LA MICCIA
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IStoria
n questo strano giugno qui in redazione sono accadute tante cose. Alcune care colleghe sono andate in prepensionamento (arrivederci Irene, Paola, Fabrizia), seguite dal direttore Raffaele Leone (ciao Raffaele, continua a farci le pulci e a leggerci con la consueta passione!) e dall’arrivo alla direzione di Focus e Focus Storia di Gian Mattia Bazzoli, collega amabile e bravissimo. Ho creduto di dover cominciare da qui, da un mese di giugno atipico e foriero di cambiamenti, perché la Storia spesso stimola queste associazioni di idee. Nelle ultime settimane, infatti, la redazione è rimasta immersa anche in un altro giugno, altrettanto foriero di cambiamenti, ma ben più tragico e lontano. Era la fine del mese, il 28, del 1914. L’attentato agli arciduchi d’Austria diede fuoco alla miccia che innescò una serie tragica e grottesca di eventi che sfociarono nella Prima guerra mondiale. Niente, quanto rileggere dei giorni convulsi che seguirono, ci rende felici di vivere in una democrazia, che impedisce a pochi di decidere la sorte di milioni di persone. In un momento storico in cui tutti assistiamo preoccupati al consueto balletto di giochi di forza, provocazioni, minacce alle porte di casa (e non solo), era più che mai necessario ricordare come sia facile precipitare nell’orrore. Se la guerra scoppiò anche per un corto circuito di intelligenze e circostanze, gli strumenti di cui disponiamo oggi –meccanismi decisionali più democratici, libertà e circolazione dell’informazione –dovrebbero rappresentare un solido argine alla stupidità.
Emanuela Cruciano caporedattrice
RUBRICHE
Rivolte antiserbe a Sarajevo dopo l’attentato, nel 1914.
PRIMA E DOPO LA GUERRA
38
Fuoco alla miccia
Sarajevo, 28 giugno 1914: l’attentato che trascinò il mondo all’inferno.
44
Venti di guerra
L’Europa di inizio ’900, tra alleanze politiche e imperi coloniali.
50
Il castello di carte
Previsioni sbagliate, ambiguità e il gioco mortale delle alleanze.
56
1914 l’anno fatale
Quello in cui maturò la tragedia del conflitto fu un anno particolare.
58
Le forze in campo
Nel 1914 l’Europa era divisa in due blocchi che finirono per scontrarsi.
60 Com’è finita
La pace di Versailles del giugno del 1919 non durò a lungo. Perché?
62
Vuoi la guerra?
Per un saluto o per dei pasticcini: le guerre scoppiate per futili motivi.
In copertina: illustrazione dell’attentato di Sarajevo.
IN PIÙ...
18 COSTUME
Io ti salverò
La prima “società di salvamento” nacque a Genova nel 1871. Ma i bagnini esistevano già in Inghilterra.
26 PERSONAGGI
Le mille vite di Feldenkrais
La storia dell’inventore dell’omonimo metodo terapeutico, noto in tutto il mondo.
32 GIALLO STORICO
La favorita
Agnès Sorel, amante di Carlo VII morì a 28 anni nel 1450. Fu uccisa?
72 IL LIBRO
Imprese e tragedie
L’ultimo libro di Beppe Conti svela aneddoti, drammi e misteri del Tour de France.
77 PERSONAGGI
A tinte forti
Il legame tra la pittrice messicana Frida Khalo e il rivoluzionario russo Lev Trotzkij.
82 SOCIETÀ
Aborto tra reato e peccato
Quando l’aborto non era legale le donne ricorrevano a rimedi e interventi pericolosi.
86 ARTE Banksy & Friends
Nel nuovo JMuseo di Jesolo, in mostra la Street Art e la Pop Art.
92 SCIENZA
Scienziate nonostante tutto Donne importanti per la scienza che non hanno avuto i meritati riconoscimenti.
Tra febbraio e aprile 1944, la Pensione Oltremare di Roma, situata al quinto piano di un palazzo in via Principe Amedeo al civico 2, in un quartiere residenziale nei pressi della stazione Termini, si trasformò in luogo di sevizie e di torture della banda Koch.
