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LA SACE – LUGLIO 2014






LA SACE – LUGLIO 2014

coordinamento editoriale Comunicazione ABB SACE Division

fotografie Luca Santiago Mora

testi Andrea Menti Angelo Bianco Serena Valietti Luca Santiago Mora

progetto grafico Paolo Vitali

stampa Caleidograf

produzione Paolo Valietti (Moltimedia)

tutti i diritti riservati

prima edizione settembre 2014


LA SACE – LUGLIO 2014

fotografie di Luca Santiago Mora













POWERING INNOVATION IL FUTURO DELL’ENERGIA NEL NUOVO BUILDING ABB

Quello che avete tra le mani è una parte della lunga storia di ABB, una serie di scatti realizzati nella sede di via Baioni a Bergamo nell’arco di un mese. L’ultimo prima di inaugurare un nuovo capitolo insieme, visto attraverso l’obiettivo del fotografo Luca Santiago Mora. Un volume di immagini che vi accompagna nel passaggio a un’altra fase: portando con noi la storia e la memoria entriamo in un nuovo building all’avanguardia, un gioiello di architettura sostenibile in cui l’efficienza energetica e il controllo dei consumi incontrano l’innovazione tecnologica senza dimenticare l’impatto ambientale. Un progetto d’eccellenza che guarda sempre un passo più in là, in cui il domani è già qui: forti della nostra storia custodita da tutti coloro che si impegnano da anni con passione per la crescita di ABB SACE. È il loro impegno la testimonianza di come il buon lavoro abbia creato e continui a creare il futuro che è oggi sotto i nostri occhi. Con l’inaugurazione del nuovo building la storia di ABB continua. Powering innovation. Dare energia all’innovazione. Un flusso continuo di energia dai primi decenni del secolo scorso ad oggi passa attraverso le persone che vivono e hanno vissuto “LA SACE” ogni giorno. Un’energia fatta di passione, impegno e professionalità che trova casa nel cuore di Bergamo, in questo nuovo edificio tecnologicamente all’avanguardia, sostenibile e progettato attorno a chi ci lavora.

Andrea Menti















“LA SACE” FIRMITAS, UTILITAS, VENUSTAS

Angelo Bianco

Adeguatezza strutturale (firmitas), valore d’uso (utilitas), efficacia espressiva (venustas) sono i criteri che Vitruvio, primo teorico dell’architettura, utilizza per descrivere le qualità di un edificio. La sede storica di SACE a Bergamo, senza retorica e senza enfasi, ne potrebbe essere il manifesto. L’edificio è risultato di un processo costruttivo complesso e articolato da almeno tre successivi ampliamenti, che hanno portato alla sua configurazione finale, con la sola condizione di necessità quale obiettivo. La sequenza di ampliamenti racconta del movente ideale che l’ingegner Michele Invernizzi, il progettista, a partire dal primo dopoguerra, formalizza, riuscendo a fare sintesi chiara tra sistema formale e sistema organizzativo. Forma significativa e quindi intellegibile, in cui riconoscere i valori che le condizioni di un processo di civiltà in evoluzione ha consentito di mettere in atto. Carica visionaria che, con serena consapevolezza, sa di doversi prendere cura di chi la abiterà. Mai facile estetizzazione di eccessi tecnologici petulanti da goffo esibizionismo, piuttosto “macchina per abitare”, in cui costante è l’attenzione dello strumento del progetto, quale mezzo per la ricerca della chiarezza e della semplicità. Conquiste da perseguire con tenacia in tutti i registri: da quello della grande scala del rapporto con la città circostante che si sta formando, fino a quello più minuto del corrimano della scala che la delicatezza del legno fa voluttuosa finitura. Il principio d’autore si sposta qui dall’invenzione di una forma all’assunzione di responsabilità nei confronti del reale e delle elaborazione dei modi per trasformarlo e migliorarlo. Tenendosi alla larga dal contemporaneo effimero compiacimento per la facile ed inutile deformazione: capriccioso alibi per eccitare i sensi e ultima risorsa dell’incapace. Qui serietà e concretezza si oppongono all’attuale diffusa banalizzazione dei temi. Secondo Francesco Venezia, unanimemente considerato fra gli architetti più colti e sensibili, le opere più belle delle seconda metà del secolo scorso sono quelle degli ingegneri: “gli stabilimenti industriali, quelli degli anni cinquanta, sono opere di un enorme fascino, sono delle chiese, dove la struttura coincide con l’architettura, come del resto è sempre stato nelle opere migliori. Sempre la struttura è stata protagonista. L’architettura industriale degli anni cinquanta è quella che mantiene il livello della disciplina al massimo grado. Infatti, in architettura, è quando la funzione del reggere coincide con la sua espressione che si conseguono potenza e bellezza”. Non solo le cattedrali gotiche ne sono la testimonianza ineccepibile. In SACE la potenza dell’edificio risiede nelle proporzioni che lo governano e nelle sue dimensioni assolute.


