ROSSA RICHELIEU Storia
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Nel Seicento la Francia assunse un ruolo chiave in Europa e i suoi monarchi divennero gli indiscussi padri padroni di tutto e di tutti, compresa quell’aristocrazia riottosa e insaziabile sempre pronta a congiure e colpi di mano. Artefice di questi risultati fu il cardinale Richelieu, che 400 anni fa (nel 1624) divenne l’uomo di punta di Luigi XIII, dopodiché governò per 18 anni guadagnandosi la fama di grandissimo statista. Ci ha incuriosito la figura austera e – complice molta letteratura – mefistofelica di quest’uomo votato a Dio ma implacabile con gli esseri umani. Come ci ha incuriosito il fatto che, insieme e subito dopo di lui, furono sempre due religiosi – il frate “padre Giuseppe” e il cardinale Mazzarino – gli uomini più potenti di Francia. Affrontiamo quindi questa pagina di storia, che ci regala anche tante curiosità (ma quanto era assurda l’etichetta imposta alla corte francese?) e gustosi pettegolezzi: sapete per esempio chi erano e come fecero fortuna le nipoti di Mazzarino? Buona lettura!
Emanuela Cruciano caporedattrice
Il cardinale Richelieu a cavallo per le strade di Parigi.
RICHELIEU, IL CARDINALE POLITICO
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Eminenza rossa
Il ritratto del cardinale che nel Seicento amministrò il regno di Francia.
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L’assedio del Gran Cardinale
La sconfitta degli ugonotti sull’Atlantico, a La Rochelle.
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Eminenza grigia
Chi era padre Giuseppe, il grande consigliere del cardinale?
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Mazzarino l’erede
Dopo Richelieu fu un cardinale italiano a completare la sua opera.
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Le mazarinettes
Le nipoti di Mazzarino impiegate dallo zio alla corte di Francia.
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Maestro di Realpolitik
Richelieu gestì la politica con cinismo alleandosi anche con i nemici.
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Invito a Versailles
La vita alla corte francese, tra parrucche, banchetti e rituali.
In copertina: il cardinale Richelieu (1585-1642)
IN PIÙ...
14 SCIENZA Delitti al microscopio
La storia dei metodi di indagine scientifica capaci di incastrare i criminali.
20 INTERVISTA
L’ago della bilancia
75 anni fa nasceva la Repubblica popolare cinese. Ce ne parla lo storico Samarani.
26 PERSONAGGI Il principe esploratore
Il duca degli Abruzzi fu un Savoia particolare: alla vita comoda preferì l’avventura.
32 GRANDI PROCESSI
Morte all’eretico
Il processo farsa al frate Girolamo Savonarola, che pagò a caro prezzo la sua intransigenza.
74 MUSICA
Il canto libero
Le origini del jazz, un genere che è stato capace di influenzare l’arte e la società.
80 ARTE
La pittura dell’anima
Si apre a Milano una mostra su Edvard Munch, il pittore delle moderne inquietudini.
88 BATTAGLIE
L’ultima missione
Primo Longobardo, il capitano di fregata che affrontò il suo destino nel 1942 nell’Atlantico.
93 MONDO
Infanzia randagia
Russia Anni ‘20 e ‘30: un esercito di besprizornye, bimbi abbandonati, invade le città.
LA PAGINA DEI LETTORI
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Grazie Corrado
Vi scrivo per ringraziarvi di cuore per l’omaggio che avete dedicato a Corrado per celebrarne il centenario della nascita. Mi riferisco all’articolo La voce degli italiani pubblicato su Focus Storia n° 214. Mi avete fatto fare un salto nel tempo e nei ricordi, di quando bambina insieme a mia mamma ascoltavamo per radio La Corrida. Lei era una donna severa e nervosa, sempre stanca e indaffarata, ma quell’ora (di più, di meno? ah, la memoria..) di ironia, stecche clamorose e siparietti fra il conduttore e “i dilettanti allo sbaraglio” la facevano ridere come accadeva raramente. Il programma poi traslocò in tv, ma per me e mia mamma Corrado rimase una voce: quelle delle nostre mattine casalinghe interrotte dalla bonaria golardia di un programma capace di intrattenere con la stessa efficacia tanto gli adulti quanto i bambini.
