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PROVE DI PACE

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di Simone Cosimelli

Pace tra Egitto e Israele: la firma c’è. Il Corriere della Sera del 27 marzo 1979 dedicava questo titolo all’evento che, il giorno prima, aveva catalizzato l’attenzione del mondo intero: il trattato di pace israelo-egiziano. Un accordo a lungo atteso, nel quale pochi credevano, siglato a Washington, negli Stati Uniti, dal presidente egiziano Anwar al-Sadat e dal primo ministro israeliano Menachem Begin, grazie alla mediazione del presidente statunitense Jimmy Carter. Si giunse allora a uno snodo fondamentale del Novecento, nell’ambito del conflitto arabo-israeliano. Nella cronaca del giornalista Giuseppe Josca, l’inviato speciale del quotidiano milanese che riportava la notizia in Italia, si leggeva: “Trent’anni di guerre e di ostilità fra Egitto ed Israele sono finiti formalmente ieri”. Come si arrivò fin lì? E con quali risultati?

ALLE RADICI. Il conflitto araboisraeliano si era acuito quando, dopo la Seconda guerra mondiale e il genocidio nazista degli ebrei, il processo di creazione dello Stato di Israele, iniziato alla fine dell’Ottocento, accelerò. La causa sionista, che propugnava il ritorno degli ebrei nella “terra promessa”, riuscì infatti a concretizzarsi, soprattutto con la nascita delle Nazioni Unite. La risoluzione 181 del 1947 dell’Assemblea generale dell’Onu propose infatti la nascita in Palestina, a ovest del fiume Giordano, di due Stati: uno ebraico, che avrebbe coperto poco più della metà della zona, e l’altro palestinese, meno esteso e quasi integralmente arabo-musulmano. I leader palestinesi,  sentendosi defraudati dei loro diritti, non accettarono, mentre i leader ebrei sì, dichiarando l’indipendenza di Israele il 14 maggio 1948, con l’assenso degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Allora il Medio Oriente si incendiò.

La Lega Araba, di cui l’Egitto era un punto di riferimento, attaccò Israele, che però riuscì a ottenere più territori di quelli previsti dall’Onu. Le reciproche posizioni si irrigidirono e i Paesi arabi occuparono alcune aree della zona rifiutando il riconoscimento del nuovo Stato ebraico. L’Egitto, in particolare, prese la striscia costiera di Gaza, mentre centinaia di migliaia di palestinesi si ritrovarono tagliati fuori, finendo nei campi profughi allestiti dall’Onu in condizioni precarie. Mentre in Israele arrivavano altri ebrei, o dalle terre confinanti non più sicure o dall’Europa, ogni dialogo si interruppe. La parola passò alle armi.

GUERRA. Il conflitto arabo-israeliano aumentò la tensione mondiale. Nell’ottobre 1956, durante la crisi di Suez, Israele si unì alla spedizione militare anglo-francese per colpire l’Egitto. Solo l’intervento mediatore di Usa e Urss impedì un’escalation nella regione. Nel frattempo, gruppi di militanti armati palestinesi si aggregarono con l’intento di cancellare lo Stato ebraico. Nel giugno 1967 Israele, sentendosi accerchiata, si mosse di nuovo e, anche per tutelare i propri interessi sul Mar Rosso, lanciò un attacco preventivo contro l’Egitto, che ricevette immediato supporto da Siria e Giordania. Durante il conflitto, la Guerra dei sei giorni, Israele ebbe la meglio, occupando Gerusalemme Est, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le Alture del Golan e la Penisola del Sinai, e puntando poi a costituire nuovi insediamenti. Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu invitò a una pace “giusta e duratura”, ma fu inutile.

Un altro passaggio fondamentale si verificò poi nel 1973, durante la festa ebraica dello Yom Kippur, quando l’Egitto e la Siria invasero il Sinai e il Golan. Si raggiunse uno stallo, ma i Paesi mediorientali produttori di petrolio si spinsero oltre per danneggiare gli alleati di Israele, bloccando le esportazioni di greggio e innescando una grave crisi energetica in Occidente. La situazione sembrava senza uscita, anche per via delle complesse dinamiche della Guerra fredda, ma presto tutto cambiò.

SCOMMESSA. Il democratico Jimmy Carter, presidente degli Stati Uniti in carica dal 1977, scommise su un’ipotesi ambiziosa: promuovere un riavvicinamento tra l’Egitto, influenzato dalla personalità del nazionalista Anwar al-Sadat, e Israele, al tempo governata dal conservatore Menachem Begin. La decisione, già caldeggiata dai precedenti presidenti repubblicani, fu in realtà il portato dell’azione strategica di tutta l’amministrazione americana e vide come protagonista indiscusso Henry Kissinger, politico esperto di dinamiche internazionali.

Spiega Claudio Vercelli, storico e docente all’Università Cattolica di Milano: «Le amministrazioni americane succedutesi negli anni Settanta (quelle di Richard Nixon, Gerald Ford, Jimmy Carter) avevano in fondo un interesse comune: chiudere definitivamente il dossier del Vietnam e del Sud-Est asiatico, per concentrarsi su altro e recuperare legittimazione e influenza. Non di meno, poter strappare il ruolo di negoziatore all’Unione Sovietica, in quegli anni il vero antagonista storico degli Usa, costituiva un riscontro imprescindibile. Pur con alcune discontinuità tra le amministrazioni

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