Prometeo - 154 - Giugno 2021

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Rivista trimestrale di scienze e storia

Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NE/VR

Anno 39 Numero 154

€. 7.90

Giugno 2021

Bartolomei Bellazzini Cucchiara Galansino Guidorizzi Haarmann La Fauci Remondino Ross Savignano Vallortigara


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Rivista trimestrale di scienze e storia DIREZIONE SCIENTIFICA Sabina Pavone Storia Severino Salvemini Economia Giorgio Vallortigara Neuroscienze COMITATO EDITORIALE Stephen Alcorn, Roberto Battiston, Gianluca Beltrame, David Bidussa, Piero Boitani, Umberto Bottazzini, Patrizia Caraveo, Pier Luigi Celli, Luisa Cifarelli, Chiara Franceschini, Antonio Lucci, Alberto Oliverio, Mariagrazia Pelaia, Giorgia Serughetti.

DIREZIONE RESPONSABILE Gabriella Piroli prometeo@mondadori.it PUBLISHER Pamela Carati

www.prometeomondadori.it FONDATORI E COMITATO SCIENTIFICO Francisco Rodríguez Abrados (filologia greca, Universidad Complutense, Madrid) - Marc Augé (antropologia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Maurice Aymard (storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Carlo Bordoni (sociologo e scrittore) - James Beck (storia dell’arte, Columbia University) - Peter Burke (storia, Emmanuel College, Cambridge) - Valerio Castronovo (storia, Università di Torino) - Antoine Danchin (biologia, Università di Hong Kong) - Marcel Detienne (antichista, École pratique des hautes études, Parigi) - Ernesto Di Mauro (biologia molecolare, Università di Roma) - Umberto Eco (semiologia, Università di Bologna) - Irenäus Eibl-Eibesfeldt (etologia, Max Planck Institut für Verhaltensphysiologie, Seewiesen) - Lucio Gambi (geografia, Università di Bologna) - Giulio Giorello (filosofia della scienza, Università di Milano) - Maurice Godelier (antropologia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Jack Goody (antropologia, Cambridge University) - Françoise Héritier (antropologia, Collège de France, Parigi) - Albert O. Hirschman (economia, Institute for Advanced Study, Princeton) - Gerald Holton (storia della scienza, Harvard University) - Albert Jacquard (genetica, Università di Ginevra) - Jürgen Kocka (storia, Freie Universität, Berlino) - Jean-Dominique Lajoux (antropologia visuale, Centre National de la recherche scientifique, Parigi) - Vittorio Lanternari (etnologia, Università di Roma) - Jacques Le Goff (storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Edmund Leites (filosofia morale, Università di Queens) - Richard C. Lewontin (biologia, Harward University) - Giuseppe O. Longo (teoria dell’informazione, Università di Trieste) - Claudio Magris (letteratura tedesca, Università di Trieste) - Vittorio Marchis (storia della tecnologia, Politecnico di Torino) - Paolo Maria Mariano (meccanica teorica, Università di Firenze) - Francesco Marroni (letteratura inglese, Università di Chieti-Pescara) - Predrag Matvejevic’ (slavistica, Università di Roma) - William H. Newton-Smith (filosofia della scienza, Balliol College, Oxford) - Alberto Oliverio (psicobiologia, Università di Roma)- Alexander Piatigorsky (School of Oriental and African Studies, London University) - Carlo Poni(storia economica, Università di Bologna) - Tullio Regge (fisica, Università di Torino) - Jacques Revel (storia, École des hautes études en sciences sociales, Parigi) - Ignacy Sachs (economia, Centre international de recherches sur l’environnement et le développement, Parigi)- Vittorio Strada (letteratura russa, Università di Venezia) - Keith Thomas (etnostoria, Corpus Christi College, Oxford) - Nathan Wachtel (etnostoria, École des hautes études en sciences sociales, Parigi). JOHN ALCORN

Progetto grafico originario



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n.154

IL NUOVO PROMETEO

COVER

Giulio Guidorizzi PROMETEO, EROE DEI TRE MONDI Ribelle e generoso, ha affascinato Illuminismo, Romanticismo e Novecento comunista. Ma la figura è più ricca e polisemica dello stesso mito.

Stephen Alcorn

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Harald Haarmann e Mariagrazia Pelaia GENTI SMARRITE DELL’ANTICA EUROPA Civiltà autoctone danubiane, con segnali di cultura paritaria e comunitaria. Un omaggio a Marija Gimbutas, archeologa visionaria.

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Michele Bellazzini IL VOLTO IGNOTO DELLA VIA LATTEA I risultati della missione spaziale ESA Gaia hanno rivoluzionato ciò che sappiamo sulla nostra galassia. E sul suo intenso passato.

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Arturo Galansino WARHOL & CO. Quarant’anni di avanguardia americana, una semiotica tra controcultura e spirito pop.

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Nunzio La Fauci SINTASSI (ILLUMINISTA) DELL’AMORE In una lettera appassionata a Sophie, Diderot crea il “complemento di complicità”.

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Etimologie IL LUNGO VIAGGIO DELLE PAROLE Il lessico affonda nella civiltà latina. Un fatto linguistico e un intreccio di storie suggestive.

Paolo Bartolomei I NUOVI DEMIURGHI DEL CLIMA Inondazioni, tornado, effetto serra. Contro i fenomeni estremi, la geoingegneria propone lo schermo di anidride solforosa. A che prezzo?

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Ennio Remondino TEATRI DI NON-GUERRA Commercio di armi, eserciti privati, milizie combattenti. Gli ingredienti bellici sono già qui. E se cambiassero le alleanze geopolitiche?

Armando Savignano PERCHÉ LA FILOSOFIA UCCIDE LA POESIA? Per Marìa Zambrano la logica è prevaricante. A trent’anni dalla sua scomparsa, facciamo il punto su un conflitto che parte da Platone.

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Scintille INDAGINI, IPOTESI, SCOPERTE Cinque nuove ricerche su cui riflettere.

Giorgio Vallortigara LA COSCIENZA DEI VERMI Circuiti nervosi elementari. Una solida osservazione conduce a un’ipotesi radicale: la coscienza è un fenomeno diverso dal pensiero. Kristin Ross LA COMUNE DI PARIGI E IL LUSSO PER TUTTI È durata solo 72 giorni ma ha inciso nell’immaginario. I bisogni e valori che hanno animato l’insurrezione parigina del 1871. Exibition THE FAMILIES OF MAN La fine della modernità, il mondo connesso, la pandemia. Cinquanta grandi fotografi in mostra, dal 29 maggio al 10 ottobre 2021. Rita Cucchiara RETI NEURALI, L’IRRESISTIBILE ASCESA Deep e machine learning, analisi predittiva, ground truth, robotica. Una panoramica completa e accessibile sull’AI.

LIBRIXIME

Presentazione di undici saggi. Titoli stranieri e ristampe italiane. Tra le pagine: Adriano Prosperi. Ritratto breve di Giorgio Agamben. Intervista a Benjamín Labatut. Un racconto per Prometeo.


IL NUOVO PROMETEO

IDEE, VISIONI, PROMESSE,

PERSONE

La rivista alla prova del rinnovamento: veste grafica, immagini, scelta di contenuti e autori. Con una riflessione sintetica su un trimestrale di scienze e storia. E sul futuro dell’alta divulgazione, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

G

iunto al suo 39° anno di vita, Prometeo accoglie la sfida di una stagione che impone trasformazioni a tutta l’editoria, compresa quella di qualità. L’evolvere della tecnologia ha modificato alla radice il concetto stesso di informazione culturale, oggi fruibile sempre più spesso gratuitamente, a ogni ora del giorno e della notte, nelle lingue che si preferiscono. Un passaggio epocale, come si ama dire, che ha cambiato le nostre percezioni, forse anche i bisogni e gli highlight diffusi. Il panorama che abbiamo di fronte è radicalmente diverso da quello in cui un gruppo di allora giovani intellettuali aveva concepito e dato vita a Prometeo, grazie a Mondadori. La loro visione, scommettere su una testata di alta divulgazione, impattava in una realtà fertile e consolidata, dove i grandi quotidiani gestivano la centralità del processo comunicativo di ogni giorno e i periodici il necessario approfondimento. Entrambi avevano l’esclusività dei mezzi di stampa. Non esiste più nulla di tutto ciò. È un bene? Un male? È un fatto, diciamo. Esercizio della critica e multidisciplinarietà restano nel nostro codice genetico, ma con una battaglia in più che il presente ci pone: il primato delle idee. In tutti gli ambiti della conoscenza, ciò che fa la differenza adesso è saper selezionare argomenti e testimonianze del sapere attraverso il prisma di un pensiero originale, di una lettura tra le righe. Qualche volta, se necessario, ribaltando tesi egemoni. Tutte facoltà che transitano dalla vera ricchezza che possiamo mettere in campo: le persone, chi scrive, chi suggerisce e indirizza, i collaboratori e quel benefico circolo virtuoso che attorno alla rivista prima si addensa e poi si espande. Prometeo è più ricco, più vivace, più accessibile: d’ora in poi ci sarà per esempio un sito dedicato e cercheremo di fare un uso sapiente dei social media. Una circolarità di temi che trascende il confine nazionale. Del resto un assetto culturale o è internazionale, o non è. Ultima nota, brevissima: ci sarà un’iconografia armoniosa che gira tra le pagine, fatta di immagini scelte con accuratezza tra mille possibili. La bellezza. Vorremmo che diventasse un marchio di fabbrica, e questa è la nostra promessa. (Gabriella Piroli)

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LA NUOVA DIREZIONE SCIENTIFICA SEVERINO SALVEMINI

SABINA PAVONE

ECONOMIA

STORIA

Ordinario di Organizzazione aziendale all’Università Bocconi, dove ha ricoperto la carica di Prorettore e di presidente della Sda. Già nel Board di istituzioni culturali: Teatro alla Scala, Biennale di Venezia, Cinecittà, Istituto Luce, Mikado Film, Anteo. Ex presidente di Telecom Italia Media, è oggi presidente della Fondazione Adecco.

Insegna Storia moderna e storia della globalizzazione all’Università di Macerata. Dal 2011 fa parte del Comitato scientifico delle riviste Il Capitale culturale e Journal of Jesuit Studies, dal 2014 della “Société intérnationale d’études jésuites”di Parigi. Si è occupata del Dizionario Biografico degli italiani dell’Enciclopedia Treccani. Cura progetti di Digital e Public History.

GIORGIO VALLORTIGARA NEUROSCIENZE Ordinario presso il Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento, di cui è stato anche direttore. È autore di oltre 300 articoli scientifici e di saggi a carattere divulgativo. Fellow della “Royal Society of Biology”, ha ricevuto il Premio internazionale Geoffroy Saint Hilaire per l’etologia e una laurea honoris causa dall’Università della Ruhr.

IL NUOVO COMITATO EDITORIALE STEPHEN ALCORN Pittore, ritrattista, illustratore, figlio d’arte (è di John Alcorn la grafica di Prometeo). Insegna alla Virginia Commonwealth University, Richmond. ROBERTO BATTISTON Ordinario di Fisica sperimentale all’Università di Trento, ha presieduto l’Agenzia Spaziale Italiana (2014-18). Oltre 460 articoli internazionali. Tra i saggi: La prima alba del cosmo, Rizzoli, 2019. GIANLUCA BELTRAME Già Caporedattore cultura di Panorama, ha diretto l’edizione italiana di Rolling Stone. PIERO BOITANI Ha insegnato Letterature comparate alla Sapienza e all’Università della Svizzera Italiana. Dirige la collana Scrittori greci e latini, Fondazione Valla. DAVID BIDUSSA Storico sociale. È stato direttore della Fondazione Feltrinelli, tra i fondatori del Master in Public History. È nel Comitato scientifico di Rai Storia. UMBERTO BOTTAZZINI Ordinario di Matematiche complementari al Dipartimento “Federigo Enriques” della Statale. Nel 2015 ha vinto l’Albert Leon Whiteman Prize, organizzato dall’American Mathematical Society. PATRIZIA CARAVEO Dirigente di Ricerca all’INAF. I suoi studi le hanno valso il “Premio Nazionale Presidente della Repubblica”. Fa parte del Gruppo 2003 e delle “100donne contro gli stereotipi”.

PIER LUIGI CELLI Dirigente d’azienda, saggista e scrittore. È stato direttore generale dell’Università Luiss e della Rai. Il suo ultimo libro: La manutenzione dei ricordi, Chiarelettere, 2019. LUISA CIFARELLI Ordinario di Fisica delle particelle all’università di Bologna, ha collaborato con il CERN. Già presidente della Società Europea di Fisica e di quella Italiana. Dirige Il Nuovo Saggiatore. CHIARA FRANCESCHINI Insegna Storia dell’arte alla LMU di Monaco. Si occupa di arte, cultura visiva e storia rinascimentale e moderna in Europa e nel Mediterraneo. ANTONIO LUCCI Visiting Scientist al Dipartimento di Scienze Filosofiche dell’Università di Torino. In precedenza, attività di docenza e ricerca presso la Freie Universität e la Humboldt Universität di Berlino. ALBERTO OLIVERIO Neurobiologo di rilevanza internazionale, è tra i fondatori di Prometeo. Oltre 300 pubblicazioni, tra cui Il cervello che impara, Giunti, 2017. MARIAGRAZIA PELAIA Traduttrice da polacco e inglese, fa parte del Comitato Editoriale di Prometeo dal 2004. GIORGIA SERUGHETTI Ricercatrice in Filosofia politica presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca. Si occupa di genere e teoria politica.

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MITOGRAFIE

PROMETEO, EROE DEI TRE MONDI Figura leggendaria già per i classici, ha irretito l’Illuminismo, il Romanticismo e il Novecento comunista. È diventato emblema della conoscenza e soprattutto della ribellione, ma la filologia ci restituisce un personaggio ricco e polisemico. Forse anche con un passato da nascondere.

Giulio Guidorizzi

S

imbolo di un’umanità sofferente ma libera e fiera; simbolo dell’indomito coraggio di un uomo solo che spezza le catene e incita alla ribellione contro la tirannia; simbolo, anche, del progresso che in una minuscola manciata di millenni portò l’umanità da una vita precaria a diventare padrona di se stessa, da soggetta alla natura a dominatrice della natura attraverso il sapere, per raggiungere mete che sembravano assurde e impossibili, e ora fanno parte della strada che abbiamo già percorso. E ancora percorreremo: così, almeno, sembra dire Prometeo con la sua fiaccola in mano, come illustra il quadro di Rubens. Questo è il Prometeo che conosciamo dal mito: l’amico dell’umanità. Non un dio come gli altri che pensa alla sua personale felicità, ma il Titano che pensa alla nostra. Legato a una rupe del Caucaso, soffre perché ha donato all’uomo il principio di ogni tecnica, il fuoco, che gli dei volevano conservare per sè. Volevano tenere

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l’uomo prigioniero dei limiti che la natura impone a tutti gli esseri viventi, ma Prometeo li spezzò e da allora l’umanità ha iniziato a camminare. Un famoso corale della tragedia, il primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, che talvolta è chiamato “inno al progresso” esprime, nel cuore del V secolo a.C., la fiducia nella capacità dell’umanità di sottomettere la natura e non di esserne vittima. «Molte sono le cose meravigliose e strane– dice Sofocle – ma nulla è più meraviglioso dell’uomo. Passa anche oltre il grigio mare tra venti di tempesta sopra le onde urlanti, anno dopo anno affatica con l’aratro la Terra, sacra, instancabile madre degli dei, rovesciando la zolla con la razza dei cavalli, insidia con reti la gente spensierata degli uccelli, o le fiere o quella che popola gli abissi marini. Doma con l’astuzia gli animali liberi: piega al giogo il crinito cavallo e la forza del toro libero sui monti. Ha appreso la parola, e il pensiero più veloce del vento, ha costruito le regole civili e case


Frantisek Kupka (1871-1957), “Prometheus in Red and Blue”. Mondadori Portfolio

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MITOGRAFIE

Prometeo e Minerva creano l’uomo. Getty Museum.

poeta che con i suoi occhi vedeva il Partenone sorgere giorno dopo giorno sull’acropoli, e Fidia scolpire, e svilupparsi attorno a sé le scoperte dei medici, degli storici, dei filosofi. Quella era l’epoca in cui i figli di Prometeo stavano davvero costruendo, in quella parte della terra, un mondo nuovo. Già, perché alcuni miti dicevano che era stato Prometeo a plasmare dall’argilla i primi uomini. Un titano: non un dio. Per i Greci infatti l’uomo non è stata creato da Dio o dagli dei, e quindi non appartiene a loro, ma a se stesso, fragile ed effimero com’è. Questa è la sua condanna, ma anche la sua grandezza: deve rispettare gli dei, ma non deve la vita a un Dio creatore che indica la strada e a cui deve rispondere, un dio che detta la legge. Senza questo principio, non sarebbe esistita la filosofia dei Greci; al più, sarebbe stata una teologia. IL NARCISISMO DI CHI “PENSA-PRIMA”

che lo riparano dalla pioggia e dal gelo, è capace di tutto, corre veloce verso ogni rischio futuro, vince l’assalto di ogni malattia inaspettata. Solo contro la morte non ha rimedio». L’uomo ha inventato la caccia, l’agricoltura, l’allevamento, la navigazione, la medicina. Soprattutto, ha imparato a parlare e persegue il suo pensiero, la cosa più veloce che esista. Ha un solo limite: che prima o poi finisce. Finisce lui personalmente, ma l’umanità, dopo averlo sepolto, non si ferma, continua a camminare. Poteva ben scriverle con orgoglio, queste parole, un

In origine però questo filantropo era un truffatore: così almeno compare nella prima opera che racconta la sua storia, la Teogonia di Esiodo. Veniva dalla stirpe dei Titani, figlio di Giapeto, le divinità più antiche, ma a differenza degli altri Titani, che confidavano solo nella forza, Prometeo (ossia, come dice il suo nome, il “Pensa-prima”) preferiva l’intelligenza e l’uso accorto della sua manualità. Astuto, poco propenso a battersi, si tenne in disparte dalle lotte tra Titani e dèi olimpici, e quando Zeus li vinse, non finì in catene come gli altri suoi confratelli. Ma questo “Pensa-prima” aveva un difetto, se pure lo è: presumeva troppo dalla sua

Prometeo e Pandora, raffigurazione della scuola di Giulio Romano (1499-1546). Mondadori Porfolio

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GIULIO GUIDORIZZI Grecista, è stato professore ordinario presso l’Università degli Studi di Torino, prima di Teatro e drammaturgia, poi di Antropologia del mondo antico e Letteratura greca. Autore di numerosi saggi critici, è condirettore, con Alessandro Barchiesi, della rivista Studi Italiani di Filologia Classica. Ha ricevuto numerosi premi, tra cui il “Viareggio Rèpaci” per la saggistica nel 2013. Tra i suoi ultimi libri: Enea, lo straniero, Einaudi, Torino 2020. Sofocle. L’abisso di Edipo, Il Mulino, Bologna 2020.

divenne il ribelle, ma un tipo speciale di ribelle: come scriveva Karol Kerényi, è lui l’immagine archetipica dell’esistenza umana e la sua storia mostra che il progresso, personale e collettivo, passa attraverso la sofferenza, e mostra anche il mistero della sofferenza che diventa sacrificio. Prometeo non cede davanti alla tirannia, non accetta la prevaricazione, ma la cosa più incredibile è che lo fa per difendere i più deboli: non sfida Zeus perché vuole il potere per se stesso, ma rischia tutto per proteggere chi non può proteggersi da solo. Zeus lo minaccia, lo inchioda alla rupe e gli fa rodere il fegato da un aquila; ma durante la notte il fegato ricresce e all’alba l’aquila torna a roderlo. Così per centinaia, migliaia di anni: diecimila, si diceva. Intanto però i suoi protetti, i deboli uomini, hanno

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intelligenza. Perciò, se volessimo infilare in questo mito un po’ di psicoanalisi, dovremmo dire che il complesso di Prometeo è una forma di narcisismo perché il Titano pensava di essere più intelligente di tutti, persino di Zeus dominatore del mondo, e non esitava a sfidarlo. A quel tempo – racconta Esiodo – dei e uomini banchettavano insieme. Ma un giorno Prometeo prese due buoi, li uccise e li ricostruì come fantocci, coprendoli con la loro pelle; in uno aveva infilato la carne, nell’altro grasso e ossa. Poi fece scegliere a Zeus quale preferiva; Zeus abboccò, o finse di farlo, e prese quello fatto di ossa e grasso. Fu allora che venne fondato il sacrificio, cioè l’atto fondamentale che regola i rapporti tra uomini e dei: la carne del sacrificio, da quel momento, la mangiano gli uomini, mentre gli dèi si accontentano del fumo che svapora dal grasso. Con questo, Prometeo aveva inventato l’atto fondamentale della religione, il sacrificio, e costretto gli dei a ritrarsi nel loro mondo: onorati sì, ma lontani. Zeus, per vendicarsi di essere stato ingannato, sottrasse allora il fuoco agli uomini, ma Prometeo lo rubò, nascondendolo in una canna, e lo riportò sulla terra. A questo punto, Zeus si adirò davvero contro quel manigoldo che continuava a sfidarlo con le sue furbizie e lo incatenò a una rupe del Caucaso, condannandolo a un terribile supplizio. Così Prometeo sarebbe rimasto nel mito – un truffatore, perdente nella partita con Zeus – se non fosse stato portato sulla scena da Eschilo, nel Prometeo incatenato. Fu allora che definitivamente l’imbroglione

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MITOGRAFIE

Jan Cossiers (1600-1671), su un bozzetto di Rubens. Mondadori Porfolio

avuto il tempo di crescere e diventare forti. Il tempo delle sue catene è anche il tempo in cui l’umanità progredisce. È stato lui (fa dire Eschilo al suo titano incatenato alla rupe) a dare agli uomini «il pensiero e la coscienza»: prima gli uomini, «indifesi e muti come bambini», vivevano «come deboli formiche» dentro caverne; ma poi, grazie ai suoi insegnamenti, hanno a poco a poco scoperto il fuoco, le arti, le scienze, la medicina; hanno imparato a distinguere il giorno dalla notte e a sottomettere gli animali, hanno alzato gli occhi verso il cielo e iniziato a calcolare il corso delle stelle. Prometeo ha insegnato loro i numeri e le lettere dell’alfabeto (e così gli uomini hanno appreso a scrivere e a calcolare) e infine – antesignano di Freud! – ha spiegato loro come interpretare i sogni. «In breve», conclude, «tutto ciò che gli uomini conoscono proviene da Prometeo»: non dagli dèi. Troppe cose, forse. Ma questo elenco di invenzioni che Eschilo attribuisce a Prometeo ha un significato preciso: è anch’esso, come il corale di Sofocle, un inno al progresso, in un’epoca – l’età di Pericle – in cui stavano nascendo saperi nuovi e l’uomo poteva essere fiero di se stesso e della sua intelligenza. Il Prometeo di Eschilo non finisce qui: anzi, la parte più emozionante

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viene alla fine. Compare Ermes, portando gli ordini di Zeus: che parli, che riveli i suoi segreti, dato che si è lasciato sfuggire che un giorno arriverà qualcun altro a spodestare Zeus. Ora il tiranno ha paura e manda il suo galoppino per farlo parlare. Con un brivido lungo la schiena, leggendo le parole in cui Ermes insulta e minaccia Prometeo incatenato, pensiamo a quante infinite volte si è ripetuta questa scena infame: un prigioniero inerme davanti al suo aguzzino, che lo tormenta per farlo confessare rendendolo complice di un potere che si nutre di violenza. Ma Prometeo si rifiuta di scendere a patti con il tiranno; tu sei un servo, dice a Ermes e si prepara a soffrire, non senza aver denunciato l’indegnità di ciò che sta subendo: «Ciò che soffro è contro la giustizia». Poi, tra tuoni e fulmini, Prometeo precipita nell’abisso, dove continuerà a vivere tra i tormenti. Così finisce la tragedia, la prima (e l’unica giunta a noi) di una trilogia che terminava con la riconciliazione tra Zeus e Prometeo. Prometeo un giorno fu sciolto dalle catene, e Prometeo liberato era il titolo dell’ultima tragedia della trilogia su Prometeo, che non ci è pervenuta. Passò molto tempo. L’aquila planava ogni giorno scendeva sul titano incatenato e gli rodeva il fegato. ERACLE E LA LIBERAZIONE

Quando gli Argonauti arrivarono nel mar Nero diretti alla conquista del vello d’oro - racconta il poeta Apollonio Rodio – mentre navigavano sentirono, portato dal vento, un urlo gigantesco, straziante, che conteneva tutta la sofferenza del mondo: era il grido di Prometeo mentre l’aquila gli stava divorando le carni. Dal suo sangue, si diceva, crebbe un fiore tra le rocce, e Medea lo colse e lo usò per i suoi incantesimi. Poi, il Titano fu liberato; Zeus aveva deciso di averlo punito abbastanza, e del resto ormai i fuochi ardevano ovunque, si costruivano oggetti, templi, statue. Così consentì al più grande degli eroi, Eracle, di uccidere l’aquila. Eracle raggiunse il Caucaso, si appostò dietro una roccia e quando l’aquila comparve e si posò sul corpo di Prometeo richiudendo le ali, la uccise con un solo colpo del suo infallibile arco. Ma vi fu una complicata contrattazione: bisognava che qualcuno offrisse la vita al posto suo perché Zeus non poteva permettersi clemenza senza compenso; in quell’epoca il centauro Chirone (altro benefattore dell’umanità) stava soffrendo orribilmente perché una freccia avvelenata di Eracle lo aveva punto su un piede: così scambiò il suo destino con Prometeo, scese nell’Ade e Prometeo fu liberato.