La tranquilla pensione divenne uno dei centri di polizia della Repubblica Sociale Italiana più feroci nella repressione dell’antifascismo durante l’occupazione nazista a Roma. Oggi, a cent’anni da quei tragici giorni, la voce di Andrea Maori –
l’omicidio di Cora Crippened ed è pubblicato da Neri Pozza. Tra l’altro questo autore ha pubblicato libri avvincenti anche sulla figura di Churchill (Splendore e viltà) e sul nazismo e Hitler (Il giardino delle bestie).
Stefania Bertone, Cuneo
BCsicilia per averci fatto notare la svista, ma, in modo particolare, per aver recuperato un magnifico reperto in una fruttuosa immersione che si è rivelata anche una grande scoperta archeologica.
Grazie al paziente e certosino lavoro di associazioni come questa il nostro Paese riesce ancora a stupirci restituendo i suoi tesori sepolti. Tanto dovevamo a BCsicilia e ai suoi subacquei.
autore del saggio Pensione Oltremare (Tralerighe Libri) ha ricostruito la vicenda su Storia in podcast. Buon ascolto! Per ascoltare i nostri podcast (le puntate online sono ormai più di 500 e vanno dalle biografie di personaggi agli approfondimenti sui grandi
Ancora sulla “macchina da scrivere”
Scrivo per associarmi a quanto evidenziato dal signor Francesco Lorenzotto in merito alla questione “macchina da scrivere” o “per scrivere”, pubblicato su Focus Storia n° 211. La macchina in questione, almeno per logica, si usa “per” scrivere così come i bicchieri si usano “per” bere e le posate si usano “per” mangiare. Se bicchieri e posate sono “da” bere o mangiare auguro ai fachiri buon appetito con la speranza che sia altrettanto buona la digestione.
Alessandro Viceré
eventi storici), basta collegarsi al sito della nostra audioteca storiainpodcast.focus.it. Gli episodi, che sono disponibili gratuitamente anche sulle principali piattaforme online di podcast, sono a cura del giornalista Francesco De Leo.
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Focus Storia n° 000, pBusci officae ptumquatem dolut este andit quas volorum que mo qui doles dolest, officim ererovitatem aperovit p
I NOSTRI ERRORI
Focus Storia n° 211, pag. 98: nel nostro “prossimamente” abbiamo scritto che il D-Day fu l’8 giugno 1944, invece che il 6 giugno.
Chioggia: questione di precedenza
S coppiò a Cipro la scintilla che causò lo scontro finale tra le superpotenze navali Genova e Venezia. Un conflitto che portò la Serenissima a un passo dal baratro, ma finì per segnare l’inizio dell’eclissi della repubblica ligure. Scortesie. I rapporti tra Venezia e Genova erano pessimi da tempo. Nell’ottobre del 1372 a Cipro si doveva celebrare l’incoronazione del nuovo sovrano, Pietro II. L’inviato veneziano e quello genovese si contesero l’onore di tenere la briglia destra del destriero del re, segno del protettorato sull’isola da parte dell’una o dell’altra repubblica. Dalle dispute sulle questioni di precedenza, durante il banchetto si passò alla rissa, che degenerò in violenza generalizzata. I liguri furono gettati fuori dalle finestre del palazzo e si scatenò in tutta Cipro la caccia al genovese. Quando la notizia arrivò in Liguria una flotta salpò per andare a occupare Cipro. Vendetta. Nel 1378 Genova dichiarò guerra a Venezia, invase l’Adriatico, occupò Chioggia e assediò Venezia dal mare, mentre i suoi alleati – austriaci e ungheresi – la assediavano da terra. Ma Venezia due anni dopo sconfisse i genovesi a Chioggia grazie al condottiero e ammiraglio Vettor Pisani e, pur dovendo cedere la Dalmazia all’Ungheria, la Serenissima sul mare non ebbe mai più nulla da temere dalla storica rivale.
Il primo conflitto mondiale scoppiò “solo” per un attentato, ma nella Storia si sono scatenate guerre per motivi ben più futili.
VUOI LA GUERRA?
di Aldo BacciAll’attacco! Il condottiero Vettor Pisani prende il comando durante la Guerra di Chioggia (1378-1381) tra veneziani e genovesi, in un quadro del 1864 del pittore Giulio Carlini.