E’ la trama dei rapporti che conta e costituisce il fronte pubblico: un colonnato che la carica simbolica dell’essenzialità della carpenteria del ferro disegna come puro ritmo, misura, ordine. L’architettura si conferma così, da una parte, strumento capace di raccontare la filosofia aziendale, di cui la consapevolezza della propria forza garantisce l’affidabilità, e che spirito di ricerca e posizioni d’avanguardia rendono assoluta; dall’altra è meccanismo strategico e audace per dissimulare la complessità del sistema e la grande superficie che si estende in profondità, a disporre i larghi spazi della produzione: piazze coperte in cui sofisticati e suggestivi sistemi di shed voltati e lucernari hanno reso praticabili. Il provocatorio quanto ispirato sbalzo degli uffici dirigenziali è la conferma della chiara volontà di esprimere didascalicamente l’idea del ponte di comando di una borghesia industriale ormai matura e consapevole del proprio ruolo. … vi è un’altra cosa che mi viene in mente. Tomaso d’Aquino dice «la ragione è il primo principio di tutti i lavori umani». Dopo che lo si è capito una volta, ci si comporta di conseguenza. Così io getto via qualsiasi cosa non sia ragionevole. Non voglio essere interessante, voglio essere bravo. Ludwig Mies Van der Rohe






























































































































MEMORIE D’AVANGUARDIA “LA SACE” E “LE SACE” TRA I COLLI DI BERGAMO E IL MONDO

Serena Valietti

Pedalando veloce lungo via Baioni, “la SACE” riflette la città. Passando per la strada in automobile o in bus, l’azienda che si trova lì, lungo l’arteria diretta in Val Brembana e Imagna, appare come uno specchio: le sue finestre restituiscono i colli, il campo sportivo di fronte all’edificio e le code al semaforo. Solo quando viene l’inverno, cala la sera e si accendono le luci, attraverso le grandi vetrate lasciano intuire la vivace attività che anima la costruzione. Nelle pagine di questo libro, il fotografo Luca Santiago Mora ci accompagna dall’altra parte del vetro, con una serie di scatti in cui il dentro e il fuori si uniscono, l’immagine della SACE, che pare sfrecciare via veloce mentre ci si lascia alle spalle la città, si completa e le strutture si rivelano per ciò che sono, spazi di movimento e di lavoro per le persone. Così fotografia dopo fotografia, l’azienda assume una fisionomia più definita, un’istantanea lunga un mese. Trenta giorni come quelli in cui Santiago Mora ha più volte visitato la SACE, gli ultimi prima del passaggio al nuovo edificio, per fotografare un luogo riconosciuto e riconoscibile da e per la città. Un atto di memoria etica, legata al lavoro delle persone che compaiono nel suo obiettivo, ma anche di documentazione estetica formale di un edificio, della sua struttura fatta di trasparenze, linee pulite e funzionalità. Un’operazione attuata prima che il nuovo “building” ne raccolga il testimone e diventi ancora una volta spazio in divenire, dove la storia di ABB SACE e di chi ci lavora prosegua con una nuova fase. Solo poche decine di metri dividono l’avanguardia dell’edificio ABB, dalla vecchia sede che per anni ha radunato attorno a sé i dipendenti dell’azienda, molti dei quali hanno trovato casa nelle strade non lontane dal suo cancello affacciato su via Baioni. La vita dell’azienda e quella di Valverde, Valtesse e Sant’Antonio per anni si sono intrecciate e in molti casi “dove c’è la SACE” è stato il riferimento geografico utilizzato come indicazione per raggiungere la zona. Eppure questo nuovo trasferimento, che per i più risulterà essere l’unico, in realtà ha un precedente: la Società Anonima Costruzioni Elettromeccaniche, SACE infatti all’inizio del Novecento si trova nel centro cittadino, in via Paglia e la sua nascita è risalente al 1918. L’azienda però non avrà vita felice e verrà messa in liquidazione. La nuova SACE, quella che sarebbe poi diventata “la SACE” nasce nel 1934 da Leopoldo Ferrè, Federico Mazzola, Agostino Eschini e Lino Salghetti Drioli, che la rilanciano, segnando da quel momento in poi la storia dell’industria bergamasca. L’inaugurazione della sede SACE di via Baioni, con le finestre degli uffici affacciate su Città Alta risale al 1946, lo stesso anno in cui i quattro fondatori