Raffaella, Milano
Ancora sulle scienziate
In merito all’articolo Scienziate nonostante tutto, pubblicato su Focus Storia n° 213 che ho trovato interessantissimo volevo aggiungere qualche altro nome più o meno noto. Una insospettabile, come la famosa attrice Hedy Lamarr, che però in realtà si chiamava Hedwig Eva Maria Kiesler, austriaca ed ebrea, durante il nazismo si trasferì negli States dove recitò in diversi film. Aveva
studiato ingegneria in Austria ma poi aveva abbandonato gli studi per il cinema. Riprese la sua vecchia passione negli anni della guerra e cominciò a pensare a un sistema per l’intercettazione e il blocco dei siluri. Il progetto fu brevettato l’11 agosto 1942 come “Sistema di Comunicazione Segreta”. A proposito di mogli (come la Curie) poi anche la prima moglie di Albert Einstein Mileva Marić era una fisica e una matematica ed era riuscita a diplomarsi e a entrare all’università di Zurigo anche se non si laureò mai. La passione per la fisica accomunava la coppia, tanto che qualcuno sospetta che ci sia anche la sua mano dietro gli studi sulla relatività di Einstein. Clemente, Potenza
Oltre l’handicap
Affascinante la storia del colonnello von Stauffenberg (foto a destra) su Focus Storia n° 214, al centro del complotto contro Hitler. Seppure fosse menomato, senza un occhio e con una sola mano, priva di alcune dita, riuscì ad attivare una bomba e scappare. Come fu possibile?
Sandra, Napoli
Risponde Lidia Di Simone
L’ufficiale tedesco Claus von Stauffenberg (1907-1944) aveva riportato ferite di guerra tali da causargli handicap molto seri, eppure la motivazione lo spinse a metterli da parte per tentare l’Operazione
Valchiria. L’attentato a Hitler non riuscì, ma la motivazione è una molla che può aiutare a compiere miracoli, come hanno dimostrato gli atleti di un evento sportivo di prima grandezza, le Paralimpiadi di Parigi. La medaglia olimpica, comunque, non è la sola spinta che può portare un uomo a dimenticare i suoi guai fisici: lo testimonia la vicenda di un personaggio storico riscoperto solo da alcuni anni, l’ammiraglio spagnolo Blas de Lezo (16891741). Un eroe di prima grandezza al servizio della Corona spagnola, per la quale difese la città di Cartagena de Indias dall’imponente assedio degli inglesi. Un eroe privo di parecchie cose, ma non di coraggio. Gli mancavano infatti una gamba, un braccio e un occhio, per questo era definino “mediohombre”. La traduzione è inutile, vero? Veterano di 22 battaglie, il teniente general de la Armada nel 1741 tenne testa alla flotta inglese che si accingeva a combattere la più grande delle sue operazioni anfibie (almeno fino al
Piave, 1918: un quiz per i lettori
Viscrivo perché ho rinvenuto una fotografia molto interessante che riguarda la Grande Guerra. Questa immagine, scattata a Oderzo nel giugno 1918, mostra soldati italiani catturati dal 94° reggimento austroungarico sul Piave. Il soldato
a sinistra indossa sul braccio un distintivo con un rettangolo nero e una stella: mi piacerebbe chiedere agli altri lettori di Focus Storia se conoscono il significato di questo simbolo.
Matteo D’Angella
Si imbarcò a Genova: in piedi sul ponte, rimase a lungo a guardare l’orizzonte, godendosi il tocco della brezza sul viso abbronzato, affilato dalla malattia.