UMancato saluto? E si scatenò la Prima guerra anglo-olandese
Dominio inglese
Battaglia navale tra inglesi e olandesi nel
Seicento: prevalsero i primi.
na delle guerre più decisive della Storia, che determinò il plurisecolare predominio dell’Inghilterra sui mari, forse sarebbe scoppiata comunque. C’era troppo in gioco e da troppo tempo: la rivalità commerciale tra Inghilterra e Olanda era ormai di lunga data. In quel crescendo di tensione fu però un piccolo incidente a far scoppiare la “bomba”. Privilegi perduti. Inghilterra e Olanda stavano rinforzando le rispettive flotte militari per prepararsi allo scontro. Ma la situazione precipitò per un mancato saluto: Oliver Cromwell, allora alla guida
592 a.C.
CGiù le mani dai campi
dell’Inghilterra, rivendicava un privilegio al quale a Londra tenevano molto. In base a una regola antica tutte le navi straniere incrociando quelle inglesi nel Mare del Nord e nella Manica dovevano “salutarle”. Ma la flotta olandese dell’ammiraglio Maarten Tromp non eseguì il saluto a quella flotta che intendeva perquisire le sue navi, e l’ammiraglio britannico Robert Blake aprì il fuoco. Così si avviò la prima della decina di battaglie navali nelle quali si affrontarono le due flotte e dopo le quali i Paesi Bassi capitolarono.
sacri di Delfi!
oltivare la terra sacra di Delfi e taglieggiare i pellegrini non era un buon modo per farsi amico Apollo. E il potente santuario greco rispose a queste angherìe, subite a opera dei cittadini di Crisa, scatenando una guerra santa.
In soccorso dell’oracolo si formò una delle prime alleanze panelleniche, che per 10 anni si impegnò nella Prima guerra sacra (“guerre sacre” per i Greci erano appunto quelle a tutela di Apollo Delfico).
La strage. Dalla piana di Cirra, affacciata sul Golfo di Corinto, la città di Crisa controllava l’accesso dal mare al santuario e alle sue ingenti risorse. Inoltre, usurpava i terreni agricoli del tempio e chiedeva dazi ai pellegrini, imponendo la sua autorità sul luogo più sacro di Grecia.
Uno sparo, il 28 giugno 1914 a Sarajevo, provocò 16 milioni di morti. Era quello dell’attentato all’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, in seguito al quale scoppiò la Prima guerra mondiale (vedi art. pag. 38). Quel colpo di pistola, fu il casus belli, la causa della guerra.
Tucidide già 2.400 anni fa scrisse che la scintilla che fa scoppiare una guerra è spesso marginale rispetto alle sue cause profonde. Il casus belli è, infatti, quasi sempre un pretesto che scatena
Ma Crisa era a sua volta un porto strategico, quindi un rivale da liquidare (al di là di ogni pretesto “sacro”) per le altre città. L’alleanza di ateniesi e tessali portò all’assedio della polis lega, di cui furono avvelenati i pozzi con l’elleboro (una pianta tossica). Fu un massacro, e la città di Crisa fu rasa al suolo. Da allora si vietò di coltivare le terre del santuario.
in un preciso momento tensioni accumulate magari per anni. E non è nemmeno raro che per giustificare l’entrata in guerra di fronte all’opinione pubblica, gli Stati approfittino di eventi del tutto casuali o anche di pretesti costruiti ad hoc. Un esempio? Bismarck, primo ministro di Prussia dal 1862 al 1890, per far scoppiare la Guerra franco-prussiana nel 1870 modificò un telegramma inviato dal Kaiser a Napoleone III. Nella Storia, comunque, ci sono stati casus belli decisamente più curiosi. •
Previsioni
Sopra, particolare di una kylix (coppa per il vino) ateniese a figure rosse, del V secolo a.C. Raffigura Egeo, re di Atene, mentre consulta l’oracolo delfico.
