quella mattina una luce perfetta e irripetibile proiettò quelle immagini così incredibili attraverso la finestra dentro il bagno stretto e lungo che in quegli attimi magici diventò una gigantesca camera oscura fino al buco (stenopeico) della serratura davanti al mio volto rapito e sconvolto. Da allora tutti i giorni faccio o penso qualcosa legato alla fotografia, perché alla fine è la fotografia che ha scelto me... 23
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Andrea Adriani è anche un appassionato d’arte vero? «La bellezza è arte e l’arte è bellezza. Lavoro e frequento alcuni artisti contemporanei da anni, persone molto stimolanti dal punto di vista lavorativo ma non solo, alcuni li posso definire veri amici. Sono nate delle sinergie interessanti e così abbiamo deciso di realizzare un progetto chiamato ‘Beauty Fault’: ho messo i miei lavori fotografici sulle modelle in mano a degli artisti che hanno realizzato degli interventi a modo loro. Sono tre anni che ci lavoriamo e a breve mostreremo i risultati di questo progetto. L’idea è semplice: mostrare l’errore se c’è, della bellezza. Io ho la fortuna di scattare foto alle donne più belle del mondo, con parrucchieri e make up artist incredibili. Racconto la perfezione degli artisti della bellezza e con questo progetto è come se volessimo destrutturare questa combinazione per mostrarne ancora di più la forza rappresentativa». E poi c’è la musica. Andrea Adriani non può stare senza le sue cuffie, Spotify sempre attivo. Le sue compilation sono davvero notevoli. Questo amore lo ha trasposto in foto. «Da sempre faccio fotografie ai concerti per alcuni anni ho anche collaborato con Umbria Jazz, una soddisfazione enorme per me. Quando a Perugia è
stato rinnovato il Caffè Turreno, che è un posto molto legato alla musica, hanno voluto venti miei scatti per un’esposizione permanente che fa parte del progetto ‘Please don’t stop the music’, passate a prenderci un caffè cosi mi dite cosa ne pensate». Per via delle lunghe nottate umbre sotto le stelle del jazz hai deciso di realizzare anche un altro progetto davvero interessante. «Si chiamerà ‘5.59 AM’, un
lavoro in divenire che spero diventerà prima o poi una mostra. Quando finiscono anche le jam session di UJ e sta per arrivare l’alba, io sono ancora in giro in centro a Perugia con la mia fotocamera e a quell’ora incontri personaggi spesso improbabili. Mentre quasi tutti dormono succedono cose anche strambe e io trovandomi lì non posso far altro che scattargli una foto, sarebbe un vero peccato essere lì e non lasciare alcuna traccia». Altri lavori in cantiere? «Non ci sono solo le sfilate nella mia vita, ovviamente. Di recente ho lavorato per SEA, la società che gestisce l’aeroporto
di Malpensa per cui ho scattato materiale da utilizzare per le loro attività di comunicazione: è stato molto interessante, davvero un bel lavoro. Poi da qualche anno sono tornato a lavorare nella mia Perugia, nella mia Umbria e in futuro voglio dedicare tempo alla mia terra attraverso nuovi progetti e collaborazioni con aziende che si occupano di moda ma non solo, così come ho già iniziato a fare».
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lavoro. Praticamente lavoro solo con i social! Da tempo non ho più uno studio, riesco a fare tutto con il cellulare. Diciamolo chiaramente: la gran parte delle persone si accorge di te solo tramite i social».
Un piccolo bilancio della tua carriera? «Posso dire questo. La fotografia fa parte di me. Io vivo la fotografia e lo faccio insieme a tante persone che, come me, hanno dedicato la vita a scattare. Grazie a questo lavoro ho conosciuto tantissime persone eccezionali, visitato luoghi e città incredibili. È un lavoro molto duro, che ti porta via da casa e quando sei lontano spesso non vedi l’ora di tornare. Poi, però, la voglia di ripartire è sempre troppo grande. Sono una persona fortunata, ho inseguito da sempre senza mai mollare seppur tra un miliardo di difficoltà e sacrifici il mio sogno, faccio semplicemente quello che ho sempre voluto fare».
Andrea Adriani foto di Armando Grillo instagram/adriani_andrea
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LARGO CARDUCCI, 9 - FOLIGNO - PERUGIA T. 0742 60 25 03 - amamecalzature@gmail.com 26
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La tradizione
Il nostro valore piĂš grande I sapori genuini e le antiche ricette sono la nostra forza, le materie prime del nostro orto e le carni da allevamenti locali sono la miglior garanzia di qualitĂ . Voc. Busterna, Calzolaro, Umbertide (PG) +39 075 9302322 info@ilvecchiogranaio.com - www.ilvecchiogranaio.com
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- Foligno
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LA CASA DI LUCE arredi: Meozzi Mobili
Tre esigenze erano alla base della giovane coppia che raccontiamo in questo numero di "Our Home": la necessità di una casa con ingresso indipendente, uno spazio verde per i figli e tanta luminosità perchè "il sole ci dà energia e positività". Noi di The Mag lo abbiamo testimoniato con questo reportage fotografico e possiamo dire che i tre requisiti sono stati rispettati in pieno. Evidente è il lavoro scrupoloso e attento al dettaglio della coppia. Principali artefici del risultato sono stati la sintonia fra i due coniugi e il costante supporto della Meozzi Mobili per quanto riguarda consigli e suggerimenti su arredamento e accostamenti di colori e materiali. Degno di nota è il grande sistema di porte scorrevoli firmate Rimadesio che separa la cucina Valcucine dal soggiorno. Elegante e funzionale, rispetta la prerogativa di garantire la massima luminosità in tutti gli ambienti.
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THE HOUSE OF LIGHT forniture: Meozzi Mobili
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Three requirements were fundamental to the young couple that we tell about in this number of “Our home”: The requirement for a house with its own entrance, a green outdoor space for the children and a lot of light because “the sun gives us energy and positivity”. We at The Mag have testified to it with this photographic report and we can say that the three requirements have been fully respected. The scrupulous work and attention to detail by the couple are evident. The main elements of the results have been the harmony between the couple and the constant support of Meozzi Mobili in regards to advice and suggestions on the furnishings and matching colors and materials. Worthy of note is the great sliding door system by Rimadesio which separates the Valcucine kitchen from the living room. Elegant and functional, it respects the prerogative to guarantee maximum light in all the rooms.
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OCCHIO DEL CURIOSO
A WORD TO THE CURIOUS
Dopo aver montato la cucina abbiamo aperto un pensile e all’interno c’era una ranocchia viva! Superato lo spavento iniziale ci siamo accorti che era bellissima, quindi possiamo dire che è stato il primo essere vivente a dormire nella casa! La sera in cui l’abbiamo trovata infatti non siamo riusciti a prenderla perché era molto spaventata, quindi siamo tornati il giorno seguente ed era ancora lì. A quel punto siamo riusciti a farla uscire e l’abbiamo portata in uno stagno qui vicino. É stato un episodio singolare, magari ci porterá fortuna!
After assembling the kitchen, we opened a cabinet door and there inside was a live frog! After the initial shock, we realized that it was beautiful, and we can say that it was the first living thing to sleep in the house! The evening when we found it in fact, we were not able to catch it, because it had been very frightened, so we came back the next day and it was still there. At that point we were able to make it go outside and we brought it to a pond nearby. It has been a unique experience, maybe it will bring us luck!
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FUNZIONALE / YOGA / PILATES via Carlo Pisacane, 11 / Foligno / T. 0742 77 21 76
L’allenamento funzionale e ogni sua più fedele declinazione è l’anello di congiunzione perfetto tra l’attività svolta in palestra e qualsiasi tipo di sport, sia esso di combattimento come judo, karate etc, individuale come il tennis o di squadra come basket, calcio, volley e via dicendo. Il Wuemme è tra le prime palestre in Umbria a essersi approcciata a questo sistema di allenamento e tra le poche a farne un vero marchio di fabbrica: cerchiamo di farlo calzare come un abito sartoriale a tutti, dai più piccoli alle persone in età pensionabile passando per i giovani. L’allenamento funzionale rende forte chi forte non era, più forte chi lo era già. Rende dinamici, scattanti, elastici ed esplosivi, tutte qualità che fanno la differenza in qualsiasi pratica sportiva e migliorano la mobilità del nostro corpo. Ecco perché tutti dovrebbero allenarsi in modo funzionale, cioè secondo gli schemi motori che hanno permesso di evolverci nel corso dei millenni. Muoviamoci come natura comanda. 42
Ti aspettiamo a CittĂ di Castello Umbertide San Giustino Montone
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anche il sabato
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Da oltre 41 anni al servizio della tua salute. La sicurezza della nostra esperienza unita all'efficienza e rapidità dei nostri servizi.
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IL GIORNO IN CUI ABBIAMO SMESSO DI ASCOLTARE MUSICA E SIAMO DIVENTATI FOLLOWERS Spotify, YouTube e la musica digitale, ovvero come le piattaforme ci hanno cambiato (in peggio?). La versione degli esperti e la dura realtà: se ne è parlato al Dancity Festival
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Da sinistra: Damir Ivic, Tiziano Bonini e Dj Rame 47
Siamo ascoltatori pigri? Forse sì.