Chiuse gli occhi e ripensò, per contrasto, ai venti gelati che, anni prima, gli avevano tagliato la pelle mentre scalava vette innevate sempre più alte, alla tempesta di ghiaccio nell’Artico che gli era costata due dita e al non meno letale caldo afoso delle foreste tropicali africane distese ai piedi del “re delle nuvole”, la cima del Ruwenzori (tra Congo e Uganda) perennemente nascosta da nebbie e nubi, o lungo l’infinita marcia dalla Somalia alla ricerca della sorgente del fiume Uebi Scebeli, in Etiopia.
Sapeva che stava compiendo il suo ultimo viaggio, ma sorrideva: stava tornando a casa.
Dal mare alle vette, fino alle terre d’Africa, Luigi Amedeo di Savoia-Aosta si avventurò quasi in ogni parte del mondo.
il principe
esploratore
Non a Madrid, dov’era nato infante di Spagna in una fredda giornata di fine gennaio del 1873, e neppure a Torino, dove aveva vissuto da piccolo, ma in Somalia, la patria dell’anima dove voleva essere sepolto, sotto una semplice pietra di granito grigio, spartana e solitaria com’era lui.
CONTROCORRENTE. Esploratore, alpinista, marinaio... No, Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, duca degli Abruzzi, non fu un Savoia come gli altri. Pioniere dell’età eroica delle esplorazioni, lontano dall’immagine del principe disneyano “bello da ballo”, fu un personaggio da romanzo, dal carattere riservato, impavido e reso più malinconico da un amore contrastato dalla ragion di Stato (v. riquadro). «Se dovessi descriverlo con pochi aggettivi, direi che fu un uomo mite,
In viaggio Il duca sulla ex baleniera norvegese Stella polare, vicino a un iceberg nel 1900. Nell’altra pagina, Luigi Amedeo, duca degli Abruzzi (1873-1933), durante il tentativo di ascesa al K2, nel 1909.
La passione per la montagna gliela trasmise la zia, la regina Margherita, e in un decennio il duca divenne celebre per le sue scalate
coraggioso, ambizioso, che seppe parlare con tutti, dal più umile agricoltore indigeno alle teste coronate», dice lo studioso Gianluca Frinchillucci, direttore dell’Istituto Geografico Polare “Silvio Zavatti” di Fermo, che ha seguito le orme del duca in diverse spedizioni. «Lo spingevano alla conquista lo spirito della sfida, la voglia di compiere il record, di fare quel che a nessuno mai, prima di lui, era riuscito: grazie a queste doti portò a termine eccezionali imprese e rese grande il nostro Paese con i suoi primati, compiuti in nome del re e dell’Italia».
“Il Savoia più bello e popolare”: così lo definiva un giornale dell’epoca. Ma a quello, il duca degli Abruzzi preferiva sicuramente il titolo di “principe esploratore”, che aveva conquistato sul campo, vagando, letteralmente, per mari e per monti. A viaggiare aveva cominciato da neonato: aveva solo 14 giorni ed era troppo piccolo per ricordare la fuga a Torino, dopo che suo padre era stato costretto ad abdicare al trono di Spagna. Doveva invece essergli rimasta impressa la solenne cerimonia con cui, a 6 anni, fece il suo ingresso nella caserma del Corpo reali equipaggi di La Spezia per essere arruolato in Marina come mozzo.
Una tradizione di casa Savoia, quella dell’educazione militare, che non dispiacque affatto al piccolo Luigi, che dormiva tenendo sotto al cuscino il libro di Jules Verne, Ventimila
leghe sotto i mari. E fu solcandoli, quei mari, che il ragazzino serio e riflessivo crebbe e si fece precocemente uomo, scalando i ranghi della Marina e circumnavigando il mondo per tre volte.
PIONIERE. Pronto a mettere da parte la mondanità e gli agi della propria posizione, scelse di dedicarsi all’avventura anche durante i periodi di licenza. Non tra i flutti, ma sulle montagne. Era stata la zia Margherita, regina consorte di Umberto I, a trasmettere al nipote prediletto la passione per le scalate, durante le vacanze estive sulle Alpi.
