Storia
Come fu deciso l’assassinio del politico che più di tutti rappresentava una spina nel fianco per Mussolini e per il fascismo
Come fu deciso l’assassinio del politico che più di tutti rappresentava una spina nel fianco per Mussolini e per il fascismo
focusstoria.it
Se c’è un ramo del sapere che mi viene più facile da approfondire senza grandi sforzi di concentrazione, quello è la storia. Forse perché non richiede le conoscenze tecniche che mi mancano su altre materie scientifiche come matematica, fisica o chimica. O forse perché la Storia siamo noi, come cantava Francesco De Gregori.
La nostra evoluzione è prima di tutto biologica, ma quando ci siamo messi in piedi e abbiamo liberato le mani, quando abbiamo affinato un cervello straordinario accompagnandolo con la coscienza, il mondo non è stato più lo stesso: lo abbiamo trasformato, abbiamo viaggiato, ci siamo combattuti, abbiamo costruito civiltà e strumenti sempre più sofisticati, fino alle tecnologie moderne, tra cui quell’intelligenza artificiale che va per la maggiore.
Io credo che la storia sia sempre contemporanea: conoscere il nostro passato aiuta a capire il nostro cammino di ieri e dunque il nostro presente. Ci fa conoscere le scelte umane, gli errori, i fatti accaduti. Dovrebbe esserci anche d’aiuto per discernere a che cosa è bene dare continuità e a che cosa discontinuità. Questo spirito curioso ha sempre animato Focus Storia con la sua magnifica redazione e ho cercato di preservarlo in questi anni di direzione del Mondo Focus. E nell’accomiatarmi (vado in pensione) ringrazio voi lettori, sempre all’altezza di questa eccellente rivista. Che la Storia sia con voi.
Raffaele Leone
Giacomo Matteotti (1885-1924).
28
Cronaca di una morte annunciata
Intervista allo storico Mauro Canali, sui documenti inediti.
34
Il borghese socialista
Ritratto di Matteotti, le origini, la giovinezza, la militanza.
38
Anatomia di un delitto
Gli assassini, il sequestro, il ritrovamento. Come andò?
42
Ingiustizia è fatta
Il finale del processo era scritto. Così andò in scena una farsa.
46
Tsunami politico
Perché Matteotti creò scompiglio sia da vivo, sia da morto.
50
Il discorso di Matteotti
I passaggi decisivi della denuncia del socialista alla Camera.
52
Il discorso di Mussolini
L’annuncio della dittatura nelle parole del duce ai deputati.
54
In memoria di un giusto Monumenti, vie, piazze ed eventi per non dimenticare.
In copertina: Giacomo Matteotti.
16
VITA DI CORTE
Boccone avvelenato
La vita degli assaggiatori dei re era dolce, ma spesso molto breve.
22 GIALLO STORICO
Uomo in mare
Rudolf Diesel, inventore dell’omonimo motore, si gettò nella Manica o qualcuno lo spinse?
62 NUMISMATICA
Medaglie della Vittoria
La vita della regina Vittoria attraverso le preziose medaglie celebrative.
68 BATTAGLIE
D-Day
Nell’80° anniversario dello sbarco in Normandia facciamo il punto con gli storici.
76 ESPLORAZIONI
Incredibile sir
Richard Burton
Esploratore poliglotta, scandaloso, vulcanico e politicamente scorretto.
81 BIOGRAFIE
Le vite degli altri
Il 27 giugno 1574 moriva Giorgio Vasari: pittore, architetto e narratore dei geni della sua epoca.
86 ANNIVERSARI
Fiamme Gialle
250 anni di Guardia di Finanza: la sua storia e i suoi protagonisti.
92 ARTE
Preraffaelliti
A Forlì in mostra 300 opere della confraternita di artisti che rivoluzionò l’arte britannica.
Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti – segretario del Partito socialista unitario –venne ucciso dalla polizia segreta fascista. Già vittima di un’aggressione nel 1921, il 30 maggio 1924 Matteotti firmò la sua condanna a morte con un discorso pronunciato alla Camera sul
sospetto di brogli elettorali durante le elezioni del 6 aprile 1924. Dopo aver contestato il voto, disse : “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. E aveva ragione... A cent’anni dall’omicidio Matteotti abbiamo ricostruito la vicenda su
nel 1864, è retta dai francescani) e santa Firmina, patrona di Civitavecchia.
Fabio Lambertucci
Manga o non manga?
Ho letto da qualche parte che le immagini dei manga giapponesi hanno un’origine storica. Ma è vero? Gianluca, Orvieto
Risponde Lidia Di Simone.
I fumetti del genere manga hanno alcune caratteristiche di base in comune: come tutti i libri giapponesi, si leggono al contrario, cioè da destra a sinistra, quindi partendo dalle vignette dell’ultima pagina, sempre dall’alto in basso, e presentano personaggi che spesso hanno occhi tondi e sgranati, quindi non di aspetto orientale. Quest’ultimo dettaglio si deve al fatto che inizialmente, negli Anni ’40 del Novecento, nacquero come traduzione dei fumetti occidentali, ai quali erano ispirati. Osamu
Storia in podcast, grazie a Giampiero Buonomo, direttore dell’Archivio storico del Senato della Repubblica. Buon ascolto! Per ascoltare i nostri podcast (le puntate online sono ormai più di 500 e vanno dalle biografie di personaggi agli approfondimenti sui grandi
Tezuka, uno dei grandi autori di manga, era in effetti un ammiratore dei lungometraggi della Disney.
Il termine manga era però già stato utilizzato a partire dalla fine dell’Ottocento in riferimento ai cartoni animati. Secondo alcuni studiosi si diffuse poi intorno agli Anni ’20, mentre secondo altri divenne un termine di uso comune soltanto dopo la Seconda guerra mondiale, con la diffusione della cultura popolare americana che influenzò e plasmò fortemente questo genere artistico nipponico.
Tuttavia, la parola manga è molto più antica. Significava in origine “immagine derisoria” o “caricatura” (deriva da “man”, che significa “divertente”, “esagerato”, e “ga” che vuol dire “disegno” o “immagine”) e fu usata già alla fine del XVIII secolo per indicare alcune pubblicazioni.
Successivamente venne impiegata da Katsushika Hokusai (1760-1849), l’artista di ukiyo-e, i caratteristici paesaggi del periodo Edo, celebre per la sua opera La grande
eventi storici), basta collegarsi al sito della nostra audioteca storiainpodcast.focus.it. Gli episodi, che sono disponibili gratuitamente anche sulle principali piattaforme online di podcast, sono a cura del giornalista Francesco De Leo.
onda al largo di Kanagawa. Il pittore giapponese usava il termine “manga” per indicare i suoi quaderni di schizzi eseguiti dal vero.
Queste raccolte di illustrazioni, i Manga Hokusai (del 1814 circa), comprendevano, oltre ai celeberrimi paesaggi marini, anche scene di vita quotidiana, boschi, vedute del Monte Fuji e anche soggetti mitologici e spiriti della tradizione giapponese.
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Per gli assaggiatori che testavano i cibi dei re,
Mangia e spera Filippo II di Spagna con la famiglia e i cortigiani (1579): durante i banchetti reali i sovrani erano molto vulnerabili e a rischio avvelenamento.
la vita era dolce (mangiavano benissimo!), ma spesso breve.
LMorto un re.... Sotto, Alessandro Magno (356-323 a.C.), forse avvelenato.