Peter Paul Rubens, “Prometheus Bound”. Il dipinto ad olio è stato iniziato nel 1611-12 e completato nel 1618. Mondadori Porfolio

Tuttavia, così com’è, senza “lieto fine”, il messaggio che il Prometeo di Eschilo trasmette risulta anche più potente: ce n’era abbastanza perché gli Illuministi, come Wieland e Goethe, e i Romantici, come Byron e soprattutto Shelley, vedessero in Prometeo il ribelle per eccellenza, l’uomo libero che non china la testa davanti al tiranno, il precursore della dichiarazione dei diritti umani. L’omonima ode di Goethe è un’invettiva contro Zeus e contro gli dèi; a partire dalla fine del XIX secolo Prometeo finirà per diventare una figura dell’iconografia comunista, l’immagine del proletariato che spezza le sue catene. Prometeo, tra l’altro, era anche il titolo della rivista del Partito Comunista Internazionalista. Prometeo l’astuto è ormai diventato Prometeo l’indomito, il paladino della libertà. Coraggio e astuzia possono andare d’accordo? L’astuzia molto spesso non è che

l’altra faccia del coraggio: non quello di Ettore che s’immola in battaglia, ma quello di Ulisse, che finge di chinare la testa davanti a mostri e prepotenti per sopravvivere e infine trionfare. La traccia delle catene rimase impressa sulla rupe del Caucaso, ma le catene erano spezzate. L’umanità, buoni e malvagi insieme, era andata avanti: e tutto per una scintilla di fuoco che un giorno un imbroglione aveva rubato dal cielo. Gli ultimi versi del Prometheus Unbound (liberato, appunto) di Shelley sono un vero e proprio manifesto libertario, che suona come uno squillo di tromba: «Perdonare torti più cupi della morte o delle notte; sfidare il Potere, che sembra onnipotente; amare e sopportare; [...] non cambiare, né vacillare, né pentirsi; questo, come la tua gloria, o Titano, è essere buoni, grandi e lieti, liberi e belli; questo solo è Vita, Gioia, Impero e Vittoria». ■

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NUOVE TEORIE

LA COSCIENZA DEI VERMI Circuiti nervosi elementari, organismi capaci di movimento. Alcuni studi e una solida osservazione conducono a un’ipotesi radicale: la coscienza è un fenomeno diverso dal pensiero. Giorgio Vallortigara

Contro te povero verme le lagnanze sono eterne (Toti Scialoja)

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uando si interrogano sulla presenza di una coscienza in altri organismi, le persone di solito fanno riferimento alle capacità mentali - ragionare, risolvere problemi, prendere decisioni - quali si evincono dal comportamento. L’ipotesi sembra essere che se un animale mostra capacità mentali sofisticate allora debba essere cosciente, con il corollario che la possibilità di mostrare abilità mentali sofisticate sia collegata con il possedere cervelli complessi. Molte teorie che godono di grande consenso nella comunità scientifica sembrano condividere il medesimo presupposto, l’idea cioè che la complessità del sistema nervoso spieghi, in qualche modo, l’emergere della coscienza. A me pare, tuttavia, che quest’idea sia sbagliata. L’attività mentale non è consustanziale alla co-

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scienza. Una delle acquisizioni più importanti delle moderne neuroscienze è stata proprio la realizzazione che gran parte della nostra vita mentale è inconsapevole. L’inconscio cognitivo non è limitato, come si potrebbe credere, alle risposte automatiche e istintive, bensì opera negli aspetti più raffinati della nostra vita mentale. CONSAPEVOLI E INCONSAPEVOLI

Gli esempi sono innumerevoli. Mi limiterò a illustrarne brevemente un paio. Gli psicologi cognitivi impiegano una tecnica nota come Continuous Flash Suppression (CFS) per indagare i processi mentali consapevoli e inconsapevoli. Funziona così: a un occhio viene mostrato uno stimolo facilmente riconoscibile, per esempio un volto ben noto, mentre simultaneamente all’altro occhio viene presentata in rapida sequenza, diciamo ogni 100 millisecondi, una serie di immagini, sempre diverse, costituite da dei rettangoli variamente colorati ispirati a quelli che dipingeva Mondrian. Quel che accade in tali condizioni è che il volto non viene veduto. Per meglio dire: non viene consciamente veduto, perché si può osservare che un’elaborazione


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NUOVE TEORIE In questo esempio la dissociazione riguarda l’esecuzione di un’abilità cognitiva di alto livello, come risolvere un’equazione aritmetica, e il riferimento psicologico all’essere consapevoli o meno di aver percepito gli stimoli. Ma la medesima dissociazione può essere osservata tra l’esecuzione di un’abilità e i correlati neuronali che di norma sono associati all’esecuzione di quell’abilità. RICONOSCERE GLI STIMOLI

Un paio di anni fa è stato riferito il caso di un paziente affetto da sindrome corticobasale, una malattia neurodegenerativa rara, che mostrava un’incapacità a leggere i numeri arabi dal 2 al 9, pur essendo in grado di leggere normalmente le lettere dell’alfabeto. Quando gli veniva mostrato un numero, poniamo 8, il paziente era incapace di riconoscerlo e richiesto di disegnare quel che stava osservando produceva un’accozzaglia di

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cognitiva, anche profonda, viene condotta comunque in presenza della soppressione causata dal continuo susseguirsi di immagini a là Mondrian. Questo lo si può provare misurando i tempi di risposta agli stimoli percepiti. Supponete di osservare una semplice sottrazione con tre numeri, 9 – 3 – 4. Poiché lo stimolo è stato presentato in condizioni di CFS voi non avete avuto alcuna coscienza di vedere i tre numeri e i simboli della sottrazione, e men che meno perciò di aver calcolato il risultato dell’equazione, pari a 2. Successivamente, però, vi viene chiesto di leggere ad alta voce dei numeri, rispondendo il più velocemente possibile: quel che si osserva è che siete più veloci a leggere 2 che non, ad esempio, a leggere 3. Tutto avviene, cioè, come se un calcolatore del cui operare siete ignari si fosse preso il compito di svolgere l’equazione e di rendere prontamente disponibile la risposta corretta alle vostre labbra.

Rappresentazione artistica delle cellule cerebrali.

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COSCIENZA È ESPERIENZA

Insomma, essere coscienti, nella sua manifestazione primeva, ovvero sentire qualcosa, provare qualcosa – come, per me in questo momento, fare esperienza della durezza dei tasti del computer, del bianco e del nero nello schermo dove scrivo, e del vago sentore di disinfettante nell’ufficio appena pulito – non si identifica con pensare, ragionare o prestare attenzione. Coscienza è prima di tutto esperienza. Grazie agli studi condotti su una varietà di animali dotati di cervelli miniaturizzati, in questi anni abbiamo imparato che le operazioni cognitive più basilari possono essere condotte con una manciata di neuroni. Le api, il cui ganglio encefalico conta meno di un milione di neuroni, sono capaci di discriminare i volti umani, di categorizzare in maniera astratta l’uguale e il diverso, di condurre operazioni aritmetiche approssimate e di riconoscere dopo un breve addestramento su un numero limitato di esemplari lo stile grafico di Picasso rispetto a quello di Monet in immagini mai vedute in precedenza. Le limitazioni dei cervelli miniaturizzati riguardano semmai i magazzini di memoria o la possibilità di condurre analisi percettive

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segni grafici la cui forma assomigliava a un groviglio caotico di spaghetti. Curiosamente, il deficit non si manifestava per lo 0 e per l’1 (forse perché simili a delle lettere). Ma quello che è importante notare qui è che l’incapacità a riconoscere gli stimoli si applicava anche a ciò che veniva mostrato dentro o a un dipresso dei numeri da 2 a 9. Ad esempio, un volto inserito nel segno grafico del numero 8, raffigurato in modo ben visibile e riconoscibile in circostanze normali, risultava essere non esperito dal paziente. E tuttavia l’esame elettroencefalografico mostrava che la firma caratteristica del riconoscimento di un volto, un segnale negativo noto agli specialisti come N170 era osservabile nel tracciato elettroencefalografico. Tutto questo rivela che i processi mentali di alto livello sono distinti dalla coscienza, si possono osservare i primi in assenza della seconda. Viceversa, si può osservare coscienza in assenza di processi mentali di alto livello. Intuitivamente, questo lo sappiamo bene perché abbiamo adeguato a criteri prudenziali la nostra considerazione per chi soffre di deficit cognitivi anche importanti: riteniamo che essere privati di intelligenza e raziocinio non corrisponde a essere privi di sensibilità, si può sentire qualcosa, per esempio dolore, anche quando le capacità mentali siano gravemente compromesse.

I piccolissimi cervelli non alienano la facoltà di “sentire”, di provare qualcosa.

in parallelo anziché in maniera sequenziale (quest’ultima infatti è la modalità con cui di solito gli insetti muovendosi esplorano attivamente le scene visive). Che ragionare, decidere o risolvere problemi richieda o meno dei cervelli grandi e complessi è comunque irrilevante rispetto al tema della coscienza. L’idea che la coscienza emerga spontaneamente come risultato della complessità del sistema nervoso, in particolare della corteccia, mi sembra un modo di pensare magico anziché scientifico, e soprattutto collide con fatti ben acclarati. Il dogma della corteccia (o dei suoi equivalenti in altre specie) come generatrice della coscienza è messo in dubbio dalle classiche risultanze del neurochirurgo canadese Wilder Penfield, il quale aveva notato come l’escissione di porzioni anche grandi della corteccia, realizzata in anestesia locale per il trattamento di forme intrattabili di epilessia, lasciasse i pazienti consci e comunicativi (anche durante l’esecuzione stessa dell’intervento). Persino un intervento radicale come un’emisferectomia (la rimozione completa di un intero emisfero cerebrale) non fa venire meno la coscienza, ma si limita a danneggiare certe capacità

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NUOVE TEORIE discriminative e abilità motorie o linguistiche del paziente. Ovviamente sappiamo che un danno bilaterale massivo della corteccia dà luogo a una condizione di stato vegetativo persistente, ma, come ha notato il neuroscienziato Bjorn Merker, questo non dimostra che la funzione corticale sia essenziale per la coscienza, perché il danno corticale inevitabilmente distrugge i numerosi circuiti del tronco dell’encefalo che in condizioni normali ricevono degli input dalla corteccia. IL TRONCO DELL’ENCEFALO

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Ancora più drammatica è l’evidenza raccolta dallo stesso Merker a favore del fatto che i bambini affetti da idranencefalia, una condizione rara in cui mancano in larga misura e in alcuni casi del tutto gli emisferi prosencefacili e la cavità cranica corrispondente è riempita di liquido cerebrospinale, sarebbero coscienti (ancorché gravemente deficitari sul piano sensoriale, motorio e intellettivo). La coscienza primaria, il fatto di provare qualcosa, sarebbe sostenuta secondo Merker

da strutture del tronco dell’encefalo. Ma quando e perché nella storia evolutiva degli organismi è accaduto che fosse necessario provare qualcosa? In fin dei conti sappiamo che in varie circostanze il comportamento parrebbe potersi svolgere compiutamente in assenza di accompagnamento cosciente. Si possono osservare al riguardo i filmati impressionanti di soggetti (sia umani che non) affetti da una condizione detta di «visione cieca» che si muovono con agio nell’ambiente senza urtare gli oggetti o addirittura manipolandoli correttamente anche se, a seguito di una lesione più o meno estesa alle aree della corteccia visiva primaria, sono corticalmente ciechi e dichiarano (i pazienti umani) o mostrano in opportuni test (le scimmie) di non esperire alcunché. Alcuni filmati sul comportamento dei soggetti con «visione cieca» si possono osservare a questi link: https://www.youtube.com/watch?v=rDIsxwQHwt8 https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/ S0960982208014334

Le api hanno competenze cognitive molto superiori a quanto lascerebbe supporre la modesta quantità di neuroni.

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L’ultimo saggio, da poco in libreria. Giorgio Vallortigara fa parte della Direzione Scientifica di Prometeo.

Poco o nulla sappiamo dire al momento dei contenuti specifici del sentire di altri organismi, che potrebbero essere incommensurabili ai nostri (come osservava il filosofo Thomas Nagel, che cosa potrebbe provare un pipistrello quando fa esperienza della forma di un oggetto con il suo sonar?). Tuttavia io credo che possiamo utilmente interrogarci sul perché provare qualcosa sia stato necessario a un certo momento della storia evolutiva. In particolare ritengo che il momento di transizione importante sia occorso quando gli organismi hanno preso a muoversi nell’ambiente in maniera attiva, e di conseguenza si sono trovati di fronte al problema di riconoscere nelle stimolazioni sensoriali ciò che risulta accadere come sottoprodotto dei loro stessi movimenti. Per cogliere il punto, immaginate di stimolare una talpa fuori dalla sua tana con un lancio di terriccio che vada a colpirne i fianchi: l’animale reagirà con un’adeguata manovra difensiva. Tuttavia la stessa manovra difensiva non sarà messa in atto dall’animale mentre scava sottoterra, a dispetto del fatto che a seguito del suo muoversi accadrà che egli sia stimolato sensorialmente dal terriccio. LA COPIA CARBONE

La soluzione del problema, che ha avuto una lunga genesi sia teoretica sia sperimentale, ma che è legata in particolare alle ricerche del fisiologo del comportamento Erich von Holst, si basa sull’idea che ogni volta che il sistema nervoso invia un segnale al sistema motorio per generare un’azione corporea, un secondo

segnale in copia carbone (noto come «copia efferente» o «scarica corollaria») venga inviato a un sistema che provvede a confrontarlo con il segnale sensoriale che sta per sopraggiungere, come in una sorta di previsione sui possibili esiti sensoriali dell’azione. Io ho argomentato recentemente che se, come hanno sostenuto teorici quali lo psicologo evoluzionista Nicholas Humphrey, la risposta iniziale agli stimoli sensoriali doveva avere la forma di una reazione corporea, la copia carbone (la copia efferente) di questo segnale è proprio ciò che conferisce autorialità alla reazione corporea, cioè il fatto che venga sentita, che sia propria, ovvero che sia cosciente. La presenza di circuiti che realizzino il genere di meccanismo feedforward che è alla base di quello che von Holst ha etichettato come «principio di riafferenza», potrebbe rappresentare quindi una condizione minima, ma necessaria, perché si provi qualcosa a essere un particolare tipo di creatura, ad esempio un verme. Sui contenuti qualitativi specifici di questo provare qualcosa al momento possiamo solo dire che li ignoriamo. Ma se riuscissimo a riprodurre fedelmente la circuiteria cellulare che li sostiene nulla vieterebbe, in linea di principio, di farli propri, ad esempio in una protesi, e sapere per la prima volta che cosa si provi a essere un verme quando lo tocca la terra o, se aveva ragione Maurice Merlau-Ponty quando notava che vedere è palpare con lo sguardo, ad essere un’ape che sente il tocco della luce ultravioletta riflessa dai petali di un fiore. ■

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI MERKER, B. (2007). Consciousness without a cerebral cortex: A challenge for neuroscience and medicine. Behavioral and Brain Sciences, 30: 63-134. PENFIELD, W., JASPER, H.H. (1954). Epilepsy and the functional anatomy of the human brain. Little, Brown and Co., Toronto. SCHUBERT, T.M. ROTHLEIN, D., BROTHERS, T., CODERRE, E.L., LEDOUX, K., GORDON, B., MCCLOSKEY, M. (2020). Lack of awareness despite complex visual processing: Evidence from event-related potentials in a case of selective metamorphopsia Proceedings of the National Academy of Sciences, 117: 16055-16064. SKLAR, A. Y., LEVY, N., GOLDSTEIN, A., MANDEL, R., MARIL, A., & HASSIN, R. R. (2012). Reading and doing arithmetic nonconsciously. Proceedings of the National Academy of Sciences, 109(48), 19614–19619. VALLORTIGARA G. (2017). Sentience does not require “higher” cognition. Commentary on Marino on Thinking Chickens. Animal Sentience, 2017.030 VALLORTIGARA, G. (2020). The rose and the fly. A conjecture on the origin of consciousness. Biochemical and Biophysical Research Communications, 2020 Nov 16; S0006-291X(20)32048-9. VALLORTIGARA, G. (2020). Lessons from miniature brains: Cognition cheap, memory expensive (sentience linked to active movement?). In Animal Sentience, 29 (17).

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LE RIVOLUZIONI FRANCESI

IL LUSSO “PER TUTTI” NASCE CON

LA COMUNE

È durata solo 72 giorni ma ha inciso nell’immaginario. Una tra le studiose più esperte delinea i bisogni e i valori che hanno animato l’insurrezione parigina del 1871. Kristin Ross

P

er quale motivo ritornare alla Comune di Parigi, oggi, con un libro che non è una storia dell’evento, né una sua analisi, ma, piuttosto, un riadattamento, una nuova messa in scena? In Lusso comune (Rosenberg e Sellier: NdT) ho voluto rappresentare la Comune come una sorta di laboratorio di invenzione politica e vedere nell’emancipazione da essa realizzata un atto quotidiano e comune di creazione. Speravo che in questo modo la creatività dei comunardi ci avrebbe fornito non tanto delle lezioni, quanto piuttosto qualcosa di simile a un archivio a nostra disposizione. Fra l’altro, è questa la maniera in cui intendo l’osservazione di Marx, secondo cui la più grande realizzazione della Comune non sarebbero state tanto le leggi varate o le idee realizzate, quanto la sua «esistenza operante» – limiti e contraddizioni compresi. Questa riflessione di Marx ha anche il vantaggio di ricordarci che i lavoratori e gli artigiani che occuparono le loro strade e ripresero il controllo delle proprie vite non misero a punto un piano condiviso in vista della società che stavano costruendo. Il mondo che crearono era improvvisato, messo insieme con elementi presi in prestito da un passato nazionale distante e da regioni geografiche molto lontane – a

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partire anche dallo stesso concetto di “comune”. In un altro memorabile passaggio, Marx disse che i comunardi «distrussero lo stato». Per quanto mi riguarda, però, considero la loro operazione non tanto come una vera distruzione, quanto come una serie studiata di tentativi incentrati su come smantellare passo dopo passo l’impianto burocratico e gerarchico dello Stato. GLI ERRORI DEI COMUNARDI

Tutto ciò può sembrare fin troppo trasparente e semplicistico, ma in realtà, per me, era necessario sgombrare a fondo il terreno per poter rimettere così in scena la Comune di Parigi. Molte questioni dovevano essere messe da parte: l’opinione di Mao, quella di Trotsky, i dibattiti infiniti tra anarchici e marxisti, l’ancora più infinita serie – spesso stilata da persone politicamente vicine alla memoria della Comune – del “senno di poi” e della lista dei vari errori compiuti dai comunardi: perché non marciarono su Versailles? Perché non presero i soldi dalle banche? Perché non ebbero una maggiore organizzazione militare? Perché persero il loro tempo in azioni puramente simboliche? Come se fosse possibile stabilire una qualche sorta di collegamento diretto con il nostro tempo, in base al


“Le dépeceur de rats“ di Narcisse Chaillou (1837-1896), opera conservata al Musée d’Art et d’Histoire Saint-Denis. Artigiani e operai sono stati la base sociale della Comune di Parigi, assieme a una folta rappresentanza femminile.

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LE RIVOLUZIONI FRANCESI quale tracciare una morale o trarre delle lezioni; come se il passato si relazionasse al presente in forma pedagogica, o come se noi fossimo adesso in una posizione superiore per prendere decisioni diverse e migliori. Non credo che il passato ci possa davvero insegnare qualcosa; credo, però, che ci siano dei momenti in cui alcune lotte particolari entrano vividamente nel potenziale rappresentativo del presente, e proprio questo mi sembra il caso della Comune oggi. Ci sono due ragioni di questa nuova visibilità della Comune. Dopo il 2011, virtualmente ovunque abbiamo assistito al ritorno di una strategia politica fondata sull’occupazione di spazi, piazze e territori vari, sulla restituzione al pubblico di luoghi che lo Stato considera privati, sulla trasformazione della città – da Istanbul a Oakland, da Montreal a Madrid – in un teatro per operazioni strategico-politiche. Tale trasfigurazione politica dello spazio sociale insieme a questo rinnovamento della vita quotidiana, da soli, hanno riportato lo spazio-tempo della Comune nel nostro immaginario presente. La seconda ragione di questa vicinanza della Comune ha a che fare con la maniera in cui le persone, in particolare i giovani, vivono al giorno d’oggi. Molto poco, infatti, separa la crescente lotta di classe globale attuale dalla situazione dei lavoratori e degli artigiani dell’Ottocento che realizzarono la Comune. Non c’è bisogno di elencare in dettaglio come la precarité dei giovani d’oggi – che, spesso coprendo grandi distanze, lavorano e studiano contemporaneamente, o che emigrano all’estero per trovare lavoro, vivendo nei margini delle varie economie informali – come questa vita precaria e necessariamente nomade ricordi quella dei lavoratori del XIX secolo, la maggior parte dei quali spendeva gran parte del proprio tempo non a lavorare, ma a cercare lavoro. Il mondo dei comunardi in realtà è molto più vicino a noi di quanto lo sia quello dei nostri genitori. Di qui la necessità di ritornare a pratiche e forme di

organizzazione basate, come nel caso della Comune, sui principi della cooperazione e della libera associazione. Il libro, allora, è la mia maniera di riaprire, nel mezzo delle lotte del presente, la possibilità di una storia e di un futuro differenti rispetto alla strada intrapresa, da un lato, dalla modernizzazione capitalistica, e dall’altro, dall’utilitarismo di Stato socialista. La Comune è centrale in questo progetto – proprio perché si tratta dell’unico immaginario politico che ci è rimasto; un immaginario che non si identifica né con quello della borghesia nazionale, né con quello del collettivismo di Stato. È un immaginario a cui ho dato il nome (prendendolo in prestito da uno dei testi dei comunardi) di “Lusso comune”. Dirò qualcosa di più su questo titolo più avanti – per il momento mi interessa far presente che ho provato a pensare la Comune contemporaneamente sia come qualcosa che sta dietro di noi, qualcosa di morto, andato e appartenente al passato, sia come qualcosa che sta di fronte a noi, un’apertura dei futuri possibili. INIZI E CONCLUSIONI

Due tradizioni storiche dominanti si sono richiamate alla Comune, più o meno delimitando, fino a non molto tempo fa, ciò che poteva essere visto o detto dell’insurrezione: la storia nazionale francese da un lato, e la storia del socialismo di Stato dall’altro. La storia nazionale francese è molto ambigua sulla Comune: per la maggior parte la cancella dalla memoria, ma a volte tenta disperatamente di riportarla nei confini della storia della lotta condotta in nome del repubblicanesimo – e così prova a trasformare la Comune in un movimento che ha cercato di riformare lo Stato, invece che di distruggerlo. Per la storia comunista di Stato, ora, è difficile vedere come, dato il feroce anti-statalismo dei comunardi, una storia culminante con lo Stato sovietico potesse reclamare una delle sue origini nella Comune. Ciò che

KRISTIN ROSS Kristin Ross è professore emerito di letteratura comparata alla New York University, ma ha collaborato anche con Princeton e ricevuto diversi premi, tra cui il Lawrence Wylie Award for French Cultural Studies. Conosciuta principalmente per le sue ricerche sulla letteratura e cultura francese del XIX, XX e XXI secolo, la sua attività si è concentrata in modo particolare sulla storia urbana e rivoluzionaria, sulla teoria, la politica, l’ideologia e la cultura popolare. Lusso comune. L’immaginario politico della Comune di Parigi è la sua prima opera tradotta in italiano.

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“La barricata del maggio 1871”, dipinta olio su tela nel 1911 da André Devambez. Mondadori Portfolio

condividono queste due storiografie è il desiderio di attribuire ai comunardi un qualche ruolo all’interno di un paradigma narrativo essenzialmente edificante. In entrambi gli approcci le morti dei comunardi sono le morti di martiri: i comunardi sono morti perché i bolscevichi potessero imparare dai loro errori e “fare la rivoluzione per bene”, oppure sono morti nel tentativo di “salvare” quella Repubblica francese che era nata timidamente poco prima. Io non li considero assolutamente dei martiri. I comunardi furono semplicemente delle persone che cercarono di lavorare insieme per amministrare in comune i loro interessi secondo i principi dell’associazione e della cooperazione. E se l’evento della Comune appartiene a una qualche sequenza del divenire storico, non si tratta di una sequenza evolutiva, edificante e progressiva, ma piuttosto di una più imprevedibile e distruttiva. L’IMPATTO DELLA TRAGEDIA

Nessuna rivoluzione è sembrata seguire più alla lettera della Comune le leggi generali della tragedia classica: l’unità di spazio, tempo e azione. Confinata geograficamente all’interno delle mura della città per soli 72 giorni, la Comune sembra essere una storia locale,

un evento urbano, il cui straordinario numero di morti, però, può da solo giustificare l’espressione “di proporzioni tragiche”. L’impacciato tentativo dello Stato di disarmare i lavoratori parigini, dopo una altrettanto impacciata guerra contro la Prussia dagli esiti disastrosi, fallisce. Si dichiara la Comune, lo Stato si ritira. La temporalità politica dello Stato è brevemente interrotta e poi, dopo 72 giorni e il massacro di migliaia di lavoratori nelle strade di Parigi, torna nuovamente in vita. Il problema con questa storia, per come è tradizionalmente raccontata, è che se si inizia con lo Stato, si finisce con lo Stato. Questa diventa la storia di uno Stato. Così, per la mia storia ho deciso un inizio e una conclusione differenti. Invece che con il tentativo dello Stato di prendere i cannoni dei parigini il 18 marzo, faccio iniziare il mio racconto della Comune con le assemblee operaie che fiorirono in tutta la città alla fine dell’Impero. Gli inizi sono davvero molto importanti. Nel caso della Comune, il collocare l’inizio nel mezzo della cultura profondamente internazionalista delle assemblee operaie permette di far saltare in primo piano l’aspetto profondamente non-nazionale dell’immaginario comunardo. Un simile inizio allontana il rischio di

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LE RIVOLUZIONI FRANCESI

L’incendio del municipio di Parigi nel 1871, una delle giornate più turbolente della Comune. Mondadori Portfolio

ricercare un nesso causale con le circostanze di una guerra condotta contro una potenza straniera, e rende anzi questa guerra solo un momento di quella che in realtà era una guerra civile ancora in corso. Furono le assemblee operaie tenutesi alla fine dell’Impero a creare e a diffondere l’idea di una comune sociale: il desiderio di sostituire un governo composto da traditori e incompetenti. Questa comune sociale rappresentava, in parte, una forte richiesta di autonomia locale. Ma si trattava di un’autonomia locale concepita fin dall’inizio come una singola unità all’interno di una federazione internazionalista di comuni – i comunardi la chiamarono “Repubblica Universale”. Assente da tutto questo è, ovviamente, la nazione. La scala di grandezza prediletta dall’immaginario della Comune era allo stesso tempo più ridotta e molto più ampia di quella della nazione. Come Gustave Courbet scrisse a sua madre nell’aprile del 1871, «Parigi ha rinunciato a essere la capitale della Francia». La bandiera della

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Comune era la bandiera della Repubblica Universale, e uno dei suoi primi decreti fu quello di ammettere al suo interno tutti gli stranieri. L’ONDA LUNGA DI UNA “STORIA GOTICA”

E per quanto riguarda le conclusioni? È molto facile finire per essere rapiti, in maniera terrificante, da ciò che Flaubert definì la “goticità” della Comune – espressione con la quale presumo che si riferisse agli orrori atroci della Settimana di Sangue e del massacro di migliaia di lavoratori che segnarono la fine della Comune. Due studi recenti sulla Comune (entrambi opera di storici) sono fissati sul suo esito sanguinario – uno empiricamente conta e riconta il numero dei morti, l’altro racconta lo spargimento di sangue nella sua interezza. Dal canto mio, non intendo assolutamente minimizzare il significato del massacro – a dire il vero, ritengo che lo sforzo straordinario compiuto dalla borghesia per eliminare uno a uno ed en bloc il


“La presa di Parigi”, maggio 1871. Litografia a colori di Barousse, XIX secolo. Mondadori Porfolio

proprio nemico di classe rappresenti l’atto fondativo della Terza Repubblica. Ma ho voluto piuttosto rintracciare e documentare quel che considero essere il prolungamento della Comune – la maniera in cui le idee comunarde continuarono ad essere elaborate dopo la fine della Settimana di Sangue, quando, in esilio, i comunardi superstiti si incontrarono e iniziarono a collaborare con persone che, dal canto loro, non potevano più pensare o lavorare al di là dell’eco suscitata dalla Comune e dai suoi ideali (da Marx al geografo radicale Kropotkin, fino al socialista inglese William Morris). Con ciò intendo dire che l’onda d’urto della Comune in quanto evento, insieme alla relazione instaurata con i suoi superstiti, ha cambiato molto sensibilmente il metodo di questi pensatori. Ha modificato le questioni che presero in considerazione, i materiali che selezionarono, l’orizzonte intellettuale e politico in cui si mossero – in breve, ne ha cambiato il percorso. Questo non ci dovrebbe sorprendere.