Ma se siamo diventati così, dei “follower” della musica, la colpa non è solo la nostra. Come è cambiato il mondo della musica e soprattutto dell’ascolto di musica al tempo dell’avvento delle piattaforme di ascolto digitale (semi-gratuito)? Il tema è di quelli importanti, più di quanto si possa pensare. E non solo perché riguarda la musica (e praticamente tutti la ascoltiamo), ma perché è uno dei numerosi aspetti della nostra vita quotidiana che è stato letteralmente invaso (e gestito?) dalle piattaforme digitali. Se ne è parlato a Foligno durante il Dancity Festival edizione Winter, rassegna all’interno della quale sono stati organizzati alcuni “Talks” allo Spazio Astra in cui esperti di musica e sociologia hanno discusso e approfondito argomenti molto interessanti. Come quello al centro dell’incontro “Dischi, radio cassette, walkman, cd, iPod e infine Spotify. Se la musica è ovunque ed è così facile procurarsela, che senso ha nella vita di tutti i giorni?”, tema su cui hanno discusso Damir Ivic (giornalista musicale), Tiziano Bonini (docente di Teorie e Tecniche della comunicazione di Massa all’Università di Siena) e DJ Rame. La ricchezza tecnologica ci ha impigrito, siamo quindi diventati ascoltatori pigri?
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Questa la domanda posta subito da Ivic e da cui si è cominciato a discutere. «Una frase che sembra una bella provocazione, ma è molto vera. Come avviene per la produzione musicale, che ormai è una cosa accessibile a tutti, oggi ascoltare musica è estremamente semplice e quando un bene è abbondante, non viene più ricercato e considerato come prima. Questo, in pratica, significa dargli un valore minore», spiega Bonini che poi fa un esempio chiarificatore: «In passato quando volevi avere una canzone, eri disposto anche a registrarla alla radio sulla musicassetta, magari aspettando ore in attesa che la passassero. O ancora, anni fa mettevi da parte soldi per comprare cd e ogni acquisto era una conquista. Oggi, dopo l’avvento delle piattaforme di streaming gratuito, stiamo vivendo la situazione opposta». Ma questo è solo il primo aspetto della questione. E da qui deriva anche un ulteriore “problema”: «Da sociologo mi preme evidenziare che l’identità culturale che prima si costruiva intorno alla musica, oggi, non è più così forte come un tempo. Prima intorno alla musica si creavano degli steccati sociali e la musica ti connotava. Un legame molto stretto che è andato allentandosi. A questo si è sostituito un altro parametro di identità, più debole: non conta più quello che ascolti, ma come lo ascolti. Se ascolti vinili fai parte di un certo gruppo. A esempio chi ascolta YouTube solitamente è un teenager, ragazzi senza laurea, sottoproletariato. Ci si divide ormai solo sui dispositivi: chi ha tra 40 e 50 anni ascolta molto i vinili e magari lo fa perché lo streaming consuma molta più energia di quanto non faccia un disco. Non ci sono più gli emo, i punk, i metallari». «A cascata questo implica un’enorme pigrizia nell’ascolto inteso come ricerca - continua Bonini - Perché visto che la grande maggioranza degli ascoltatori lo fa tramite piattaforme di streaming e gli ascolti sono 50
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suggeriti dagli algoritmi, gli ascoltatori si sono impigriti, lasciano scegliere agli altri. Oggi il 70% dei video che passa su YouTube è suggerito dall’algoritmo e non cercato dall’utente. Questo non accadeva prima del 2016, ovvero prima che cambiasse l’algoritmo di YouTube per mano di Google». Con le piattaforme digitali - è emerso nel talk - le major discografiche hanno ripreso potere sulla musica. Il motivo? La gestione dei diritti dei brani che, a tutti gli effetti, è un modo per tenere per il collo le piattaforme stesse e incassare soldi come non avveniva ormai da molti anni. E l’ascoltatore? Ormai è semplicemente un utente, altamente influenzato dalle playlist. E chi controlla le scalette di YouTube o Spotify? I curatori delle stesse, che utilizzano i dati raccolti dalle piattaforme, i soggetti che conoscono i nostri gusti e i nostri ascolti musicali. Chi ha il vero potere oggi nel mondo della musica, quindi, è chi detiene i dati degli ascoltatori. Tralasciamo il discorso relativo ai guadagni (inesistenti in verità, le piattaforme rimettono un sacco di soldi) della musica digitale per chi la distribuisce, la chiosa dell’incontro allo Spazio Astra ha offerto uno spaccato non proprio idilliaco dell’attuale situazione. Almeno fino a venti anni fa, è emerso, la priorità era ascoltare la musica nel senso più alto del termine. Oggi siamo invece “costretti” ad ascoltare tutto su tutto ciò che abbiamo a disposizione. Non solo, ascoltiamo non tanto ciò che vogliamo, ma ciò che scelgono gli altri, i creatori delle playlist. Un ascolto reverenziale, la musica come tappetino sonoro regolato in base all’ora del giorno o della notte. La musica, è stato sentenziato alla fine dell’incontro, al giorno d’oggi si consuma un tanto al byte, ma si ascolta di meno. Non siamo più ascoltatori di musica, ma followers.
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Tre giorni di sperimentazioni elettroniche, di scoperte, grandi conferme e tanta musica elettronica. L’edizione “Winter” del Dancity Festival ha collocato la rassegna in una dimensione nuova, forse meno “chiassosa”, ma sicuramente più puntuale, centrata. L’Auditorium San Domenico trasformato in uno spazio di ricerca sonora, di ascolto privilegiato grazie ad una serie di artisti scelti con la consueta e rigorosa bravura. In mezzo, come potete leggere nello speciale, alcuni appuntamenti “extra”, ovvero dei talk in cui sono stati approfnditi diversi aspetti della musica e di tutto ciò che gli gira intorno. Nel pieno stile Dancity insomma, un contenitore dove la musica suonata incontra la ricerca, l’approfondimento, la conoscenza.
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IL MINI REPORT DI UN FESTIVAL ECCEZIONALE
Nel complesso, comunque, possiamo parlare di tre giorni in crescendo. Inizio davvero interessante con Micheal Rother, fondatore dei NEU! e dei Kraftwerk. Uno che ha suonato con Brian Eno con cui ha portato avanti il progetto Harmonia, che poi è quello che ha suonato a Foligno insieme ad alcuni suoi lavori. Bella performance, completa, rotonda e molto energica. Niente di nuovissimo, ma assolutamente da segnalare l’esibizione – il secondo giorno – dei 72 Hours Post Flight, formazione di Varese che ha mischiato i generi in un mix molto godibile. Schiaffi e carezze (musicali), durante la serata, grazie a Lucy, Kelman Duran e Napoli Segreta. E veniamo all’ultimo giorno, forse il più completo sotto il punto di vista musicale. Due segnalazioni su tutti, il grandioso Alessandro Cortini che ha portato sul palco il suo ultimo lavoro “Volume Massimo” e la clamorosa esibizione di Andy Stott, una garanzia. E i numeri? Migliori del previsto. Pubblico che è cresciuto giorno dopo giorno andando a confermare la bontà di un festival che ha pochi eguali in giro.
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iorni fa, sull’immagine di copertina dei suoi canali social, ha fatto comparire un’immagine – ovviamente disegnata da lei stessa – con su una scritta emblematica: “The power of Fantasy”. Niente di più vero e semplice per descrivere il talento di Eleonora Coletta, graphic designer e illustratrice del collettivo Becoming X che abbiamo deciso di farvi scoprire in questo numero di The Mag.
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Un tratto fatto di istinto e fantasia
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Uno stile personalissimo, un tratto fatto di istinto e fantasia, dalla matita di Eleonora escono linee che sono emozioni, come spiega lei stessa. Il suo progetto “Makkuro Design” nasce da una piccola creaturina, Makkuro appunto, una palletta di pelo nero che con i suoi occhietti ti fissa. Il mondo di Eleonora – che poi è anche il suo lavoro – è un posto delizioso dove perdersi. Facciamocelo raccontare direttamente da lei! Quando hai deciso di diventare un’illustratrice e perché? «Il disegno ha sempre fatto parte della mia vita, disegno da sempre. Sette anni fa ho deciso di dedicarmi totalmente alla grafica, partendo da zero, ma piano piano sono cresciuta e contemporaneamente ho creato uno stile illustrativo originale. L'ho sempre perfezionato e tutt'ora lo sto perfezionando. Il mio è un tratto istintivo, io disegno le mie emozioni. Quando disegno mi sento bene, e mi fa piacere che anche le persone che vedono quello che faccio si sentano bene». Quali sono i tuoi soggetti preferiti? «Principalmente disegno una natura astratta, un mondo floreale senza cose brutte o pericoli, fatto di forme dolci, avvolgenti, rilassanti. Grandi foglie di tutti i tipi. E mille tentacoli, qualche teschietto... e la tribù di Makkuro (la palletta di pelo nera che ti fissa e le altre creaturine geometriche). Ogni tanto ci nascondo qualche ingranaggio, e qualche elemento urbano... un po' tutto quello che mi viene in mente».
Qual è stata la tua formazione? «Ho studiato al Liceo linguistico (ma disegnavo tutto il tempo), poi mi sono laureata in Tecnica Pubblicitaria. Fatto un corso di fumetto, e corsi di graphic design specifici. Sono autodidatta nel mio lavoro, ho studiato tantissimo al di là dell'Università per conto mio. Parallelamente mi sono formata in programmazione neurolinguistica (altra mia grandissima passione) di cui ho un certificato del primo livello, e ho partecipato a vari corsi sempre di PNL». Che tecniche usi e prediligi? «Disegno a mano, prima facendo sketch a matita, poi ripassando gli inchiostri con pennini sottili. Lavoro molto sulla lineart. I miei lavori sono in bianco e nero e sono principalmente solo linee». Chi è il tuo maestro/fonte di ispirazione? «Ho diversi punti di riferimento. Primo fra tutti quello che è stato il mio capo qualche anno fa, Paul Robb, art director illuminato oserei dire. Mi ha spinto a cercare ed è lui il primo che ha visto nascere lo stile Makkuro. Poi mi sono ispirata a Keith Haring, mr Doodle, Paul Rand, Andy Westface, Supermundane, Kerby Rosanes e altri». Il lavoro di cui sei più orgogliosa? «È un'illustrazione in formato A4, fatta completamente a mano e la trovo bellissima... riempie tutto il foglio ed è praticamente perfetta. Ancora quando la guardo mi ci perdo».