A destra dall’alto: Nerone e Locusta, nota avvelenatrice dell’antica Roma; i pretoriani, dopo l’assassinio di Caligola, proclamano imperatore
’occhio del re cadeva sui vassoi pieni di arrosti, morbide salse, torte glassate al miele, coppe straboccanti di vino. Una paura martellante bastava, però, a fargli passare l’appetito: il pensiero che qualcuno attentasse alla sua vita mettendo del veleno in quelle delizie, magari rovesciandolo da un anello con il doppio fondo. Manie di persecuzione? Fantasie? Niente affatto. «Documenti storici dimostrano che la paura del veleno era qualcosa di più della semplice paranoia di palazzo», sostiene la storica americana Eleanor Herman in The Royal Art of Poison (Duckworth Books). Così, per salvare la pelle, i potenti (in passato re, imperatori, papi; più di recente molti dittatori) che potevano permetterselo ricorrevano a un’arma cinica, equivalente ai canarini portati nelle miniere di carbone per verificare la presenza di gas letale (se ce n’era, cadevano stecchiti): gli assaggiatori che testavano pietanze e bevande prima di servirli. Se sopravvivevano bene, altrimenti peggio per loro. La vita che davvero
COPPIERI A RISCHIO. A scendere in campo per primo, già al tempo dei faraoni, citato persino nel Libro della Genesi (40:1,2) fu il “capo coppiere”, sommelier ante litteram e alto funzionario di corte addetto a mescolare il vino, assaggiarlo e poi versarlo ai commensali. Nell’antica Persia segnata da lutti alcolici (prima il re Artaserse III nel 338. a.C., poi l’erede Arsete, tre anni dopo, infine il loro assassino, il potente eunuco Bagoa morto bevendo il vino destinato a Dario III), il coppiere usava un cucchiaio per non posare le labbra sulla coppa. Sulle sue orme nacque il ruolo prestigioso degli edeatroi, gli assaggiatori ufficiali alla corte macedone (un assaggiatore di Alessandro Magno fu il generale Tolomeo). E, nell’antica Roma, pregustatores, affidato incautamente a schiavi o liberti (schiavi liberati), che sfruttarono quel ruolo in due modi possibili: fare carriera, oppure tradire.
A Roma i casi più famosi furono l’eunuco Halotus (poi nominato ) e il liberto cieco Androcus, complici nel duplice
assassinio – quello dell’imperatore Claudio, il 12 ottobre del 54 d.C. e, un anno dopo, del figlio quattordicenne Britannico – ordito dall’imperatrice Agrippina Minore per fare salire al potere il giovane Nerone. Nel primo caso, racconta Tacito negli Annales, durante il banchetto in onore del dio Fons “Halotus, incaricato di portare i cibi ed assaggiarli, servì funghi tossici preparati da Locusta, un’avvelenatrice di professione”. Non solo. “Fingendo di facilitare a Claudio conati di vomito [...] gli fu introdotta in gola una piuma intrisa di veleno istantaneo”. Mentre Androcus “servì a Britannico una bevanda innocua ma caldissima, che subì l’assaggio di verifica; quando quello la respinse, perché troppo calda, gli fu versato, in acqua fredda, il veleno”.
LE CAVIE DEL RE. Per scongiurare delitti analoghi, nel corso del Medioevo il ruolo di “cavia del re” nei banchetti fu delegato a servi fidati o aristocratici di rango. I quali, purtroppo, ci lasciarono spesso le penne. Come Stefano Visconti, signore di Arona (sul Lago Maggiore), morto avvelenato nel banchetto del 4 luglio 1327, in cui svolgeva la funzione di coppiere e assaggiatore del re Ludovico il Bavaro, ospite dei Visconti. Dopo il danno, la beffa: accusati del tentato avvelenamento del sovrano, Galeazzo, Giovanni e Luchino Visconti furono incarcerati nel Castello di Monza. Non sempre le circostanze consentivano però il ricorso agli assaggiatori. Un altro Visconti, Bernabò, morì nel 1385, scrive il cronista Bernardino Corio, “per toxico dato in una scudella de fagioli” servita dalle guardie carcerarie. Del resto qualche tempo prima, nel 1313, l’imperatore Enrico VII di Lussemburgo passò a miglior vita bevendo il vino (all’arsenico) della Comunione.
AMULETI. A mali estremi, ci fu chi giocò l’estremo rimedio della superstizione. Il buongustaio papa Bonifacio VIII (1230-1303) era famoso per i banchetti in cui sedeva più in alto
Pasti sani
Hitler e Eva Braun: il Führer mangiava solo cibo “testato”.