Così, dopo le prime grandi prove compiute sulle vette di casa, in poco più di un decennio (tra il 1897 e il 1909) il duca compì le spedizioni che lo resero celebre: dalla scalata dell’inviolato monte Saint Elias (5.489 metri) nell’Alaska Meridionale, alla spedizione al Polo Nord (1900), dalla conquista della vetta più alta del Ruwenzori, che battezzò cima Margherita (1906), al record assoluto di altitudine raggiunta sulla vetta del Bride Peak, nella catena del Karakorum, in Pakistan (1909).
Non perse mai l’entusiasmo di quella prima volta in cui, al grido di “Viva l’Italia!”, “Viva il re!”, il 31 luglio 1897, aveva piantato piccozza e tricolore sulla sua prima vetta extraeuropea. «Il duca scalò il monte Saint Elias dopo che quattro esplorazioni prima della sua erano fallite: era la
prima grande impresa alpinistica organizzata e condotta solo da italiani», ricorda Frinchillucci. «Fu un successo sportivo e mediatico che stupì il mondo ed entusiasmò il Paese, rendendo popolare il suo protagonista».
Ancora una volta, a incoraggiarlo e finanziarlo era stata Margherita: non solo per l’affetto che nutriva per lui, ma anche perché era una donna lungimirante, che aveva capito il possibile valore, per la casa sabauda, di un nipote così audace, in un periodo in cui gli alpinisti (e le relative nazioni) si contendevano le vette “mai calcate da piede umano”. Colse nel segno,
perché Luigi ripagò in visibilità il suo debito, condividendo sempre i propri successi con il re e la patria, catturando la simpatia degli italiani e facendo da sponsor alla monarchia, indebolita dall’opposizione repubblicana.
Diventò così il parente eroico, da ricordare negli aneddoti davanti al fuoco. “In famiglia lo chiamavamo ‘zio Luigino’ e io che ero nato 10 anni dopo la sua scomparsa lo ‘conobbi’ perché nella tenuta del Borro tutto mi parlava di lui”, raccontava di lui il nipote Amedeo (1943-2021). “C’erano i modelli perfettamente funzionanti delle navi che aveva comandato in guerra e di
Nel nome del duca Al campo base durante la spedizione del 1909 sul K2 (8.611 metri). Luigi Amedeo abbandonò la salita a quota 6.640 metri, lungo lo sperone che oggi porta il suo nome. Sotto, i lavori per la costruzione di nuovi canali in Somalia, in quello che si chiamerà Villaggio Duca degli Abruzzi, tra gli Anni ’20 e ’30.
IL LIBRO
Il Duca degli
Abruzzi
Gigi Speroni
(Carte Scoperte). La biografia del principe che scelse l’avventura.
L’impresa al Polo Nord fu la più difficile: perse due dita a causa del congelamento e non poté partecipare alla spedizione finale
quelle con cui aveva percorso tutti i mari. E il cane siberiano da slitta, diretto discendente di uno dei pochi scampati all’impresa polare”.
CHIMERA POLARE. Quell’impresa fu uno dei suoi più grandi dolori: costretto a farsi amputare due dita congelate, non poté infatti lasciare il campo base sulla banchisa polare per partecipare all’ultima parte, la più importante, del viaggio. «Credo che proprio il Polo sia stata la prima spedizione che il duca organizzò in maniera davvero cosciente», prosegue Frinchillucci. «Se all’inizio della sua attività di esploratore aveva agito d’impulso, per l’istinto giovanile di fare qualche pazzia, pian piano prese coscienza delle sue capacità e possibilità e riuscì a mettere a frutto in maniera utile le sue eccezionali doti di leader e organizzatore, oltre ai mezzi economici che la sua posizione gli
aveva elargito». Nel caso specifico, l’aiuto del re Umberto I nell’acquisto della Stella polare, l’ex baleniera norvegese su cui a luglio del 1899 salpò per raggiungere l’Artico.