Di per sé, la lotta crea nuove forme politiche, nuovi modi di essere e una nuova comprensione teorica di tali modi e forme. Il pensiero e la teoria di un movimento particolare si sprigionano solo insieme e dopo il movimento stesso. Le azioni producono i sogni, non viceversa. UN ESPERIMENTO PER IL FUTURO

La grande sfida teorica che nell’immediato prese forma sulla scia della Comune ruotava attorno alla questione di una “forma-comune” rivitalizzata: come riuscire a pensare insieme, da un lato, l’incredibile insurrezione avvenuta in una grande capitale europea, e, dall’altro, la persistenza di forme più antiche di proprietà comune presenti nelle campagne. Come disse Kropotkin, «dopo il 1871, la comune libera è per l’avvenire il mezzo e il contenuto per la realizzazione delle idee del socialismo moderno». Kropotkin, insieme ad amici e compagni come il geografo comunardo Élisée

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Parigi, 16 maggio 1871: i comunardi abbattono la Colonna Vendôme, «simbolo di forza bruta e di falsa gloria». Mondadori Portfolio

Reclus e William Morris (il principale sostenitore della memoria della Comune in Inghilterra), Marx e altri ancora, erano tutti ossessionati dall’esistenza “anacronistica” di forme e modi di vita pre-capitalistici nella loro contemporaneità. Il destino dell’obshina (quella forma russa di proprietà comune agricola che aveva resistito per secoli) rappresentava allora in Occidente un punto di riflessione centrale per molti socialisti. Questi pensatori erano tutti quanti estremamente attenti a quelle che potremmo chiamare le “increspature temporali” – momenti nei quali la continuità compatta della modernità capitalistica sembra aprirsi come un uovo. E all’interno delle comunità degli esuli comunardi presenti a Londra e in Svizzera durante gli anni Settanta dell’Ottocento, queste figure dettero vita a una produzione teorica coerente utilizzando due parole d’ordine della Comune: decentralizzazione e partecipazione. In che maniera si poteva smantellare il mercato internazionale, come decentralizzare le attività produttive? Kropotkin, per

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esempio, intravedeva grandi possibilità per l’avvenire nella persistenza, nel pieno progresso della modernità, di ciò che i francesi chiamano “petits métiers”: cioè, quei mestieri e quei lavori artigianali che superano la separazione tra città e campagna, o che fioriscono quando la grande industria viene decentralizzata. Per molti versi l’obiettivo era quello di una sorta di autosufficienza regionale non ripiegata su se stessa. L’interesse per la questione della partecipazione può essere invece rintracciato nella loro concentrazione sul problema della grandezza di scala: quella di unità sociali che, a differenza, ad esempio, della fabbrica, avessero una più ampia base sociale, e che includessero al proprio interno i bambini e gli anziani, i disoccupati, gli animali. Unità sociali che, però, fossero allo stesso tempo abbastanza piccole da permettere a ciascuno dei suoi membri di prendere parte alla definizione dei dettagli della vita quotidiana. Proprio questa condizione, a proposito, rappresentava per William Morris la definizione di felicità.


LUSSO COMUNE E SPLENDORI FUTURI

A differenza della richiesta della “Repubblica Universale”, “lusso comune” non fu uno slogan molto ripetuto durante la Comune. Ho trovato questa espressione nascosta nell’ultima frase del manifesto steso sotto la Comune dagli artisti e dagli artigiani riunitisi per organizzare una federazione. Per me è diventata una sorta di prisma attraverso cui far rifrangere una serie di invenzioni e idee chiave della Comune. L’autore di questa espressione, il poeta e artista decorativo Eugène Pottier, ci è oggi noto soprattutto come l’autore dell’Internazionale, la canzone composta alla fine della Settimana di Sangue prima ancora che il sangue dei massacri compiuti si fosse asciugato. In realtà, il contributo di Pottier alla Federazione degli Artisti è stato oscurato dalla maniera in cui l’attenzione degli studiosi si è concentrata sul suo compagno assai più noto, il presidente della Federazione, Gustave Courbet. Gli studiosi sono stati catturati dal pathos di Courbet, ritenuto fra l’altro finanziariamente responsabile per la distruzione della Colonna Vendôme, e hanno ignorato Pottier. Ma se mettiamo da parte Courbet, possiamo cominciare a intravedere la maniera in cui Pottier e la Federazione riuscirono a rovesciare la gerarchia presente al cuore del mondo artistico; una gerarchia che riconosceva grandi privilegi, status e vantaggi economici alle belle arti – vantaggi che gli artisti decorativi, gli attori teatrali e gli artigiani qualificati non ebbero modo di condividere durante il Secondo Impero. Il Manifesto della Federazione finisce con questa frase: «Lavoreremo insieme per la nostra rigenerazione, il lusso comune, gli splendori futuri e la Repubblica Universale». Ciò che Pottier e gli altri artisti intendevano con “lusso comune” era qualcosa di simile a un programma per la “bellezza pubblica”: il miglioramento del contesto di vita nei piccoli paesi e nelle città, il diritto di ciascuno a vivere e a lavorare in un ambiente piacevole. Una richiesta che può sembrare trascurabile, o persino “decorativa”, ma che in realtà abbraccia una completa riconfigurazione della nostra relazione non solo con l’arte, ma anche con il lavoro, i rapporti sociali, la natura e i contesti di vita. “Lusso comune” significa che arte e bellezza sono accessibili a tutti, integrate nella vita di ogni giorno, e non nascoste nei saloni privati o concentrate nella oscena monumentalità nazionalistica. Il mondo è diviso tra quelli che hanno il lusso di giocare con le parole e con le immagini, e quelli che non ce l’hanno. Il lusso comune supera questa divisione. Come i comunardi

resero chiaro praticamente, le risorse e le realizzazioni estetiche di una società non avrebbero più preso la forma di quella che Morris definì «quel pezzo di tappezzeria napoleonica», la Colonna Vendôme. ECOLOGIA ANTE LITTERAM?

Nell’aldilà della Comune, nelle attività portate avanti da Reclus, William Morris, Kropotkin e altri ancora, ho mostrato in che maniera la pretesa stessa che l’arte e la bellezza fiorissero nella vita di tutti i giorni contenesse i contorni di un insieme di idee che oggi definiremmo “ecologiste”, e che possono essere rintracciate nella sensibilità ecologica presente, per esempio, nel “concetto critico di bellezza” di Morris, oppure nell’insistenza di Kropotkin sull’importanza dell’autosufficienza regionale. Nei suoi esiti più speculativi, il concetto di “lusso comune” implica una rete di criteri o di sistemi di valutazione, alternativi rispetto a quelli di mercato, per decidere che cosa una società può considerare prezioso. La natura è qui considerata non come una scorta di risorse, ma come un fine in se stessa. Solo di recente i teorici dell’ecologia hanno iniziato a scoprire come questo gruppo degli anni Settanta del XIX secolo produsse un corpus concettuale anti-capitalista ed ecologista, che morì con la loro generazione e che venne nuovamente ripreso solo un secolo più tardi, negli anni Settanta del Novecento. Ma gli ecologisti odierni troppo spesso mancano di vedere quella connessione, di cui mi sono occupata nel libro, tra la direzione ecologista del pensiero di quella generazione e l’esperienza della Comune compiuta solo qualche anno prima dai suoi esponenti. I FAUTORI DELLA “CONDIVISIONE”

Il concetto di “lusso comune”, inoltre, presentava anche un lato polemico. Si tratta di una dimensione che potrebbe esserci utile oggi, mentre vediamo gli Stati redistribuire la ricchezza a favore dei più ricchi in nome dell’austerità. Il “lusso comune” lottò contro il miserabilisme con cui i versagliesi cercarono di raccontare alla gente delle campagne che cosa stava succedendo tra i comunardi che avevano occupato Parigi. Il nome denigratorio che essi usavano per definire i comunardi era “partageux” o “fautori della condivisione”. Condivisione, nella propaganda versagliese, poteva significare solo una cosa: la condivisione della miseria. Il “lusso comune” rispondeva con l’assurda concezione che ciascuno aveva il diritto ad ottenere la propria parte del meglio. (Traduzione di Sebastiano Taccola) ■

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EXIBITION

THE

FAMILIES OF MAN

La fine della modernità, il mondo connesso, la pandemia. Cinquanta grandi fotografi in mostra al Museo Archeologico Regionale di Aosta, dal 29 maggio al 10 ottobre 2021. Elio Grazioli e Walter Guadagnini

L La mostra è promossa dall’Assessorato Beni culturali della Regione Autonoma Valle D’Aosta. Il progetto è ideato e realizzato da Electa, editore del catalogo, ed è a cura di Elio Grazioli e Walter Guadagnini. mostrathefamiliesofman.it

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’anno 2020 resterà sicuramente una data storica. Mentre minaccia la nostra salute, il virus cambia la nostra vita, dalla dimensione macrosociale a quella personale, esistenziale. “Dopo” tutto sarà diverso. Ebbene, sono mesi in cui queste considerazioni accomunano l’intero pianeta: è forse il momento opportuno per tentare di fare il punto della situazione. Al centro ci mettiamo l’uomo, questa è la ragione per cui abbiamo voluto richiamare nel titolo la più famosa mostra fotografica sull’argomento: The Family of Man (1955). La nostra impostazione, affermata attraverso la semplice messa al plurale del termine “Family”, è evidentemente diversa. La struttura della mostra odierna reimposta quella visione biografica in una chiave più esplicitamente sociale, all’interno della quale la condizione dell’uomo è costantemente posta in relazione con l’evoluzione della società. Attraverso autori esclusivamente italiani – dagli storici Ghirri, Dondero, Basilico, Berengo, ai più giovani sperimentatori – essa si sviluppa lungo due assi, quello cronologico e quello tematico, che si intersecano per dare vita a una narrazione per immagini di alcuni sviluppi della società negli ultimi trent’anni. Tre sezioni scandiscono l’asse cronologico: la prima prende avvio dalla data simbolica del 1989, la caduta del muro di Berlino e l’inizio di una nuova epoca, fino al 2000, non solo perché inizia un nuovo secolo e millennio, ma perché nell’anno seguente un altro evento epocale segna una discontinuità che ha valore globale; questa seconda sezione arriva fino al 2019, ovvero alla soglia dell’esplosione della pandemia, su cui è incentrata la terza sezione. A tale suddivisione cronologica corrisponde l’individuazione di alcune aree macrotematiche che coinvolgono ogni aspetto della società, e, di conseguenza, ognuno di noi, a prescindere dagli specifici interessi di ognuno: politica, economia, società, made in Italy, tecnologia, religioni, ecologia, gender, virtuale. Le ultime due voci sono Covid 19 e ripartenza, perché non possiamo non pensare fin da subito a come sarà e a come vorremo che fosse il dopo.


Immagini connesse e seeing machines. Lamberto Teotino, “Sistema di riferimento monodimensionale SDRM19, 2011”. © Lamberto Teotino


Dalla massa all’individuo. Fracesco Jodice, “Prado 2011” Courtesy dell’artista


Fashion e globalizzazione. Giovanni Gastel, “Vogue Spagna 1990”. © Giovanni Gastel


Nuovi modelli economici. Gabriele Basilico, “Milano. Ritratti di fabbriche, 1978-80”. Courtesy Archivio Gabriele Basilico


Il ripensamento dell’identità. Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini, “Family is a place of danger, 2014”. Courtesy Fondazione Palazzo Strozzi


Dal reale al virtuale, rivoluzioni ed economie. Paolo Woods e Gabriele Galimberti, “The Heavens, 002, 2015”. Courtesy Paolo Woods e Gabriele Galimberti


Made in Italy. Ferdinando Scianna, “Marpessa e Gemelle, 1987”. © Ferdinando Scianna


Questioni di genere. Francesca Catastini, “Petrus 01, 2018”. Courtesy dell’artista


La ripartenza. Paolo Ventura, “Monza 13.4. 2020”. Courtesy Matteo Maria Mapelli


CROSSOVER

L’IRRESISTIBILE ASCESA DELLE

RETI NEURALI

E di tutto quanto connesso all’AI: deep e machine learning, analisi predittiva, ground truth, robotica. Con una promessa ai lettori: Prometeo riserverà grande attenzione all’evolvere delle conoscenze e delle applicazioni in questo campo. Iniziamo oggi, con un brano tratto da “L’intelligenza non è artificiale”, per una panoramica completa e accessibile sull’argomento. Rita Cucchiara

L

’AI non è solo machine learning e deep learning, ma si compone di tante altre discipline, anche con più storia alle spalle. Un esempio è dato dagli studi sugli «agenti» mobili e intelligenti, ossia su elementi semplici che sono in grado di prendere decisioni e di agire, in relazione all’ambiente e a un dato obiettivo. Con tanti agenti semplici che cooperano si possono realizzare sistemi complessi estremamente intelligenti, emulando, per esempio, il comportamento di formiche o di api. Sono una grandissima forma di intelligenza collettiva. Non siamo i soli esseri intelligenti al mondo! Tutti i simulatori che abbiamo oggi si basano sugli agenti con cui possiamo emulare comporta-

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menti reali, per esempio le auto nel traffico, per insegnare sia agli uomini, sia a sistemi artificiali. Sono agenti cooperativi i cui modelli mettono assieme l’Intelligenza Artificiale e un’altra disciplina per noi fondamentale: l’ingegneria del software. Molte altre discipline sono, storicamente, le genitrici dell’AI, forse meno fumose, meno statistiche e più formali, come la logica, la pianificazione, i metodi di rappresentazione del ragionamento induttivo e deduttivo. Mentre questi modelli vogliono emulare la nostra intelligenza laddove da certezze si arriva a certezze – trovare la strada più breve, dimostrare un teorema, verificare al meglio molte condizioni in un sistema esperto – il machine learning vuole


emulare quella parte che non sappiamo neppure noi ben misurare, quella cioè che non conoscevamo prima e che ora forse sappiamo, o sappiamo fare, grazie all’apprendimento e alla memoria. LOGICA O SIMBOLICA?

Per anni si è sentito parlare di differenze tra AI simbolica e AI sub-simbolica, termini che non ho mai amato, per indicare l’AI basata su logica, regole e simboli rispetto all’AI basata sui numeri, sulla statistica, il machine learning e il deep learning. Pensavo che fossero termini obsoleti, ma recentemente li ho sentiti ripetere da una persona molto esperta di Intelligenza Artificiale che per spiegarne le differenze ha rincarato la dose dicendo che l’AI si divide in due: «quella basata sul ragionamento» e «quella basata sull’intuizione». Apprezzo questa volontà di sintesi, e la definizione mi piace perché mi fido più dell’intuizione che di tanto raziocinio.Il problema è che questa definizione non è vera. L’intuizione è un’idea veloce non corroborata dai fatti.

SIAMO PENSIERO VELOCE, E NON SEMPRE SIAMO STATI CONCEPITI PER RIFLETTERE “AAAI”, UN CONVEGNO EPOCALE NEL 2020

L’AI basata sul machine learning lo è eccome. In realtà un confronto giusto è quello che si fa spesso usando i termini «system 1» e «system 2», che troviamo nel bellissimo Thinking, Fast and Slow del premio Nobel per l’economia David Kahneman, un libro da leggere rigorosamente in lingua originale (se si vuole apprezzarne appieno lo spirito), un vero punto di riferimento, anche per noi che facciamo sistemi artificiali e non ci occupiamo di intelligenza umana. Kahneman ci dice che noi siamo pensiero veloce e non sempre siamo stati concepiti per riflettere. A volte il «system 2» è stato associato al fantastico capolavoro di Auguste Rodin Il pensatore, che è

presente al mondo in diverse copie e dimensioni (se volete vederne un’immagine, acquisita dal museo Rodin di Parigi, usate lo smartphone con il QR Code).

RICONOSCERE GLI OGGETTI DA QUALSIASI PUNTO DI VISTA, SENZA MEMORIZZARE Nel febbraio del 2020 a New York durante la conferenza AAAI, una delle ultime in presenza prima del Covid, Francesca Rossi, General Chair della conferenza, grande scienziata italiana emigrata negli Stati Uniti dov’è IBM AI Ethics Global Leader, ha organizzato una tavola rotonda che passerà alla storia (e che si può vedere su YouTube) fra Hinton, Bengio, LeCun, cioè i tre detentori del premio Turing, eKahneman, per discutere su dove va l’AI. Ora però non spaventatevi per i termini tecnici che seguono. Abbaiano, ma non mordono. Hinton ha discusso dei suoi nuovi modelli di Stacked Capsule Autoencoders, modelli di reti neurali non supervisionate e basate su reti generative. Il nome sembra un po’ un Supercalifragilistichespiralidoso di Mary Poppins, ma il contenuto è incredibilmente interessante. Non voglio scendere nei dettagli, ma quella di Hinton è una bella proposta, soprattutto per permettere all’AI di vedere e riconoscere gli oggetti da qualsiasi punto di vista senza dover memorizzare tutto, e per fare in modo di imparare anche da pochi esempi. Sono sicura che sono modelli da studiare e che presto diventeranno la prossima generazione di Intelligenza Visuale. In modo più ingegneristico LeCun, uomo Facebook, ha sostenuto la necessità di non andare solo su reti supervisionate con centinaia di milioni di esempi (che, tra l’altro, sono appannaggio solo dei grandi megalaboratori, come quelli di Facebook, appunto), ma di studiare reti selfsupervisionate, che imparano da sole soprattutto a predire il futuro. In sintesi ha affermato (con una traduzione non letterale) che «la previsione

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CROSSOVER è l’essenza dell’intelligenza, e noi umani impariamo il modello del mondo predicendo parte dell’input da altre parti, il futuro dal passato, il nascosto dal visibile, e qualsiasi parte occlusa da tutte quelle disponibili». IL BIAS COGNITIVO

Bengio è andato più sul teorico e, parlando di Intelligenza Generale, ha affermato che in realtà l’uomo ragiona con preconcetti (bias) e con assunzioni a priori; bisogna quindi creare un modello del mondo e fare in modo che la rete neurale evolva e lo impari.

IL FUTURO SARÀ DEL DEEP LEARNING, MA DI UN DEEP LEARNING PIÙ EVOLUTO Ha lanciato un assist a Kahneman dicendo che oggi l’AI è fantastica quando lavora nel «system 1», meno quando lavora nel «system 2». Il «system 1» non è solo intuizione ed emozione, è molto di più: è la parte della nostra intelligenza che è non volontaria e automatica. Come quando qualcuno ci dice 2 + 2 e noi rispondiamo 4. O come quando riconosciamo al volo nostra figlia. Non è che lo abbiamo intuito: è un riflesso incondizionato della nostra intelligenza sommata alla nostra memoria, che comunque è sempre lì nel cervello. Il «system 2» è quello razionale, logico, che fo-

calizza l’attenzione sullo sforzo mentale, ma è anche legato all’esperienza soggettiva dell’agente pensante, coinvolge le scelte, le espressioni del linguaggio, la concentrazione. Il deep learning va benissimo nel «system 1», soprattutto per la percezione – sappiamo tutti cos’è un camion di fronte a noi, e se lo vediamo ci spostiamo –, e deve evolvere anche nel «system 2» per permetterci ragionamenti complessi, soggettivi, con i nostri a priori. Il futuro sarà del deep learning, ma di un deep learning evoluto. BILLIONS OF DOLLARS

Ora però vorrei tornare a ciò che scrivevo in merito alla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) e alle prossime generazioni di AI. L’agenzia statunitense da oltre sessant’anni finanzia la ricerca avanzata – finalizzata ad avere un potenziale impatto nella Difesa americana –, soprattutto la ricerca pubblica nelle università, ma anche quella in collaborazione con le aziende nazionali. A volte centri universitari non americani possono partecipare in supporto, come avviene per i nostri progetti europei a cui possono prendere parte nazioni «amiche». DARPA fa rima con IARPA, l’Intelligence Advanced Research Projects Activity, che invece si occupa di progetti ad alto rischio più legati alla sicurezza della nazione. DARPA e IARPA hanno finanziato le più importanti ricerche mondiali degli ultimi decenni. La ricerca che ha portato Tesla e le sue «amiche» a pensare alla macchina a guida autonoma deriva dalla prima DARPA Grand Challenge del 2005; nessuno riuscì a vincere il

RITA CUCCHIARA Rita Cucchiara è dal 2005 docente di Sistemi di Elaborazione dell’Informazione presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dove è responsabile del Laboratorio Aimagelab e della futura “AI Academy”. Si occupa di Visione Artificiale e Deep Learning con più di 350 pubblicazioni sul tema. È membro del Consiglio dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) e dal 2018 Direttore per il CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) del Laboratorio Nazionale AIIS – Artificial Intelligence for Intelligent Systems. L’intelligenza non è artificiale (Mondadori) è il suo primo libro dedicato a lettori non specialisti.

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premio di un milione di dollari, ma l’anno dopo lo Stanford Racing Team fu in grado di assicurarsi il premio di 2 milioni di dollari per un veicolo autonomo capace di girare in un circuito nel deserto del Nevada.2

CERTO IL LAVORO CAMBIERÀ, E PER STARE SULLA GIOSTRA BISOGNERÀ STUDIARE MOLTO Pur senza esser troppo filoamericani non possiamo non apprezzare e invidiare spudoratamente i finanziamenti che gli Stati Uniti dedicano alla ricerca. Il nuovo programma che la DARPA ha annunciato alla fine del 2018 si chiama «AI Next», con altri 2 bilioni di dollari (sì, avete letto bene, non milioni come avviene in Italia, bensì bilioni, ossia miliardi) solo per creare la ricerca sui temi di un’Intelligenza Artificiale sicura, robusta, capace di comprendere il contesto, di non essere imbrogliata (adversarial learning). Sono gli stessi temi cui anche l’Europa e l’Italia stanno assegnando la massima priorità. Dove andrà l’AI non lo so. Non c’è un obiettivo unico. So che migliora giorno dopo giorno con il lavoro di tutti. Sicuramente non va nella direzione dei robot che mangeranno i bambini, degli alieni che invaderanno la Terra o dei sistemi che faranno perdere il lavoro. Certo il lavoro cambierà, e per stare sulla giostra bisognerà studiare molto. Studiare richiede fatica e passione. E molto denaro, enormi investimenti, pubblici e privati. Bisognerà studiare molto e progettare tantissimo. IL PROBLEMA DELLA MISURAZIONE

Come non sappiamo misurare l’intelligenza umana, così non sappiamo misurare quella artificiale. Il 19 febbraio 2020 la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha presentato a Roma il Libro Bianco sull’Intelligenza Artificiale. Un approccio europeo all’eccellenza e alla fiducia, un documento che ben riassume i pilastridella società europea e la nostra volontà

di progredire nel rispetto dei nostri valori. Il Libro Bianco tratta di come usare l’AI, di come produrla in Europa e di come valutarne l’adeguatezza dal punto di vista etico. La domanda sottesa al documento è una: possiamo creare un’AI etica by-design? Questa domanda ne implica molte altre. Come possiamo garantire un’Intelligenza Artificiale affidabile e senza rischi per poter dare un «bollino» europeo di AI «DOP» cioè fatta in Europa? Se non sappiamo misurare né definire neppure la nostra intelligenza naturale, che conosciamo meglio, come possiamo misurare le capacità e le potenzialità di quella artificiale? Come garantire che funzioni davvero? Come si misura la sua affidabilità? Questi algoritmi, che diventano programmi o sistemi, che diventano esseri virtuali in mondi virtuali o essere fisici come robot o oggetti smart nel mondo reale, come possono essere valutati? Non dare risposte a queste domande è estremamente pericoloso, quando pensiamo di mettere l’Intelligenza Artificiale in un sistema che aiuta un chirurgo mentre opera, un pilota che fa volare un aereo, o anche chi decide se dare o no un fido a un’azienda in una trattativa finanziaria. La consapevolezza dell’esigenza di misurare i risultati per noi ingegneri è un aspetto fondante.

FORTUNATAMENTE L’AI NON È MAGIA. MA SERVONO SEMPRE PIÙ CRITERI DI VALUTAZIONE Sapere quando abbiamo finito di trovare una soluzione, sia per vendere la soluzione stessa, sia per farla diventare uno standard sicuro. Il problema della standardizzazione dell’AI, del testing, della riproducibilità e, in generale, dell’affidabilità è una delle questioni cruciali dell’Intelligenza Artificiale. La ricerca sta procedendo velocemente; abbiamo risultati strabilianti, ma spesso non sappiamo valutarli con precisione. Fortunatamente l’AI non è magia e, come per

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CROSSOVER tutti i nostri sistemi, abbiamo modelli di valutazione: per esempio, abbiamo i crash tests per le macchine, siano esse computer o veicoli. Dobbiamo solo applicarli in larga scala. Oggi è in atto un lavoro molto profondo, a partire dalle istituzioni internazionali come l’Institute of Electrical and Electronics Engineers (IEEE) e dagli enti europei, proprio per capire quanto ci possiamo fidare dell’AI. INTELLIGENZA “DEGNA DI FIDUCIA”

Trustworthy Artificial Intelligence, si dice: Intelligenza Artificiale affidabile (o degna di fiducia). L’espressione viene usata anche in ambito filosofico, ma per me più prosaicamente significa quanto i risultati siano affidabili nel tempo e nella varietà delle istanze; e quanto siano riproducibili. Pensate all’impatto che potrebbe avere un prodotto di AI se potesse essere non solo sempre riproducibile, ma ancor più generalizzabile, ossia capace, come riesce l’intelligenza umana, di essere applicato a problemi simili. La generalizzabilità è un aspetto ancora non misurabile, ma è incredibilmente importante: vogliamo progettare la nuova generazione di sistemi intelligenti che, se riescono a risolvere un problema, possono estendere la stessa procedura anche per risolvere problemi simili.