Per più di due anni, dalla primavera del 1942 al 20 novembre 1944, hanno protetto il Führer da bocconi avvelenati. Sono le quindici ragazze, di età compresa tra i 18 e i 25 anni, di ottima salute e reputazione (certificate dal borgomastro della città) scelte dalla Commissione medica dell’Ufficio economico centrale delle Ss come assaggiatrici personali di Hitler, astemio e vegetariano, nella “Tana del Lupo” (Wolfsschanze) di Ketrzyn, in Polonia. L’incubo. Il leader nazista era convinto, infatti, che le donne fossero fisiologicamente sensibili a quantità minime di tossine. “Ogni mattina venivamo prelevate alle otto da una pattuglia di Ss e portate nella cucina della caserma Krausendorf. Alle 12:00 e alle 18:00 assaggiavamo le portate disposte su un grande tavolo di legno: zuppe di verdura, uova, frutta esotica e strudel di mele” ha raccontato Margot Wölk, l’unica delle ragazze sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale. “Girava voce che gli inglesi volessero avvelenare Hitler. Il cibo era buono ma non riuscivamo a godercelo. Passato il tempo stabilito, scoppiavamo a piangere, felici di essere ancora vive”.
Elisabetta I d’Inghilterra faceva testare dalle sue dame di compagnia anche profumi e cosmetici
dei suoi ospiti. Terrorizzato dall’idea di morire per un boccone o un sorso fatale, non solo chiese ai “bottiglieri” di assaggiare le bevande in sua presenza, ma chiese ai “supercoci” di infilzare nelle carni – maiali, capretti, agnelliuno strumento fornito sul momento, l’assazum, un corno a spirale, detto alicorno, ritenuto all’epoca antidoto dai veleni. Nell’inventario del tesoro papale del 1295 figurano “quattro corne di unicorni, lunghe e contorte [...] per fare l’assaggio di tutto ciò che era presentato al papa”.
SERVIZIO DI CREDENZA. La prospettiva di essere traditi mortalmente da fame e sete degenerava spesso nella paranoia. Luigi XI di Francia (1423-1483) detto “Il Prudente”, si dice avesse passato gli ultimi anni isolato nel castello di Plessis-les-Tours, mangiando solo uova sode. Non che avesse torto. “Quelli che temono l’avvelenamento debbono guardarsi dalle carni cotte con molta arte, veramente dolci, salate, squisite, o notevolmente dotate di alcun altro sapore”, scriveva Ambroise Paré, chirurgo di quattro re di Francia, nel suo Trattato dei Veleni del 1585.
Una versione più sofisticata dell’assaggiatore era la figura del “maestro credenziere”. Un fidato servitore in livrea si disponeva a fianco del mobile basso e lungo dove si posavano le portate, le assaggiava prima che fossero servite e poi, con un profondo inchino, diceva “Signori, vi è stato offerto servizio di credenza”. Poi restava, come “garanzia vivente” in piedi accanto al buffet. Col tempo, il termine “credenza” (nel senso di “fiducia” ) indicò il mobile in sé.
I METALLI.Niente e nessuno, però, riuscì a impedire l’aumento dei “venefici” politici. La causa? Il fiorire di nuove sostanze. «A differenza degli antichi romani, che usarono veleni a base vegetale, gli avvelenatori del Rinascimento impiegarono metalli pesanti: arsenico, antimonio, mercurio e piombo», spiega Herman. Molti potenti dell’epoca, gli Sforza a Milano, i Dieci a Venezia, gli eredi di Cosimo de’ Medici, ne fecero uso criminoso. «Tra i quattro milioni di documenti dell’Archivio Medici di Firenze si trovano numerosi riferimenti al veleno». Per non parlare dei Borgia, fan della “cantarella”, variante dell’arsenico, simile alla farina, ma letale.
Sopra, Un bicchiere di vino con Cesare Borgia (1893): papa Alessandro VI e il figlio Cesare ricorrevano con disinvoltura al veleno per far fuori i nemici. La leggenda nera di Lucrezia Borgia è invece inventata. A sinistra, illustrazione di fine ’800 sui metodi per somministrare veleni.