Meta ambita di una frenetica e pericolosa corsa alla conquista intrapresa dal finire dell’Ottocento, il Polo Nord si rivelò una chimera anche per il duca: nonostante la meticolosissima organizzazione, il gruppo, decimato, non riuscì a raggiungere i sospirati 90°N. «Eppure la missione si rivelò un successo: non solo per la latitudine record di 86° 34’ toccata dagli esploratori, ma anche per la raccolta di dati scientifici», spiega lo studioso. «Il duca andò oltre la conquista fine a se stessa, puntando al bene comune più che a quello della singola nazione. Un approccio umanitario che caratterizzò tutte le sue imprese, inclusa l’ultima avventura in Somalia, dove lasciò un’eredità che parlava di pace, incontro e integrazione».
Da Nord a Sud Luigi Amedeo in divisa da ufficiale. Nell’altra pagina, l’accoglienza da parte dei leader arabi del duca a Tripoli, in Libia (Domenica del Corriere, 1913); la Stella polare, con cui intraprese la spedizione al Polo Nord (1899).
MAL D’AFRICA. In Africa era arrivato nel 1919, deluso e amareggiato. I primi problemi erano sorti otto anni prima, durante la Guerra italo-turca, quando Luigi, al comando delle siluranti impegnate nell’Adriatico, non accettò di ubbidire alla strategia imposta agli italiani dagli alleati austriaci. Ma che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”, lo sa anche l’Uomo Ragno: così, dopo aver dribblato per una vita i giochi politici, all’apice della carriera militare fu costretto a farci i conti. Promosso viceammiraglio e, con questa scusa, trasferito a terra al comando della piazza marittima di La Spezia, allo scoppio del primo conflitto mondiale fece di tutto per tornare sul mare. E la corda, già tesa, si spezzò.
Come comandante dell’armata navale, insofferente agli obblighi e per natura portato all’azione più che al governo e alla diplomazia, diventò il capro espiatorio per il pessimo andamento della guerra marittima. Fu spinto a dimettersi, su pressione degli alleati, e siccome far storie o lamentarsi non è roba da principi, salutò e tolse il disturbo senza pubbliche recriminazioni. Ma la profonda amarezza lo spinse verso la terra di cui si era innamorato nel 1893, giovane sottotenente imbarcato sulla cannoniera Volturno.
A 46 anni tornò in Somalia, non per scalare montagne, ma per realizzare, a una cinquantina di chilometri da Mogadiscio, quello che fu il suo testamento spirituale e il suo lascito: il Villaggio Duca degli Abruzzi, una piccola comunità autosufficiente,
destinata a diventare in pochi anni il centro agricolo principale della Somalia italiana.
ULTIMO VIAGGIO. Una moschea accanto alla chiesa, un cimitero cattolico accanto a quello musulmano, un ospedale, la ferrovia, la farmacia, il telegrafo, una diga e una fitta rete di canali, orti, coltivazioni e bananeti: il duca spese così gli ultimi 14 anni della sua avventurosa esistenza, facendo di una zona selvaggia un’azienda modello, basata sulla convivenza e il rispetto reciproco fra indigeni e italiani. «Qui in Italia è stato dimenticato, ma in Somalia chiunque abbia conosciuto il duca, direttamente o attraverso i racconti degli anziani, ne mantiene un ricordo stupendo e ancora molto vivo», afferma Frinchillucci. «Nel 2014, durante una ricerca sul campo, grazie all’aiuto del governo somalo siamo stati i primi, dopo la guerra civile, a tornare nel luogo in cui venne sepolto: nonostante quel che si legge online, la sua tomba è lì, intatta. Mi ha colpito: lui, che era un principe e avrebbe potuto avere tutti gli agi possibili, dopo aver affrontato la guerra, i pericoli del mare, del Polo Nord e delle scalate scelse di morire senza cure adeguate in quel villaggio che aveva fondato, sepolto senza monumenti accanto al popolo che amava, su una piana in mezzo alle sue piantagioni, sulla riva dell’Uebi Scebeli di cui aveva scoperto la sorgente nel 1928». Quando si imbarcò a Genova, Luigi sapeva che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Sorrideva, sul ponte della nave, perché stava tornando a casa, dopo che in Italia gli era stato diagnosticato un tumore. A chi gli consigliava di rimanere per farsi curare aveva risposto: “Preferisco che intorno alla mia tomba s’intreccino le fantasie delle donne somale, piuttosto che le ipocrisie degli uomini civilizzati” E a Villaggio degli Abruzzi morì, meno di un mese dopo, all’alba del 18 marzo 1933. •