PER L’ANALISI PREDITTIVA, SI CERCANO MODELLI GENERALIZZABILI ANALISI PREDITTIVA E BUSINESS

Uno dei campi più promettenti dell’AI è la predictive analyitics, l’analisi predittiva dei dati nel mondo industriale. A Modena stiamo lavorando con diverse aziende manifatturiere per predire il tempo di vita dei macchinari, l’usura dei componenti o i possibili malfunzionamenti. Anche nell’analisi predittiva si cercano modelli riproducibili e generalizzabili, che non debbano essere ripensati per macchinari diversi o situazioni produttive differenti, ma che possano essere applicati su larga scala, e magari in tutta la filiera di produzione.

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In questo ambito si fa ricerca in Italia e nel mondo; si tratta di uno degli argomenti più importanti nell’AI per la produzione industriale, e sarà certamente uno dei capisaldi della trasformazione digitale che ci aspetta. L’affidabilità della misura e la generalizzazione dell’AI sono le sfide del nostro futuro. Se, per esempio, un sistema di AI riesce a predire il malfunzionamento di una macchina di produzione di bottiglie di plastica, può fare lo stesso in una qualsiasi altra industria 4.0? Pensate a quanto è importante che un essere intelligente possa essere considerato tale in assoluto e possa risolvere una quantità di problemi, con versatilità. In ogni caso, che si tratti di riconoscere suoni, parole o immagini, o che si tratti di predire andamenti economici della Borsa o la rottura di un impianto industriale, di fornire una diagnosi medica o di prevedere una prossima inondazione o epidemia, come si fa a capire se il sistema artificiale funziona? QUOD EST VERITAS?

Non c’è storia: si fa come con gli esseri umani. Non ci sono teoremi da dimostrare, ma si verifica con i fatti. Si confrontano i risultati artificiali con quelli «certi», proposti da qualche esperto o da qualcuno che si è messo d’impegno a trovare le risposte in esempi campione, che si chiamano benchmarks. Le risposte formulate da umani attenti, o condivise da una moltitudine di esperti umani e artificiali, costituiscono la verità di riferimento, che in AI si chiama ground truth (un termine che in informatica non si traduce, ma che potrebbe essere reso con «conoscenza di base» o, come scritto sopra, «verità di riferimento»). Potremmo dire che non esiste la verità, potremmo citare Kant, che era convinto ci fosse la verità anche se noi non potevamo vederla, o Popper, il quale pensava che anche per caso si poteva ottenere la verità, ma mai la consapevolezza soggettiva di possederla. Filosofia e scienze cognitive studiano l’uomo, la sua mente e la sua intelligenza. A noi ingegneri basta una solida verità di riferimento. Non sappiamo se esiste la verità o se abbiamo certezze sui risultati di un’intelligenza. Okay, ma dal punto di vista ingegneristico qualcosa lo si deve dare per assunto: si prendono dei riferimenti che si devono ottenere o delle prestazioni di riferimento da superare. In molti casi il riferimento è quello


umano solo perché, al momento, ci sembra un buon termine di paragone. Per esempio (perché no?), le prestazioni del campione di scacchi Garri Kasparov o di Lee Sedol, campione di Go, battuti rispettivamente da Deep Blue nel 1996 e da Deep Mind nel 2016.

SE LA VERITÀ DI RIFERIMENTO È SBAGLIATA, LA RETE IMPARA MALE In casi più semplici si assume che esistono alcuni comportamenti intelligenti che l’uomo sa fare bene, e si usano come riferimento. Si usa come ground truth ciò che dice l’essere umano, la sua enciclopedia di riferimento, sperando non si sbagli. Se la verità di riferimento è sbagliata, o contraffatta, la rete impara male. Come un professore che dà le dispense sbagliate. IL RICONOSCIMENTO VISUALE

Facciamo un esempio: il riconoscimento delle targhe quando entriamo in un’area ZTL, una Zona a Traffico Limitato, e prendiamo una multa se non abbiamo l’autorizzazione. Anche questo è un esempio, come quello del riconoscitore vocale, risolto prima con metodi statistici di Pattern Recognition Hand-Crafted, cioè con soluzioni probabilistiche «fatte a mano», e in seguito risolto meglio con reti neurali profonde di solito convolutive (ve ne parlo dopo). Ho iniziato a studiare il problema attorno al 1995, quando a Bologna veniva inaugurato Sirio, il primo sistema con «telecamere intelligenti» (ma all’epoca per niente intelligenti). Ci abbiamo lavorato a Reggio Emilia più di dieci anni dopo, quando il software di riconoscimento targhe era diventato assai diffuso, e si iniziava, a livello italiano e internazionale, a porsi il problema della standardizzazione. In quel caso il benchmark era un insieme di migliaia di targhe che la motorizzazione civile aveva raccolto, prima solo di giorno, poi, a mano a mano che gli algoritmi imparavano meglio, anche di notte e persino con la nebbia. Si verificava – e si verifica – il software in termini di accuratezza, di recall

(quanti risultati buoni si ottengono rispetto a quelli che ci sono, ossia quanti pochi «falsi negativi» ci sono) e di precision (se abbiamo pochi «falsi positivi», ossia se quel che troviamo è solo il risultato giusto o troviamo anche quelli fake), sempre paragonandolo con ciò che l’essere umano è in grado di conoscere per verità di riferimento, ground truth appunto, il valore corretto. All’epoca bisognava rifare il software per ogni tipo di targa diversa, quella italiana, quella francese, quella thailandese ecc. Oggi con le reti neurali il problema è più o meno risolto. Le attuali soluzioni di AI sono così robuste che ottengono per questo caso specifico una visione «super-umana», cioè superano di gran lunga le capacità umane di riconoscimento, da vicino e lontano, con targa sporca o in movimento, semplicemente perché hanno imparato così tanto e hanno acquisito talmente tanti esempi – centinaia di migliaia – che hanno affinato così bene i pesi all’interno dell’algoritmo da sbagliare difficilmente.

CON LE RETI NEURALI SI ARRIVA AL 99% DI UN RICONOSCIMENTO VISUALE Adesso il riconoscimento delle targhe è solo poco più di un esercizio per i miei studenti. Se ci pensate, è una cosa abbastanza intelligente che un sistema artificiale possa vedere un’auto passare, riconoscere dov’è la targa e leggere, magari anche in condizioni di luci avverse, quali lettere e quali numeri essa contenga. Una rete inizialmente fa la detection, ossia trova l’area dell’immagine che contiene un’auto; una seconda rete all’interno di questa trova un pattern visuale che assomiglia a quello di una targa, e una terza raffina la vista e focalizza il campo recettivo di parte dei neuroni su un carattere per volta. Con un modello di classificazione tutto sommato semplice, come quello delle banane e delle arance, ogni carattere o cifra viene riconosciuto. Con un software statistico di prima generazione di OCR (Optical

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CROSSOVER Character Recognition), come il famosissimo Tesseract di Google, si potevano ottenere risultati che potevano garantire solo un 60-62 per cento di accuratezza; con le reti neurali del 2015 si arriva al 99 per cento circa. Gioco fatto. Multa inevitabile. IL RICONOSCIMENTO VOCALE

Di benchmarks per la visione ce ne sono tantissimi, ed elencarli tutti sarebbe noioso, ma i miei studenti li conoscono bene e li usano con cognizione di causa. Sono felice che non siano solo materia universitaria, ma che per molti di loro siano diventati una professione, tanto da crearne startup serie e affermate. La stessa cosa accade per la voce: non esiste modo per dire a priori che questo sistema è abbastanza intelligente da capire il tuo modo di parlare, ma i costruttori si confrontano, a partire dal Duemila, con un benchmark che si chiama Switchboard (e le sue evoluzioni): un insieme di file audio che contengono registrazioni telefoniche e conversazioni su temi diversi, dalla politica all’economia, dalla cucina allo sport.

ORA, CON IL DEEP, LE RETI CAPISCONO TUTTE LE LINGUE DEL MONDO Queste conversazioni sono trascritte e ne conosciamo la ground truth, fatta da umani attenti, con cui tutti i ricercatori del mondo e le grandi aziende si confrontano e fanno a gara. I sistemi di AI non sono infallibili, come non lo siamo noi al 100 per cento, e dobbiamo misurare il tasso di errore sperando che sia vicino allo zero. Riportando dati di Hinton nel 2012, dopo un addestramento di circa 300 ore, gli HMM «vecchia maniera» ottenevano circa un 27 per cento di errore (Word Error Rate, WER) contro il circa 18 per cento di errore con le nuove reti neurali. Su Google Voice, con un addestramento di 5400 ore, sempre nel 2012 si scendeva al 12 per cento di errore. Vuol dire sbagliare una parola ogni dieci circa: non male. Ecco la potenza della

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forza bruta delle grandi quantità di dati. Recentemente, con modelli nuovi che si chiamano «reti end-to-end», cioè tutte reti neurali addestrate da zero, fatti di neuroni al 100 per cento, Google ha annunciato nel dicembre del 2019 di essere scesa sotto la soglia del 6 per cento di errore nella comprensione della lingua inglese; considerando il tasso di errore medio umano del 5 per cento, ci stiamo davvero avvicinando alle prestazioni umane. Ora, grazie al deep learning, le reti capiscono tutte le lingue del mondo. Durante l’Umanesimo Pico della Mirandola, un altro delle mie parti, fu venerato come poliglotta perché conosceva perfettamente il latino, il greco, l’ebraico, l’aramaico, l’arabo e il francese. Guardate che bello il Ritratto di Pico che si trova agli Uffizi (lo vedete con il QR Code). Che dire ora di DeepL Translator, software di un’azienda tedesco-americana, capace di sfidare Google sul suo stesso terreno, o di tante altre aziende che forniscono assistenza alla traduzione in tutte le lingue del mondo? O dei grafi semantici che permettono di collegare concetti simili tra loro anche in temi assai particolari, come quelli proposti da Babelscape di Roma che ora stiamo utilizzando anche al CINI Lab AIIS per analizzare i dati scientifici dell’AI italiana (bell’esempio di un’intelligenza che analizza l’intelligenza!). O dei nuovi risultati dei grandi centri di ricerca di Facebook che recentemente hanno presentato sistemi pesantissimi, «muscolari» direi, di M2M (Machine to Machine Translation), che, addestrati su tutti i dati di Facebook, sono capaci di tradurre cento lingue in altre senza passare dall’inglese, migliorando assolutamente la qualità della traduzione. IL POTERE DI DECIDERE

Il problema dell’affidabilità dell’Intelligenza Artificiale non è ancora risolto, ma una cosa certa è che in alcuni ambiti noi esseri umani siamo la pietra di paragone e l’uomo è ancora il fulcro delle decisioni. Non so quanto durerà questo stato di cose, perché in molti campi sappiamo di non sapere e di sbagliarci: presto un’AI sarà pronta a misurare la nostra intelligenza. Per ora non solo siamo i precettori dell’AI che formiamo con i nostri dati e i nostri esempi, ma ne siamo anche i giudici. Teniamoci stretti questi privilegi. ■


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VERBA VOLANT

Il lu ngo viaggio delle parole

Un recente studio tedesco lo ha verificato: tutte le strade portano a Roma. La stessa cosa vale per molta parte del nostro lessico, che affonda nei meandri della civiltà latina. Non solo fatto linguistico ma anche intreccio di storie suggestive che scivolano tra i millenni, a volte con pacifica irriverenza.

Oscillare

Quando incontriamo termini dotti, strani e ricercati, non c’è una sola persona che non si interroghi sul loro significato profondo e sulla loro origine. Sono vistosi. Le parole comuni, invece, riescono spesso a passare del tutto inosservate, e possono contrabbandare porzioni notevoli dei nostri significati e della nostra storia senza destare il minimo interesse. Prendiamo una parola fondamentale per il lessico italiano, e con una vocazione globale, visto che dal latino i suoi omologhi sono fioriti nelle maggiori lingue europee e versatile, rilevante tanto nella vita più quotidiana e comune quanto in fisica, in psicologia, in ingegneria, in meteorologia, in economia. Oscillare. L’oscillum era un genere di piccola scultura, di vari materiali (quelli che ci sono arrivati sono di pietra), con funzione votiva, da consacrare alle divinità specie durante le feste in loro onore - celebrazioni dei Lari, o tradizionalmente legate ai cicli dell’agricoltura. Però ebbero anche una specifica funzione apotropaica, per tenere lontani gli influssi maligni.

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In certi autori antichi sono raccontati come simulacri impiegati per placare le anime delle persone morte impiccate, e c’è chi pensa possano essere sublimazioni incruente di antichi e dimenticati sacrifici umani. Il più delle volte questi oscilla avevano la forma di un disco, e avevano spesso fattezze antropomorfe: maschere, o figurine umane, o sovrumane. Il loro nome è un diminutivo di os, termine minuto e di ramificazione indoeuropea (dal sanscrito all’ittita all’irlandese antico) che significa propriamente “bocca”, e che per sineddoche diventa il volto e la persona. Fin qui sembra un termine specifico dell’archeologia - quasi nome di vaso, di moneta. Che cosa avevano di speciale che ne ha spalancato il respiro? Virgilio, nel secondo libro delle Georgiche, rivolgendosi a Liber, doppelgänger di Bacco, canta: «tibique oscilla ex alta suspendunt mollia pinu» (e a te appendono agli alti pii oscilla molli). Venivano appesi con fili e nastri alle fronde di alberi sacri, o davanti ai templi o alle case: così, quando si alzava il vento dondolavano mollemente... oscillavano. Un verbo al primo sguardo così comune, anonimo, perfino poco incisivo, è ispirato dall’ondeggiare morbido nel vento


di una scultura - oscillare dell’oscillum - sospesa a rami e travi secondo un’usanza così antica e anticamente consueta che è difficile discernerla, anche perché non sono troppe le fonti che ne parlano. In latino il verbo oscillare non emerge presto, ma solo nel I secolo, e tardi viene recuperato in italiano, fra Sette e Ottocento, specie in ambito scientifico: un movimento alternato in due versi contrari, un dondolare più o meno regolare. Un avanti e indietro che invita l’uso figurato (osteggiato, inizialmente) del variare fra un massimo e un minimo, o nell’indecisione, nell’incertezza. Regge la concezione degli oscillatori degli orologi atomici e delle oscillazioni delle stelle di neutroni, ma scaturisce da lì: le vedete le grandi querce, isolate, e gli olivi, e i pini carichi di medaglioni che oscillano nel silenzio frastagliato solo dallo stormire delle foglie, sentite la magia di quei semplici volti intagliati nel legno per attrarre sui campi il favore di Bacco, di Tellus, di Cerere? Vedete, ai crocevia, agli ingressi e negli atrii delle case, le effigi di schiavi e bambini che ai Lari si chiedeva di proteggere, e nel vento che li muove il tocco del nume? Che sapore prende, così, la parola oscillare?

Fascino

Forse qualcuno crede che per trattare questa parola si debba iniziare parlando di gente elegante e carismatica, dall’eloquio accattivante e dai modi attraenti con qualche tratto ombroso. Invece si deve cominciare dall’invidia e dagli antichi amuleti romani a forma di pene. Guardando ai primi usi della parola “fascino” in italiano (quattrocenteschi), si resta un po’ interdetti, perché lì è un influsso malefico che procede dall’invidioso all’invidiato. In altri termini, se io ti affascino, allora io ti faccio il malocchio. Questo fascino inteso come malìa, come stregoneria malefica, è preso dal latino. In latino, però, il fascinus o fascinum ha un’ambivalenza: è tanto il maleficio d’invidia quanto l’amuleto che lo scongiura - in una sorta di enantiosemia. Il dato pudicamente taciuto dalla quasi totalità dei dizionari etimologici (che forse non vogliono farci arrossire mentre chiudiamo tra le pagine una viola a seccare) è che tale amuleto scongiurava con un simbolo fallico.

ETIMOLOGIE QUOTIDIANE “Una parola al giorno” è un servizio di divulgazione linguistica online. Nato a Firenze nel 2010 con l’obiettivo di ampliare in maniera piacevole la qualità del lessico dei suoi iscritti, propone ogni giorno una parola, spiegata e commentata nei suoi significati, nella sua storia, nei suoi usi. In questi undici anni, UPAG ha elaborato una formula d’intrattenimento capace di diventare abitudine alla riflessione linguistica e di avere avere quindi un impatto profondo sul pensiero. Raduna una delle comunità più ampie e vivaci del campo, con diversi autori e con oltre 100mila iscritti in Italia e all’estero. Per ricevere la parola del giorno via mail ci si può iscrivere: unaparolaalgiorno.it Giorgio Moretti, che ha steso questi testi, ne è co-fondatore e autore principale.

La superstizione a Roma era un affare molto serio, il malocchio un timore costante: se gli alberi si caricavano di frutti promettenti, se il raccolto lussureggiava, era necessario piantare rappresentazioni di falli a deflettere gli incantesimi dei cattivi sguardi: Sant’Agostino si scandalizzava per la festa del dio Liber (lo rammentavamo sopra) in cui veniva portato un fallo in processione, e le pie matrone dovevano porre corone su quel... «membro inhonesto». Di fascini, di piccoli amuleti a forma di fallo da indossare o da appendere come tintinnabula – sonagli fatti tintinnare dal vento, sopra gli ingressi a negozi e case, non troppo differenti dagli oscilla – ce ne sono arrivati in grande quantità, erano amuleti fra i più diffusi. In italiano i riferimenti fallici del fascino sono residuali, tendenzialmente legati all’antichità e al dio Priapo (anche noto come “Fascinus”). Ma se in latino c’era questa marcata doppiezza maleficio/amuleto, l’italiano ne ha sviluppata un’altra, che si è via via riassorbita facendo scomparire dal campo del fascino l’accezione maligna. Fra Cinque e Seicento il fascino – che prima dunque era un influsso malefico esercitato dall’invidioso – diventa un

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ETIMOLOGIE richiamo, un’attrattiva, un potere di seduzione. È il fascino che conosciamo oggi, il fascino della persona dai modi squisiti, il fascino di chi parla in maniera appassionante, il fascino di un’ambientazione d’altri tempi: un influsso che ha invertito il suo verso, perché oggi è quello avvincente di chi o ciò che è al centro dell’attenzione, verso chi lo ammira e ne è rapito. Sembra sempre un influsso magico. Maleficio e pène deflettore, invidia e richiamo: nel fascino c’è un gioco borgesiano millenario di significati opposti e speculari. E se ci si sgancia dalla superstizione, ci ritroviamo sotto un cielo in cui l’attrazione del fascino è solo un metro sottile di bellezza.

Ve s pasiano

Pur se indica l’orinale pubblico, siamo davanti a un termine favoloso, dall’origine arcinota, ma arcinota in maniera spesso vaga ed erronea - e con dei risvolti inattesi. Non servono ingegni alati per immaginare che il nome imperiale “vespasiano” per indicare un orinatoio pubblico non può essere un uso latino coevo all’imperatore Tito Flavio Vespasiano: sarebbe stato irriverente. Eppure tutto inizia da un curioso, stretto e frainteso rapporto fra questo imperatore e l’urina. Nel 69 d.C. la situazione politica a Roma non era stabile. Nerone l’anno prima era stato deposto e si era ucciso, era scoppiata una breve guerra civile che aveva visto succedersi quattro imperatori in tredici mesi - Galba, Otone e Vitellio, minuscoli nomi sui manuali delle superiori, e quindi Vespasiano. Egli non solo fu un generale capace, stimato e apprezzato, ma fu il primo imperatore propriamente detto, consapevole del proprio nuovo ruolo (fino ad allora informale), e mise nero su bianco i propri poteri con la Lex de imperio Vespasiani. Soprattutto, però, si rivelò eccezionalmente abile nel risanare i conti pubblici - qualità più unica che rara, nella storia imperiale. Il fatto è che l’urina a Roma era una grande risorsa (e lo era anche nelle nostre industriose città medievali, ma è un’altra storia). Vi erano ricche produzioni tessili che ne impiegavano l’ammoniaca in lavaggi e tinture, ed era un vero peccato lasciare gratis agli imprenditori quella che riuscivano a raccogliere. Infatti quello che

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fece Vespasiano non fu, come si sente spesso dire, creare orinatoi pubblici per rendere decorosa la città, ma porre una tassa sulla raccolta imprenditoriale dell’urina. In un famoso aneddoto si racconta che il figlio di Vespasiano, il futuro imperatore Tito, trovasse indecoroso questo lucro, al che il padre gli fece annusare i denari guadagnati. Pecunia non olet, il denaro non puzza. Ma allora come si passa agli orinatoi? Dobbiamo lasciare il fondatore della dinastia flavia e proiettarci nell’Ottocento. Stavolta sì, come luoghi necessari al decoro urbano, si inizia a leggere di “monumenti vespasiani”, o solo di “vespasiani”, come di orinatoi pubblici piazzati strategicamente nel tentativo di disciplinare la minzione per strada. Da allora questo nome giunge fino a noi, anche se al giorno d’oggi è sempre meno comune, e sempre più figurato, perché i vespasiani sono spariti insieme alle cabine telefoniche. La patata bollente della minzione fuori casa è stata passata agli esercizi pubblici, senza bisogno di edicole ad hoc. Ma come diavolo è risaltato fuori Vespasiano, dopo diciotto secoli? Qui sta la parte più bella e meno conosciuta della storia, che ci porta a Parigi. Nella prima metà dell’Ottocento Parigi era già una delle grandi capitali del mondo, e però aveva ancora un impianto urbanistico medievale che dal punto di vista dell’igiene (premura rampante) lasciava molto a desiderare. Nel 1834 fu nominato prefetto della Senna Claude-Philibert Barthelot, conte di Rambuteau, con idee chiarissime per la trasformazione della città: acqua, aria, ombra. Vie più larghe, alberate, con illuminazione artificiale, nuove fontane, nuove fogne. Fra le innovazioni che introduce per le vie della città ci sono quasi cinquecento edicole dotate di orinatoi. Magnifico, nevvero? Però subito la popolazione inizia a chiamarle “colonne Rambuteau”. Il nostro conte inorridisce: il suo nome legato per sempre ai pisciatoi?! Ma siccome è persona intendente, ne spinge un nuovo battesimo, altisonante e accattivante come solo le eco classiche sanno essere: colonne vespasiane (colonne vespasienne). I dotti sapevano che Vespasiano qualcosa con l’urina c’entrava, e risultava quindi un riferimento alto e gagliardo, piacevolmente in contrasto con la prosa dell’edicola. La nuova proposta attecchì splendidamente, e si diffuse anche da noi. Così un prefetto francese salvò il suo onorato nome da un’antonomasia pisciatoria, offrendo in sacrificio quello di un imperatore romano – che dopotutto non se l’è potuta prendere a male. ■


SCENARI MULTIPOLARI

TEATRI DI

NON-GUERRA Commercio di armi a gonfie vele, eserciti privati, milizie combattenti. Gli ingredienti del futuro bellico sono già tutti presenti. E se cambiassero le alleanze geopolitiche?

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Ennio Remondino

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SCENARI MULTIPOLARI

El Greco (1541-1614), “Laocoonte”, National Gallery of Art di Washington.

H

o smesso di frequentare conflitti armati da vicino da dieci anni e ora mi accontento di seguire le crisi violente nel mondo da lontano. Sempre tante, troppe, e non sempre facili persino da scoprire. Guerre che diventano meno crudamente conflitto, scontri armati, operazione antiterrorismo, difesa preventiva a giustificare l’aggressione. Oppure, se proprio la devi chiamare guerra, un tempo la facevi diventare “patriottica”, e adesso la travesti da intervento “umanitario”, o altro aggettivo giustificativo utile. Attorno alla parola guerra ruota il più micidiale equivoco dell’umanità. Quand’è che lo scontro tra gruppi armati ha diritto al titolo ufficiale di guerra? Neppure il vocabolario ci aiuta. Sono andato a controllare. «Guerra: scontro armato fra eserciti di due o più Stati», la definizione classica solo recentemente aggiornata. Sarebbero dunque soltanto gli Stati a poter fare le guerre. Se così fosse, l’ultima guerra vera combattuta sarebbe quella mondiale, la seconda. Eppure da allora abbiamo avuto centinaia di

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guerre o di gravi e diffusi scontri armati che forse non avranno diritto al titolo di guerra ma hanno aiutato, e molto, a incrementare il prodotto finale in vittime e distruzioni. Ho provato a contarle, quelle comunque note, perché ci sono anche tante guerre nascoste, e mi risultano più di 200, a numeri tondi. Guerre che spesso, stando al vocabolario, non possono essere chiamate guerre, ma che hanno prodotto decine di milioni di morti, feriti, mutilati e profughi, statistiche semiufficiali soprattutto Onu. IL NUMERO DI COMBATTENTI O DI MORTI

Secondo due professori americani, David Singer e Melvin Small, studio di fine secolo scorso, si può parlare di guerra se ci sono almeno 1000 combattenti impegnati e sono stati prodotti almeno 1000 morti. A 999 è una «quasi guerra»? Ironia che non è mancanza di rispetto per le vittime, ma amara consapevolezza di tante, troppe superficialità ed equivoci in una materia di crudele ma assoluta semplicità: la


differenza tra il vivere e il morire. Contraddicendo David Singer e Melvin Small, a fare la differenza non è il numero della gente che si scontra e si ammazza. La differenza fra una guerra ufficiale e la violenza di bande armate non è dunque legata alle dimensioni e ai numeri. Saranno le ragioni dell’uso della forza a fare la differenza? Il predone cerca il bottino mentre gli eserciti cosa cercano? Le legioni romane, e prima di loro gli eserciti greci o quelli persiani o egiziani o ittiti, dopo aver ucciso e depredato, imponevano ai popoli vinti le proprie regole, la propria lingua e, spesso, anche i propri dei. Oggi si prende petrolio o altre risorse e si esporta democrazia in diverse versioni nazionali. La guerra come atto di preda mascherato con un accorto uso delle parole. «La violenza meglio organizzata, quella che mette i suoi protagonisti armati dietro una bandiera, una parola d’ordine, una ‘idealpolitik’, è considerata un fatto da trasmettere agli altri, una tragedia che si consuma col massimo di ‘realpolitik’ in genere da nascondere o mitigare per poterla trasmettere alla Storia. Una guerra che non meriti un qualsiasi tipo di racconto finisce per non esistere». GLI ATTORI ‘NON STATALI’

Dal racconto ai documenti. Attori non statali, ma non armati: “Non-state actors, organizations and individuals that are not affiliated with, directed by, or funded through the government”. Gli attori non statali (NSA) fatti da organizzazioni e individui che non sono affiliati, diretti o finanziati da governi, almeno ufficialmente. Esempi classici, le corporazioni, gli affaristi, i gruppi di pressione, i gruppi religiosi, ma anche “violent non-state actors”, attori violenti non statali, in sigla VNSA. L’esempio più classico noto e vicino, l’ex Isis e la sue ormai molteplici filiazioni nel mondo: radunano in sé molte delle caratteristiche elencate. O gruppi criminali, ad esempio i cartelli della droga che segnano la sorte di interi Paesi per importanti regioni di interi continenti. Apparentemente più controllate e controllabili, le forze paramilitari come aziende: i contractors, come abbiamo ingentilito i mercenari oggi. Tutti abbiamo sentito dell’organizzazione statunitense Blackwater, oggi Academi, ricca azienda paramilitare privata in grado di coprire ruoli di eserciti statali che per opportunità politica non possono essere mobilitati. Eserciti veri, dotati di tutti gli armamenti pesanti e sofisticati necessari, e in grado di sostituire o fronteggiare forze armate ufficiali anche su vasti fronti di conflitto.