A destra, una miniatura medievale (1445) che sposa la tesi dell’avvelenamento: mostra infatti Alessandro Magno durante il suo ultimo banchetto, quando gli viene offerta una coppa di vino letale.
Preoccupato per il possibile avvelenamento del tanto atteso erede maschio, il futuro Edoardo VI, l’uomo più potente d’Europa, Re Enrico VIII (1491-1547) faceva testare latte, carne, uova e burro destinate al figlio. Compito tutt’altro che facile. Le cucine reali di Hampton Court, dove lavoravano più di duecento persone, erano fabbriche di cibo. Il “maestro credenziere” fu rimpiazzato da una squadra di assaggiatori, che spiluccavano dai rispettivi vassoi o brocche, mentre guardie sorvegliavano che nessuno si avvicinasse. «Rompevano la crosta dei pasticci di carne, inzuppavano il pane, alla fine il piatto somigliava più alla colazione di un cane che alla cena di un re», chiosa Herman.
UN BACIO AL CUCCHIAIO. A subire l’assaggio erano anche il sale e l’acqua con cui il re si lavava le mani. Tovaglioli, cuscini e cucchiai erano sottoposti invece al “test del bacio“: «Se le labbra non prudevano o non si gonfiavano, gli oggetti erano privi di veleno. Era più probabile che Sua Altezza Reale si ammalasse a causa dei germi piuttosto che di arsenico». Stessa cautela adottata da Elisabetta I (1533-1603), che non solo delegò l’assaggio a 24 guardie del corpo (una per portata), ma
era solita far passare del tempo, scandito da trombe, per vigilare su effetti ritardati. Inoltre usava come cavie per profumi e cosmetici le sue dame di compagnia. Altrettanto ossessive le richieste di Luigi XIV di Francia (16381715). «Mai nulla, eccetto le medicine e la Santa Comunione, entrava nella bocca del re senza che altri lo avessero prima testato. Persino nei pic-nic, o a caccia, i valletti assaggiavano tutto», precisa Herman. Al minimo sospetto venivano giustiziati in modo atroce, impiccati, fatti a pezzi e trascinati da cavalli.
CUCINE-BUNKER. Bisognò attendere nell’800 la nascita della tossicologia forense, merito del medico spagnolo Mateo José Orfila, autore del Traité des poisons (1814) sulla chimica e fisiologia dei veleni, per scoprire il nesso fra sostanze tossiche, delitti misteriosi e assassini nell’ombra. Ma questo non servì a eliminare per sempre il ricorso a “cavie umane”. La psicosi di morire avvelenati a tavola, subdolamente, perseguitò infatti tutti i principali dittatori del ’900, come Stalin o Hitler (v. riquadro), armati di assaggiatori personali e di cucine blindate in cui i pasti erano confezionati da mani degne di fiducia. Restano tuttavia alcuni misteri irrisolti. Stalin morì il 5 marzo 1953, ufficialmente per “emorragia cerebrale e di stomaco dovuta a ipertensione”. All’epoca il dittatore non poteva più contare sui servigi del suo assaggiatore personale, Aleksandr “Sasha” Egnatashvili, morto nel 1948. Secondo una teoria ripresa dallo storico Jonathan Brent, Stalin sarebbe stato ucciso da un’overdose di warfarin (un anticoagulante insapore), forse aggiunto a una bevanda serale dai suoi più stretti collaboratori. Una tesi rafforzata dai ricordi della figlia del dittatore, Svetlana Allilueva:“In punto di morte, ci guardò e sollevò la mano sinistra come per lanciare una maledizione”. Il moribondo sospettava, forse, di essere stato avvelenato. •
Esposto agli intrighi della corte di Versailles, inclusi quelli della favorita Madame de Montespan, amica della presunta “maga” Catherine Monvoise Désaié , detta La Voisin, Luigi XIV di Francia fu perseguitato da uno scenario da incubo: morire avvelenato nel corso del rituale solitario del grand souper di mezzogiorno – il cui menù prevedeva, tra le altre cose, quattro minestre, un fagiano, castrato in umido – di fronte a un stuolo di cortigiani e ambasciatori. Sicurezza. Per questa ragione gli “ufficiali del Calice” sottoponevano al test del veleno tazze, piatti, posate e stuzzicadenti baciandoli e strofinandoli contro la pelle, mentre valletti dell’“ufficiale della Bocca Reale” assaggiavano le vivande. Superati incolumi la prova, lo stuolo di servitori usciva dalle cucine reali, e, superando rampe di scale e lunghi corridoi, approdava all’anticamera reale, dove potevano servire il Re Sole, finalmente libero di abbuffarsi.