Fu anche un errore di traduzione a portare l’Italia al disastro di Adua. All’epoca dell’espansionismo colonialista, l’Italia rivolse le sue mire all’Etiopia, e nel 1889 riuscì a ottenere un trattato favorevole da parte del negus Menelik, il “re dei re” d’Etiopia. Ma quanto favorevole? Su questo “dettaglio” le interpretazioni divergevano. Anzi, non le interpretazioni, bensì il testo stesso del Trattato di Uccialli, differente nelle due lingue. Sfumature. L’articolo 17 in italiano recitava: “Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o governi”. Una cessione della sovranità in politica estera che riduceva l’Etiopia a un protettorato italiano. Ma nella lingua amarica (parlata in Etiopia e usata per redigere il trattato) le cose non sembravano stare così: “Sua Maestà
Da un errore di traduzione la disfatta italiana di Adua
il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con altre potenze o governi mediante l’aiuto del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia”. Il che, come è evidente, vuol dire ben altro.
Sospetti. Non è stato mai chiarito se si trattò di un errore di traduzione, commesso in buona fede, o di un’astuzia voluta da una delle due parti (prima sospettata l’Etiopia, ma poteva essere anche un’idea italiana). Fatto sta che i rapporti tra Roma e Addis Abeba si inasprirono subito, finché nel 1895 si giunse alla Guerra d’Abissinia. Che per l’Italia significò la dura sconfitta di Adua: il 1° marzo 1896 le nuove armi acquistate dagli etiopi (anche con i soldi del prestito concesso da Roma) uccisero circa 6mila soldati italiani. Una sconfitta che negli Anni ’30 fornì argomenti alla propaganda fascista per una nuova guerra italo-etiopica.
Lo sfregio di Jenkins in un dipinto
Verso la vittoria Battaglia di Adua: il generale etiope Maconnen alla testa delle truppe che sconfissero gli italiani, in un’illustrazione dell’epoca (1896).
L’orecchio di Jenkins che costò il conflitto tra Inghilterra e Spagna
n fiasco con un orecchio conservato sotto alcol ostentato alla Camera dei comuni, a Londra, Era il 1738, e il capitano di vascello Robert Jenkins era stato uno dei molti inglesi a denunciare le angherie degli spagnoli. Questi ultimi si erano arrogati il diritto di perquisire tutte le navi britanniche che facevano la spola attraverso l’Atlantico. Dicevano di voler combattere contrabbando e pirateria, ma intanto pretendevano di procedere liberamente a sequestri e requisizioni con i
Nel 1731, durante una di queste perquisizioni, a Jenkins fu mozzato l’orecchio sinistro. Nel 1738 testimoniò di fronte al Parlamento inglese, mostrando l’orecchio come simbolo della crudeltà del nemico spagnolo, che gli avrebbe intimato in tono di “Di’ al tuo re che se lo
trovo gli farò lo stesso”. L’opinione pubblica britannica insorse, fino a spingere Londra a dichiarare guerra a Madrid nel 1739. Il primo anno di guerra arrise agli inglesi, con la conquista di Portobello (Panama), a cui è ancora oggi intitolata una celebre via londinese. Ma in seguito gli spagnoli recuperarono terreno e nel 1742 la guerra si concluse praticamente con un nulla di fatto.
Nel 1925 un cane passò il confine fra Grecia e Bulgaria. Un soldato greco lo inseguì e superò la frontiera.
Seguirono 10 giorni di scontri e 52
morti
Stati Uniti e Panama ai ferri corti per una fetta d’anguria
Può costare molto cara, una fetta di anguria. Lo capirono a loro spese Stati Uniti e Panama quando quest’ultima era ancora un distretto di una Colombia squassata da guerre civili e colpi di Stato. A Panama gli statunitensi stavano costruendo la ferrovia che collegava i due oceani e la facevano da padroni. Il 15 aprile un americano ubriaco, Jack Oliver, prese una fetta di anguria da un ambulante, José Manuel Luna, e la mangiò rifiutandosi di pagare. Alle proteste del venditore reagì sparandogli. Alcune versioni dicono che il panamense aveva tirato fuori un coltello e che non volle accettare un risarcimento (di 10 centesimi!) da parte di un altro americano. Comunque sia andata, finì male, e cominciò il peggio.