Altrettanto noto il gruppo di mercenari russi Wagner che, per il poco di certo a noi noto, abbiamo visto portare avanti frazioni di “guerra non statale” ma strategica in Siria e attualmente in Libia, e in chi sa quali altri luoghi nascosti ancora. Poi le filiazioni mercantili di organizzazione di guerriglia in varie parti del mondo, le varie fazioni di opposizione armata in Siria a jihadismo di intensità variabile che abbiamo visto esportare in Libia, arruolate dalla Turchia. Gli attori non statali armati operano senza controllo statale diretto (e spesso indiretto). “Destatualizzazione” dei conflitti significa che si accendono molto più all’interno degli Stati che non tra di essi, e mettono in campo non più eserciti ma truppe volontarie o professionali. Questi conflitti – analisi di molti studiosi - producono disgregazione e mai integrazione. “NON STATALI NON ARMATI”, MA NON PACIFICI

Un accenno in più alle NSA, senza armi ma spesso con pessime intenzioni. Solo un cenno su esperienze abbastanza vicina a noi. Le cosiddette “rivoluzioni colorate”, altrimenti dette guanto di velluto. Memoria facile, la piccola Jugoslavia che era di Milosevic, la Georgia di Schevarnadze (l’ultimi ministro degli esteri sovietico), sino all’Ucraina dell’altro ieri. Partiamo dal movimento studentesco serbo Otpor, resistenza. Resistenza al regime autoritario di Milosevic, resistenza assistita diventata poi esperienza export. Fu la fantasia al potere della protesta, ma con qualche soldino in più per manifesti, striscioni, apparato legale di difesa, bandiere, radio libere e Internet pirata. E “seminari formativi” all’estero vicino, Ungheria soprattutto, dedicati anche alla rilettura del libro di Gin Sharp, Dalla dittatura alla democrazia, che resta dal lontano 1970 il testo base per ogni movimento anticomunista che si rispetti. «Quel seminario fu promosso, mi sembra, dalla “Us Aid”», ci raccontò anni addietro uno di quegli studenti divenuti istruttori per rivoluzioni export, in una intervista finita sul Tg1. Us Aid, dunque, ma analogamente anche l’Istituto Internazionale Repubblicano, il suo gemello Democratico (Ndi), la Fondazione Soros, la Freedom House, le tedesche “Friedrich Ebert” e “Konrad Adenauer”, o la britannica “Westminster”. Tutti “attori non statali non armati”, ma molto attivi in questioni formalmente statali. DALLA PACE DA WESTFALIA ALLO STATUTO ONU

Un lungo salto all’indietro, noto ma sempre necessario. La “Pace di Westfalia” del 1648: lunghi negoziati

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SCENARI MULTIPOLARI

“Armageddon”, simulazione di bombardamento in contesto metropolitano.

per far cessare la Guerra dei Trent’anni, massacro che coinvolge e impoverisce mezza Europa e i Regni allora dominanti. «La Guerra dei Trent’anni genera una netta mutazione della geopolitica europea, con il regresso di grandi imperi e la comparsa di stati moderni», sintetizzano illustri storici. La Pace di Westfalia stabilisce due pilastri essenziali che segneranno la politica mondiale sino all’altro ieri: semplificando molto, il mantenimento dell’equilibrio delle potenze e il rispetto assoluto della sovranità nazionale degli Stati appartenenti al “sistema”, esclusi, ad esempio, i Paesi extraeuropei “colonizzabili”. Tradotto: ognuno in casa propria, Regno o Stato comunque governato, può fare ciò che vuole se non va a minacciare territori o interessi diretti di altri Stati. Si affermano allora i primi Stati moderni e si impone un’economia mercantile, premessa del futuro sistema capitalista. L’Europa geopolitica che nasce dalla pace di Vestfalia ingloba quasi tutta l’Europa, compresa la Russia, e l’architettura di questo trattato sarà indirettamente quella di quasi tutto il pianeta, sino all’attuale globalizzazione. La proliferazione di attori non statali nell’era successiva alla Guerra Fredda, e la caduta di uno dei due protagonisti dello scontro politico-militareideologico, è stata uno dei fattori che ha portato al

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cosiddetto “Paradigma della Ragnatela”, il Cobweb Paradigm, nella politica internazionale: il tradizionale Stato-nazione sta subendo una progressiva erosione di potere e sovranità, e gli attori non statali sono parte delle cause. Ribadisce lo Statuto della Nazioni Unite e il diritto internazionale attuale: «Le norme che regolano l’uso della forza per scopi di intervento o di mantenimento della pace sono stati scritti principalmente nel contesto dello Stato-nazione». Ma da vent’anni, con Al Qaeda e poi Isis, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha deciso l’applicazione del principio di autodifesa anche contro una NSA. Soggetti non statali contro cui gli Stati hanno diritto a fare la guerra. L’esempio più clamoroso e facile, la risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre. Gli Stati Uniti e le Nazioni Unite hanno discusso allora se il diritto all’autodifesa fosse applicabile agli attori armati non statali, in quel caso Al Qaeda, e la risposta è stata l’invasione americana dell’Afghanistan. Con Islamic State proposto dall’allora Isis attraverso il Califfato, è di fatto una guerra mondiale alle diverse filiazioni dell’ex Isis, protagoniste di molti dei conflitti attuali e di quelli che stanno maturando. Un rapporto delle Nazioni Unite di un anno fa già denunciava una nuova era di conflitti e violenze


CRIMINALITÀ ED ESTREMISMO VIOLENTO

La criminalità uccide molte più persone delle guerre. Nel 2017, quasi mezzo milione di persone nel mondo sono state assassinate, superando di gran lunga le 89mila uccise in conflitti armati e le 19mila uccise in attacchi terroristici. La criminalità organizzata e la violenza delle bande si muovono e si confondono tra banditismo e azione politica. La pirateria o la produzione di narcotici sono in alcuni casi la sola economia di sussistenza per intere popolazioni. Contemporaneamente l’instabilità politica genera criminalità organizzata. Tuttavia, la violenza politica non colpisce più solo i Paesi a basso reddito. Negli ultimi 15 anni, più della metà della popolazione mondiale ha subìto violenze significative. Mentre il terrorismo rimane diffuso, il suo impatto è diminuito negli ultimi anni, dicono i dati Onu. Meno morti attribuiti al terrorismo per il terzo anno consecutivo sino al 2020. Attacchi meno letali mentre i governi intensificano gli sforzi antiterrorismo, il coordinamento regionale e internazionale e i programmi per prevenire e contrastare l’estremismo violento. Ovviamente i conflitti ufficiali continuano a essere il principale motore del terrorismo, con oltre il 99% di tutti i morti concentrati in Paesi con conflitti aperti o «alti livelli di terrore politico». La maggior parte degli attacchi mortali avviene in Medio Oriente, Nord Africa e Africa sub-sahariana, con in testa Afghanistan, Iraq, Nigeria, Somalia e Siria. In Europa occidentale, le morti legate al terrorismo sono diminuite ma sono cresciuti gli episodi. Significativo il numero di attacchi da soggetti con credenze nazionaliste bianche suprematiste e anti-musulmane sia in Europa occidentale sia in Nord America, dove i social media svolgono un ruolo cruciale nella diffusione di espressioni xenofobe, alimentando spesso disinformazione, divisioni e instabilità. Attraverso Internet sono facilitati i reclutamenti, la propaganda, e persino l’acquisto di armi e trasferimenti di denaro. ANALISI DEI “TASSI DI PACIFICITÀ”

Global Peace Index è un tentativo di classificare gli Stati e le regioni in base allo “stato di pacificità”. L’indice

annuale è redatto dall’Institute for Economics and Peace in collaborazione con esperti internazionali di istituti e di vari Think Tank. La lista è stata pubblicata per la prima volta nel 2007. Lo studio classifica 163 stati coprendo il 99,7% della popolazione mondiale. Non rappresenta l’oggettività assoluta, ammesso che esista, ma è considerato di forte autorevolezza. Lo Stato della pace viene valutato su tre elementi: livello di sicurezza e protezione della società, conflitti nazionali e internazionali in corso, grado di militarizzazione. Dei 163 Paesi analizzati, 81 Paesi migliorano la loro condizione mentre 80 registrano un peggioramento. L’Index 2020 precisa che la pace globale è in peggioramento quasi continuo, mentre «preoccupa l’impatto della pandemia, anche su fronte della guerre prossime venture», come anticipa il Global Peace Index, in attesa di poter ragionare sui dati 2021. Il numero di persone arruolate negli eserciti ufficiali è diminuito in 113 Paesi e le spese militari rispetto al Pil, alla ricchezza nazionale, sono diminuite in 100 Paesi. L’impatto economico nel 2019 è stato di 14,5 migliaia di miliardi, l’enorme 10,6% del Pil globale. Per Paesi in guerra o comunque di scarsa stabilità e spesso diffusa povertà, l’impatto delle spese militari

MONDADORI PORTFOLIO

e confermava la tendenza a conflitti meno estesi, con meno vittime, ma più numerosi e sempre più spesso combattuti tra “gruppi domestici” anziché tra Stati. Esempio emblematico: il numero di gruppi armati coinvolti nella guerra civile siriana è dilagato da otto iniziali a diverse centinaia.

Victor J. Ségoffin, “Head of Man expressive of Horror”, 1915, Smithsonian Museum.

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SCENARI MULTIPOLARI

Edouard Manet (1832-1883), “Civil War”. The Metropolitan Museum, New York.

in armamenti e milizie diventa devastante. L’ultima parte del Global peace index si concentra sul rapporto tra rischi ambientali e capacità di fronteggiare le emergenze. Negli ultimi quarant’anni il numero di catastrofi naturali risulta molto aumentato (è triplicato), mentre l’impatto economico diqueste sciagure è passato da 50 miliardi di dollari negli anni Ottanta, a 200 miliardi nell’ultimo decennio. Entro il 2050 i cambiamenti climatici potrebbero creare fino a 86 milioni di migranti solo dall’Africa sub-sahariana. Più di due miliardi di persone vivono in Paesi con “stress idrico elevato”, e circa quattro miliardi soffrono di grave carenza idrica per almeno un mese all’anno. «La capacità delle nazioni di mitigare e adattarsi alle nuove minacce ecologiche sarà cruciale per garantire la sopravvivenza delle istituzioni politiche ed evitare disordini sociali».

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LA FONDAMENTALE PISTA DELLE ARMI

Non esiste, salvo forse in sospettabilissime fonti di servizi segreti, un elenco preciso di guerre in corso e di ipotesi serie su quelle che, forse, verranno. Per questo l’annuale rapporto sul commercio di armi, fatto dell’Istituto di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (Stockholm International Peace Research Institute, in sigla SIPRI), diventa traccia oggettiva da cui trarre indicazioni attendibili. Il rapporto uscito a maggio, con i dati 2020, non rassicura. La spesa militare mondiale sale a quasi 2 trilioni di dollari nel 2020, con un aumento del 2,6 per cento in termini reali rispetto al 2019. I cinque maggiori investitori nel 2020 (il 62% della spesa militare globale), sono stati Stati Uniti, Cina, India, Russia e Regno Unito. Dunque, nel pieno delle pandemia che stronca vite ed economie, un intero pianeta con meno soldi, ilcommercio di armi non cessa la sua rincorsa. Aumento del


2,6% della spesa militare mondiale nell’anno in cui il prodotto interno lordo globale è diminuito del 4,4%. Stati Uniti 2020, finale della presidenza Trump: +4,4% di armamenti per la cifra iperbolica di 778 miliardi, il 39% della spesa militare planetaria nota. Terzo anno consecutivo di crescita nella spesa militare statunitense con ingenti investimenti nella modernizzazione dell’arsenale nucleare, dopo sette anni di continue riduzioni. La Cina intanto rincorre. È la seconda spesa armata più alta al mondo, 252 miliardi, ma sempre solo un terzo di quella Usa e un quasi modesto +1,9% dal 2019. La Cina si distingue come l’unico grande investitore al mondo senza aumenti proporzionali tra carico militare e crescita economica generale. Nella Nato, recessione e maggior spesa militare. Quasi tutti i 12 Paese NATO hanno visto aumentare il loro budget militare. La Francia, ad esempio, l’ottavo top spender a livello globale, ha superato la soglia del 2% per la prima volta dal 2009. La Russia, +2,5%, 61,7 miliardi, ma 12 volte meno degli Stati Uniti. Tuttavia, la spesa militare effettiva della Russia nel 2020 è stata del 6,6% inferiore al suo stanziamento militare iniziale. Nel continente europeo insegue il Regno Unito diventato il quinto più grande investitore 2020. Germania, +5,2%, 52,8 miliardi, settima “spenditrice”. La spesa militare in Europa è aumentata del 4,0%, anche nel 2020 Covid. Zone calde del pianeta. La spesa militare nell’Africa subsahariana è aumentata del 3,4%, con 18,5 miliardi, in Ciad (+31%), Mali (+22%), Mauritania (+23%) e Nigeria (+29%). Tutti nella regione del Sahel e Uganda (+46 %). Negli 11 paesi del Medio Oriente, a spesa risulta ferma a 143 miliardi di dollari - secondo i rilievi SIPRI l - ma va ricordato però che nell’anno precedente, il 2019, il Medio Oriente ha importato il 25 per cento in più di armi, segnale incontestabile del crescere della “concorrenza strategica regionale” tra diversi Stati nella regione del Golfo, ma anche e sempre più verso il Mediterraneo. OVERVIEW: GUERRE (E NON-GUERRE) NEL 2030

Rand Corporation, un think tank statunitense certamente autorevole ma altrettanto di parte, è stato fondato nel 1946 con il sostegno finanziario del Dipartimento della Difesa statunitense e attualmente impiega più di 1500 ricercatori. Hanno una chiave di lettura esplicitamente atlantica, ma utile: l’eventuale coinvolgimento americano dà dimensione ai conflitti. Gli autori sostengono che gli Stati Uniti dovranno

affrontare una serie di dilemmi strategici sempre più incalzanti e profondi da qui al 2030. Gli avversari - Cina, Russia, Iran, Corea del Nord e gruppi terroristici - rimarranno probabilmente costanti, «ma gli alleati statunitensi potrebbero cambiare. La crescente influenza della Cina probabilmente modificherà l’elenco delle alleanza in Asia. In Europa, la volontà e la capacità dei tradizionali partner degli Stati Uniti di esercitare la forza, in particolare all’estero, probabilmente diminuirà». L’attenzione americana si sposta su tre grandi regioni: l’Indo-Pacifico, l’Europa e il Medio Oriente. Sono concepite come aree probabili per prossime guerre. Il Medio Oriente resta “molto probabile”, «ma l’IndoPacifico – segnalano i ricercatori Rand – potrebbe rappresentare il pericolo maggiore». Alle valutazioni geostrategiche si affiancano quelle più politiche. L’ascesa di uomini forti in Asia, Europa e Medio Oriente potrebbe ridurre i controlli e gli equilibri, creando incentivi per futuri conflitti. Con l’ascesa della Cina, altri Stati, in particolare in Asia, stanno decidendo se salire sul carro o cercare di opporsi. Sebbene la Russia sia una potenza in declino, intervenendo in Georgia, Ucraina e Siria riafferma la propria posizione di grande potenza. Non vanno poi sottovalutati gli sconvolgimenti in Europa, con l’Unione Europea sempre più frammentata, con la crisi dell’immigrazione e la crescita del populismo di destra. Continuano infine le turbolenze nel mondo islamico. Anche dopo una decennale campagna internazionale di antiterrorismo, il Medio Oriente rimane afflitto dal terrorismo jihadista islamico, favorito dal cattivo governo sistemico, dalle questioni economiche e dalle crescenti tensioni tra Iran e Arabia Saudita e tra Iran e Israele, oltre i conflitti già in corso. Diventa difficile ogni conclusione. Non resta che il rifugio nella laica citazione di Papa Francesco: «Diamo un’occhiata al mondo così com’è. Guerre ovunque. Stiamo vivendo la Terza Guerra Mondiale a pezzi». ■

ENNIO REMONDINO Inviato e corrispondente Rai, ha trascorso oltre dieci anni sui fronti di alcuni tra i principali teatri di guerra: Iraq, Balcani, Kossovo, Afghanistan, Palestina e Libano. Ha dato vita a RemoContro, blog aggiornatissimo sulla politica estera.

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NEOLITICO

GENTI SMARRITE DELL’ANTICA EUROPA Civiltà autoctone si sono accese lungo le coste del Danubio, con forti segnali di cultura paritaria e comunitaria. Un omaggio a Marija Gimbutas, archeologa visionaria. Harald Haarmann e Mariagrazia Pelaia

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lla scoperta dell’Antica Europa. Nella prefazione alla sua opera fondamentale intitolata The Civilization of the Goddess (1991; trad. it.: La civiltà della Dea, 2012-13), Marija Gimbutas, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, incluso nei festeggiamenti ufficiali Unesco per il 2020-21, riassume l’aspetto essenziale di tutto il suo progetto accademico al fine di mettere in evidenza gli strati più profondi della storia europea, che custodiscono i componenti costitutivi della civiltà occidentale. «Con quest’opera intendo riportare alla nostra coscienza aspetti della preistoria europea rimasti nell’ombra o semplicemente non abbastanza metabolizzati a livello paneuropeo. L’acquisizione di tale materiale potrebbe finalmente modificare la nostra visione del passato, nonché la nostra percezione delle potenzialità del presente e del futuro» (Gimbutas 2012, p. 7). Un aspetto cruciale per le prospettive di ricerca da lei ispirate consiste nell’identificazione dell’Antica Europa neolitica come civiltà vera e propria. Nella prefazione al suo libro più importante l’archeologa confronta le proprie scoperte con l’antiquato modello vigente: «Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche.

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Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini, nel quadro di un equilibrio di potere equamente ripartito tra i sessi. [...] Il Neolitico europeo non è stato un tempo “prima della Civiltà” [...] È stato invece una vera e propria civiltà nella migliore accezione del termine» (cit., p. 8). Fino ad oggi, la maggior parte degli studiosi tradizionali riconosce la civiltà androcratica come unico modello valido della nostra storia culturale. I pochi sostenitori di ipotesi diverse con modelli privi di gerarchia sociale, tuttavia, ignorano l’Antica Europa (ad esempio, Maisels 1999). Anche nell’opera monumentale di Cyprian Broodbank (2013) non si fa alcuna menzione dell’Antica Europa. Solo di recente si va elaborando un nuovo paradigma onnicomprensivo di modelli differenziali di civiltà, includendo l’Antica Europa (Haarmann 2011, 2020). È merito di Gimbutas aver messo in rilievo l’importanza della fase preparatoria di qualsiasi civiltà e, in particolare, dell’Antica Europa: «Tutto questo


Modello di tempio con sette figurine (circa 3.700 a.C.). Il reperto è attribuibile alla Cultura Cucuteni, che si è sviluppata nelle aree delle attuali Romania, Moldavia e Ucraina. Quasi tutte le immagini di questo servizio sono tratte dall’Archivio Gimbutas. Courtesy Joan Marler e Harald Haarmann.

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NEOLITICO senza precedenti. È rimasta memorabile la conferenza di Colin Renfrew: Marija Rediviva, The Oriental Institute, 2017 – visibile in Youtube; per un bilancio del suo contributo complessivo all’archeologia si veda Elster 2013. Il suo magistero continua a illuminare circoli accademici sempre più ampi. La studiosa è diventata fonte di ispirazione per diversi progetti di ricerca ispirati dalle sue intuizioni visionarie basate su una metodologia all’avanguardia (datazioni al radiocarbonio, approccio interdisciplinare), un solido corpus documentario e una ricca collezione di reperti, in gran parte provenienti dagli scavi da lei diretti nei siti neolitici dell’Europa sudorientale (1967-80: Obre, Achilleion, Anza, Sitagroi, Grotta Scaloria e altri). Tuttavia, come vedremo in una breve panoramica nei prossimi paragrafi, la via verso il nuovo paradigma di ricerca sulle civiltà antiche è ancora disseminata di ostacoli. Vaso binoculare della Cultura Cucuteni, circa 4.050 a.C.

non è spuntato fuori ex nihilo. […] L’ampia varietà del simbolismo religioso fiorito in Anatolia centrale e nell’Antica Europa è parte integrante di un’evoluzione ininterrotta avviata ai tempi del Paleolitico superiore» (Gimbutas 2013, p. 8). «La civiltà fiorita nell’Antica Europa tra il 6500 e il 3500 a.C., e a Creta fino al 1450 a.C., ha goduto di un lungo periodo pacifico senza interruzioni, che ha prodotto espressioni artistiche di graziosa bellezza e raffinatezza, dimostrando di poter garantire una qualità della vita superiore rispetto a molte società androcratiche e classiste» (Gimbutas 2012, pp. 7-8). Questa condizione di esistenza pacifica è stata riconosciuta da numerosi archeologi che mettono in rilievo come negli insediamenti dell’Antica Europa non si trovano depositi di cenere attribuibili a incendi dolosi. L’elemento distruttivo entra in gioco con l’arrivo dei pastori indoeuropei durante le migrazioni che si irradiano dalla steppa eurasiatica (Gimbutas 2010). Nonostante la ricchezza delle intuizioni e l’affidabilità documentaria, l’eredità di Marija Gimbutas non è stata prontamente accolta. Al contrario, negli anni Ottanta del secolo scorso, si è sviluppato un acceso dibattito nel corso del quale i suoi oppositori hanno messo in discussione l’autorità di questa ricercatrice visionaria, riducendo i suoi risultati a contestabili ipotesi. Dopo anni di futili controversie la reputazione di Marija Gimbutas è stata finalmente ristabilita e la sua eredità intellettuale sta vivendo una rinascita

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UN PARADIGMA DATATO

Il prototipo universale di civiltà gerarchica è un cliché da superare Secondo il nuovo paradigma inaugurato da Marija Gimbutas esistono almeno due modelli elementari di civiltà, quello apolide di società egualitaria (rappresentato dalla Civiltà dell’Antica Europa, o Civiltà danubiana, e dalla Civiltà della valle dell’Indo) e quello statale basato su una gerarchia sociale (rappresentato dalla Mesopotamia, dall’Antico Egitto e dai Maya nella Mesoamerica precolombiana). L’aspetto tipico caratterizzante del modello privo di stato è l’uguaglianza economica e di genere. Nel corso della transizione neolitica dalla caccia e dalla raccolta alla produzione vegetale (con agricoltura e orticoltura pienamente sviluppate), le attività di donne e uomini furono ripartite in modo equilibrato. Gli uomini andavano ancora a caccia ma aiutavano anche le donne che si dedicavano principalmente alla semina, alla coltivazione e al raccolto. Il risultato di questo processo graduale è una fase di sviluppo equilibrata. Proprio ciò che Marija Gimbutas ha descritto nelle sue pubblicazioni. Il vecchio paradigma dello sviluppo lineare e unilaterale della società patriarcale come espressione inevitabile di “progresso” sociale è ormai obsoleto e va dunque rigettato. Ci sono altri cliché da superare . L’idea della Mesopotamia come centro di irradiazione culturale (ex oriente lux) è infatti antiquata, visto che la ricerca moderna ha scoperto che le innovazioni tecnologiche principali hanno avuto provata origine altrove: • le prime ceramiche altamente raffinate con decora-


zioni eleganti appaiono nell’Antica Europa alla fine del Quinto millennio a.C. La produzione ceramica raggiunse il suo acme nella cultura regionale Cucuteni, almeno un millennio prima che raggiungesse un livello avanzato nell’antico Egitto e in Mesopotamia. Marija Gimbutas ha documentato la modalità degli stili di ceramica a partire dal sesto millennio a.C. (Gimbutas 2012). «Prova certa che lisciatura e decorazione fossero compiute dalle donne viene dalla necropoli di Basatanya (fase Bodrogkeresztúr), in Ungheria orientale, dove in un certo numero di sepolture femminili è stato rinvenuto un set di arnesi per la lisciatura, pittura e incisione della ceramica, consistente di un sasso, una lisca (osso di pesce), un arnese per lucidare le ossa, un cofanetto e un mestolo» (Gimbutas 2012, p. 143); • la prima scrittura emerge nell’ambiente culturale della civiltà danubiana (Gimbutas 2013); • i primi esperimenti di fusione del metallo sono attestati nell’Europa sudorientale (Serbia meridionale). Gli inizi della fusione del rame nell’Antica Europa

risalgono al 5400 a.C. ca. (Pernicka e Anthony 2010). Il che significa che questa tecnologia ha iniziato a diffondersi in Europa centinaia di anni prima che in Anatolia. • le prime case dotate di struttura solida (singole) e l’inizio di stili architettonici diversi sono attestati in Tessaglia a partire dal 6500 a.C. ca.; • l’emergere delle prime infrastrutture urbane nella regione di Cucuteni-Trypillya risale al Quarto millennio a.C. (Gimbutas 2012: p. 10 e p. 117 ss.). LA SCRITTURA COME RITUALE

Tramonta anche il cliché di un prototipo universale della prima scrittura associato a funzioni economiche. La scrittura cuneiforme sumera non è la prima scrittura della storia dell’umanità. Le prime prove dell’uso dei geroglifici egizi risalgono ad almeno 150 anni prima dei testi sumeri più antichi (fine del Quarto millennio a.C.). Le origini di una tecnologia della scrittura nell’Antica Europa risalgono alla fine del Sesto millennio a.C. (Haarmann 1995, Marler

“Il pensatore” e “La donna seduta” sono due raffigurazioni prodotte durante la Cultura Hamangia, 4.800 a.C.