La vita della regina Vittoria attraverso le preziose medaglie celebrative che la ritraggono nei momenti più importanti dei suoi 63 anni di regno.
di Marco CaroniCoppia affiatata
A destra, la regina Vittoria con l’amato consorte, Alberto di SassoniaCoburgo-Ghota, nel 1861, anno in cui Alberto morì. Vittoria portò il lutto per i successivi 40 anni, fino alla sua morte avvenuta nel 1901.
Puritana e algida, austera e riservata, distante dalle frivolezze e orientata piuttosto a una condotta rigida e severa. La regina Vittoria, salita al trono da ragazzina e destinata a regnare più a lungo di chiunque altro nella storia britannica prima che la bisbis-nipote Elisabetta II la superasse, fu però nella vita privata ben più di quanto sia stato tramandato. Considerata non bella, ma non per questo meno desiderata, Vittoria visse dell’amore profondo per il suo Alberto tanto da stringersi in un lutto lungo più di 40 anni dopo la sua morte. Ma sappiamo che altri uomini le furono cari e, forse, anche intimi.
REGINA PER CASO. Vittoria non era predestinata al trono: alla sua nascita, 24 maggio 1819, era soltanto quinta in linea di successione. L’onda lunga della “follia” di Giorgio III (all’epoca il sovrano britannico più longevo di sempre, con quasi 60 anni di regno) aveva però costretto l’evoluzione dinastica a saltare da una testa all’altra nel giro di pochi anni e in modo bizzarro. Alla morte del successore di Giorgio III, il primogenito Giorgio IV (18201830), era toccato al fratello Guglielmo IV salire al trono. E quando, nel 1837, anche lui passò a miglior vita senza avere avuto figli, la corona finì proprio sulla testa della appena 18enne Vittoria (nata Alexandrina Victoria), figlia del quarto figlio maschio di Giorgio III, Edoardo duca di Kent, all’epoca ormai anch’egli defunto. Non ci fosse stata Vittoria, la corona sarebbe finita sulla testa della sesta figlia (di una prole di ben 15 rampolli reali) di Giorgio III, Augusta Sofia. E invece no.
INNAMORATA. L’anno precedente Vittoria aveva incontrato per la prima volta il suo futuro marito: decisivo, probabilmente, era stato lo zampino ruffiano dello zio materno Leopoldo I (re del Belgio), ma alla futura regina, della casata Hannover, il principe Alberto di SassoniaCoburgo-Ghota era piaciuto parecchio. Tanto che scrivendo proprio a Leopoldo la giovane e casta Vittoria, cresciuta sotto la campana di vetro della madre Vittoria di Sassonia-CoburgoSaalfeld, definiva Alberto “piacevole e delizioso”. Sino a mostrare, nel suo diario segreto, un privato ancor più passionale: “Alberto è davvero molto affascinante e incantevole, con gli occhi azzurri e un naso squisito e una bocca così bella con i suoi baffetti delicati e poi leggere, leggerissime basette; una figura magnifica, spalle larghe e vita sottile; il mio cuore batte”
Vittoria e Alberto erano coetanei e cugini di primo grado (il padre di Alberto, Ernesto I di Sassonia-Coburgo-Gotha, casata tedesca in una Germania non ancora unitaria, era fratello della madre di Vittoria), ma questo non avrebbe impedito loro di mettere al mondo ben 9 figli e di godere di una vita intima che la stessa regina non esitò a definire “soddisfacente e sbalorditiva”. La Vittoria di quei giorni è una ragazza che appare raggiante e giovanissima nelle medaglie della sua incoronazione (medaglia 1).