ne firmano la ricapitalizzazione. Nel giro di tre anni poi l’azienda dalle radici bergamasche si espande all’estero, partecipa a una gara d’appalto in Uruguay nel 1947 e nel 1950 apre una filiale a San Paolo del Brasile. Il decennio successivo è quello delle prime fiere e corrisponde con l’inizio di una forte diffusione di SACE oltre confine: i suoi prodotti arrivano in Belgio, Olanda, Stati Uniti, Sud Africa e Yugoslavia. Sempre in quel decennio, mentre i suoi prodotti arrivano ormai in tre continenti, la SACE si espande anche in Italia e oltre alla casa madre di via Baioni, nascono altri due stabilimenti: SACE Sud che inaugura a Frosinone nel 1969 e dieci anni dopo la sede di Dalmine, dove si concentrano lavorazioni meccaniche di altissimo profilo, grazie a maestranze di professionalità elevata. Quella che nel 1934 era un’azienda bergamasca da 250 dipendenti, alla fine degli anni Ottanta è ormai una realtà consolidata a livello internazionale, che nel 1988 diventa parte della svizzero-svedese ABB, Asea Brown Boveri. Tre anni dopo, nel 1991 ABB SACE si aggiudica il Premio Marco Polo dedicato all’eccellenza nella vendita sui mercati esteri: uno sviluppo costante negli anni ha portato gli interruttori SACE su navi, strade ferrate e grandi complessi industriali in tutto il mondo. Mentre lo sguardo dell’azienda abbraccia ogni giorno di più il mondo, il radicamento sul territorio negli anni Novanta viene ulteriormente potenziato: arriva un nuovo magazzino automatico, il laboratorio dedicato al cortocircuito in via Baioni viene ampliato e nel 1996 il medio voltaggio viene trasferito a Dalmine. L’affermazione di ABB SACE nel mercato elettromeccanico è ormai riconosciuta in tutto il mondo, l’approccio orientato a ricerca e innovazione in ambito tecnico si riflette anche in quello orientato al miglioramento costante di chi “la SACE” la costruisce tutti i giorni e la vive nel quotidiano come luogo di lavoro, crescita, realizzazione personale e professionale. Sulle grandi vetrate della ormai vecchia sede, che compaiono in molte delle immagini di Santiago Mora, si riflette tutto questo: le persone, l’azienda, i suoi spazi e in controluce la città, presenza costante, custode del passato e del futuro della SACE, a sua volta cuore della storia economica di Bergamo.


















































“LA SACE” UNA TOMOGRAFIA ASSIALE UMANIZZATA

Luca Santiago Mora

Sono nato vicino alla SACE. “La SACE” è sempre stata per me la F di Fabbrica, la fabbrica della mia città. Farfalla, nell’abbecedario era roba da mondo vecchio o peggio: da bambine. La ricordo a taglio netto, luce estiva, tardo mattino, quando, in sella alle nostre rappezzate biciclettine, con i compagni di cortile, ci si avventurava in formazione esploratori, da San Tomaso verso Nord. Nord che per noi è sempre stato bosco, valle, neve, cima, vetta: il mondo quindi. L’inizio era sempre via Baioni, che voleva dire: passaggio sul Morla, piega a sinistra all’altezza dell’imponente palazzo-fortezza piastrellato a giallo in luce bella, ampia e lenta controcurva in leggera salita verso destra fino all’apparire, già di lontano, dell’ingresso monumento: il severo arco del campo sportivo militare. A me quell’arco ricordava una grande bocca con labbra di cemento, sempre spalancata verso l’esterno, come le urla della Mortaruolo, la mia maestra. In ingresso invece sempre chiusa, da un modesto cancello in ferro. Solo qualche jeep, con militari sul cassone posteriore, ammiratissima nel suo verde opaco, poteva accedere al campo da calcio più invidiato da noi bambini. Non avevamo infatti idea di cosa volesse dire veramente una palla di cuoio che rotola su un tappeto erboso. Come tutti, eravamo semplici calciatori da cortile, palla in gomma e ginocchia sbucciate. Dalla parte opposta “la SACE” e la magia del costruire: un enorme mattoncino lego in ferro, appoggiato per scherzo e con nonchalance a sbalzo, direttamente sulla strada. Bocca a sinistra e la sua lingua in bella mostra a destra, il vuoto e il pieno. Senso e preciso ordine del mondo nello sguardo di un bambino. Quei cento metri di corridoio urbano, rappresentavano a nostra insaputa la potenza simbolica dell’iniziazione all’età adulta: lo sport che si fa serio a sinistra e il lavoro che riempie la vita a destra. C’era però un’altra irresistibile differenza che sbilanciava l’intensità dei nostri sguardi. Se infatti, come dicevo, il campo Utili rimaneva ai nostri passaggi quasi sempre deserto, come un lontano miraggio a cui non avremmo mai partecipato, altro era la potenza dell’umano che si riversava in strada dalla SACE. Lì, soprattutto attorno alla mezza, la vita traboccava.