L’amore perduto
Ironia della sorte, quando nel 1909 si trovò a scalare i 7.654 metri del Bride Peak, “il picco della sposa”, sulla catena montuosa del Karakorum, Luigi aveva davvero intenzione di sposarsi. Lei si chiamava Katherine Elkins ed era una ricca ereditiera americana, figlia del magnate del carbone e dell’acciaio, nonché senatore, Davis Elkins. Si erano conosciuti nel 1907 ed era stato un colpo di fulmine. Reale diniego. Nel 1910 decisero di sposarsi, ma le regie patenti del 1780 parlavano chiaro: i principi non possono sposarsi senza il consenso del re. Così Luigi si rivolse a suo cugino, il re Vittorio Emanuele III: la risposta fu un secco “no”, appoggiato dalla regina madre Margherita. Le ragioni? Non furono mai svelate, anche se c’è chi dice che la colpa fu della reputazione non troppo limpida del futuro suocero.
A quel punto Luigi si trovò a un bivio: perdere titoli, beni e diritti per sé e i propri discendenti o rinunciare al matrimonio? L’amore non resse lo scontro con la ragion di Stato e il duca degli Abruzzi non rivide più la sua miss.
PITTORACCONTI
MILANO 9 GENNAIO 1878
È MORTO IL RE!
Quando il Paese si fermò per la fine prematura di Vittorio Emanuele II.
Padre della Patria: l’epiteto con il quale è passato alla Storia, nel suo caso non è un’esagerazione. Quando il 9 gennaio 1878
Vittorio Emanuele II morì all’improvviso dopo una breve malattia, a 57 anni, scomparve uno dei padri dell’Italia unita. Il Savoia era infatti il sovrano che aveva riunito gli staterelli della Penisola, obiettivo raggiunto soprattutto grazie al genio politico del suo primo ministro Camillo Cavour, alle abilità di stratega di Giuseppe Garibaldi e al valore dei Mille. Vittorio Emanuele II fu il motore di un’impresa che cambiò le vicende europee e la notizia della sua morte prematura gelò il Paese. Questa tela, che fa parte della Collezione della Fondazione Cariplo ed è conservata presso le Gallerie d’Italia nel capoluogo lombardo, mostra i milanesi attoniti davanti alla notizia inaspettata. Si intitola Il 9 gennaio 1878 a Milano. Annuncio della morte di Vittorio Emanuele II, e fu dipinta tra il 1879 e il 1880 da Emilio Magistretti (1851-1936), artista milanese formatosi all’Accademia di Brera sotto la guida di Francesco Hayez. Specializzato nella pittura di genere e nella ritrattistica, Magistretti è noto soprattutto per questo dipinto a olio, molto efficace nel fermare sulla tela la sorpresa e lo sgomento della borghesia meneghina davanti alla scomparsa dell’uomo che aveva cambiato le sorti dell’Italia, fino ad allora considerata “un’espressione geografica”, come l’aveva definita sprezzantemente il cancelliere austriaco Metternich nel 1847. A Roma! Vittorio Emanuele II, salito al trono del Regno di Sardegna nel 1849, era diventato primo sovrano del Regno d’Italia il 17 marzo 1861 nell’aula del Parlamento di Torino, dopo il successo dell’impresa dei Mille di Garibaldi in Sicilia. Il regno era ancora privo della sua capitale storica (Roma), del Lazio e del Nordest (Veneto, Friuli, Trentino, Istria e Trieste). Ci sarebbe voluta la Terza guerra d’indipendenza, nel 1866, per riunire quasi tutti gli Stati del nostro martoriato Stivale. E anche allora mancava ancora il pezzo più pregiato, quel nucleo da cui tutto era partito ai tempi di Romolo. Soltanto grazie alla presa di Roma, il 20 settembre 1870, che segnò anche la fine del potere temporale dei papi, l’opera di riunificazione fu compiuta quasi del tutto.