In un mondo dove i creativi sono sempre di più, anche grazie alle nuove tecnologie, qual è il segreto per restare originali? «Non aver paura di tentare, di sbagliare e di esprimere quello che si ha dentro. E anche rimanere fortemente connessi al proprio lato fanciullesco, è quello che ti rende originale se lo ascolti, ed è lo stesso anche che ti fa vivere una vita a colori». Come sei finita in mezzo al progetto Becoming X? «Alessandro, un mio amico mi ha invitato a partecipare ad un evento, e da allora non ho più smesso di partecipare». Com'è l'esperienza dei live drawing? «Le prime sono state traumatiche, avevo paura, vergogna, non sapevo cosa disegnare, né prendere le proporzioni e non avevo nemmeno gli strumenti giusti. Ora è lo stesso, solo che non mi vergogno più e mi diverto tantissimo. La cosa più preziosa di questi eventi è la condivisione con gli altri membri dei Becoming X... tutti bravissimi. Tra loro ci sono veramente degli artisti con la A maiuscola ed è un piacere e un onore ogni volta poter disegnare al loro fianco». Su cosa stai lavorando adesso? Qualche progetto in cantiere? «Sto collaborando con un'agenzia fantastica a tempo pieno e contemporaneamente portando avanti il mio progetto di makkurizzare il mondo, più nello specifico sto makkurizzando una macchina, delle tele, e sto lavorando al branding di un'attività».
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SGUARDI a cura di
Architetti nell’Altotevere Libera Associazione
PHILHARMONIE DE PARIS 64
UN ARCHITETTO A PARIGI In questo 2020 Sguardi vi farĂ viaggiare alla ricerca di architetture, paesaggi e culture lontane. Vi porteremo in Europa, ma non solo
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Siamo da poco entrati nel centenario de “les Années folles”, i celebri anni ’20 che videro Parigi come centro della vita creativa e intellettuale, sociale ed artistica. Noi ci siamo ritornati, e con i nostri occhi da architetti vi proponiamo una lettura di Parigi insolita. È fatta di storia e di architettura. Soprattutto è una Parigi in cui sono protagonisti i Grandi Architetti del passato e di oggi. EDIFICIO DELLA FONDAZIONE LOUIS VUITTON L’edificio, progettato dall’Architetto Frank Ghery, è situato all’interno del Bois de Boulogne, il grandissimo parco di Parigi realizzato a metà Ottocento. Da questo periodo storico vengono ripresi i materiali, il ferro e vetro. Lo stile architettonico di Ghery, invece, è inconfondibile, e non può non lasciare indifferenti. L’opera architettonica è formalmente caratterizzata da dodici grandi “vele” in vetro e acciaio che avvolgono un nucleo centrale realizzato in calcestruzzo fibro-rinforzato ad alta resistenza di colore bianco. Lo specchio d’acqua alla base dell’edificio lo rende ancor più sublime e affascinante. L’edificio della fondazione accoglie 11 gallerie espositive, aree di deposito, uffici, spazi per la didattica e laboratori, un negozio, un ristorante e un auditorium / sala da concerti che può ospitare da 350 a 1.000 spettatori a seconda della sua configurazione.
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Dal 2 ottobre 2019 al 24 febbraio 2020 alla fondazione Louis Vuitton è possibile visitare la mostra “CHARLOTTE PERRIAND: INVENTING A NEW WORLD”. È un omaggio alla fruttuosa carriera artistica di Charlotte Perriand (1903 –1999): parigina, donna libera, una sportiva, una grande viaggiatrice, attenta alla natura e all’ambiente, aperta al dialogo delle culture. Dagli anni ’20 al 21 ° secolo, il lavoro e la vita di Charlotte Perriand descrivono una traiettoria straordinaria, libera e indipendente. Oltre ai suoi preziosi contributi nel campo del design, Charlotte Perriand ha attraversato i confini tra discipline artistiche e intellettuali. Usando una moltitudine di materiali – dai tubi cromati alla paglia, legno grezzo, bambù, elementi prefabbricati e poliestere – ha combinato design, architettura, urbanistica, artigianato e arti visive senza trascurare gli aspetti umani ed economici legati alle sue creazioni. Le opere di Charlotte Perriand, all’interno della Fondazione Vuitton, interagiscono con quelle di Robert Delauney, Simon Hantai, Alexander Calder, Pablo Picasso, Henri Laurens, e non da ultimi Fernand Léger e Le Corbusier, con cui iniziò la sua carriera di architetto e designer.
TAPPEZZERIE DISEGNATA DA LE CORBUSIER
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MAISON LA ROCHE / Jeanneret, di Le Corbusier Il progetto risale ai primi anni ’20 del 1900, quando Raoul La Roche commissionò a Le Corbusier una casa che fosse anche galleria d’arte, a Parigi nel quartiere borghese di Auteuil. L’esigenza della galleria d’arte ispirò Le Corbusier a tal punto da collegare i diversi spazi in una sequenza che permette una fruizione graduale degli spazi, è una vera e propria “promenade d’architecture” e la rampa, all’interno della galleria, ne è la protagonista. È un complesso di due abitazioni, che non possono non essere considerate un unico corpo. Con questo progetto Le Corbusier anticipa, nelle sue scelte compositive, i suoi famosi e importantissimi “5 punti dell’Architettura”. Non solo. Maison La Roche – Jeanneret, per quanto riguarda l’utilizzo del colore degli spazi interni, è considerata il manifesto del primo periodo della Polychromie Architecturale del Maestro, dove ancora i colori – presi principalmente dalle terre e dagli oltremare sono poco saturi. 69
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PHILHARMONIE DE PARIS «Una architettura dai riflessi ponderati, creata da un calmo rilievo, materializzata da pannelli di alluminio che disegnano un grafismo esheriano». È l’edificio che ospita la Philarmonie de Paris, realizzato dall’architetto francese Jean Nouvel che si caratterizza per il suo perfetto inserimento nel contesto de La Villette e della città della Musica.
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LA FONDATION JÉRÔME SEYDOUX-PATHÉ L’edificio è costruito all’interno di un isolato urbano e in un contesto storico e architettonico consolidato. Renzo Piano ha concepito un edificio a forma di conchiglia esteso su sette piani, due dei quali interrati, per un totale di 2200 mq. Lo spazio creato tra il nuovo volume e la superficie delle facciate degli edifici circostanti è stato trasformato in un piccolo giardino piantumato. Questo, oltre a garantire luce e ventilazione naturali, esalta l’”effetto sorpresa” e l’esperienza percettiva che hanno i visitatori quando scorgono l’imponente edificio, quasi invisibile dalla strada. Terminato nel 2014, l’edificio, il cui guscio curvilineo è rivestito da 5.000 pannelli in alluminio e da lastre in vetro, ospita sale per mostre permanenti e temporanee, depositi, un laboratorio di restauro, una biblioteca, una sala cinematografica da 68 posti e gli uffici della Fondazione Jérôme Seydoux-Pathé.
«Si entra: lo spettacolo architettonico si offre immediatamente allo sguardo: si segue un itinerario e le prospettive si sviluppano con grande varietà. Si gioca con l’afflusso dei raggi luminosi che rischiarano le pareti e creano penombra. Le finestre svelano alcune prospettive all’esterno dove si ritrova l’unità architettonica… tutto, anche in architettura, è questione di circolazione.» Le Corbusier – Maison La Roche - Jeanneret 71
Nelle lunghe serate invernali, quando ancora non c'era la TV a distrarci dai rapporti sociali e familiari, si andava a "veglia" dai vicini. Una sera alla settimana i più religiosi andavano a veglia a casa del parroco. La veglia era un'occasione di incontri, di riflessioni, di semplici chiacchierate e perfino di pettegolezzi. A casa del prete le serate erano dedicate alla preparazione delle ostie. Un impasto di farina ed acqua che si cuoceva sul fuoco vivo del camino usando uno strumento chiamato "ferro". Si facevano cialde bianche e sottili che si ritagliavano con un bicchierino per farle diventare rotonde e piccole. Finita la lavorazione, e le riflessioni morali che normalmente l'accompagnavano, all'impasto avanzato si aggiungeva l'uovo, lo zucchero, l'anice per ricavarne cialde dolci e croccanti che si sgranocchiavano ascoltando i ricordi dei vecchi, i racconti di quello che sapeva le store e perfino le poesie dei tempi antichi. In una di queste occasioni ho sentito per la prima volta i versi della Gerusalemme liberata. Le cialde, cui si attribuivano vari nomi a seconda della parrocchia in cui si facevano, offrivano la calda e dolce fragranza e invitavano a bere l'"acquaticcio" (anche per questo i nomi erano vari ad esempio "acquarello") che si faceva con acqua fermentata sui graspi di uva residui dalla produzione del vino. La veglia era l'occasione per stare insieme, intrecciare rapporti, amori ed amicizie il cui sapore si perde nel tempo e che ancora scalda il cuore a chi non è più tanto giovane. Si finiva così la giornata in lieti conversari e si riprendeva poi a piedi la via di casa per andare a letto mentre il chiacchierare si perdeva lentamente nella notte. Alla Dogana Vecchia ancora si producono queste cialde, ad una ad una con il ferro.