Rivolta. Esasperata dalla povertà dilagante, la folla prese ad aggredire tutti gli stranieri che capitavano a tiro, diede alle fiamme gli edifici pubblici e assaltò la stazione ferroviaria. La polizia si unì alla sommossa, mentre dall’altra parte sopraggiunsero via treno le forze di sicurezza della compagnia ferroviaria. Il rapporto ufficiale sulla battaglia registrò 15 stranieri morti, tra cui un francese, e 16 feriti e, sull’altro fronte, 2 panamensi morti e 13 feriti. I locali celebrano oggi l’episodio come l’unica vittoria sugli yankees, ma in realtà fu proprio quella battaglia che fornì il pretesto per la definitiva occupazione Usa dell’istmo: nelle settimane successive arrivarono due navi da guerra e sbarcarono i marines
I pasticcini di Francia fatali al Messico 1838
Il saccheggio di una pasticceria è all’origine del primo intervento militare francese in Messico. Nella giovane Repubblica del Messico spesso i disordini sfociavano in spoliazioni. Non era facile per gli stranieri ottenere risarcimenti. Così, un certo monsieur Remontel dopo 10 anni trascorsi invano a chiedere un indennizzo per la devastazione della sua pasticceria da parte di ufficiali messicani, domandò la protezione alla Francia. Che prese le cose sul serio.
Grandeur. Nel 1838 re Luigi Filippo d’Orléans chiese al Messico un risarcimento di 600mila pesos e la restituzione di un prestito da un milione di dollari. Non ricevendo risposta, il re spedì una flotta a imporre un blocco navale e a conquistare Veracruz, che per la sua resistenza fu detta “l’eroica”. Il Messico cercò di aggirare il blocco col contrabbando, ma gli Stati Uniti si opposero. Così il presidente messicano Bustamarte dovette cedere e risarcire il pasticciere.
Blocco navale
La flotta francese in Messico nel 1838, in un dipinto di Horace Vernet.
IV
Secondo Plutarco fu il desiderio di vino, che una volta assaggiato li aveva resi folli, la ragione della feroce guerra dichiarata dai Celti a Etruschi e Romani, che si concluse con il sacco di Roma nel 390 a.C. da parte di Brenno. La vicenda è citata anche da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, che però al vino aggiunge anche altri prodotti: “Si dice che i Galli [...] ebbero come primo motivo del loro riversarsi in Italia il fatto che l’elvetico Elicone, cittadino delle Gallie, dopo aver soggiornato a Roma come fabbro, aveva portato con sé, ritornando in patria, dei fichi secchi, dell’uva, dei campioni di olio e di vino”. Prodotti che evidentemente piacquero molto. Di casus in casus. Valicata la catena montuosa, invasa la Pianura padana, sconfitti gli Etruschi sul Ticino, i Galli continuarono la loro pressione sulla Toscana, assediando Chiusi. Qui un altro casus belli fu fatale per Roma: i tre ambasciatori romani mandati per mediare tra i belligeranti non riuscirono a sottrarsi al fascino del combattimento, e affrontarono il nemico. Il diplomatico Quinto Fabio Arbusto riuscì persino a uccidere un capo dei Galli. I quali per vendicarlo lasciarono Chiusi e si diressero a Roma, mettendola a ferro e fuoco.
La ferrovia panamense, costruita a metà ’800 dagli Stati Uniti.In Italia c’è la legge 194
Nonè la prima volta che accade, ma si torna a dibattere sulla legge 194, che dal 1978 consente alle italiane di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza entro 90 giorni dal concepimento, ma anche fino al quarto e quinto mese per motivi terapeutici, se è in serio pericolo la salute fisica o psichica della donna. A far discutere, stavolta, è stata l’introduzione da parte dell’attuale governo di norme che legittimano a livello nazionale una pratica finora in uso solo sporadicamente: la presenza di associazioni antiabortiste nei consultori, frequentati anche dalle donne che richiedono il certificato medico necessario per l’aborto in ospedale. Secondo molti, si tratta di una presa di posizione politica, l’ultima di una lunga serie, da quando la 194 è stata approvata. Sotto attacco? Dopo aspre lotte femministe e tumultuose discussioni nelle aule parlamentari, la legge del 1978 fu una soluzione di compromesso che scontentò un po’ tutti: la Chiesa, i partiti, le donne a favore della depenalizzazione dell’aborto e quelle contrarie. Tra i punti contestati, la necessità di sottostare al parere di un medico e l’introduzione dell’obiezione di coscienza per i sanitari, che rende difficile e spesso umiliante l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Eppure la 194 rimane un imprescindibile punto fermo per evitare il calvario e i rischi dell’aborto clandestino.