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NEOLITICO 2008). La presunta prima scrittura dell’umanità rivestiva funzioni economiche. La scrittura anticoeuropea, invece, era al servizio delle credenze religiose e delle pratiche rituali. I segni della scrittura sono incisi e/o dipinti sui corpi delle figurine, sulla superficie dei vasi di culto e sui lati degli altari in miniatura. Marija Gimbutas la definisce giustamente “scrittura sacra” (2013: pp. 99-115). L’uso dei segni lineari all’epoca dell’Antica Europa corrisponde a quello riscontrato nei primi sistemi di scrittura: segni intenzionali, forme convenzionali, allineamento sistematico, organizzazione interna, un ricco repertorio (i motivi delle ceramiche sono invece un numero limitato). ALTRI INTERROGATIVI

La prima rete commerciale del mondo si è sviluppata in Medio Oriente? Le prime navi sono state costruite nel Golfo Persico? Il commercio su piccola scala nell’arcipelago dell’Egeo e in Anatolia ha avuto inizio più di diecimila anni fa. Lo sviluppo di reti commerciali di maggiore ampiezza risale però a un’epoca successiva, al Quinto millennio a.C., mentre la fioritura si è avuta nel corso del Quarto. La prima rete non si è sviluppata in Medio Oriente, le rotte commerciali collegavano le regioni principali dell’Europa (e i centri dell’Antica Europa corrispondevano ai punti di scambio) e il commercio si estendeva fino alla steppa eurasiatica e alla regione dell’Anatolia. Quest’ampia rete commerciale comprendeva anche le estremità del Nord Africa. La rete commerciale del Medio Oriente, che collega i centri commerciali sumeri con l’Egitto, Dilmun e l’antica civiltà dell’Indo, è stata istituita in un’epoca successiva: nel corso del Terzo millennio a.C. La costruzione delle prime navi si deve agli abitanti dell’Antica Europa che navigavano nel Mediterraneo e nel Mar Nero (Haarmann 2018), fra Sesto e Quinto millennio a.C., ovvero migliaia di anni prima dei navigatori del Vicino Oriente. MISTERIOSAMENTE SCOMPARSI

Altra classica figurina della Cultura Cucuteni, 4.050 a.C.

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Il mondo dell’Antica Europa è sparito senza lasciare traccia? Il tessuto originale dell’Antica Europa non esiste più, tuttavia, questo non significa che le sue tradizioni siano svanite. Le descrizioni di un “mondo perduto dell’Antica Europa” (Anthony 2010) risultano fuorvianti. Al contrario, le conquiste culturali e le tradizioni della prima grande civiltà europea sono sopravvissute nelle culture successive con molteplici trasformazioni. Le civiltà dell’antico Egeo (ovvero la


civiltà minoica dell’antica Creta e quella di Thera) sono emerse dal ceppo dell’Antica Europa (Haarmann 1995). La cultura pelasgica nella penisola balcanica è stata identificata come “pre-greca” (Beekes 2014), quindi non di origine indoeuropea. La cultura e la lingua pelasgi che rappresentano l’ultima propaggine dell’Antica Europa. All’indomani delle migrazioni indoeuropee verso l’Europa sudorientale il vecchio tessuto culturale non è stato sostituito da modelli di stampo indoeuropeo. Inizialmente i migranti si sono stabiliti nelle vicinanze della popolazione pre-greca, i Pelasgi (“persone che vivevano qui prima di noi”, da pelas, “nelle vicinanze, nel quartiere”), dando origine a un processo di fusione culturale con vari modelli innovativi. Uno di questi, il culto degli eroi, mostra le modalità di funzionamento delle dinamiche della fusione, fungendo da pilastro nella fondazione della civiltà occidentale. Gli eroi patriarcali indoeuropei hanno avuto legittimità divina per atel’esercizio del potere dalle dee pre-greche. Marija Gimbutas ha vivamente sostenuto i progetti di ricerca per la prosecuzione della sua opera, in particolare gli studi sulla sopravvivenza delle caratteristiche culturali dell’Antica Europa nelle fasi successive, e cioè nel cosiddetto mondo antico. Un vasto panorama di tradizioni - negli ambiti del folklore e della mitologia, in vari settori artigianali, nel contesto delle istituzioni sociali e negli stili artistici - può essere identificato nelle culture regionali dell’Europa sudorientale (Haarmann 2011, p. 257 ss.; 2014). Il linguaggio e la scrittura dell’Antica Europa sono andati persi? Nel lessico greco antico sono state identificate circa 1700 parole che si possono associare alla lingua del substrato, cioè alla lingua parlata nella regione dell’Ellade prima della migrazione indoeuropea (Beekes 2010). I prestiti pre-greci non sono sparsi in modo casuale, MARIAGRAZIA PELAIA Ricercatrice indipendente e autrice, collaboratrice editoriale, traduttrice freelance (letteratura, saggistica) da polacco e inglese. Dal 2004 fa parte del Comitato editoriale di Prometeo e dal 2008 del Comitato scientifico di Traduttologia. A pagina 120, l’autrice scrive la recensione completa del saggio di Harald Haarmann.

HARALD HAARMANN Harald Haarmann è un ricercatore nel campo della linguistica e degli studi culturali. Ha pubblicato più di cinquanta opere in lingua tedesca e inglese, tradotte in molte lingue, fra cui spagnolo, cinese e coreano. Ha scritto undici volumi sulle lingue e sulle culture del mondo. Ha ricevuto il “Prix logos 1999” e il “Premio Jean Monnet 1999”. Attualmente è il vicepresidente dell’Istituto di Archeomitologia con sede in California e anche direttore della sezione europea con sede in Finlandia.

i più antichi sono organizzati in domini lessicali pertinenti che rivelano le varie incursioni dell’influenza culturale dell’Antica Europa (ad esempio: ceramica, tessitura, olivicoltura, lavorazione dei metalli, costruzione navale, commercio, religione, istituzioni democratiche) (Haarmann 2014). La scrittura danubiana (o dell’Antica Europa) ha avuto vari esiti nelle culture dell’Egeo: la scrittura lineare A (scrittura minoica dell’antica Creta) e la successiva derivazione, la scrittura lineare B per il greco miceneo; la scrittura cipro-minoica e cipriotasillabica; i segni aggiuntivi dell’alfabeto greco: chi, phi, psi (Haarmann 1995). LA GRANDE DEA ARCHETIPICA

Cosa è stato della Dea dell’Antica Europa dopo l’arrivo dei migranti indoeuropei? L’interruzione nella produzione di figurine della Dea neolitica nel tumultuoso periodo delle migrazioni indoeuropee dopo il Terzo secolo a.C. è solo apparente, perché al posto della tradizionale argilla si cominciò a usare la cera. Essendo questa biodegradabile, gli scavi archeologici non ne hanno conservato traccia. La continuità della produzione di figurine in argilla della Dea nell’arcipelago dell’Egeo (nella Creta minoica e nelle antiche isole Cicladi) non si interrompe per tutto il corso dell’età del Bronzo e in epoca micenea. Anche sulla terraferma la produzione di figurine fittili si mantiene in alcuni luoghi, ad esempio a Lerna nel Peloponneso, nel corso del Terzo millennio a.C. L’eredità monoteistica della Grande Dea neolitica non è nemmeno svanita nel confronto con la visione patriarcale del mondo degli indoeuropei immigrati, dando luogo a un processo prolungato di fusione. La

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NEOLITICO mitologia classica, per esempio, è un ambito culturale che nonostante l’abbondanza di figure, motivi e strategie narrative pre-greche viene a torto ascritto in blocco alla cultura greca. ATENA E LE ALTRE

La Grande Dea riappare nella veste delle sue “figlie”, cioè le potenti dee del pantheon “greco”, i cui nomi e culti risalgono perlopiù all’epoca pre-greca. La loro origine è dunque antecedente al periodo greco arcaico e a quello greco-miceneo (Dexter 1990). Le narrazioni mitiche riflettono diverse fasi del processo di fusione nel corso del quale i protagonisti maschili del pantheon greco hanno esteso il loro ambito di potere a spese delle controparti femminili (Yasumura 2011). Quando gli antenati dei greci hanno portato il loro dio del cielo, Zeus, nella regione ellenica, questi aveva una moglie indoeuropea, Divia, che veniva ancora venerata in epoca micenea con un santuario a Pylos. Tuttavia, in seguito, la dea indigena Hera l’ha sostituita. In senso metaforico l’unione di Hera e Zeus può essere considerata un motivo guida mitologico che riflette la fusione di due diverse visioni del mondo avvenuta nell’Europa sudorientale. La più gloriosa di tutte le dee pre-greche è Atena, icona dello stato ateniese: con la sua ampia gamma di abilità sia in ambito artigianale che intellettuale, ricorda la sua antenata divina, la Dea dell’Antica Europa. Il più grande tempio dell’Acropoli, il Partenone, non era dedicato a Zeus ma a lei, che dominava la vita pubblica e privata degli ateniesi. GLI STILI ARTISTICI NEOLITICI

La Venere di Lespugue, rinvenuta in Francia nel 1922, è invece del Paleolitico Gravettiano, circa 23mila a.C. Credit: Mondadori Portfolio/Fototeca Gilardi

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La storia dell’arte non è riuscita a identificare le fonti di ispirazione di molti artisti le cui creazioni vengono etichettate come “arte moderna”. Nel caso di Constantin Brancusi (1876-1957), ad esempio, si ricorre all’arte tradizionale africana. Dalla sua biografia si può invece dedurre che a ispirarlo maggiormente è l’immaginario tradizionale del paese natale, la Romania dell’inizio del XX secolo (le ceramiche tradizionali di Oltenia e Dobrogea riprendono forme dell’epoca neolitica). Il successo di alcuni scultori moderni decretato da una parte di critici e storici dell’arte è stato attribuito all’originalità delle loro opere che si discostano dalla tradizione greca classica. Oltre a Brancusi, a questo proposito si possono citare Henry Moore, Barbara Hepworth e Alberto Giacometti (Haarmann 2013: p. 275 ss.). La loro originalità scaturisce dalla rivitalizzazione


e rimodulazione di forme e stili di una tradizione artistica locale extracanonica, non da un presunto impulso innovativo. In molti luoghi in cui si erano stabiliti gli antenati degli immigrati greci esistevano comunità più antiche: i discendenti dell’Antica Europa. Questi insediamenti avevano una designazione pre-greca, ovvero kome (termine che risale alla lingua del substrato). Non erano governati da capi locali, ma venivano amministrati da un consiglio di villaggio. In effetti, si trattava di un tipo di autogestione comunitaria. La maggior parte dei kome più antichi si è mantenuta nell’antichità greca classica fungendo da modello per il governo democratico. Ad esempio, Thorikos, una comunità a sud-est di Atene, famosa per le sue miniere d’argento di proprietà collettiva, che si è arricchita al punto da potersi permettere un proprio teatro in concorrenza con quello di Dioniso ad Atene. Nella filosofia antica il mito è stato sostituito dalla ragione: una convinzione errata. L’Illuminismo europeo del Diciottesimo secolo ha favorito l’affermazione del culto della ragione. Questa tendenza che ha opposto la ragione al mito non ha reso un buon servizio alla conoscenza della vita intellettuale presso gli antichi greci. Le distorsioni dell’Illuminismo hanno condizionato il nostro approccio all’educazione, facendoci privilegiare la ragione come modalità di indagine fino ai giorni nostri. Gli antichi intellettuali greci (cioè i filosofi presocratici, i primi storiografi, i filosofi dell’età classica) non postulavano un’opposizione tra mito (mythos) e ragione (logos). In effetti, erano considerate due modalità di indagine diverse, ciascuna dotata del proprio valore (Morgan 2000, Haarmann 2015). In uno dei suoi dialoghi Platone ha persino coniato un neologismo per spiegare come gli argomenti e i motivi di tipo mitico celassero fonti di conoscenza. Il termine è mythologia e ricorre per la prima volta nella Repubblica (394b). EURINOME E LA PALEOEUROPA

I testi narrativi riguardanti la tradizione mitica nell’antichità greca contengono numerosi concetti e motivi che rimandano al patrimonio culturale dell’Antica Europa. Inoltre, vi sono alcuni miti che gli stessi greci riconoscevano come pre-greci, quali ad esempio il “mito pelasgico” della dea primordiale Eurinome come Creatrice di tutti gli esseri viventi. A torto si è considerato Platone un autore “patriarcale”: nella sua teoria politica della società ideale si

esprime a favore dell’uguaglianza di genere. Il filosofo onora in special modo Atena, dea pre-greca. Platone le assegna il ruolo di “intelletto divino” per l’ordine mondiale. Nessun altro dio del pantheon greco godeva di un simile privilegio. Nel suo sforzo filosofico riecheggia lo spirito dell’Antica Europa. Quale conclusione? Potremmo ancora continuare a lungo, ma in questa sede ci basti una panoramica orientativa delle possibili vie di ricerca che si sono aperte e si potrebbero aprire in futuro a partire dal lavoro di Marija Gimbutas (vedi anche Pelaia 2016). Una vita non basta per esplorare tutti gli orizzonti aperti da questa ricercatrice visionaria. ■

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI H. HAARMANN, Early civilization and literacy in Europe. An inquiry into cultural continuity in the Mediterranean world, Mouton de Gruyter Berlino & New York 1995. H. HAARMANN, Ancient knowledge, ancient know-how, ancient reasoning. Cultural memory in transition from prehistory to classical antiquity and beyond, Cambria Press, Amherst, New York 2013. H. HAARMANN, Roots of ancient Greek civilization. The influence of Old Europe, McFarland, Jefferson - North Carolina 2014. H. HAARMANN, Plato’s philosophy reaching beyond the limits of reason. Contours of a contextual theory of truth, Olms, Hildesheim, Zurigo e New York 2017. H. HAARMANN, “Who taught the ancient Greeks the craft of shipbuilding? On the pre-Greek roots of maritime technological know-how”, in “Mankind Quarterly” 59:2, 2018. H. HAARMANN, The mystery of the Danube civilisation. The discovery of Europe’s oldest civilisation, Verlagshaus Römerweg, Wiesbaden 2019. H. HAARMANN, Culture dimenticate, traduzione di C. Tatasciore, Bollati Boringhieri, Torino 2020. H. HAARMANN e J. MARLER, Introducing the Mythological Crescent. Ancient beliefs and imagery connecting Eurasia with Anatolia, Harrassowitz, Wiesbaden 2008. M. PELAIA, Traducendo e curando libri di Marija Gimbutas. Divagazioni da scritture e letture parallele, in “Traduttologia”, luglio 2016-gennaio 2017, fascicoli 15-16, pp. 57-84. E. ELSTER, Le nuove scoperte dell’archeologia neolitica, in “Prometeo”, n° 121, 2013. Traduzione di M. Pelaia. M. GIMBUTAS, Il linguaggio della Dea, traduzione di N. Crocetti, Longanesi, Milano 1991. M. GIMBUTAS, Kurgan. Le origini della cultura europea, pref. di C. Sini, traduzione e cura di M. Doni, Medusa, Milano 2010. M. GIMBUTAS, La civiltà della Dea. Il mondo dell’Antica Europa, traduzione e cura di M. Pelaia, Stampa Alternativa, Viterbo 2012 e 2013. M. GIMBUTAS, Le dee e gli dei dell’Antica Europa, traduzione e cura di M. Pelaia, Stampa Alternativa, Viterbo 2016. C.K. MAISELS, Early civilizations of the Old World. The formative histories of Egypt, The Levant, Mesopotamia, India and China, Routledge, Londra e New York 1999. J. MARLER, The Danube script. Neo-Eneolithic writing in Southeastern Europe. Sebastopol, Institute of Archaeomythology, Sebastopol - California 2008.

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VERSO L’INFINITO E OLTRE

IL VOLTO IGNOTO DELLA VIA LATTEA

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I risultati della missione spaziale ESA Gaia hanno rivoluzionato ciò che sappiamo sulla nostra galassia. A cominciare dal suo intenso passato. Michele Bellazzini

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VERSO L’INFINITO E OLTRE

L

a parola “pianeta”, dal greco stelle erranti”, definisce gli oggetti a cui si riferisce per il loro moto relativo rispetto alle cosiddette stelle fisse. Gli antichi erano capaci di un’attenzione al cielo molto maggiore della nostra (e disponevano di condizioni di osservazione assai differenti: in assenza di luci artificiali il cielo stellato si impone all’attenzione) ed era ovvio per loro notare che mentre le stelle che componevano le costellazioni mantenevano notte dopo notte, anno dopo anno, la stessa posizione relativa, mantenendo così inalterato il “disegno” schematico della figura a loro associata, vi erano alcuni astri molto brillanti che si spostavano da una costellazione all’altra. In particolare percorrevano il cielo lungo una fascia ben precisa.

Le costellazioni toccate dal percorso dei pianeti, lo Zodiaco, assunsero quindi una rilevanza culturale speciale che è sopravvissuta fino ai nostri tempi. Ma le stelle fisse sono davvero fisse? La Figura 1 mostra un controesempio molto chiaro. Qui ho riportato quattro immagini, acquisite in epoche diverse e con diversi strumenti, della stessa piccola porzione di cielo (un quadrato il cui lato misura poco più di un ottavo di grado, meno di un terzo del diametro della Luna piena). Gli asterismi formati da tante stelline presenti nelle immagini fanno da riferimento per l’occhio, mettendo in evidenza lo spostamento della stella HD13440 che, trovandosi presso il margine superiore dell’immagine del maggio 1953, nel 1987 si è spostata fino

Figura 1. Immagini della stessa porzione di cielo prese in diverse epoche, su un arco di tempo di 57 anni. La posizione della stella ad alto moto proprio HD13440 è indicata con una freccia dritta, mentre la freccia curva nell’ultima immagine in basso a destra indica la sua compagna HD134439. (surveys DSS1, DSS2 e ALLWISE)

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al centro e lo ha ampiamente superato nel 2010. Cosa stiamo vedendo in questa serie di immagini? Cerchiamo di comprenderlo bene. LA NOSTRA GALASSIA: UNO SGUARDO D’INSIEME Tutte le stelle che vediamo a occhio nudo (e la larga maggioranza di quelle che possiamo risolvere con l’aiuto dei telescopi) si trovano nella nostra Galassia, la Via Lattea, a cui appartiene anche il Sole. Si tratta di un enorme aggregato di stelle (centinaia di miliardi), in maggioranza organizzate in un disco sottile (dello spessore caratteristico di circa 100-300 parsec1) e del diametro approssimativo di 30 kpc. Vorrei qui introdurre una nota terminologica. In questo articolo userò come unità di misura delle distanze il parsec (abbreviato: pc), con gli usuali prefissi per i multipli, kiloparsec [Kpc] =1000 pc, megaparsec [Mpc] = 1000000 pc. Il parsec è la distanza di un oggetto la cui parallasse trigonometrica misurata dalla terra ammonta a 1 secondo d’arco (per la definizione di parallasse, si veda a pag. 70). Questa è l’unità di misura usata invariabilmente dagli astronomi professionisti e corrisponde a 3,26 anni luce. Nel disco sottile troviamo anche la grande maggioranza del gas freddo della Galassia, prevalentemente idrogeno in forma atomica neutra (HI) e molecolare (H2). L’idrogeno è l’ingrediente fondamentale per generare le stelle e infatti il disco sottile è, in sostanza, l’unico luogo nella Via Lattea dove avviene la formazione stellare, normalmente concentrata nei bracci a spirale (Figura 2) dove il gas viene accumulato da onde di densità. La massa di idrogeno neutro e molecolare presente nel disco sottile è approssimativamente 10 miliardi di masse solari, mentre la massa in stelle è circa tre volte tanto. Il Sole si trova all’interno del disco sottile, a una distanza di circa 8 kpc dal centro del disco, che è considerato, a tutti gli effetti il centro della Galassia. La regione entro ≈3 kpc dal centro è caratterizzata il cosiddetto bulge (popolato da stelle prevalentemente molto vecchie, con età uguale o superiore a 10 miliardi di anni) e la cui composizione chimica è ricca di elementi più pesanti dell’elio, che nel gergo astrofisico vengono genericamente definiti metalli. L’EVOLUZIONE CHIMICA Anche le stelle del disco sottile sono ricche di metalli (benché, in media, un po’ meno rispetto al bulge). Questo aspetto merita un breve excursus perché

sarà utile per comprendere meglio la natura delle altre componenti galattiche. Le galassie sono i siti naturali dove avviene l’evoluzione chimica della materia, il cui motore sono le stelle. All’atto del Big Bang la “nucleosintesi primordiale” ha prodotto in larga quantità solo due specie atomiche: l’idrogeno e l’elio (4He, in particolare) mentre altri elementi e isotopi leggeri (3He, deuterio, litio, berillio) sono stati prodotti solo in tracce. Tutti gli elementi chimici più pesanti possono essere sintetizzati solo nei motori termonucleari delle stelle, dove i processi di fusione, a temperature di diversi milioni di gradi, possono produrre elio, dalla fusione dell’idrogeno, e via via l’intero spettro degli elementi noti, fondendo elementi sempre più pesanti in condizioni sempre più estreme, inclusa la nucleosintesi esplosiva che avviene negli eventi di supernova, legati alle violente fasi finali della vita di stelle massicce o di stelle binarie interagenti. Gli elementi chimici prodotti negli interni stellari, al termine della vita delle stelle, sono espulsi nello spazio interstellare, attraverso i fenomeni violenti appena citati o con più “tranquilli” venti stellari. Il ruolo della galassia è quello di fornire, grazie alla sua massa imponente, una buca di potenziale gravitazionale abbastanza profonda da essere in grado di trattenere anche il materiale arricchito espulso con grandi energie dalle supernove, impedendone la dispersione nello spazio intergalattico. L’aggiunta di questo gas chimicamente processato inquina il mezzo interstellare (HI) facendone aumentare il contenuto di elementi “pesanti” (la metallicità,

MICHELE BELLAZZINI Michele Bellazzini è Primo Ricercatore dell’Istituto Nazionale di Astro Fisica (INAF) e svolge la sua attività all’Osservatorio di Astrofisica e Scienza dello Spazio di Bologna. Si occupa di ammassi stellari, galassie nane, formazione delle galassie da un punto di vista locale e archeologia galattica. Dal 2005 fa parte del Gaia-DPAC, per il quale si occupa della calibrazione dei dati fotometrici della missione, con colleghi INAF di Bologna, Arcetri, Roma e Teramo e dell’Institute of Astronomy dell’Università di Cambridge.

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NASA

secondo la definizione di metalli data sopra). Le stelle che andranno a formarsi dal gas inquinato dalle generazioni precedenti avranno dunque una metallicità più alta di quelle che hanno arricchito il gas e al momento della loro morte andranno anch’esse a arricchirlo ulteriormente. Si intravede una sequenza temporale, né lineare né univoca, ma molto chiara nella sua direzione: nel corso del tempo generazioni successive di stelle nascono da gas sempre più arricchito chimicamente. Dunque, in un sistema stellare, la metallicità traccia approssimativamente lo scorrere del tempo, le stelle più ricche di metalli sono più giovani delle loro consorelle meno chimicamente evolute. Questa non è tutta la storia naturalmente, la relazione fra epoca di formazione e metallicità dipende anche dalla rapidità con cui si è svolta la formazione stellare, questa è la ragione per cui le stelle del bulge possono essere sia molto vecchie che molto ricche di metalli. Ma, al contrario, una stella molto povera di metalli è quasi certamente molto vecchia, essendo nata prima che il mezzo interstellare potesse essere significativamente inquinato. Il Sole, che è una stella formatasi 4.5 miliardi di anni fa, in una fase in cui l’evoluzione chimica era già molto avanzata, è il nostro riferimento per la scala di metallicità: le stelle più ricche del bulge hanno un contenuto di metalli tre volte più

Figura 2. Rappresentazione artistica della Via Lattea vista face on, da una posizione arbitraria lungo la perpendicolare al disco galattico che passa per il Sole.

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alto di quello del Sole mentre le stelle più povere che conosciamo (assai rare) hanno fra un millesimo e un decimillesimo dell’abbondanza solare. LA GALASSIA IN CUI ABITO: COMPONENTI MENO DENSE, MATERIA OSCURA E FINALMENTE … Ci sono altre due componenti stellari della Via Lattea che non sono rappresentate nella Figura 2. Si tratta del disco spesso, un disco stellare, sovrapposto e compenetrato al disco sottile, ma privo di gas e composto da stelle mediamente più vecchie e povere di metalli. Infine c’è una componente ancora più tenue, il cosiddetto alone, popolato dalle stelle più povere di metalli (mediamente attorno al 2% della metallicità solare). La densità stellare tipica dell’alone galattico è davvero piccola perché la sua massa, già assai ridotta, è dispersa in un volume enorme, che in prima approssimazione possiamo considerare quasi sferico, con stelle e ammassi stellari che raggiungono distanze di ≈ 100 kpc e oltre, dal centro della Galassia. Ora, tutte queste stelle, così come il gas e la polvere interstellare, mantengono una configurazione stabile (la Galassia) perché orbitano attorno al centro Galattico così come i pianeti del sistema solare orbitano attorno al Sole. In questo caso è la somma di tutta la massa che si trova all’interno dell’orbita che provvede la forza necessaria a tenere legata ciascuna stella. Il sistema è auto-gravitante, ovvero è la massa dei suoi stessi componenti che li tiene assieme. E ancora, esattamente come i pianeti, per stare in equilibrio nella loro orbita devono avere la velocità appropriata, che dipende dalla loro distanza dal centro galattico, dalla distribuzione della materia nella Galassia e dalla forma della loro orbita, ma che è determinata, in prima approssimazione dalle leggi di Keplero. Le stelle nelle varie componenti si muovono in modi differenti, in particolare con diverse misture di moti ordinati e di moti casuali. Indipendentemente dalle caratteristiche del moto, la velocità orbitale delle stelle è un tracciante della massa galattica inclusa all’interno delle loro orbite. Che si usino i moti ordinati delle stelle e del gas del disco sottile o i moti caotici delle remote stelle e ammassi stellari di alone quel che si osserva (nella nostra come in altre galassie, così come nei grandi ammassi di galassie) è che le velocità misurate sono troppo grandi per essere giustificate dalla massa barionica (dovuta alla materia ordinaria, protoni, neutroni, elettroni, e quindi gas, stelle, polvere) che vediamo.