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illustrazioni
Quando tutto diventa blu si può annegare nella paura Testo Andrea Luccioli
La graphic novel di Alessandro Baronciani torna in una nuova edizione per parlare degli attacchi di panico e di come, prima di chiedere aiuto, bisogna accettare di averne bisogno Non so se vi è mai capitato di avere un attacco di panico. No, non è una bella sensazione. Non è solo il respiro che manca, è qualcosa che ti paralizza, ti fa girare a vuoto il cervello. Sembra di implodere sudando freddo. «Non sostenevo più i miei pensieri. Battevano forte!», racconta Chiara, la protagonista di “Quando tutto diventò blu”, la graphic novel di Alessandro Baronciani appena uscita in una nuova edizione edita da Bao Publishing dove, appunto, si parla degli attacchi di panico. Un’edizione preziosa, con una nuova copertina rigida e altre chicche che rendono questo lavoro di Baronciani qualcosa di unico. Noi di The Mag abbiamo incontrato Alessandro Baronciani lo scorso anno, ad Umbertide (nella foto a fianco con il direttore Andrea Luccioli), quando venne a presentare la sua ultima fatica, “Negativa”, e oggi siamo felici di avere tra le mani questa riedizione di un’opera speciale. Perché spe-
ciale? Perché affronta un tema delicato e spesso sottovalutato come quello degli attacchi di panico, ovvero il più comune disturbo dell’ansia. Episodi di cui si parla spesso ma che non sempre vengono riconosciuti e affrontati nella giusta maniera. Gli attacchi di panico sono “la paura di avere paura”. Nel caso della Chiara disegnata da Ba-
ronciani, una ragazza che ama il mare e le immersioni, il primo attacco arriva sott’acqua con annessa sensazione di soffocamento. Da qui l’escalation raccontata “in blu”, con la ragazza che comincia ad avere continui episodi legati all’ansia sempre più difficili da controllare e che metteranno alla prova, tra infinite visite mediche e ricette di farmaci, le sue abitudini quotidiane e le sue relazioni. La vita di Chiara cambia: lo studio, il lavoro, gli amici, l'amore, tutto viene stravolto. Il punto centrale? Chiara ha paura di tante cose, ma soprattutto di ammettere di avere un problema. “Quanto tutto diventò blu” è una specie di raccontodiario che ci porta ad immedesimarci in Chiara. Gli episodi raccontati sono tutti “reali”, visto che per la stesura del plot Baronciani ha preso spunto anche dai racconti dei suoi amici da cui ha scoperto che gli attacchi di panico sono molto frequenti tra le persone. Perché il “blu”? Il colore diventa
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uno stato d’animo e si riallaccia al mare, un luogo naturale che nel libro è sia come luogo in cui si manifesta il primo attacco di panico, sia come luogo in cui ritornare quando comincia la ripresa. In questa nuova edizione, insieme alla Bao, Baronciani ha lavorato anche sulla forma del libro: aprirlo significa tuffarsi in un’esperienza sensoriale, un
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po’ come ci aveva abituato con quella perla che è “Come svanire completamente” che, a quanto pare, avrà pure una specie di seguito, non tanto nel tema, quanto nella modalità realizzativa, ovvero il crowdfunding. Ad accompagnare la nuova edizione del libro c'è anche uno spettacolo inedito, un concerto a fumetti, live, creato insieme
a Corrado Nuccini (Giardini di Mirò). Sul palco con loro ci saranno Daniele Rossi al violoncello, e alle voci Ilariuni (Gomma) e Her Skin e tanti altri ospiti a sorpresa. Baronciani in questi giorni è partito con il booktour del libro che durerà fino alla metà di febbraio, lo spettacolo con Nuccini prevede date fino a fine marzo.
spettacolo
Testo e foto di Andrea Luccioli
“Vi SVELO il rigore che mi ha cambiato la vita” Federico Buffa, grande storyteller sportivo, si racconta: “Lo sport riesce a portare speranza là dove niente altro riesce ad arrivare”
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Partiamo dalla fine. Dalla confessione che gli abbiamo strappato alla fine dello spettacolo “Il rigore che non c’era” di cui è protagonista e mattatore. “Mi piace di più stare sul palco rispetto a quello che faccio normalmente. Sì, preferisco raccontare recitando in teatro”, ammette. Lui è Federico Buffa, giornalista sportivo (e molto altro) che in questi ultimi anni è diventato un vero e proprio personaggio cult nell’immaginario nazionale per la sua capacità di raccontare storie di sport e di vita. Uno storyteller dell’aneddottica sportiva capace di affrescare gesta grandiose e tremende sconfitte con la stessa poetica romantica che solo un grande narratore sa avere. Buffa è un bardo 2.0, ha creato la letteratura in HD della vera mitologia del nostro tempo: quella dello sport e degli sportivi. A Foligno, all’Auditorium San Domenico, è arrivato insieme a Jvonne Giò, Marco Caronna (che è anche regista dello spettacolo) e Alessandro Nidi che col suo pianoforte ha impreziosito uno spettacolo durato un’ora e trequarti. Un lungo racconto fatto di eventi improvvisi che cambiano tutto,
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una partita di pallone, una vita, la storia. A cominciare da Pelè, dalla storia del suo millesimo gol segnato grazie a un calcio di rigore “inesistente” che, peraltro, calciò male. Tiro facile, portiere che decide di farsi da parte per lasciare entrare in porta molto più che un pallone, bensì la leggenda. E poi arrivano gli autogol di Comunardo Nicolai, la leggenda brasiliana di Garrincha, artista della fascia e del dribbling. E ancora. Il gol del Loco Houseman ubriaco al River Plate che fece vincere lo scudetto ai suoi e la sua parabola culminata con un Mondiale vinto e una fine in povertà e alcolismo. Nello spazio immaginario del palco folignate Buffa, insieme ai suoi compagni di viaggio, narra anche di LeBron James, di Billie Holiday che canta i suoi “Strange fruits” dolorisissimi, passa da Nelson Mandela a Martin Luther King, da Malcom X a Mohammed Alì. Ci sono gli assoli di Jimi Hendrix, la musica di Ringo Starr che Joe Cocker porta a Woodstock, Kendrick Lamar e Elis Regina costretta a cantare per il Brasile militarizzato pur di rivedere il
figlio e via fino a Cristiano Ronaldo, il fenomeno che rischiava di non venire alla luce. “Lo sport riesce a portare speranza là dove niente altro riesce ad arrivare”, ci spiega al termine dello spettacolo che “nasce da un’idea di Marco Caronna per raccontare storie, quelle storie di realtà controfattuale: cosa sarebbe successo se. Uno spettacolo modulare, lo cambiamo tutte le sere ed è molto divertente”. Abbiamo così chiesto a Buffa quali sono stati i "suoi" rigori che hanno rappresentato dei momenti che hanno cambiato tutto, sia a livello sportivo che umano. «Ho sofferto tantissimo quando siamo usciti ai rigori nei Mondiali del 1990 così come quando abbiamo perso i Mondiali del 1994 sempre ai rigori. Entrambi in un modo piuttosto barbaro – spiega -. Invece a livello personale credo che il ‘rigore’ che ha cambiato tutto è stato quando sarei dovuto andare in Oriente e non sono andato. Restai qui, ma mi chiesero di restare qui per restare a fare a fare storie di calcio e sport. Qualcuno ci aveva visto lungo e sono rimasto qui». Il resto della storia lo conosciamo.
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DI MARIA VITTORIA MALATESTA PIERLEONI
FOTOGRAFARE LA MUSICA E' ROCK. A TU PER TU CON HENRY RUGGERI 82
fotografia
Bruce Springsteen Milano 3 Luglio 2016 83
Non ama definirsi un fotografo, ma uno che “scatta foto”. Eppure le sue foto a icone del calibro di U2, Rolling Stones, Bruce Spreengsteen, Depeche Mode e Kiss parlano da sole. Il marchigiano Henry Ruggeri è uno dei fotografi italiani più conosciuti e ricercarti nel mondo della musica, dove vanta collaborazioni con testate giornalistiche, editoriali e mostre personali. Da tempo, poi, è il fotografo ufficiale di Virgin Radio, un bel colpo per uno che da ragazzo sognava di conoscere i Ramones. Noi lo abbiamo intervistato per scoprire qualcosa di più del suo lavoro che, a ben vedere, è prima di tutto una grande passione.
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Henry, raccontaci il tuo primo scatto fotografico in assoluto e qual è stato il tuo approccio alla fotografia. «Il mio primo scatto è a un papavero e risale al 1986 quando mi sono imbarcato in Marina. Ero già un appassionato di fotografia ma solo come osservatore. Dato che non potevo uscire se non 2-3 giorni a settimana, l’ho scelto come hobby al quale dedicarmi così ho acquistato una Praktica super economica a La Spezia e il negoziante oltre ad avermi regalato due rullini, mi ha impartito i primi rudimenti sulle tecniche». Come sei passato a fotografare i musicisti e a diventare il fotografo ufficiale di Virgin Radio? «Da piccolo acquistavo in duplice copia la rivista Ciao 2001 che collezionavo insieme ai vinili, e dalla quale ritagliavo le fotografie che mi piacevano. Ho gestito per anni un club di musica dal vivo e contemporaneamente fatto il fotografo amatoriale per una rivista romana di vinili, Raro!. Il mio gruppo preferito sono i Ramones e ho iniziato a frequentare le band perché volevo conoscerli fino a quando sono diventato amico di Marky Ramone e Ringo che mi hanno coinvolto nel progetto Virgin Radio. Nel 2007 facevo solo foto per il sito ma quando nel 2010 l’avvento dei social ha richiesto contenuti sempre più importanti, il mio ruolo ha acquisito una maggior definizione». Quali sono i tuoi fotografi preferiti? «Anton Corbijn oltre che tecnicamente bravo è riuscito a definire l’identità di alcuni gruppi nell’attitudine e aspetto visual come U2 e Depeche Mode; Danny Clinch e Top Sheehan. Per la capacità di narrare Lance Mercer, autore dell’iconica copertina di Ten e Kevin Cummins, fotografo storico dei Joy Division che ha avuto il grande merito di raccontare la scena di Manchester degli anni ’80 e dalla nascita dell’Haçienda».
fotografia Michael Stipe (REM) Ancona 23 Luglio 2003 85
Quanto è importante avere uno stile personale che rende lo scatto immediatamente riconoscibile? «È essenziale. Io lavoro molto sui ritratti, quasi mai figura intera ma mezzo busto o primi piani perché mi interessa catturare nel momento del live la solitudine dell’artista sul palco. Nonostante si trovi in presenza di centinaia di persone, percepisco l’alienazione e il porsi in un livello diverso rispetto sia a chi ha davanti che al resto del gruppo e voglio rappresentare questo. Ritengo che questa scelta abbia determinato la riconoscibilità del mio tratto. Scoraggio sempre i fotografi che mi chiedono consigli dall’apporre una firma perché l’obiettivo deve essere quello di rendere la foto riconoscibile a prescindere».