Urliamolo! Italia, 1975 circa, manifestazione in cui viene alzata la mano a formare il silmbolo femminista. Sopra, una copertina del 1975, con un'immagine forte sul calvario delle donne costrette all’aborto clandestino.
ABORTO
fra reato e peccato
Per secoli si è impedito alle donne di abortire, costringendole a pozioni velenose e interventi clandestini.
diMaria Leonarda Leone
Ha 17 anni, Gigliola, ed è figlia di agricoltori padovani. Pensa ai genitori: se sapessero, si vergognerebbero, la caccerebbero di casa. E dove potrebbe andare, senza soldi, senza assistenza, senza speranza, incinta e abbandonata dal ragazzo che le ha lasciato quel fardello da portare da sola? Ma una via d’uscita c’è: Roberto, un giovane che le vuole bene, le darà le 40mila lire che servono per l’operazione. Stesa su un tavolo da cucina, senza anestesia, lascerà che un’assistente infermiera le introduca nell’utero un ferro, facendolo roteare per provocare il distacco della placenta.
ASSOLTA, NON PERDONATA. È il 1973 e quella di Gigliola è una storia vera, simile a tante altre: all’epoca, in Italia, erano più di 3 milioni le donne che ogni anno ricorrevano a un aborto clandestino. Molte morivano nelle ore successive, dissanguate, con l’utero perforato da ferri da calza malamente manovrati dalle mammane, o avvelenate da decotti di prezzemolo fatti in casa. Quelle che potevano permetterselo, invece, si rivolgevano al “cucchiaio d’oro”, il medico che procurava aborti clandestini in cliniche private, con un cucchiaio che le donne erano costrette a pagare – da qui il nome – a peso d’oro.
All’umiliazione del tribunale arrivavano solo le più povere e sole, quelle come Gigliola. Sopravvissuta al dolore, alla paura e a un’infezione, la ragazza fu processata per reato
d’aborto: rischiava da 2 a 5 anni di carcere, ma fu “perdonata” dal giudice per la sua giovane età. Perdonata, non assolta: perché chi abortiva, allora come oggi, rimaneva moralmente colpevole agli occhi di quanti non capivano il peso di quella scelta straziante, la disperazione di ritrovarsi madre per sbaglio o incinta dell’uomo sbagliato, l’oscuro dolore di chi porta in grembo il frutto di una violenza o un bambino destinato a una vita di sofferenza, di chi non può sfamare un’altra bocca, le mille ragioni di chi non vuole essere madre. Per secoli le donne sono ricorse all’interruzione di gravidanza e metodi, giudizi morali e diritto si sono adeguati ai mutamenti politici, religiosi, medico-scientifici e sociali. Un fatto però è rimasto inalterato fino al tempo di Gigliola: che fosse sottoposta all’autorità fisica e morale del marito, della Chiesa o dello Stato, la donna non è mai stata libera di decidere. «Il tema è particolarmente complicato, innanzitutto perché la Storia insegna che sessualità e riproduzione sono anche gli ambiti che più hanno permesso agli uomini di dominare le donne», scrive la storica Giulia Galeotti in Storia dell’aborto (Il Mulino).
UN DANNO AL MARITO. Si stava meglio quando si stava peggio, si dice. E infatti in epoca classica, per le antiche greche e romane interrompere una gravidanza indesiderata era lecito, anche se non da tutti accettato. C’era un unico “ma”: la tutela dell’interesse dell’uomo.
Pro o contro
A Roma, manifestazione pro-aborto nel 1976 e, nell’altra pagina, raduno antiabortista durante la campagna per il referendum abrogativo della legge 194, che si tenne nel 1981.