Lidia Di Simone
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I facoltosi milanesi cercano di saperne di più da dispacci e quotidiani. La scomparsa del primo re d’Italia è un evento unico. Si ripeterà con la morte di suo figlio, nonché successore, Umberto I, assassinato nei pressi della Villa Reale di Monza il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci. Il re era nato il 14 marzo 1820, quindi non aveva ancora compiuto 58 anni. I commercianti chiudono per lutto. Il re aveva lavorato fino all’ultimo, ricevendo il presidente del Consiglio De Pretis. L’ultima sua firma fu quella sul telegramma per la morte di Alfonso La Marmora, scomparso il 5 gennaio: era il generale che, con la sconfitta contro Radetzky, nel 1849 era costato l’abdicazione a re Carlo Alberto, padre di Vittorio Emanuele II.
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I militari commentano la fine di colui che era stato soldato al loro fianco. Da giovane erede al trono, Vittorio Emanuele aveva combattuto nella Prima guerra d’indipendenza guidando la Divisione di riserva a Pastrengo, nel 1848. Ma la sua vera passione fu la caccia. Proprio durante una battuta nelle campagne laziali aveva contratto la malattia che lo portò alla morte.
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Il quadro di Emilio Magistretti (1851-1936) intitolato Il 9 gennaio 1878 a Milano
Annuncio della morte di Vittorio Emanuele II (1879-80, olio su tela,110,5 x 149 cm).
Collezione Fondazione Cariplo Gallerie d’Italia, Milano.
Il manifesto della Prefettura di Milano cita l’ora della morte: le 2:30 del pomeriggio. Secondo le cronache il re si era spento alle 14:30 del 9 gennaio 1878 nella sua camera al Quirinale, primo sovrano italiano a morire nel palazzo che era stato dimora dei papi e che oggi ospita il presidente della Repubblica. La malattia, polmonite o forse malaria, non gli aveva dato scampo.
I milanesi si riuniscono in capannelli e si commenta la successione: Umberto I è già il nuovo re. Sarà lui a predisporre l’inumazione della salma paterna nel Pantheon di Roma e a prestare giuramento sullo Statuto Albertino a Montecitorio, davanti a deputati e senatori dell’Italia unita. Quattro anni dopo morirà anche Garibaldi, nella sua isola di Caprera.
Lo strillone dà la notizia ai passanti. Soltanto il mese dopo spirerà anche Pio IX, al secolo Giovanni Mastai-Ferretti (pontefice dal 1846), l’ultimo “papa re”. Fu lui, infatti, l’ultimo sovrano dello Stato Pontificio, regno che cessò di esistere il 20 settembre 1870, quando i bersaglieri entrarono dalla breccia di Porta Pia, conquistando Roma per consegnarla a Vittorio Emanuele II.
Sullo sfondo della scena si vede il Teatro alla Scala, tempio del belcanto. Nel 1879 la vedova regina Margherita viene convinta, per intercessione della sua dama di compagnia, a dare udienza a un giovane e promettente musicista toscano. Ascoltatolo al pianoforte, finanzierà la sua borsa di studio per il conservatorio meneghino. Era Giacomo Puccini.
I milanesi si accalcano all’uscita della Galleria dedicata al “re galantuomo” scomparso. Inaugurata nel 1867, era appena stata completata. Quello che era solo un passaggio verso Piazza Duomo divenne il salotto buono della città. Nel luglio 1878 Umberto I e la regina Margherita saranno in visita a Palazzo Reale, affacciato su una piazza riempita di alberi e illuminata da decine di lanterne a gas. 4 5 6 7 8