Johnny Depp Hollywood Vampires Roma 8 Luglio 2018
Riesci a vivere emotivamente i concerti quando fotografi? «Durante i live abbiamo a disposizione solo i primi 3 pezzi. In quei momenti la concentrazione è essenziale perché ci sono notevoli “ostacoli”: la security e i colleghi che cercano di accaparrarsi la posizione migliore. In genere cerco di arrivare preparato, avendo studiato in anticipo il genere di performance al quale andrò incontro, arrivo con un’idea ben precisa di quello che voglio realizzare. Come fotografo ufficiale di eventi molto spesso ho pochissimo tempo dall’inizio del concerto per fare editing e post produzione poiché devo consegnare il materiale a promoter e agenzie per la comunicazione social». Cos’è cambiato con l’avvento del digitale dal punto di vista fotografico, in termini di mezzi e opportunità? «Quando ho iniziato io non c’era il digitale e avevo a disposizione solo 2 rullini da 800 ISO con 36 pose con cui dovevo portare a casa il lavoro. Adesso è tutto molto più facile. Le macchine aiutano tecnicamente ma allo stesso tempo questo fa sì che non ci si specializzi: tanti fotografi hanno l’inquadratura ma non la studiano. Nemmeno io mi ritengo fotografo, ho studiato da autodidatta e per me la fotografia
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fotografia Slash Guns n'Roses Milano 10 Giugno 2010 87
è un’urgenza creativa e non un lavoro». Qual è il tuo scatto preferito e perché? «In realtà non ce l’ho. Se dovessi scegliere, direi quelle in cui mi riconosco come ad esempio la foto di Trivium o la silhouette di Dave Gahan, benché tecnicamente imperfette. Gli scatti che preferisco sono quelli che riesco a fare quando mi sento libero e posso seguire il mio intuito». E il peggiore? «In realtà ce ne sono tanti. Col tempo si migliora e foto che sembravano buone, viste con il senno di poi, non mi piacciono più». Cosa ti ha spinto a dare vita alle tue mostre fotografiche? «Da amante delle riviste, ho sempre tenuto alla parte materica della foto, ho continuato a stampare anche in era digitale. Una volta stampate poi le ho utilizzate per le esposizioni, molte delle quali mi sono state richieste. Creo opportunità e coltivo amicizie, sono un collezionista di collaborazioni». Hai compartecipato alla stesura di alcuni libri. Che potere ha la parola rispetto al mezzo fotografico? «Sia fotografia che parola hanno un proprio valore artistico ma una bella foto raccontata da un ottimo storytelling è decisamente più vendibile dei due prodotti separati, direi 2+2 =5». Progetti futuri? «Mi piacerebbe realizzare un libro fotografico e allestire più mostre in cui esporre tutti quegli scatti che ritengo belli ma confinati negli hard disk. Se la fotografia è un’arte, deve essere anche condivisione». 88
Steven Tyler (Aerosmith) Venezia 3 Luglio 2010
fotografia Ramones Bologna 19 Gennaio 1996 89
Nella valtiberina umbra, a pochi chilometri dalla toscana, l'Agriturismo Villa Veronica è il posto ideale per un soggiorno in pieno relax a contatto con la natura. La famiglia Campanelli, originaria di Città di Castello, è proprietaria dell’ immobile da quattro generazioni. Nel lontano 1926, il casolare fu acquistato dal prozio degli attuali proprietari, il quale alla morte lo cedette alla nonna Veronica, di lui figlia adottiva. Veronica, con i figli e i nipoti, ha abitato il casolare fino agli anni 80 e quindi fino al 2003 è rimasto disabitato. Per gli ospiti, sia a pranzo che a cena, possibilità di mangiare in agriturismo. La nostra cucina offre piatti tradizionali Umbri e Toscani. Il menù comprende: pane e focacce del nostro forno, pasta all’uovo fatta a mano, salutari prodotti del nostro orto, pollame di produzione propria, insaccati e stagionati di maiale prodotti da norcini locali, carni da sugo, bistecche e tagliate di vitella chianina dop. Il tutto condito con olio extra vergine di oliva di nostra produzione e accompagnato da del buon vino bianco e rosso.
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CAPPELLACCI AI FUNGHI PORCINI La pasta • 400 g. di farina 0 • 3 uova • 70 g. di spinaci Il ripieno • 300 g. di ricotta mista • 100 g. di spinaci • 180 g. di parmigiano • noce moscata q.b. • sale q.b. La fonduta • 270 g. di Fontina • 30 g. formaggio grana grattugiato • 100 ml. di latte • 150 ml. di panna • noce moscata a piacere • sale q.b. • pere q.b. I funghi • 300 g. di porcini • olio extra vergine • aglio • sale cuocere per 15 minuti poi unire alla fonduta
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Medici Dalla collezione Medici nasce un piatto classico e raffinato, con bordi irregolari e decorazioni fatte a mano. Abbinato ad una base azzurro cenere è lo scenario perfetto per esaltare i piatti della tradizione umbra.
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In un ambiente pieno di fascino si gustano i piatti tipici e tradizionali della cucina Umbra. Cucinati alla vecchia maniera in bellavista nel caminetto della sala dove si ritrova il calore dei modi e degli antichi sapori.
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Testo Andrea Luccioli / Foto Laura Patricia Barberi
La domenica, il pranzo e la famiglia: this is (real) Umbria
Alla scoperta dei Pranzi Domenica Umbri (PDU) dove tradizione, amicizia, buon cibo e musica si uniscono in una nuova forma di socialitĂ in chiave nostrana
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’idea è talmente semplice che nessuno ci aveva pensato. Quantomeno non in questo modo: organizzare e “istituzionalizzare” il vero pranzo della domenica della tradizione umbra. Un po’ per gioco, un po’ per voglia di stare insieme in una società che preferisce dividere piuttosto che unire le persone, un po’ per recuperare una tradizione che ha il profumo dei ricordi e dei tempi buoni.
Da qui nascono i PDU, i Pranzi Domenicali Umbri (Musica dal mondo, cibi dall’Umbria), appuntamento mensile creato due anni fa da un piccolo gruppo di amici che poi si è trasformato in un collettivo capace di piccoli e grandi “ritrovi” domenicali fatti e confezionati per stare bene insieme in un giorno particolare come la domenica. Un fenomeno che abbiamo dapprima sbirciato sui social e di cui poi The Mag si è subito innamorato decidendo di partecipare. Perché la filosofia che anima questi eventi goderecci poggia sull’amicizia, l’affetto e la voglia di condivisione. Un po’ di storia. A Bevagna, due anni fa come dicevamo, è stato organizzato il primo PDU e da allora, ogni mese, decine di ragazzi (e anche di più) si ritrovano in una località/ristorante caratteristico dell’Umbria per stare insieme, ascoltare buona musica e mangiare cibi genuini attraverso le ricette di questa nostra 98
terra. Alla faccia di Masterchef e compagnia cantante. Ogni evento è un piccolo gioiello di genuinità. Per partecipare, oltre a prenotare, bisogna scegliere da che parte stare: nei PDU l’eleganza esibita resta a casa, serve solo sostanza e vicinanza. Montefalco, Bevagna, Perugia, Assisi, Foligno e via dicendo: queste alcune delle località dove sono stati organizzati finora i pranzi a “marchio PDU”. E non lo diciamo a caso visto che intorno a questa specie di esperimento sociale sono nati un logo con un cinghiale, magliette, adesivi e molto altro. Il marketing casereccio che mette tutti d’accordo. Ma guai a parlare di un’iniziativa seria, «noialtri tocca fa il pranzo, mica un evento», spiega uno degli organizzatori per dare la cifra del contesto. «Noi qui in Umbria non abbiamo il mare, abbiamo questo – spiega uno dei dj che si alterna in consolle durante i pranzi -. Io ad esempio, magno la coratella e metto
Una madeleine di proustiana memoria.
i dischi». Sbam. Ma perché sono importanti i PDU? Perché oltre a recuperare una tradizione comune a tutti gli umbri, sono uno spazio di socialità. E di recupero della socialità stessa. Qualcuno si confida, ci spiega che i PDU gli ricordano i pranzi in famiglia di quando era ragazzino e che ora non ci sono più. A quanto pare questa cosa vale per la gran parte dei partecipanti. Quella dei PDU è una generazione di 30/40enni che raccoglie l’eredità del pollo arrosto a casa della nonna e delle tagliatelle al sugo d’oca che si mangiavano dai parenti nelle domeniche chiassose e che oggi, nel 2020, sembrano essere un privilegio per pochi. Anche per questo, in stile Fight Club, nei PDU c’è una regola non scritta che va rispettata: “Si pranza tutti insieme”. Oggi a organizzare tutto ci pensano Marco Fanini (Marco Mando), Francesco Bartolucci (Franco B), Michele Capece (Cap), Fabio Degli Esposti (Fabio-
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dedà), mentre Laura Patricia Barberi si occupa delle foto. A fine gennaio hanno organizzato, per la seconda volta, la “Spezzatura del maiale”, appuntamento ormai diventato una specie di cult. Le regole? Le solite, tutte contenute nelle info dell’evento: «Ottimo vino, cibo a km zero rigorosamente cresciuto nella nostra bellissima Umbria (no per dire, per davvero), musica dal mondo con dj set a tema con i nostri selezionatori musicali e goliardia a secchiate (quella non deve mancare mai)». Volete saperne di più? Basta fare un giro sui canali FB e IG dei Pranzi e magari buttare un occhio al canale Mixcloud dove vengono pubblicate le selezioni musicali. Roba per palati finissimi!