ESA

Figura 3. Il cielo visto da Gaia EDR3. Questa immagine è in realtà un istogramma bidimensionale nel quale il cielo è diviso in una miriade di cellette e i quasi due miliardi di stelle catalogate in EDR3 sono contati ciascuno nella celletta di appartenenza. La luminosità delle cellette, considerabili come i pixel di questa pseudo-immagine, è proporzionale al numero di stelle nella celletta e il colore è proporzionale al colore medio delle stelle contenute.

Dunque siamo costretti a postulare l’esistenza di materia non visibile che colmi il divario. Si tratta della famosa materia oscura, prevista dal modello cosmologico generalmente accettato come la componente dominante della materia dell’universo. Ne costituisce circa l’ottantacinque per cento e interagisce con la materia barionica solo attraverso la gravità. …TORNIAMO ALLA NOSTRA STELLINA Dunque, qual è la velocità caratteristica a cui si muovono le stelle per restare in equilibrio nel potenziale gravitazionale della Via Lattea? Possiamo prendere come riferimento il moto ordinato del sole e delle stelle nei dintorni del sole: ≈ 230 km/s (in unità più familiari: 828000 km/h). Le stelle fisse si muovono nello spazio con velocità di quest’ordine di grandezza. Dunque ci appaiono fisse solo perché enormemente distanti, per lo stesso effetto prospettico per cui un aereo che vola a una velocità di crociera prossima ai 1000 km/h ci appare lentissimo mentre attraversa il cielo alla quota di 10000 m di altitudine. Quello che noi osserviamo è un cambiamento di posizione dell’aereo nel piano del cielo, l’effetto misurabile di quel moto lineare dell’aereo è un moto angola-

re, da esprimersi anziché in km/h, ad esempio, in gradi all’ora, dove le due grandezze possono essere convertite l’una nell’altra solo conoscendo la quota di volo dell’aereo, la sua distanza da noi. A parità di velocità lineare, distanze maggiori corrisponderanno a velocità angolari più piccole. IL MURO DEL MOTO PROPRIO Gli elementi di un sistema come la galassia sono completamente caratterizzati dal punto di vista dinamico solo se si conoscono tutte e sei le componenti (coordinate) del cosiddetto spazio delle fasi, ovvero, in un sistema di riferimento cartesiano XYZ con l’origine nel Sole, le tre coordinate spaziali X,Y,Z e le tre componenti del vettore velocità nelle stesse direzioni, VX, VY, VZ. Le tre coordinate spaziali si ottengono dalla posizione angolare (relativamente facile da misurare, si tratta delle coordinate celesti della stella) e dalla distanza dell’oggetto, che è un problema più complesso ma per il quale si può trovare, in molti casi, una soluzione con un discreto grado di approssimazione. Per quel che riguarda le velocità una delle tre componenti del vettore, quella lungo la linea di vista, può essere misurata ottenendo uno spettro della sorgente e

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VERSO L’INFINITO E OLTRE di studi. Può provvedere una misura geometrica della distanza attraverso la parallasse trigonometrica. Nel moto annuale di rivoluzione la Terra si trova, a sei mesi di distanza, da un capo all’altro di un segmento immaginario lungo ≈300 milioni di chilometri. Misurando la posizione angolare di una stella dai due capi del segmento si può ricavare l’angolo al vertice del triangolo formato dal segmento e dalla stella (parallasse) e dunque derivare una distanza diretta, non dipendente da una candela standard. Naturalmente anche questo angolo è minuscolo e la sua misura è estremamente difficile. Il parsec, come abbiamo visto, è definito come la distanza di un oggetto la cui parallasse è esattamente di un secondo d’arco. Dunque già alla misera distanza di 100 pc la parallasse è un centesimo di secondo d’arco, ovvero 10 mas. È questo il panorama nel quale ha fatto irruzione la missione spaziale che sta rivoluzionando la nostra visione della Galassia: Gaia. ARRIVA GAIA! Gaia è una cornerstone mission dell’Agenzia Spaziale Europea progettata per raccogliere l’eredità di Hipparcos, portando le misure astrometriche in una fase del tutto nuova, “rompendo” il muro del moto proprio. L’osservatorio spaziale è stato lanciato nel dicembre 2013 dalla base di Korou, in Guyana francese, a bordo di un vettore Soyuz-Fregat. Ha impiegato

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misurando lo spostamento in lunghezza d’onda di righe spettrali note rispetto alla lunghezza d’onda a riposo (effetto Doppler). Si tratta di un procedimento che richiede strumentazione adeguata e tempo di osservazione ma è una misura assolutamente standard nell’astrofisica moderna. Tuttavia, le altre due componenti sono intrappolate nel moto angolare nel piano del cielo che, come abbiamo visto, può essere un effetto impercettibile e dunque molto difficile da misurare su scale di tempo comparabili con la vita umana. Fino a solo 3 anni fa le stime di moto proprio si limitavano a rare misure relative ad altissima precisione in campi molto piccoli (e dunque per piccoli campioni di stelle) ottenute con il telescopio spaziale Hubble, e da difficili misure di stelle brillanti derivate con sforzi eroici da telescopi terrestri confrontando immagini prese a grande distanza di tempo (decenni). Una notevole eccezione era costituita dalla missione spaziale Hipparcos, che negli anni ’90 misurò con grande accuratezza il moto proprio di poco più di centomila stelle selezionate e molto brillanti. Tuttavia la mancanza di moti propri accurati costituiva un vero e proprio muro alla nostra conoscenza della Galassia. La tecnica per la misura accurata delle posizioni angolari delle stelle, e, conseguentemente dei moti propri, si chiama astrometria. L’astrometria ha un’altra applicazione potenzialmente utilissima in questo tipo

Figura 4. Le sottili linee bianche tracciano la direzione del moto delle stelle della Grande (a sinistra) e Piccola (a destra) Nube di Magellano, così come lo ha misurato Gaia (EDR3). Sono chiaramente visibili i moti di rotazione.

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Figura 5. Alcuni dei tidal streams identificati usando i dati Gaia sono qui riportati su un immagine della Galassia analoga a quella in Figura 3. Nel caso specifico si tratta prevalentemente di streams prodotti dalla distruzione di ammassi stellari nell’alone. Da https://www.cosmos.esa.int/web/gaia/iow_20180930

circa 20 giorni di navigazione per raggiungere il suo sito di operazioni (il punto lagrangiano L2 del sistema terra-sole, alla distanza di ≈1.5 milioni di chilometri dalla terra), un punto dove è possibile mantenere un’orbita stabile, protetta dal punto di vista termico. Dopo un periodo di aggiustamento e di collaudo, Gaia ha cominciato il suo programma pianificato di osservazioni nel luglio 2014 e ormai ha superato da un po’ i 2400 giorni di operazioni, già più di 600 giorni oltre il piano originariamente prestabilito. La missione è concepita per osservare ripetutamente tutte le stelle del cielo fino a un certo limite in luminosità (magnitudine), misurando le posizioni (e dunque, col passare del tempo, parallassi e moti propri) con un’accuratezza senza precedenti su questa scala. Oltre alle misure astrometriche Gaia acquisisce la fotometria delle stelle osservate, in modo da poter caratterizzare le stelle con i loro flussi

apparenti e colori. Infine, ottiene misure di velocità radiale, da spettri, per un sottoinsieme di stelle particolarmente brillanti. Ha già raccolto e inviato per l’analisi oltre 92 Terabyte di dati. Chi scrive fa parte, assieme a oltre 400 altri scienziati prevalentemente di istituti scientifici europei (con un apporto di primissimo piano da parte degli astrofisici italiani), del consorzio Gaia-DPAC (Data Processing and Analysis Consortium) che si occupa di trasformare i dati grezzi che giungono dal satellite in misure scientificamente utili e ben caratterizzate, che vengono poi messe a disposizione degli scienziati di tutto il mondo (e nei fatti, di chiunque abbia un collegamento a internet) perché possano farne uso per qualunque applicazione scientifica abbiano in mente. La prima pubblicazione completa di parallassi e moti propri derivati autonomamente da Gaia (Data Release 2 – DR2) è avvenuta il 25

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VERSO L’INFINITO E OLTRE aprile 2018. Da quel giorno sono stati pubblicati su riviste internazionali peer-reviewed ben 5127 articoli scientifici (al 20 aprile 2021) che hanno usato i dati della missione, 105 dei quali hanno già superato le 100 citazioni nella letteratura scientifica. Grazie alle soluzioni tecnologiche adottate e alla raffinatezza del processo di riduzione dei dati, Gaia ha decisamente sfondato il muro astrometrico. La più recente data release (EDR3) include misure astrometriche per oltre 1,8 miliardi di stelle. Le prestazioni naturalmente degradano per le stelle più deboli ma restano di assoluta eccellenza. Nel caso di un sistema stellare, come un ammasso stellare o una galassia nana, si possono combinare le misure di molte stelle per ottenere un moto medio molto più preciso delle misure individuali. In questo modo, ad esempio, è stato possibile ottenere una mappa incredibilmente dettagliata dei moti interni e delle interazioni reciproche per le due maggiori galassie satelliti della Via Lattea, le Nubi di Magellano, a dispetto della loro grande distanza globale (in particolare nella Grande Nube) e anche il flusso di stelle della Piccola Nube verso la Grande Nube dovuto all’interazione con la compagna maggiore. Si può osservare nella Figura 4 e più direttamente al sito https://www.cosmos.esa.int/web/gaia/edr3-structuremagellanic-clouds. I dati resi disponibili dalla missione Gaia hanno permesso avanzamenti significativi in ogni campo della ricerca astrofisica, dalla fisica stellare ai pianeti extrasolari, dagli ammassi stellari al moto della galassia di Andromeda, dalle stelle variabili alla scala delle distanze. Ma l’aspetto più rilevante in questo contesto, uno degli obiettivi scientifici principali della missione, è costituito dallo studio della struttura, della dinamica e dell’evoluzione della nostra Via Lattea. In questo settore la quantità di risultati rilevanti (inclusa la scoperta di nuove galassie satelliti e di migliaia di nuovi ammassi stellari nel disco Galattico) è troppo imponente per essere anche solo riassunta qui. Mi limito a un esempio che trovo particolarmente affascinante, relativo alla storia della formazione della Via Lattea. ARCHEOLOGIA GALATTICA La teoria corrente per la formazione delle galassie, derivata direttamente dal modello cosmologico, prevede che le galassie si assemblino nel corso del tempo cosmico attraverso il progressivo fondersi di unità più

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piccole, che sono le prime a formarsi. Questo processo, detto di merging gerarchico, dovrebbe essere stato massimamente efficiente nel lontano passato ma ci si aspetta che sia proseguito fino ad oggi e la ricerca dei relitti di questi eventi di distruzione e inglobamento di piccole galassie è cruciale per confermare la teoria. Questo tipo di studi è fiorito negli ultimi 20 anni grazie ad alcuni importanti avanzamenti tecnologici ed è letteralmente esploso con Gaia. Quando una galassia nana entra per la prima volta nella sfera di influenza della Via Lattea subisce gli effetti della sua forza mareale. Questa, così come quella esercitata dal Sole solleva il livello dei mari ai capi opposti del globo terrestre, comincia a strappare materia oscura e stelle dai “capi opposti” della malcapitata, incominciando un processo di distruzione che finirà con l’inglobare tutte le stelle della nuova arrivata dentro l’alone Galattico. Le stelle strappate dalla forza mareale non sono più legate alla galassia nana progenitrice ma continuano a muoversi lungo orbite molto simili, formando lunghe scie ordinate di stelle, i tidal streams (letteralmente “correnti mareali” o “ruscelli mareali”). Gaia, con la sua capacità di raggruppare le stelle non solo per distanza ma anche per moto, si è dimostrata incredibilmente efficiente nel trovare questi relitti che ci permettono di ricostruire la storia di costruzione e di misurare “IO MANGIO LE STELLE” «Non ho mai conosciuto Rebecca (Becky) Elson di persona, ma la conoscevo di nome e di fama fin dai tempi della mia tesi di laurea. La maggior parte dell’attività scientifica di entrambi si è svolta nello stesso settore di astrofisica stellare e galattica, conoscevo i suoi lavori». Michele Bellazzini ha scritto la prefazione a un libro di poesie, suggestivo in sé e a maggior ragione per essere stato pubblicato postumo. L’autrice Rebecca Elson, astrofisica canadese che aveva lavorato a Cambridge, a Princeton e allo Space Telescope Institute di Baltimora, è infatti prematuramente scomparsa nel 1999. Al nudo dato della scienza, Rebecca aveva affiancato quell’emozionata parola che viene accesa dal firmamento: non in quanto fisica, ma in quanto bellezza. Il libro è stato tradotto in italiano: Io mangio le stelle. La poesia celeste di Rebecca Elson, Kurumuny editore.


con grande accuratezza il potenziale gravitazionale della nostra Galassia. Si veda in proposito la Figura 5 e https://arxiv.org/abs/2012.05245 Il più grande relitto mareale, ben conosciuto già da prima dell’avvento di Gaia e ora caratterizzato con grande accuratezza grazie ai dati della missione, è il Sagittarius Stream, un’imponente struttura mareale che avvolge l’intera Via Lattea, dovuta alla distruzione, ormai quasi completa, della galassia sferoidale nana del Sagittario che in questo momento sta per attraversare il disco Galattico “dietro” al bulge. Le misure di Gaia hanno permesso di rivelare che il disco galattico nei dintorni del Sole non è in equilibrio ma mostra i segni di una perturbazione. Diversi studi suggeriscono che la perturbazione è stata causata da un precedente passaggio della galassia del Sagittario attraverso il disco, non lontano dal Sole. Inoltre si è potuto dimostrare che in corrispondenza di quel passaggio si è avuto un considerevole aumento del tasso di formazione stellare nel disco. L’impatto avrebbe provocato una compressione del gas favorendo l’evento di formazione stellare (si veda in proposito la Figura 6 e si consulti anche https:// www.esa.int/About_Us/ESAC/Five_fascinating_Gaia_revelations_about_the_Milky_Way). Questo è un esempio spettacolare di come il merging gerarchico influenzi la formazione delle galassie in un modo dinamico: la danza del Sagittario attorno alla Via Lattea, che porta alla sua progressiva distruzione e dissoluzione nell’alone galattico, ha anche influito fortemente sulla struttura e formazione stellare del disco galattico. È stato suggerito, sulla base delle coincidenze spaziali e temporali, che l’episodio di formazione stellare dovuto al passaggio del Sagittario sia quello in cui è nato il nostro Sole. Se questa ipotesi speculativa fosse confermata dovremmo la nostra stessa vita, in maniera molto diretta, agli effetti di uno scontro fra galassie. LA STELLINA COLPISCE ANCORA (EPILOGO) Al termine di questo viaggio vertiginoso, vorrei tornare per un momento a Figura 1. Nella più recente delle quattro immagini vediamo far capolino dal margine superiore un’altra stella brillante, HD134439: la sua comparsa dimostra che anch’essa sti sta muovendo in modo sensibile, come HD134440. Infatti le misure fornite da Gaia confermano con grande accuratezza che le due stelle sono alla stessa distanza e si muovono nella stessa direzione alla stessa velocità, come noto da tempo. Sono compagne: si trovano alla mutua

Figura 6. Rappresentazione artistica del processo di distruzione della galassia nana del Sagittario e dei suoi passaggi attraverso il disco Galattico.

distanza di ≈4 centesimi di parsec e se fossero legate gravitazionalmente in un sistema binario avrebbero un periodo orbitale di ≈5.3 milioni di anni. Ma che siano legate o meno, procedono di conserva, dunque hanno la stessa origine. E benché si trovino in prossimità del Sole hanno una velocità molto diversa dalle stelle di disco e metallicità pari a 1/25 del valore solare. Infine la loro abbondanza chimica dettagliata è molto più simile a quella che si osserva nelle galassie nane piuttosto che nell’alone della Via Lattea. Dunque la stella che ho scelto, del tutto casualmente e solo sulla base dell’elevato moto proprio, come esempio di stella “evidentemente non fissa” è, assieme alla sua compagna, a sua volta un probabile relitto del processo di formazione gerarchica della Via Lattea, che ci porta il suo messaggio in bottiglia da una galassia ormai dissolta fin sulle spiagge dei dintorni solari. Gaia accumula misure ogni giorno e questo migliora ogni giorno l’accuratezza e la precisione delle misure: sappiamo bene che ci sono ancora tantissime cose che potremo scoprire, tantissimi risultati che potremo raffinare e migliorare, tanto spazio per ottenere una mappa sempre più dettagliata della nostra Via Lattea e della sua evoluzione. Gaia EDR3 è basata sui dati raccolti dal satellite durante i primi 34 mesi di missione. Nel 2022 ci sarà un ulteriore release (DR3), basata sui dati dello stesso periodo, che renderà pubbliche misure non-astrometriche di grande rilevanza (ad esempio misure di metallicità delle stelle). Ma le successive release provvederanno misure astrometriche (e non) basate su dati accumulati per 60 mesi e infine, se tutto va per il meglio, per 120 mesi. L’avventura di questa stupefacente missione spaziale continua e il meglio deve ancora arrivare. ■

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LE STORIE NELL’ARTE

WARHOL & CO FOREVER AMERICA Dal 1961 al 2001. Quarant’anni di avanguardia hanno impresso negli Usa e in tutto il mondo dei codici dirompenti. Una semiotica tra controcultura e spirito pop. Arturo Galansino

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accontare quarant’anni di arte americana, non è uno scherzo. La mostra American Art 1961-2001, di cui sono curatore assieme a Vincenzo de Bellis, si è aperta il 28 maggio e andrà avanti fino al 29 agosto a Palazzo Strozzi a Firenze. È un repertorio molto denso, variegato, che include ogni medium, dalle installazioni ai video, e fa del molteplice una sua cifra distintiva. Non è un repertorio completo, ma è certamente paradigmatico: quello che il visitatore vedrà nelle sale, e di cui il lettore di Prometeo ha un piccolo assaggio in queste pagine, è una selezione dalle collezioni del Walker Art Center di Minneapolis, una delle raccolte più significative di quell’immenso giacimento di immagini che hanno contribuito a definire l’American Art. È materia ricca, polifonica, in un certo senso non ancora stabilizzata, perché priva del filtro della storia. La percepiamo, tuttora, come parte del nostro presente, una contemporaneità che, dall’altra sponda dell’Atlantico, emette i suoi segnali, lancia le sue incursioni. I NOSTRI HIGHLIGHT

Abbiamo fatto una scelta, coerente con le caratteristiche del Walker Art Center: un modello di centro

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artistico contemporaneo, un «luogo per tutte le arti», caratterizzato da una collezione molto varia. Abbiamo seguito lo stesso criterio, ben consapevoli che queste opere non definiscono integralmente l’arte americana che va dagli anni Sessanta al nuovo Millennio, ma ne compongono una traccia significativa. Ci sono sale dedicate a Matthew Barney e a Kara Walker ed è ben rappresentato anche il grande coreografo Merce Cunningham, con il suo approccio multidisciplinare tra danza, musica e arte visiva e le sue collaborazioni con John Cage, Jasper Johns e Robert Rauschenberg. Questi sono alcuni tra gli highlight, ma certamente non potevano mancare artisti celeberrimi del mondo Pop come Andy Warhol, Roy Lichtenstein e Cles Oldenburg, o altri che esprimono la loro sensibile profondità interiore come Louise Nevelson e Mark Rothko. Salta subito all’occhio che nella nostra selezione manca, ad esempio, la grande pittura del periodo, e anche nella nostra mostra i dipinti tradizionalmente intesi sono pochi. È una scelta, vanno dichiarati i limiti imposti dagli spazi di una struttura, ma in fondo, analogamente, è ciò che vincola quando si decide di circoscrivere una storia collettiva tanto ricca di


Andy Warhol, Sixteen Jackies, 1964. Tutte le immagini sono courtesy Fondazione Palazzo Strozzi.

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LE STORIE NELL’ARTE

input. Penso che nella mostra ci sia grande coerenza, una linea, nel delineare un percorso che può essere incarnato in modo molto eloquente da alcune opere. Esempio perfetto è la scenografia per Walkaround Time (1968), in cui Jasper Johns si ispira al Grande vetro di Marcel Duchamp, accogliendo l’eredità del grande artista, padre dell’arte concettuale. “BRUCIA, RAGAZZO, BRUCIA”

Questa grande stagione, in particolare il decennio dei Sessanta, pieno di libertà e di decostruzioni, è testimoniata da opere di grandissimi maestri come Donald Judd, Robert Morris, Bruce Nauman, John Baldessari. Sono artisti destinati a diventare punti di riferimento per le generazioni successive perché hanno saputo reinterpretare le nuove possibilità dell’arte. In un certo senso, hanno colonizzato nuovi territori, non diversamente da quel cowboy della Marlboro, tipico dell’immaginario americano e elemento del paesaggio umano yankee, che Richard Prince cita letteralmente come esercizio critico sull’identità americana. L’American Art di quel periodo ha una fortissima cifra “contestativa” e la tensione culturale è in sintonia con i movimenti di quegli anni. Risulta impossibile

Dall’alto: Mark Rothko, No. 2, 1963; Frank Stella, Sketch Les Indes Galantes, 1962; Dan Flavin, Untitled 1966-1969.

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Kerry James Marshall, “WE SHALL OVERCOME”, e “BLACK POWER” sono riproduzioni del 1998.


accostarsi a questo momento artistico senza considerare il contesto sociale, di critica anche radicale, in cui si muove. Diritti civili, scontri razziali, fatti di cronaca. E tragedie anche ricorrenti, come l’immagine di Jacqueline Kennedy immortalata per sempre da Andy Warhol, dramma nazionale ma anche dramma privato. La spinta politica di quegli anni è un fatto talmente potente che anche noi abbiamo accolto la suggestione delle date: l’11 dicembre del 1961 inizia ufficialmente la Guerra del Vietnam, l’11 settembre del 2001 vengono abbattute le Torri Gemelle. Sono questi i quarant’anni che racchiudono l’epos della nostra mostra e più in generale di questo particolare segmento della storia artistica. E, tuttavia, le tracce ribelli non sono univoche e nei decenni si alternano altre traiettorie: l’Arte concettuale e Fluxus, il New Dada e la Pop art, l’Hard-Edge Painting e il Minimalismo, la Videoarte e l’Appropriazionismo. Dappertutto sentiamo l’attrazione della nuova fron-

Roy Lichtenstein, Artist’s Studio No. 1, 1974. In alto, Sherrie Levine, Fountain (after Marcel Duchamp), 1991.

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LE STORIE NELL’ARTE

Cindy Sherman, Untitled #92, 1981. Sotto, Bruce Nauman, Art Make-Up, 1967-1968.

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A sinistra: Richard Prince, Cowboy, 1980-83; Lorna Simpson, Wigs, 1994; Kara Walker, Testimony 2004. Sopra: Kerry James Marshall, Blind Ambition, 1990.

tiera, delle nuove sperimentazioni, di un viaggio che procede, sempre verso Ovest, verso la nuova mecca artistica californiana: Los Angeles soppianterà New York come nuova mecca artistica? Un’epopea che scorre fino a noi e non è mai finita. ■

ARTURO GALANSINO Arturo Galansino è uno storico dell’arte e critico d’arte italiano. È curatore di mostre di livello internazionale e autore di saggi e articoli. Da marzo 2015 è il Direttore Generale della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze. La sua direzione è marcata da una programmazione fortemente contemporanea, con importanti progetti monografici proposti con un linguaggio accessibile e incentrati su temi attuali..

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SETTECENTO GALANTE

SINTASSI (ILLUMINISTA) DELL’AMORE Prima di Roland Barthes, altri frammenti di un discorso amoroso. In una lettera a Sophie, con gioco grammaticale, Denis Diderot crea il “complemento di complicità”. Nunzio La Fauci

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il 13 ottobre 1759. Denis Diderot scrive a Louise-Henriette Volland, detta Sophie: «Avec vous je sens, j’aime, j’écoute, je regarde, je caresse. J’ai une sorte d’existence que je préfère à toute autre. Si vous me serrez dans vos bras, je jouis d’un bonheur au-delà duquel je n’en conçois point. Il y a quatre ans que vous me parûtes belle, aujourd’hui je vous trouve plus belle encore. C’est la magie de la constance, la plus difficile et la plus rare de nos vertus». («Con voi sento, amo, ascolto, guardo, carezzo. Ho una sorta d’esistenza che preferisco a ogni altra. Se mi stringete tra le braccia, godo d’una felicità oltre la quale non ne concepisco altra. Sono quattro anni che mi vi palesaste bella, oggi vi trovo ancora più bella. È la magia della costanza, la più difficile e la più rara delle nostre virtù»). Quando l’amore ispira prose, capita sovente le ispiri trite e sul principio di questo passo c’è una bella infilata di verbi banalmente pronti a ricorrere nella prosa epistolare di qualsiasi innamorato: “sento”, “amo”, “ascolto”, “guardo”, “carezzo”. Quando ricorrono, verbi siffatti lo fanno in genere nel loro uso transitivo: «ti sento, ti amo, ti ascolto, ti guardo, ti carezzo... e sono felice». Non succede così sotto la penna di Diderot (philosophe che scrive alla sua diletta Sophie, si osservi anche in prospettiva onomastica).