Sotto, i partiti del fronte antiabortista diffondevano manifesti come questo, del Movimento sociale italiano-Destra nazionale.
«L’aborto poteva ostacolare l’aspettativa del padre, del marito o del padrone di avere degli eredi. Perciò per praticarlo su una donna era necessario il consenso del maschio di casa», spiega Galeotti. In caso contrario, in base alla Legge delle XII tavole (V secolo a.C.), il marito poteva ripudiare la moglie per “sottrazione di prole”. Perché va detto: nonostante le leggi maschiliste e la pericolosità dei metodi abortivi (v. riquadro a destra), le matrone spesso riuscivano ad agire in clandestinità, con l’aiuto di altre donne. “Di chi si ha compassione? Per i padri, di nulla colpevoli”, sosteneva l’oratore Quintiliano (I secolo d.C.). Alle dirette interessate andavano al massimo le tirate morali di quanti, per vari motivi, disapprovavano quella pratica.
Uno fra tutti, il misogino poeta romano Ovidio (I secolo a.C.), che notava caustico: “Se alle antiche madri fosse piaciuto il medesimo sistema, la razza umana sarebbe colposamente perita […]. Se Venere incinta avesse maltrattato Enea nell’utero, la terra sarebbe rimasta priva dei Cesari”. Così, tempo due secoli, quella manifestazione pratica di inaccettabile autonomia femminile finì per essere stigmatizzata come “segno della decadenza dei costumi” e sanzionata penalmente dallo Stato come attentato all’ordine familiare e sociale.
«Un rescritto, una specie di ordinanza scritta dell’imperatore, databile tra il regno di Settimio Severo e quello di Antonino Caracalla (193-217), prevedeva l’esilio temporaneo per le divorziate o le mogli che si fossero procurate l’aborto contro il volere del coniuge», spiega la storica. Motivazione: «Potrebbe sembrare scandaloso che lei possa privare suo marito dei figli senza essere punita». Andava peggio a chi l’aborto lo induceva: rischiava la pena capitale se la paziente moriva.
E PECCATO FU. Le restrizioni, a Roma, erano nell’aria già da tempo e a metterci lo zampino era stato il cristianesimo. «Risale alla fine del I secolo il più antico documento cristiano che condanna l’aborto», spiega Galeotti. «La Dottrina dei dodici apostoli, il primo ordinamento delle comunità cristiane a noi noto, vietava questa pratica considerandola un peccato, perché distruggeva una creatura di Dio». “È sbagliato chiamar ‘statua’ il rame in fusione e ‘uomo’ il feto”, obiettava il filosofo Epitteto (II secolo), ma pareri come questo contarono sempre meno quando quella nata dagli insegnamenti di Gesù diventò religione ufficiale nell’impero (380 d.C.).
Influenzate dall’etica e dalla morale cristiana e dalle pene stabilite dalla Chiesa per quel tipo di peccato, molte legislazioni abbandonarono la difesa degli interessi del capofamiglia e scelsero di parteggiare per il feto, fino a quel momento considerato, da un punto di vista giuridico, solo una parte del corpo della donna e, come tale, di proprietà dell’uomo.
Molti sostenevano che l’equazione “aborto = omicidio” valesse solo quando l’anima entrava nel feto. Facile a dirsi, ma difficile da verificare. Per secoli filosofi e teologi analizzarono tutte le sfumature comprese tra Epitteto e la Dottrina, finché, alla fine del ’500, papa Sisto V tagliò la testa al toro: il 29 ottobre 1588 emanò la bolla Effraenatam, con cui condannò alla scomunica chi procurava un aborto. Il grado di sviluppo del feto non contava: in ogni caso, sosteneva il pontefice, si trattava di omicidio volontario. Con un’aggravante: oltre al danno materiale alla famiglia, alla Chiesa e alla società, private di un nuovo membro, c’era la gravissima perdita spirituale inflitta all’abortito,
Negli Usa il diritto all’aborto è stato oggi messo in discussione dalla Corte suprema
impossibilitato a raggiungere la beatitudine celeste. La guerra all’autonomia riproduttiva delle donne era cominciata.