FB @PDUMBRI IG @pranzidomenicaliumbri MIXCLOUD https://www.mixcloud.com/PranziDomenicaliUmbri/
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La borsa delle donne EMANUELA SPLENDORINI
La nostra forza è una questione di pancia Contro la violenza abbiamo un superpotere! 104
Sono anni che mi occupo dei vari aspetti della violenza sulle donne da quello giuridico a quello psicologico. La violenza sulle donne è un argomento caldo e attualissimo, tanto che per questa ragione sembra essere diventato una moda, ma io la moda non l’ho mai seguita, quindi la ragione per la quale scrivo di questo complesso e terribile argomento è un'altra. Quello che mi interessa affrontare in questa sede è un aspetto della violenza sottaciuto ma determinate per affrontare concretamente il problema. Perché per risolvere un problema occorre capire da dove nasce. Devo premettere che quando si parla di violenza sulle donne, si è portati a ritenere che l’unico tipo di violenza sia quello fisico o sessuale, ma non è così. Non si pensa mai che (solo per citare alcune fattispecie) la violenza psicologica ed economica, la svalorizzazione continua, la segregazione, l’intimidazione, il ricatto sui figli, l’isolamento sono forme di violenza sulle donne gravi e devastanti quanto quelle che, a levata di scudi, sembrano avere la “dignità” di essere chiamate tali. Quando si parla di violenza sulle donne, si parla sempre di ciò che accade fuori, ovvero dell’evento che si è già verificato, ma non si parla mai di quello che accade dentro, prima che questo accada. Ed è qui, su questo punto fondamentale che voglio portare l’attenzione di chi legge. La violenza sulle donne è una battaglia devastante e silenziosa che noi donne combattiamo ogni istante da secoli. Sapere di poter subire un qualsiasi tipo di violenza è una terribile consapevolezza che ci portiamo dentro fin da bambine nella pancia, non nella testa, come se fosse scritta nel nostro DNA ed è per questa ragione che a livello di inconscio collettivo siamo (purtroppo) intimamente preparate alla possibilità che accada, non che non accada, non dico razionalmente ma inconsciamente.
Ne accettiamo la possibilità, come se fosse una cosa (terribile) e naturale dell’essere donna e quando accade, di qualsiasi natura essa sia, siamo impreparate a reagire perché non sentiamo inconsciamente quell’atto come inaccettabile. Non parlo nella testa. Per cambiare un risultato, non si può intervenire sul risultato, ma sugli elementi che lo hanno determinato. Non dobbiamo agire sulla testa, lì tutto è chiaro, ma sulla pancia, perché anche in questo caso, anche se sembra incredibile, la vera partita si gioca dentro di noi. Non possiamo cambiare ciò che è già accaduto, ma possiamo impedire che accada di nuovo. Le donne hanno una grande responsabilità, le une con le altre, le grandi con le piccole. Siamo noi che dobbiamo per prime rompere “l’incantesimo”, siamo noi “grandi” che dobbiamo imparare a guardare negli occhi le piccole (qualsiasi età loro abbiano) e dire loro – da un punto dal quale quelle parole non sono mai partite- che sono preziose e che nessuno ha e avrà mai il diritto di fare loro del male. Diciamoglielo ogni giorno con il cuore, non con la testa, diciamoglielo rivedendo nei loro occhi i nostri di quando eravamo bambine. Lo faremo per loro e lo faremo per noi. Abbiamo una grande responsabilità noi donne, nei confronti di quello che ci accade e ciò che dobbiamo fare non possiamo delegarlo a nessun altro. Ognuna deve fare la sua parte. Prima, non dopo. È dalla pancia che dobbiamo dire no, perché da lì si sprigiona una forza quieta e irremovibile che nessun atto e tentativo che lo ha preceduto lo aveva ed è quello l’unico in grado di fare la differenza. Un esempio che tutti conosciamo per capire la forza di quel no è Gandalf il Grigio, il mago del Signore degli Anelli che riesce ad impedire al demone di passare, semplicemente dicendo “Tu non puoi passare”. Quale è la sua forza? Da dove nasce la sua forza? Perché quelle parole sono così potenti? Perché non provengono solo dalla mente ma la forza arriva dalla pancia, perché lui sa quale è il suo potere e sa quello che deve fare. La sua forza è tutta lì e quando dice quelle parole, quello che sente nella testa, lo sente anche nella pancia. Non c’è dispersione. Non c’è dubbio o esitazione. E quelle parole arrivano. Testa e pancia vanno nella stessa direzione e noi dobbiamo arrivare lì.
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Testo Maria Vittoria Malatesta Pierleoni / foto Luigi Burroni
La Storia che non ti aspetti alla scoperta del museo del diario 106
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mmaginate persone che hanno scritto un loro diario o hanno ritrovato scritture private di famiglia e le hanno affidate a un Archivio Diaristico Nazionale. Immaginate un gruppo di appassionati di lettura che questi scritti li hanno accolti, letti, riletti, commentati, discussi e premiati. Immaginate che più di 8.000 storie individuali siano custodite in 40 mq e abbiano trovato un modo unico di raccontare la Storia.
C’è un luogo, in Toscana, dove la memoria racconta un tipo di Storia che non si può studiare sui libri. È quella conservata tra le pagine dei diari e lettere che compongono il Piccolo museo del diario di Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo. Un progetto che attinge al patrimonio conservato all’interno dell’Archivio Diaristico Nazionale, nato oltre trent'anni fa per volontà dello scrittore Saverio Tutino di raccontare la Storia collettiva attraverso le memorie private della gente. Con il passare degli anni, l’Archivio ha raccolto migliaia di scritti privati, diventando una preziosa raccolta della storia popolare italiana anche grazie al premio Pieve di Santo Stefano (oggi Premio Pieve Saverio Tutino) dove vince lo scritto più inedito e particolare che verrà pubblicato. Così, il paese che non aveva più alcuna testimonianza della sua storia a causa dei bombar108
damenti della seconda guerra mondiale si fa carico di quella del popolo di una nazione intera. Più di 8.000 storie tra memorie, lettere e diari che cancellano i filtri della retorica e fanno comprendere il mondo dove viviamo, il nostro Paese e la nostra società. Reperti non convenzionali che qualunque storico di professione rifiuterebbe di inserire in qualsiasi cronaca ufficiale ma che a Palazzo Pretorio del Comune di Pieve una volta vagliato dalla Commissione di lettura che ne controlla l’autenticità è Storia. Del resto - l’Archivio non pretende di sostituirsi alla storiografia ufficiale ma vuole porre al centro la persona e la sua capacità di raccontare. Attraverso la storia di un singolo non si può ridefinire il contorno di una vicenda storica ma si può comprenderla megliospiega Natalia Cangi, direttrice
Vivrete un’esperienza particolare in un luogo speciale dell’Archivio. Resistere al tempo che passa e alla velocità con cui oggi dimentichiamo, è lo scopo del Piccolo Museo del diario dove sono raccolte centinaia di storie di persone comuni che attraverso il loro personalissimo e intimo punto di vista hanno raccontato gli anni più importanti della storia d’Italia, una vera e propria storia “scritta dal basso” che grazie al lavoro di Saverio Tutino, a cui oggi il museo è dedicato, ha assunto dignità universale e storica. Piccolo il museo del diario lo è davvero. Un percorso articolato in 4 spazi di 40 metri lineari ma che per i suoi contenuti apre mondi potenzialmente infiniti in termini geografici e temporali ai suoi visitatori. Basta avvicinarsi ad uno cassetti incastonati in una bellissima parete di legno artigianale che simboleggia gli scaffali dell’Archivio, estrarlo e contemplarne il
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contenuto: ci si ritrova di fronte a schermi digitali e manoscritti originali, che permettono di leggere i contenuti delle storie, contestualmente raccontate da attori che hanno prestato voce ai diari. A completare l'impatto emozionale visivo e uditivo, quel "fruscìo degli altri" per dirla alla maniera di Tutino, un bisbìglio di sottofondo dal quale si stagliano le parole dei protagonisti. In un’epoca in cui tutto è digitale, smart e fast, un luogo in cui toccare con mano, leggere, perdersi nel racconto è fondamentale, atto che passa sì attraverso le pagine ormai ingiallite dei diari e delle lettere ma che, nel tempo, ha trovato un modo unico per raccontarsi. Infatti il percorso sensoriale interattivo che spicca per originalità è merito dei dotdotdot, artefici di un'architettura che armonizza tutte le tecnologie necessarie
al funzionamento dell’installazione, ispirati dal racconto del regista, drammaturgo e attore teatrale Mario Perrotta, Il paese dei diari, la storia romanzata sulle vite contenute nei diari costrette ad una convivenza forzata. Due sale ospitano poi Terra matta di Vincenzo Rabito, un capolavoro autobiografico scritto da un cantoniere ragusano semi analfabeta che stupisce per densità di narrazione e di scrittura personale e del Novecento e il Lenzuolo di Clelia Marchi. Scritto da una contadina mantovana direttamente su un lenzuolo del proprio corredo è dedicato al marito Anteo ed è un’opera unica che sorprende e commuove, emblema dell’autobiografia e dell’attività di raccolta dell’Archivio dimostrando come, nel segreto quotidiano della gente comune è raccontata la nostra storia senza “Gnanca na busìa”.