Noi già fuori tempo massimo per il rientro, ma lo spettacolo era irresistibile. Ricordo ancora bene, in via Pescaria, il timore e l’ammirazione per la bocca ferrovetrosa, come di un’enorme balena spiaggiata, spalancata verso Nord. Di tanto in tanto, si schiudeva per farsi imboccare enormi camion-cucchiaio colmi di ferro e rame. Attorno, il brulichio affaccendato degli uomini in tuta blu, giovani ciclopi dalle mani immense e potenti come potevano apparire agli occhi di bambinetti già troppo lontani da casa. Sbirciavo curioso dentro quelle interiora sempre in fermento e brulicanti che, a dirla tutta, non capivo nemmeno bene cosa costruissero lì dentro: roba elettrica, cioè tutto e niente. Però ne annusavo curioso l’odore e il sapore, di metallo, di lavoro. Per questo, a quell’età, della “SACE” ammiravo soprattutto il fronte Nord e la sua bocca di balena fregiata con orgoglio dall’immensa scritta rossa che più grande non si può. Il fronte Ovest, con le moderne ritmature in ferro e vetro, le ammiravo solo per le veneziane che noi, in casa, non le abbiamo mai avute. In classe invece sì, e si faceva a gara per poterle manovrare, per potersi finalmente alzare dal banco. E immaginavo sempre che lì, per ordinarle tutte mi ci sarebbe voluta un’intera mattinata e quindi addio maestra e addio lavagna….Alla “SACE” poi la lavagna era gigantesca, tutto il muro di confino fronte strada sembrava fatto apposta… e non si usava il gesso. Qualche mese fa, l’invito a costituire un archivio fotografico documentando l’ultimo mese di attività nella vecchia sede della “SACE” mi ha da subito entusiasmato. Tutto ha il suo tempo… ammonisce l’Ecclesiaste. Per me era finalmente arrivato il tempo, con quel mio primo ingresso autorizzato, di penetrare all’interno dell’organismo “SACE”. Il tempo propizio per potermi infilare dietro le quinte di quel gran teatro che mi aveva riempito gli occhi fin da bambino; svelarne piano piano i meccanismi interni, le macchine da scena e la forza dell’umano che l’ha mantenuto in vita. Vivo di immagini per lavoro e, al bisogno, piego questa consuetudine anche alle parole. Per questo mi vien da raccontare la fascinazione al mio primo ingresso in “SACE” come la sorpresa e il piacere che mi invade quando ti ritrovi fra le


mani uno di quei vecchi utensili che affiorano dalle profondità delle vecchie officine. Quegli strumenti che resuscitano di tanto in tanto, quando l’efficienza della tecnica oltre-moderna si ferma di fronte ad un imprevisto, ad uno scarto del quotidiano come un’assenza di energia che mette tutto, e quasi tutti, clamorosamente fuori gioco. In quei frangenti ecco talvolta riapparire un utensile che sa di antico, finemente levigato dal lavoro e dal sudore ma soprattutto modificato e adattato all’agire dell’uomo nel corso del tempo, dalla saggezza del saper fare, indice innegabile del saper essere. Nessun fronzolo, nessuna confezione seducente, nulla di estetizzante, nulla di compiacente, solo la massima essenzialità piegata alla massima utilità. Alla lungimirante sobrietà e severità del vecchio edificio SACE, ho pensato di adattare uno stile di ripresa che fosse allo stesso tempo poetico e oggettivo. Fra le pieghe di questa precisa e provocante contraddizione in termini, coltivare uno sguardo curioso e di ammirazione, per quel che c’è e per quel che è stato. Sono quindi passato di ufficio in ufficio, di magazzino in magazzino, senza far rumore, senza chiedere atteggiamenti o messe in posa, solo lasciando fluire il ritmo ordinario del lavoro per permettermi questa lunga protratta istantanea di quella che per decenni è stata per molti la quotidianità. Ne è risultata una sorta di Tomografia Assiale Umanizzata datata luglio 2014, ultimo mese di lavoro nella vecchia sede SACE.















































Dall’agosto 2014 la storia di ABB SACE a Bergamo continua nel nuovo edificio, progettato per assecondare le future necessità delle persone che hanno raccolto il testimone di un percorso partito, quasi un secolo fa, da via dei Mille 27 (oggi via Paglia), che, passando per via Baioni 35, ci ha portati qui, in pochi passi, in via Pescaria 5.




Contatti

ABB SACE Una divisione di ABB S.p.A. Via Pescaria, 5 24123 Bergamo - Italy

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