SERVONO SOLDATI. «Fino alla Rivoluzione francese, i diversi legislatori sostanzialmente si limitarono a seguire l’impostazione tradizionale, definita dalle indicazioni religiose», afferma Galeotti. «La generale condanna si articolava quindi in pene differenziate a seconda di quanti mesi erano passati dal concepimento del feto al momento dell’aborto». Poi, nell’Ottocento, lo Stato ne fece una questione pubblica. Come mai? In tempo di guerre e pestilenze l’idea di fondo, piuttosto diffusa, era quella espressa dal filosofo francese Denis Diderot: “Uno Stato è tanto più potente quanto più è popolato […] e quanto più numerose sono le braccia impiegate nel lavoro e nella difesa”.
In quest’ottica, il feto si trasformò in un “futuro cittadino, soldato e lavoratore” da salvaguardare e, di conseguenza, “la donna gravida non è più semplice moglie del cittadino, ma in un certo modo proprietà dello Stato”, secondo la definizione data dal medico illuminista tedesco Johann Peter Frank. Obbligata a tener fede alla propria “predestinazione biologica”, la donna fu chiamata a vivere la maternità come necessario atto di patriottismo. Le leggi si fecero più stringenti: aborto e contraccezione divennero reati contro la persona o delitti contro l’ordine della famiglia. Lo scopo, argomentava nel
1928 il giurista Alfredo Rocco, padre del codice penale di epoca fascista, scongiurare l’offesa alla “sanità morale” e al “rigoglioso sviluppo del nostro popolo”. Uno zelo che mutava in base agli interessi delle varie nazioni: la Germania nazista, perseguendo l’ideale della razza pura, proibiva alle donne “ariane” l’interruzione di gravidanza, ma la incentivava (fino a renderla obbligatoria) nei territori occupati. Poche e di breve durata le eccezioni: una fra tutte, la Russia bolscevica, dove l’aborto fu legale dal 1920 al 1936.
UN DIRITTO CIVILE. Vietato o meno, le donne non smisero di abortire, nonostante la clandestinità rendesse tutto più pericoloso. «La legislazione che criminalizzava l’interruzione volontaria della gravidanza diventò l’emblema dell’espropriazione del corpo e dell’identità femminile», conclude la storica. «È in questa fase che prese forma l’idea dell’aborto come diritto civile, il primo tra i tanti da reclamare, rivendicazione unificante del femminismo, più di ogni altra in grado di avvicinare donne di diversa estrazione, cultura ed età». Con limiti e tempi diversi da Paese a Paese, nella seconda metà del ’900 le dirette interessate hanno cominciato a godere del diritto di decidere per sé e per il proprio corpo. Un diritto che in Francia è entrato nella Costituzione il 4 marzo 2024, ma che negli Usa è stato di nuovo negato da una sentenza della Corte suprema nel 2022. Un diritto ancora troppo spesso minacciato da secoli di maschilismo, a scapito di tutte le Gigliola del mondo. •
Si faceva così
In passato l’aborto era davvero una pratica rischiosissima per chi vi si sottoponeva, al punto che nell’800 i movimenti di emancipazione femminile la avversarono duramente, considerandola uno strumento in mano al maschio prevaricatore, libero così di dar sfogo alla propria sessualità senza tener conto delle conseguenze. Pozioni e mammane. Nei secoli, i metodi impiegati non sono cambiati molto. Le indicazioni terapeutiche per le donne dell’antichità che volevano abortire erano chiare: si poteva scegliere fra un’astrusa serie di violenti sforzi fisici, salti e massaggi, e una lunga lista di intrugli diuretici, purgativi o stimolanti a base di superstizione ed erbe. Tra gli altri, andavano per la maggiore fin dall’epoca classica i decotti di ruta e prezzemolo, piante potenzialmente tossiche se assunte in concentrazioni elevate, e quelli di silfio, una pianta abortiva, oggi estinta, diffusa nella regione di Cirene (Nord Africa). Non mancavano le matrone che sceglievano di ricorrere a quello che alcuni autori definirono il “cieco attacco” contro il proprio utero, con uno strumento che bucasse la placenta: come un particolare ago di bronzo (sotto), antenato del ferro da calza delle mammane. Metodi spesso letali, rimasti a lungo in uso.