Dal momento che un comune mortale non avrebbe mai potuto chiedere in sposa una regina, era toccato proprio a Vittoria, particolarmente presa da quell’affascinante principe tedesco, fare la fatidica domanda “Vuoi sposarmi?”
E così il 10 febbraio 1840 (pochi mesi prima di mettere il suo profilo sul primo francobollo del mondo, il Penny Black) Vittoria si unì in matrimonio ad Alberto, lanciando inoltre la moda dell’abito nuziale bianco, in quello che apparve a tutti il coronamento di un amore vero (medaglia 2).
Uno dei punti più alti del suo regno fu l’Esposizione internazionale di Londra, a cui
Longeva
A destra, ritratto di una giovanissima Vittoria nel 1838 (ascesa al trono da appena un anno) del pittore britannico Thomas Sully. Nell’altra pagina, la regina anziana, alla sua scrivania, in una fotografia di fine dell’Ottocento.
LA PROLE. L’amore diventò passione e questa diede presto i suoi frutti: Vittoria rimase subito incinta (la primogenita Vittoria, futura e sfortunata regina di Germania, nacque nel novembre dello stesso anno). Tra il 1840 e il 1857 la coppia ebbe 9 figli, che formarono la nuova dinastia reale britannica SassoniaCoburgo-Gotha (rinominata Windsor nel 1917). All’ultima, la principessa Beatrice, si deve uno dei diari più dettagliati sulla vita di sua madre. Il matrimonio mise fine al chiacchiericcio che voleva la regina fin troppo sensibile al fascino (forse più paterno che altro) di William Lamb, visconte di Melbourne e più volte primo ministro e, in verità, contrario a quelle nozze. Se fu mai amore tra la sovrana giovinetta e l’ormai attempato lord, non è dato a sapersi.
COPPIA PERFETTA. Vittoria e Alberto si intendevano alla grande. Interessato alla cultura e alle arti, il principe consorte, marito e amante, diventò presto il braccio destro di una regina giovane che necessitava di qualcuno che la scortasse, la sostenesse e la consigliasse, ma senza metterla in ombra. Il 1851, anno che vide la nascita del New York Times e che segnò la posa del primo cavo telegrafico tra Francia e Inghilterra a suggello dei sempre più stretti rapporti tra le due potenze (una politica sostenuta da Vittoria), era destinato a passare alla Storia.
Dal 1° maggio al 15 ottobre Londra ospitò la Grande esposizione delle opere dell’industria di tutte le nazioni, ovvero la prima Expo del mondo. Alberto ne fu grande promotore nonché presidente del comitato organizzatore (3). Il suo
volto comparve su medaglie e locandine, spesso a fianco della moglie (particolare questo non molto comune), Quella che passò alla Storia come la Grande esposizione di Londra segnò quindi uno dei punti più alti dei primi anni dell’Età vittoriana. Innovazione, tecnologia e progresso: l’Impero britannico guardava al futuro.
L’evento, ospitato nel fantasmagorico Chrystal Palace costruito in Hyde Park, fu un successo senza precedenti: 25 i Paesi partecipanti, 6 milioni i visitatori. Per la futura Italia unitaria, che sarebbe nata da lì a 10 anni, c’erano espositori provenienti dal Granducato di Toscana di Leopoldo II, dal Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II e dallo Stato pontificio di Pio IX. E il mito del Chrystal Palace ancora oggi vive nelle gesta sportive in Premier League dell’omonimo club calcistico londinese, fondato nel 1905.
ALBUMGiovani e radiosi, Vittoria e Alberto compaiono di profilo in una delle più belle medaglie britanniche dell’Ottocento (4), una decorazionepremio destinata agli espositori vincitori dei concorsi nelle varie categorie merceologiche. La riuscita di quell’evento diede inizio alla lunga serie delle Esposizioni universali, che arriva fino a oggi, ma il vero successo fu l’unione tra la regina e il suo principe, che andò oltre ogni previsione e cliché, superando gli augusti precedenti.