Quel che è certo è che ormai le attività dell’Archivio diaristico svolgono un importante ruolo e hanno superato i confini nazionali. «Abbiamo intrapreso il progetto DiMMi – Diari Multimediali Migranti – rivolto a persone di origine o provenienza straniera che vivono o hanno vissuto in Italia, autori di diari o testimonianze. Stiamo creando un fondo di raccolta di diari per immigrati di prima e seconda generazione per far sì che si avveri quel che desiderava Saverio Tutino, ovvero dare voce a chi non ha voce. Perché nessuna vita resti dimenticata». www.piccolomuseodeldiario.it
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Ibrahim Mahama di Lorenzo Martinelli
Nato in Ghana nel nel 1987, poco più che trentenne in solo dieci anni è arrivato a essere uno dei protagonisti della scena contemporanea mondiale. Ha partecipato a mostre di rilievo come l'ormai celeberrima 'Pangaea New Art from Africa and Latin America' organizzata dalla Saatchi Gallery di Londra nel 2014 (prima edizione) e nel 2015 (seconda edizione) e a lui sono state già tributate importanti personali, ad esempio 'Fragments' (2017) da White Cube o 'A Friend' (2019), copertura in tele di juta per Porta Venezia a Milano finanziata da Fondazione Trussardi. È proprio quest'ultima opera, oltre alle due recentissime partecipazioni alla Biennale di Venezia (2015 e 2019), che lo ha portato al piano del grande pubblico. L'opera in questione è composta da tante pezze in juta ricavate da sacchi ri112
ciclati, la scelta di rivestire con questa copertura Porta Venezia ovvero un casello daziale, per estensione tutte le porte e dogane, ci porta a riflettere sui confini, la circolazione delle merci e non solo. Mahama ci conduce verso una riflessione su un tema di primo piano in Italia in questo periodo, l'apertura o la chiusura dei nostri porti. Se per il suo intervento l'artista avesse scelto una normale porta sul perimetro della città antica, il suo lavoro avrebbe forse avuto un qualcosa di banale, è la scelta di un'ex dogana per merci che mi ha colpito e ha aperto la mia mente a molteplici interpretazioni, prima fra tutte la preoccupazione e la conseguente corsa generale per velocizzare lo scambio o sdoganamento di merci e la totale incapacità delle stesse persone di far fronte all'odierno flusso migratorio, dimo-
strando indubbiamente l'inettitudine umana verso cambiamenti epocali. La scelta stessa del materiale è interessante, dopo Burri, la juta è diventata un materiale intoccabile per chiunque si cimenti nella realizzazione di un'opera, qualunque artista abbia realizzato qualcosa con questa materia o con materie simili, negli anni è stato tacciato di essere un emulo e di conseguenza un autore di bassa lega, Ibrahim non se ne preoccupa, non solo usa la tela di sacco, ma la riveste di una nuova carica semiotica. Auguriamo a questo giovane artista di essere, come il suo omonimo biblico, il patriarca di una nuova generazione di taumaturghi provenienti da una terra lontana, ma che deve ancora rilasciare tutto il suo potenziale artistico.
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PEARL JAM ARE BACK La musica di L.M. Banksy
In principio fu l'annuncio di un nuovo tour e poi nemmeno tanto a sorpresa è giunta la notizia attesa da molti. Il 27 marzo 2020 i Pearl Jam pubblicheranno il loro undicesimo album in studio, "Gigaton" (Universal Music/Island Records). Oltre sei anni dopo l’uscita di "Lightining Bolt", insignito del Grammy Award, "Gigaton", prodotto da Josh Evans e dagli stessi Pearl Jam, segna l’attesissimo ritorno discografico della band. Il titolo deriva dal gigatone, un’unità di misura di massa equivalente a un miliardo di tonnellate. In climatologia viene utilizzata per quantificare il distacco di ghiaccio ai poli, fenomeno in drastico aumento, ed è proprio per questo che la copertina di Gigaton è la foto “Ice
Waterfall” del fotografo, regista e biologo marino canadese Paul Nicklen. Scattata alle Svalbard, in Norvegia, l’immagine mostra la calotta di ghiaccio dell’isola di Nordaustlandet, da cui sgorgano ingenti quantità di acqua di disgelo. “Realizzare questo disco è stato come un lungo viaggio” ha svelato Mike McCready. «È stato oscuro e a volte confuso a livello emozionale , ma anche una mappa entusiasmante e sperimentale verso la redenzione musicale. Collaborare con i miei compagni di gruppo per Gigaton alla fine mi ha dato più amore, consapevolezza e conoscenza della necessità di connessione umana in questi tempi.» I Pearl Jam hanno poi rivelato la tracklist del nuovo album tramite
i propri canali social che sarà la seguente: 1. Who Ever Said 2. Superblood Wolfmoon 3. Dance of the Clairvoyants 4. Quick Escape 5. Alright 6. Seven O’clock 7. Never Destination 8. Take The Long Way 9. Buckle Up 10. Comes Then Goes 11. Retrograde 12. River Cross Per i fans più accaniti e per gli impazienti Gigaton è disponibile in pre-ordine in CD e doppio vinile su pearljam.com . Che la forza sia con voi e sempre con i Pearl Jam. Buon ascolto.
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Bong Joon-jo
a destra in alto
Memories of murde in basso
Parasite
Il favoloso signor Bong Joon-jo Laureato in sociologia e grande esponente del cinema sudcoreano odierno Bong Joon-jo (50 anni) è un cineasta apprezzato a livello nazionale e internazionale e ha dimostrato di avere un talento e una sensibilità in campo cinematografico riconosciuti a livello mondiale. Luca Benni & Matteo Cesarini / Cinema Metropolis Umbertide
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Grazie a Memories of Murder (Memoria di un assassino), thriller del 2003 tratto da una storia vera, il regista sudcoreano catalizzò su di sé l’attenzione della critica, non solo in patria ma anche all’estero, tanto da portare a casa diversi premi in festival tenuti in varie parti del mondo, fra cui il Torino Film Festival. Il successivo The Host, però, è stato il punto di svolta nella carriera di Joon-ho: il monster movie fu un vero successo al box office, è tra i film più visti nella storia della Corea con 11 milioni di spettatori e fu presentato nell’edizione 2006 del Festival di Cannes. Dopo di chè il debutto sul piano internazionale in lingua inglese con Snowpiercer, pellicola del 2013 ricca di attori hollywoodiani (Chris Evans, Ed Harris, John Hurt, Tilda Swinton, Jamie Bell) che è un altro affresco classista e fantascientifico che i Weinstein non si lasciarono sfuggire per una distribuzione mondiale nel 2013.
sottotitoli. Il pubblico americano, tra tutti i paesi anglofoni, è il meno abituato a vedere pellicole internazionali con i sottotitoli, e per questo i riconoscimenti ai film stranieri sono molto importanti. Parasite è uscito a ottobre negli USA e ha avuto un grande successo al botteghino; è diventato il maggiore incasso internazionale del 2019 negli USA con oltre 20 milioni di dollari. Dopo i Golden Globes sono arrivate a pioggia anche le nominations agli Oscar (Miglior Film, Miglior Film Internazionale, Miglior Regista, Miglior Sceneggiatura Originale, Miglior Scenografia e Miglior Montaggio) e proprio per questo nelle prossime settimane Parasite tornerà nei cinema italiani insieme a Memories of Murder edito in Italia fino ad ora solo in Dvd (e introvabile) entrambi distribuiti da Academy Two in collaborazione con Lucky Red: vi consigliamo di non perderli se ancora non li avete visti.
Ma è con il film Gisaengchung, tradotto in inglese con il titolo Parasite, che il regista si aggiudica la Palma d’oro nel corso dell’edizione 2019 del Festival di Cannes. Il film valica anche i confini europei: alla 77esima edizione dei Golden Globe (che da sempre anticipano la maggior parte dei risultati degli Oscar) è vincitore del premio per il miglior film straniero. Noi italiani siamo storicamente abituati al doppiaggio, ma sempre più appassionati apprezzano vedere film e serie tv con i
Nel ritirare il riconoscimento dei Golden Globe, il regista e sceneggiatore sudcoreano ha rivolto al pubblico un prezioso consiglio : «Una volta superata la barriera alta pochi centimetri dei sottotitoli, scoprirete così tanti altri incredibili film. Anche solo l’essere nominato assieme a questi grandi registi internazionali è stato, per me, un grandissimo onore. Quello che credo è che tutti noi utilizziamo un solo linguaggio: il cinema».