Amanti delle arti e della Scozia, in particolare del castello di Balmoral, che dal 1848 scelsero come residenza estiva, Alberto e Vittoria vissero un amore intenso, passionale, completo. Un idillio bruscamente interrotto nel 1861 dalla morte del principe, indebolito da un cancro allo stomaco e ucciso dal tifo.
IL LUTTO. Fu la fine di una favola e l’inizio di una nuova era per la regina, sopraffatta dal dolore a tal punto che si pensò che il suo regno sarebbe presto finito e che dunque la corona sarebbe passata all’allora giovane Edoardo, il secondogenito. In realtà, da quel momento, pur a volte derisa per l’eccessivo rigore di un lutto che non avrebbe più abbandonato, tanto da meritare il nomignolo di Widow of Windsor (la “Vedova di Windsor”, dal nome della residenza reale dove si ritirava spesso), la regina divenne quel simbolo di stabilità e fermezza che avrebbe guidato l’Impero britannico nella tumultuosa seconda metà dell’Ottocento, i decenni in cui si posero le basi dell’Europa di oggi.
Nel 1862 l’Esposizione universale, dopo Parigi 1855, tornò a Londra, ospitata nel grande palazzo fatto costruire a South Kensington: tra i brani della cerimonia d’apertura figurava anche l’Inno delle Nazioni di Giuseppe Verdi. La Vittoria di quel tempo è raffigurata sulle medaglie con volto austero e triste, seppure ancor giovanile (5, 6).
Le malelingue mormoravano di una relazione intima con il servitore scozzese John Brown al quale, secondo alcuni, si sarebbe addirittura unita in matrimonio segreto a Balmoral. L’ultimo dei presunti amori di cui si chiacchierò fu quello con il cameriere indiano musulmano Abdul Karim. Ma al suo arrivo a corte la 68enne Vittoria aveva già celebrato i 50 anni di regno e, sempre più lontana dalla scena pubblica, si faceva notare più che altro per i bizzarri cappelli che indossava e per un rigore ormai proverbiale.
L’ISOLA DI WIGHT. Festeggiato anche il 60° di regno con medaglie di pregevole fattura (7), la regina si spense il 22 gennaio 1901 nell’Osborne House, su quell’Isola di Wight che prima il cantante francese Michel Delpech e poi il gruppo musicale italiano Dik Dik avrebbero reso celebre 70 anni dopo. Ma questa è un’altra storia. Così come un’altra storia è quella dell’eterno principe di Galles Edoardo VII, succeduto alla madre a quasi 60 anni. Soltanto re Carlo III lo avrebbe poi, e di gran lunga, superato nella lunga attesa, oltre 120 anni dopo. •
L e medaglie possono essere molte cose: uno strumento di propaganda, un simbolo di potere ma anche una raffinata forma d’arte. Vengono coniate per celebrare, commemorare, glorificare o semplicemente, come avviene ancora oggi, per premiare. Quasi una moneta. L’arte della medaglia è antica e si è tramandata, diffusa ed evoluta in varie forme. Nel corso dei secoli le medaglie hanno integrato la funzione iconica della moneta, dalla quale differiscono innanzi tutto perché prive del potere di scambio proprio per esempio della lira, della dracma, del quattrino. Le più antiche erano “cugine” della moneta, parenti prossime per conio e forma, ma già precorritrici di quella funzione celebrativa e commemorativa che la moneta ha raggiunto – su larga scala – soltanto alla fine dell’800. Documenti. Le medaglie sono più grandi delle monete, più pesanti e più spesse, caratteristiche che facilitano il lavoro e l’estro dell’incisore. Il culmine della loro produzione risale alle emissioni tardo settecentesche e ottocentesche, quando l’abilità artistica beneficiò dell’evoluzione tecnologica. In due secoli si è arrivati a produrre, in tirature sempre ristrette, oggetti di estrema raffinatezza. Che sono anche veri e propri sigilli della Storia, preziosi documenti in metallo, spesso pregiato.