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PAROLE BUONE Dal 26 al 29 marzo torna "CaLibro - Festival della lettura”; l’ottava edizione della manifestazione culturale porterà Città di Castello ad animarsi di incontri, reading musicali, eventi performativi, laboratori dedicati ai bambini e non solo; Tra i nomi e gli eventi che possiamo già anticiparvi, gli scrittori Giorgio Fontana, Marta Barone, Laura Mancini, Guido Vitiello e Carmine Abate, il giornalista vicedirettore de Il Post Francesco Costa, la giornalista d’inchiesta Francesca Mannocchi, il fotoreporter Michele Smargiassi, il collettivo di giovani scrittrici Le Future, Patrizio Roversi con l'inviato di Repubblica Antonio Cianciullo. Ci sarà anche spazio per la scienza, l’ambiente, la poesia e la musica, oltre a tanti altri eventi e ospiti che verranno annunciati a giorni. Per tenervi sempre informati vi consigliamo di seguire i canali social di CaLibro e il sito calibrofestival.com 115
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Testo Matteo Trenta / Foto Karen Righi
Colori cupi, pareti che si spogliano e cartelle cliniche Il viaggio nell’ex Istituto per i bambini poliomelitici 116
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Qualche mese fa un’amica di Roma mi manda una foto, di un salone affrescato, bellissimo, troppo bello per essere vero. Sostiene che quel posto si trovi in Umbria. Le rispondo che è impossibile, e che sicuramente si tratta di un “fake”. Pochi mesi dopo, durante una delle mie sessioni ossessive di ricerca per trovare posti per nutrire la mia fame di esplorazioni, mi imbatto nuovamente in quella foto, questa volta a corredo ce ne sono molte altre. Come sempre accade, non ci sono indicazioni di alcun tipo; focalizzo la mia attenzione verso alcuni fogli e su quelle che sembrano essere cartelle cliniche. Un foglio in particolare attira la mia attenzione, sembra comparire un logo. Zoom al massimo. E’ il simbolo di un comune. Google/Cerca Immagini/Loghi comuni umbri.
È sabato, fa freddo, il cielo è grigio antracite. L’appuntamento è alle 9,00 con Karen Righi, amica-fotografa-fedele scudiera, che mi accompagnerà in questa avventura. Raggiungiamo la nostra meta senza non poche difficoltà. Si tratta di un ex Istituto di Recupero per bambini poliomielitici. La prima volta che mi sono imbattuto nella Poliomielite è stata tra le pagine del romanzo Nemesis del compianto Phil Roth. Ambientato nella torrida estate del 1944, racconta di come la “Polio” abbia attaccato e falcidiato la popolazione infantile di Newark. Si tratta di una grave malattia infettiva a carico del sistema nervoso centrale che colpisce soprattutto i bambini. Dopo una riuscita campagna di vaccinazioni è stata debellata in quasi tutto il mondo e risulta endemica solo in due paesi. Il cancello principale è
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Dopo l’intervista dello scorso numero, inizia il viaggio vero e proprio. Il nostro urban explorer Matteo Trenta, per questa uscita, ha scelto un luogo in cui sono intrappolate storie di dolore, di malattia ma anche di recupero e rinascita. Questo è il suo racconto, la musica che lo ha accompagnato e le foto bellissime del suo braccio destro, Karen
chiuso, scoviamo un sentiero in salita ed una porta aperta, ci ritroviamo dentro ad una chiesetta. Sentiamo il rumore di passi, si palesa il custode. Ci intima di andarcene, sembra molto arrabbiato. Gli spiego quello che faccio, perché lo faccio, e gli racconto tutto quello che so sul quel luogo e su quel prete che ha fortemente voluto un Istituto di Recupero per aiutare bambini malati e al quale è stata dedicata una via, proprio a poche centinaia di metri da dove siamo. Capisce che siamo davvero interessati e dopo alcune raccomandazioni ci lascia fare. Attraversiamo un corridoio, umidità e pozzanghere, pareti grigie, silenzio, freddo. Ancora pochi metri ed eccolo, il salone. Rimaniamo a bocca aperta, è più bello che in foto e no non è un fake. Lo scenario cambia radicalmente, i colori del salone, gli
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“Attraversiamo un corridoio, umidità e pozzanghere, pareti grigie, silenzio, freddo. Ancora pochi metri ed eccolo, il salone. Rimaniamo a bocca aperta, è più bello che in foto e no non è un fake.” 121
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affreschi, la porta finestra aperta, il canto degli uccelli, forme di vita. Riprendiamo l’esplorazione e ripiombiamo nel silenzio, nei colori cupi, nelle pareti che si sfogliano. Troviamo stanze con montagne di documenti, cartelle cliniche, lettere di raccomandazione, pagelle. Aule e camere da letto, dove quei bambini hanno studiato, dormito, giocato. Una grande vasca, per la riabilitazione. Dopo diverse ore e diversi scatti torniamo in macchina. Ce ne stiamo in silenzio per un bel po’. Quel posto rilascia strane vibrazioni.
Musica per l’esplorazione: James Murray “Falling Backwards” (Home Normal) Giulio Aldinucci “Aphasic Semiotics” (Karlrecords) Celer “Rains lit by neon” (Two Acorns) Meemo Comma “Reaping” (Planet Mu) Julianna Barwick “Cloubank” (not on label) Martina Bertoni “Impossible Routine” (Falk records) 36 “The Infinity Room” (A Strangely Isolated Place)
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Tutti ai blocchi di partenza per il countdown della mostra mercato del vino di qualità più attesa dell’anno: l’Only Wine! L’appuntamento è sempre a Città di Castello presso Palazzo Bufalini, ma diviso in tre giornate. Il 4 e il 5 aprile 2020 sono attesi tutti gli appassionati, i curiosi e gli amatori delle particolarità enoiche, mentre il 6 aprile è dedicato alla stampa e agli operatori del settore. A garantire il pregio della manifestazione e le selezioni accurate è sempre l’Associazione Italiana Sommelier, che lavora a braccetto con
i migliori 100 produttori under 40, a cui Only Wine è da sempre dedicato. La sua riconoscibilità e personalità si ricollega ad altre ben precise caratteristiche, uniche in questo genere di eventi: ad essere coinvolte saranno anche le case vinicole con meno di 15 anni di storia e le cantine fino a 7 ettari. Un format che si è rivelato vincente come opportunità di visibilità per l’imprenditoria giovanile in questo settore: «Ci siamo resi conto, sette anni fa ormai, che nel panorama delle iniziative dedicate al vino in Italia, tantissime e di qualità, mancava una manifestazione dedicata ai giovani produttori - afferma l’ideatore Andrea Castellani - Da qui è nata la collaborazione con l’Associazione Italiana Sommelier che seleziona le 100 cantine protagoniste» La selezione avviene, infatti, sulla base dei criteri rigorosissimi e degli elevati standard di AIS ad opera dei migliori sommelier dell’Associazione. A rispondere in prima persona della qualità dei loro vini saranno comunque gli stessi produttori, sempre presenti ai banchi d’assaggio durante le giornate a Città di Castello.
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l’ideatore Andrea Castellani. Attraverso i volti di Only Wine – Luca Martini, già sommelier Campione del Mondo; Francesco Saverio Russo, influencer e blogger di Wine Blog Roll e Chiara Giannotti, influecer e fondatrice di Vino.Tv – l’edizione 2020 porterà poi una ventata di novità: dai giovani produttori di Champagne per la sezione International, a 4 degustazioni d’eccezione (“OnlyWine Prestige”; l’Expérience du Bourgogne; Il Marrone - Alessandro Mori e una Verticale di Trebbiano d'Abruzzo).
E poi ancora degustazioni libere, degustazioni guidate con i più rinomati e stimati sommelier, aree tematiche e tante tante curiosità. Sono solo alcuni degli elementi che arricchiranno anche quest’anno una manifestazione cresciuta moltissimo nel tempo. Oggi Only Wine ha assunto sempre più il ruolo non solo di vetrina importante per il territorio (a cominciare dal fatto che i vini a cui è dato spazio sono prodotti da vitigni autoctoni rappresentativi del territorio stesso) ma anche, e soprattutto, di occasione per promuovere la cultura enoica a livello nazionale ed internazionale come autentica espressione delle eccellenze e del dinamismo che stanno caratterizzando sempre di più l’Italia dal punto di vista vitivinicolo.
dono, in pochi essenziali passi, fornire all'appassionato di vino le regole fondamentali per fare della degustazione un momento di consapevolezza e di piacere. Gli Speed Wine saranno, dunque, incontri preliminari alle degustazioni, che si terranno ad orari prestabiliti e su prenotazione. Una volta partecipato al corso, il visitatore sarà pronto per scegliere e gustare al meglio i vini presenti in totale libertà. Tra i proposti spiccano: il Sagrantino, l’Amarone, il Nebbiolo, le eccellenze del Lazio, lo Champagne e il Brunello. Insomma, un evento unico dove si trovano proposte enoiche indiscutibilmente uniche.
La macchina di Only Wine non si ferma mai e dopo il grande e crescente successo delle precedenti edizioni ne saranno ancora una volta protagonisti
E ad arricchire la manifestazione non possono mancare anche quest’anno gli Speed Wine, corsi smart della durata di circa mezz'ora che inten-
Il programma completo e le modalità di acquisto del biglietto sono consultabili sul sito: www.onlywinefestival.it
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arrivare all'arredo, i gazebo, gli ombrelloni, i pergolati. L’azienda si occupa anche del settore sportivo con progettazione e realizzazione di impianti chiavi in mano: campi da tennis, calcetto, calcio, bocce, con superfici sia in resine acriliche che con erba sintetica e fornisce attrezzature per ogni tipo di sport ed arredi per spogliatoi. Ormai lontana dall’immaginario comune di bene di lusso, la piscina è oggi un desiderio realizzabile. Se lo spazio lo consente, le soluzioni sono davvero molte e per tutte le tasche.
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