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A precedere i verbi in questione, sta ciò che un grammatico direbbe un complemento di compagnia, che ne riceve così rilievo. Non “vi amo”, ma “con voi amo”. Colei cui il testo si indirizza è la seconda persona: formalmente suona come voi; funzionalmente è “tu” e come tale ci si riferirà a essa nel seguito. La compagnia di “tu” è quindi presentata come condizione al verificarsi di azioni e sentimenti della prima persona: “io” tanto funzionalmente, quanto formalmente. È condizione della “sorta d’esistenza” che la prima persona preferisce. “Tu” non è oggetto, si ponga, di un “carezzare” che ha “io” come soggetto. “Tu” è contesto determinante per il “carezzare” di “io”, per il quale, senza “tu”, di carezzare non si darebbe il caso. Senza “tu”, a “io” mancherebbe l’esperienza di “carezzare”. Ne sortisce un’illustrazione della natura reciproca se non simmetrica dell’esperienza erotica. Non solo dell’erotica, naturalmente, ma dell’erotica per elezione. La carezza, che carezza chi la riceve, è esperienza della carezza per chi la fa. I gatti, destinati dall’istinto alla carezza, procurano il godimento della carezza a chi li carezza, per esempio. Per altri versi, nel costrutto con complemento di compagnia, “tu” non satura e restringe a sé la valenza predicativa, come farebbe se ricorresse nella funzione di oggetto diretto. Resta condizione per il dispiegarsi


Un celebre ritratto di Denis Diderot (1713-1784). Nel luglio 1751, 270 anni fa, è stato pubblicato il primo volume dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Credit: Akg Images/Copperprint Fy/Mondadori Portfolio.

dei predicati, in altre parole, perché “io” senta, ami, ascolti, guardi, carezzi nella vaghezza dell’uso assoluto. La vaghezza non è però indeterminazione. La relazione “tu”-“io” vi si atteggia non come limite ma come possibilità, non come costrizione ma come libertà. Dalla fedele o, meglio e come si coglie in fondo al passo, dalla costante condizione della compagnia della seconda persona viene alla prima la possibilità di esperire e di fare, senza che l’oggetto dell’esperienza e dell’azione sia pregiudizialmente ristretto. Cos’è allora un complemento di compagnia siffatto? Torna utile un exemplum fictum. Ecco tre diverse descrizioni della medesima scena: Al calare del sole, tu ed io leggevamo ancora di Ginevra e Lancillotto, …con te io leggevo ancora di Ginevra e Lancillotto, …con me tu leggevi ancora di Ginevra e Lancillotto. Secondo diverse prospettive, esse proiettano i partecipanti in funzioni sintattiche differenti. Nel loro insieme, mostrano però che tra soggetto e complemento di compagnia può darsi una corrispondenza che consente una varietà di messe in scena. Se dunque Diderot indirizza alla sua bella enunciati che, in superficie, lo vedono come solo soggetto di quei costrutti graziosi, lo fa in virtù di tale gioco. Prospettato come complemento di compagnia, “tu” ne è implicito soggetto al pari di “io”. Nella solidarietà, gode dei medesimi privilegi che concede. In casi del genere, come definizione,

“complemento di complicità” sarebbe forse ben più appropriato di “complemento di compagnia”. Il passo esprime d’altra parte la condizione di complicità in modo molto sottile e, a questo punto, a chi legge queste chiose si chiede un supplemento di attenzione analitica. Nella parola di Diderot, “io”non tira in ballo “noi”, quarta persona grammaticale, per dire che “sentire”, “amare”, “ascoltare”, “guardare”, “carezzare” gli accadono in un contesto di complicità. “Noi” è un artifizio del discorso. “Io” può facilmente ricorrere a tale artifizio per includervi “tu”. È quello che succede di norma nella parola che si atteggia banalmente a innamorata (o solidale). “Io” costruisce un “noi” inclusivo di “tu” e, discorsivamente, istituisce così un insieme indistinto. Che “io” lo faccia con le migliori intenzioni, con le più amorevoli, non assicura a “tu” che, una volta privato della sua individualità e disperso in un “noi” creato e gestito da “io”, non gli capitino le cose peggiori. Nella parola di Diderot, “tu” e “io” vivono invece la comune esperienza in complice compagnia senza disperdersi in “noi”. “Tu” e “io” sono insieme e ciascuno è se stesso/a: è condizione dell’amore e del relativo piacere. L’espressione di Diderot pare allora lessicalmente corriva ed è sintatticamente notevole. Forse, vi occhieggia un modo di concepire la vita umana e, in essa, la definizione della migliore relazione che possa legare chi ne gode: l’amore, cioè la passione, la libertà e il rispetto di una vita comune, anche solo sognata, come fu il caso di quella di Louise-Henriette e Denis, del philosophe e della sua Sophie. Tali attitudini non vi sono però sbandierate come proclami. Vi sono iscritte nelle funzioni della lingua e nel tessuto nascosto della sintassi, che è appunto composizione. Solo le cose vere vi vivono e le relazioni e le differenze, a chi sa coglierle, si svelano per quello che sono, buone o cattive che siano. ■ NUNZIO LA FAUCI Nunzio La Fauci è professore emerito dell’Universität Zürich (UZH) e insegna oggi a Palermo. Ha studiato a Pisa con Riccardo Ambrosini e fatto ricerca a Parigi con Maurice Gross. All’attivo oltre duecento pubblicazioni, tra cui un Compendio di sintassi italiana (Il Mulino) e una raccolta di saggi dal titolo Relazioni e differenze. Questioni di linguistica razionale (Sellerio). Con Carol Rosen, ha pubblicato Ragionare di grammatica (ETS).

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IPOTESI TEMERARIE

I NUOVI DEMIURGHI DEL CLIMA Inondazioni e tornado. Ma anche siccità ed effetto serra. Contro i fenomeni climatici estremi, la geoingegneria propone di schermare la radiazione solare con anidride solforosa, in tutto il mondo. In Italia si sta invece valutando lo stoccaggio sottoterra di anidride carbonica. A quale prezzo? Paolo Bartolomei

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ono passati più di 25 anni da quel Protocollo di Kyoto che ha semplicemente messo nero su bianco ciò che era noto da decenni. E cioè che è in atto un riscaldamento globale, che bisogna ridurre i gas climalteranti, ovvero smettere di bruciare combustibili fossili e passare all’utilizzo di energie rinnovabili. Una diagnosi semplice, ma una terapia difficile da somministrare perché si scontra con gli interessi del vecchio modo di produzione, che in tutta evidenza non ha intenzione di riconvertirsi. La prima reazione per il mantenimento dello statu quo è stato il negazionismo, che ormai ha ben pochi seguaci a livello scientifico. Ne ha ancora meno nella percezione comune: gli effetti del cambiamento globale sono presenti nell’esperienza sensibile e nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Tuttavia, a livello politico, tra immobilismi, inerzie e calcoli sbagliati, le politiche energetiche continuano a non risolvere i problemi e anzi a far danni ulteriori. In parallelo alle tesi negazioniste, da decenni girano, sotto traccia, ipotesi diverse, che non negano l’esistenza del cambiamento globale, ma, prima sommessamente, poi con crescente clamore mediatico, reclamano un “piano B” per invertire il trend dell’aumento

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delle temperature. Si tratta della geoingegneria, un termine coniato in articolo del 1977, che la definiva come l’insieme delle tecnologie proposte per ridurre, su scala planetaria, il riscaldamento globale. Agendo su due direzioni: la cattura della CO2 in atmosfera e la riduzione della radiazione solare incidente. UN BREVE EXCURSUS

Sono state fatte diverse ipotesi, ma la prima ad avere una certa notorietà è stata quella avanzata nel 1997 da Edward Teller ; sì, proprio lui, il Dottor Stranamore, il padre della bomba all’idrogeno. Teller ha proposto la creazione di uno schermo solare introducendo delle particelle riflettenti in larga scala negli strati superiori dell’atmosfera, un’operazione che, ha sostenuto, costerebbe 100 volte di meno della spesa necessaria per rispettare il Protocollo di Kyoto. Successivamente la geoingegneria è stata riproposta anche da Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica nel 1995 per i suoi studi fondamentali sulla chimica dell’atmosfera e in particolare sul buco dell’ozono. Crutzen è noto a un pubblico più vasto grazie a un libro sul clima: Benvenuti nell’Antropocene (Mondadori), un saggio sostanzialmente ecologista ma accolto


Con una base compresa tra 50 a 100 metri, i tornado sono in grado di travolgere con venti superiori a 350 km/h.

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IPOTESI TEMERARIE con favore anche nella comunità scientifica. Il turning point è avvenuto nel 2006: Crutzen cura un numero monografico di Climate Change in cui sostiene che il cambiamento climatico è già in fase molto avanzata, le emissioni di CO2 continuano a crescere globalmente con un incremento del 2% annuo, mentre occorrerebbe ridurle del 60-80%; quindi, per avere risultati in tempi ragionevoli, non rimane che intervenire schermando i raggi del sole. L’idea viene mutuata dall’eruzione del vulcano Pinatubo nel 1991, che rilasciò 20 milioni di tonnellate di SO2 in atmosfera, di cui circa un terzo raggiunse la stratosfera determinando una diminuzione della temperatura globale di 0,5 °C per sei mesi. Invece di pensare ai missili, come Teller, Crutzen propone di utilizzare dei palloni ascensionali che verrebbero fatti esplodere nella stratosfera ad una altezza tale che il tempo di residenza in quota delle particelle sarebbe di 1-2 anni. Sarebbe quindi “sufficiente” disperdere un milione di tonnellate di composti a base di zolfo all’anno, con un costo di 25-50 miliardi di dollari. Stavolta non si sostiene più che il costo sarebbe minore di quello connesso al rispetto dei parametri di Kyoto,

si afferma semplicemente che questo sarebbe un intervento veloce ed efficace, soprattutto compatibile con il modo di produzione corrente. Anche se la proposta stavolta viene da un “civile” l’impronta “militare” è evidente, tant’è che in molti, per dimostrare l’illegittimità della proposta hanno citato la Convenzione di Ginevra: il protocollo aggiuntivo siglato nel 1978 inserisce tra le “armi proibite” le condotte belliche che mirano a modificare il clima e l’ambiente. UN’IPOTESI PROPRIAMENTE SULFUREA

Arriviamo ai giorni nostri e assistiamo ad una ripresa delle proposte. La più nota è quella del progetto SCoPEx finanziato dal Solar Geoengineering Research Program (SGRP) dell’Università di Harvard e da Bill Gates. In questo caso si sarebbe dovuti passare anche a delle verifiche sperimentali abbandonando l’infernale zolfo per passare al carbonato di calcio. Era programmato un primo lancio di un pallone stratosferico dal Centro Spaziale Esrange a Kiruna, in Svezia già nel giugno 2021. Le proteste sull’iniziativa e il ripensamento sui rischi hanno portato, per

Alluvioni ed esondazioni, causate dal dissesto idrogeologico, comportano danni per 100 miliardi di dollari l’anno.

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il momento, all’annullamento del test. Tuttavia, nel contempo stiamo assistendo, soprattutto negli Stati Uniti, al proliferare di progetti sulla geoingegneria solare promossi da diverse Università, ma anche da organismi pubblici come la NASA . È facile correlare questo fermento con il mood politico indotto dall’amministrazione Trump e lo spirito negazionista che ha pervaso il quadriennio recentemente terminato: i cambiamenti climatici non esistono, ma se esistessero saremmo comunque in grado di intervenire. L’iniziativa editoriale più emblematica è la recente pubblicazione del libro Under a White Sky: The Nature of the Future. L’autrice, Elizabeth Kolbert, è una giornalista del New Yorker, peraltro Premio Pulitzer e visiting fellow al Williams College. Il titolo richiama uno degli effetti collaterali della hard geoengineering ovvero il cambiamento dell’aspetto del cielo in seguito alla dispersione del particolato. Se venisse utilizzato carbonato di calcio il colore virerebbe sul biancogrigio sporco, mentre i composti a base di zolfo porterebbero a tinta vagamente bianco-giallastra. In entrambi i casi, l’operazione confinerebbe i nostri cieli azzurri nel repertorio dei ricordi del passato. È un testo prezioso, frutto di un’indagine rigorosa e anche se non menziona il tema della riflessione della luce solare e si dilunga invece sugli altri metodi di intervento contro i cambiamenti ambientali indesiderati: da quelli storici e consolidati come il controllo dei corsi d’acqua, fino a quelli più recenti e controversi come l’utilizzo dell’ingegneria genetica per migliorare le specie vegetali in agricoltura o ad esempio salvare gli ecosistemi della barriera corallina intervenendo sul genoma dei coralli. Il pezzo centrale dello studio sono le tecniche di cattura della CO2, dove, con un linguaggio scorrevole, documentazione fotografica e tabelle curate vengono presentate tecniche molto innovative. Sono facoltà realmente mature e accessibili? A tratti sembra che, volendo, già oggi si potrebbero comprare on line i diritti di stoccaggio nelle formazioni geologiche profonde dove, automaticamente, l’anidride carbonica si fissa permanentemente nelle formazioni rocciose. Il ragionamento è quindi molto articolato e porta ad un messaggio più evoluto e in un certo senso autoritativo: gli interventi di modificazione dell’ambiente si sono sempre fatti, perché quindi non utilizzare su larga scala le possibilità delle nuove tecnologie per mitigare il riscaldamento globale?

PAOLO BARTOLOMEI Fisico all’ENEA di Bologna (dal 1980 al 2018) si è occupato prevalentemente di radioattività ambientale e geochimica isotopica. Attualmente collabora con il Dipartimento di Fisica e Scienze della terra dell’Università di Ferrara. Nel corso del tempo, ha condotto ricerche anche sulla contaminazione ambientale post bellica da Uranio impoverito e sulle ricadute in termini di sicurezza ambientale causate dai rifiuti radioattivi. Ha una lunga pratica ambientalista, prima nella Lega Ambiente e ora in Greenpeace.

OLTRE LE FANTASIE

A questo punto abbandoniamo voli pindarici e immaginazioni varie per giungere alla realtà della CCS (Carbon Capture and Storage), la tecnica che prevede di catturare la CO2 e iniettarla in profondità sottoterra. Attualmente esistono 65 strutture CCS commerciali: 26 sono in funzione, due hanno sospeso le operazioni (una per motivi economici connessi alla recessione, l’altra a causa di un incendio), tre sono in costruzione, 13 sono in fase di sviluppo avanzato, 21 sono in fase di sviluppo iniziale. Gli impianti per l’iniezione sono molto complessi, fortemente energivori e nascono da tecniche sviluppate e utilizzate correntemente nell’industria estrattiva. Ad esempio la tecnologia EOR (Enhanced Oil Recovery) consiste nell’iniezione dell’anidride carbonica in giacimenti semiesauriti di petrolio e gas naturale consentendo così di sfruttare al massimo le potenzialità dei pozzi. Gli Stati Uniti sono i leader mondiali di questa metodologia e utilizzano circa 32 milioni di tonnellate all’anno di CO2 a questo scopo, acquistandola dai produttori (raffinerie, acciaierie e cementifici). Tecniche simili vengono utilizzate per estrarre completamente il gas dai giacimenti di metano e da quelli misti carbone-metano. Si tratta quindi del riciclaggio di tecniche estrattive nate per ottenere il vantaggio immediato di ottimizzare le estrazioni stesse. Volendole invece utilizzare per lo stoccaggio, bisogna garantire la sicurezza del deposito nel tempo. Le strutture inevitabilmente si degradano e la sigillatura del deposito (chiusura mineraria di fine esercizio) può avere problemi di contenimento. A questo bisogna aggiungere le perdite laterali del gas

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IPOTESI TEMERARIE per l’aumento della permeabilità delle rocce incassanti dovuta alle soluzione acide causate dell’interazione tra la CO2 e le acque sotterranee. Negli impianti CCS attuali la CO2 iniettata non si fissa nelle rocce, ma cambia semplicemente stato fisico: per effetto della pressione viene raggiunto lo stato supercritico, una condizione particolare in cui l’anidride carbonica ha la densità di un liquido, ma conserva la viscosità di un fluido. Si tratta di una condizione particolare che può giocare brutti scherzi, come ritornare repentinamente allo stato gassoso in seguito anche a sollecitazioni involontarie. UN INCIDENTE STORICO E AMMONITORE

La supercriticità della CO2 ha determinato l’incidente del 1986, in Camerun, nella profondità del Lago Nyos. Il bacino si trova in una zona equatoriale, segnata da poca escursione termica e quindi da una condizione stazionaria: le acque sono quasi immobili. Trattandosi di una zona vulcanica sono presenti naturalmente emanazioni di CO2 che si erano accumulate sul fondo del lago e che per effetto della pressione dell’acqua avevano raggiunto lo stato

supercritico. Il 21 agosto del 1986 improvvisamente si sono sprigionate dal lago più di 100mila tonnellate di anidride carbonica, un’eruzione che ha provocato la morte di 1700 persone e di migliaia di bovini nel raggio di 25 chilometri. La causa scatenante del disastro pare essere stata una frana che, semplicemente agitando le acque in profondità ha determinato la repentina trasformazione di fase della CO2, con quelle conseguenze drammatiche. PROGETTI ITALIANI

Infine veniamo al nostro Paese, dove abbiamo a che fare con la proposta dell’ENI di costruire un impianto di stoccaggio CCS a Ravenna, nella zona di Porto Corsini, iniettando la CO2 nei vecchi giacimenti di metano off-shore ormai esauriti. Inizialmente l’impianto dovrebbe raccogliere le emissioni dello stabilimento Versalis e della centrale a gas di Casal Borsetti, poco più a nord sulla costa, di proprietà dell’Eni; in seguito dovrebbe diventare un vero e proprio hub, in grado di raccogliere le emissioni di altri impianti entro e fuori Regione. La multinazionale italiana ha un progetto obietti-

Death Valley. Erosa nel corso delle ere geologiche, sta subendo un’accelerazione delle temperature massime.

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La desertificazione è un pericolo per le regioni aride e secche del pianeta, cioè quasi il 40% delle terre emerse.

vamente maiuscolo: a Ravenna vuole realizzare il più grande centro al mondo per la CCS, con una potenzialità di stoccaggio di 7 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno entro il 2030 e di 50 milioni di tonnellate all’anno entro il 2050. Nel complesso in questo sito potranno essere conservate fino a 300-500 milioni di tonnellate di CO2. L’Eni afferma che costerà circa due miliardi di euro e per realizzarlo vuole attingere ai fondi del piano nazionale di ripresa e resilienza (PRR): circa 209 miliardi di euro di cui il 37% destinato alla “transizione ecologica”: per combattere il cambiamento climatico. La versione del PRR del 29 dicembre 2020 attribuiva al progetto Eni un finanziamento di 1,35 miliardi di euro. In seguito alle proteste degli abitanti e degli ambientalisti risulta cancellato, ma secondo molti osservatori potrebbe essere semplicemente modificato o forse trattato in modo più discreto. Le ragioni della protesta sono le stesse dell’opposizione generale alla CCS: i costi e i consumi di energia aggiuntivi ridurrebbero pesantemente i vantaggi della cattura di CO2. Senza contare le preoccupazioni per gli ecosistemi, le falde acquifere e l’impatto sulle caratteristiche geochimiche dei sistemi. IL PERICOLO MAGGIORE

Ma c’è una questione che sovrasta tutte ed è l’incremento del rischio sismico. Dopo decenni di utilizzo di tecniche di iniezione in varie parti del mondo sono emerse con chiarezza evidenze di sismicità indotta in zone che non erano classificate a rischio prima di questi interventi. Uno dei meccanismi responsabili di questi terremoti indotti appare essere il fenome-

no ben conosciuto dell’indebolimento di una faglia preesistente quando aumenta la pressione dei fluidi . Tutta l’Italia ha una particolare sensibilità rispetto al rischio sismico, ma a Ravenna la cosa assume un significato particolare. Da una parte c’è la consapevolezza della fragilità geologica del sito ravennate. Dall’altra è ancora molto vivo il ricordo del terremoto in Emilia-Romagna del 2012 e dei sospetti che, in alcune zone, l’evento fosse stato “triggerato” e/o amplificato dalle trivellazioni. Sotto accusa furono messe, in particolare, le attività estrattive di idrocarburi in località Cavone, vicino a Mirandola. Per fugare questi sospetti la Protezione Civile, su richiesta della Regione Emilia-Romagna, ha istituito la Commissione ICHESE: International Commission on Hydrocarbon Exploration and Seismicity in the Emilia Region, un organismo deputato allo studio delle possibili relazioni tra attività di esplorazione per idrocarburi e aumento dell’attività sismica nell’area colpita dal terremoto dell’Emilia-Romagna . Ne è emerso un giudizio non perentorio e non definitivo: secondo la Commissione, i dati sperimentali non consentono di attribuire la responsabilità del sisma alle attività di estrazione, ma non consentono nemmeno di escluderlo. Il deposito previsto per Ravenna sarebbe più impattante delle trivellazioni, per le dimensioni più grandi, per la possibilità di creare sovrapressioni e infine perché si inietterebbe CO2 in un campo dove prima era presente metano senza valutare che il comportamento geochimico dei due gas è completamente diverso. Ma non facciamo prima a chiudere le vecchie centrali e a cambiare modello di produzione? ■

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PENSIERO STUPENDO

PERCHÈ LA FILOSOFIA UCCIDE LA POESIA? Per Marìa Zambrano la logica prevarica. A trent’anni dalla scomparsa della filosofa spagnola, facciamo il punto su un conflitto che parte da Platone e arriva a Kierkegaard. Armando Savignano

M

aría Zambrano appartiene alla cosiddetta “Generazione del 1927” di cui fanno parte, tra gli altri, Federico García Lorca, Rafael Alberti, Pedro Salinas, G.Guillén, Salvador Dalí, Luis Buňel, J. Ramón Jiménez (Nobel nel 1956). Un gruppo di pensatori e artisti, una generazione che ha segnato il passaggio dal modernismo all’avanguardia ed al surrealismo. L’opera di María Zambrano (Vélez-Málaga, 22 aprile 1904 – Madrid, 6 febbraio 1991) può essere considerata una “filosofia della crisi” anche a partire dall’esigenza di unità e coerenza tra vita e pensiero. A trent’anni dalla morte, dopo un esilio di quasi cinquant’anni come passionaria dell’anti-franchismo (M. Zambrano, L’esilio come patria, Morcelliana, 2016) è opportuno ripercorrere la sua originale traiettoria intellettuale, il cui nucleo è contrassegnato dalla teoria della ragione poetica. Per Zambrano è impossibile una poesia non intrisa di pensiero; ma neppure è plausibile, al contrario, una ragione senza poesia. Solo la sintesi di entrambe è in grado di indicarci il vero cammino, come emerge in Filosofia e poesia (1939) tratta dalle conferenze tenute all’università di Michoacán (Messico). Quest’opera sembra costituire una risposta al celebre corso orteghiano del 1929 sull’idea di filosofia rispet-

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to alla quale Zambrano intravvede quello spirito di violenza che, a suo dire, ha caratterizzato l’attitudine razionalistica della filosofia greca, moderna e contemporanea. «Il cammino della filosofia, a cui il filosofo fu spinto dal violento amore per quanto ricercava, abbandonò la superficie del mondo, la generosa immediatezza della vita, basando il suo ulteriore possesso totale in una prima rinuncia. L’ascetismo era stato scoperto come strumento di questo genere di sapere ambizioso». Mentre per Ortega, la filosofia in quanto teoria è eroismo intellettuale, per Zambrano essa è una «estasi fallita a causa di uno strappo». Se la filosofia e la poesia nascono dalla meraviglia, occorre indagare le cause della biforcazione delle rispettive vie, ovvero perché il pensiero predilige un mondo di astrazioni, un intento sistematico, mentre la poesia permane nella contemplazione estatica. La tragedia della filosofia sta «nell’essere anzitutto uno stupore estatico dinanzi alle cose, cui fa seguito un subitaneo farsi violenza per liberarsene». Nella filosofia – come ha rilevato Ortega – di fronte al principio ascetico di cauta ritirata rappresentato dall’autonomia, agisce un principio opposto di tensione all’universalità, che egli denomina pantonomia. In contrapposizione a questa via basata esclusivamente sulla conoscenza, Zambrano situa la poesia: «L’altro


René Magritte (1898-1967) “Le bouquet tout fait“. Credit: Album/Fine Art Images/Mondadori Portfolio.

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PENSIERO STUPENDO

Giorgio De Chirico, “The Torment of the Poet”, Yale University Art Gallery.

cammino è quello del poeta. Il poeta non rinuncia, non cerca neppure, perché già possedeva. Possedeva immediatamente ciò che davanti a lui, ai suoi occhi, all’udito e al tatto appariva: possedeva ciò che guardava e ascoltava, ciò che toccava, ma anche tutto ciò che popolava i suoi sogni, i suoi personali fantasmi interiori, mescolati in tal modo con altri, con quelli che vagavano al di fuori, che uniti formavano un mondo aperto dove tutto era possibile». Attuando il principio di autonomia, la filosofia inizia con un drammatico “strappo”. E così vediamo «già più chiaramente la condizione della filosofia: meraviglia, certamente, stupore di fronte all’immediatezza delle cose, cui fa improvvisamente seguito uno strappo, un brusco allontanamento per lanciarsi altrove, verso qualcosa da cercare e perseguire, perché non si dà, perché non ci fa dono della sua presenza. E qui già inizia l’affannoso cammino, lo sforzo metodico per catturare qualcosa che non abbiamo e di cui abbiamo talmente bisogno, e così rigorosamente, da strapparci da ciò che già abbiamo senza averlo cercato. Ma la poesia non «può separarsi, neppure per un istante, dall’origine, per captare meglio le cose e perciò su questo punto si distingue dalla filosofia».

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Il poeta vive nell’incanto di ciò che ci fa dono della sua presenza, del contatto immediato con la bellezza del reale. María Zambrano fa parte di quei pensatori che furono «fedeli alle cose, fedeli alla loro primitiva meraviglia estatica, non vollero mai lacerarla; non avrebbero neanche potuto, perché la cosa stessa si era ormai fissata in loro, impressa nel loro intimo». La filosofia, a differenza di quanto sostenuto da Ortega, non è conoscenza sistematica della realtà della vita; da questo lato è votata all’insuccesso, in quanto non può cogliere quelle zone di penombra del’irrazionale. Essa è semmai il risultato dell’insuccesso di un’estasi; l’origine di tale caduta viene espressa mediante una ragione narrativa, contrassegnata da un sapere esperienziale, più che tramite l’astratta ragione. La filosofia è il risultato del tradimento del pensiero che distanziandosi dalla meraviglia ha subìto lo strappo. Intorno al tema della violenza, della superbia e di una terminologia di guerra in contrapposizione al principio passivo, appassionato della poesia, al “logos pieno di grazia e di verità”, al “potere dolce”, allo stupore dinanzi alla vita, ruotano le riflessioni poetico-mistiche col metodo della ragione poetica, che Zambrano nel ’39 forse non aveva ancora del tutto elaborato. E tutto ciò è intriso di speranza che filosofia e poesia ritornino, come erano originariamente, a fondersi in un logos in grado di apprendere una “verità rivelata e indecifrabile”, al di là dell’essere e della creazione. Si tratta, in contrapposizione al razionalismo, di un logos che renda ragione al di là della stessa ragione di ciò che vi è e di ciò che è, cioè renda presente un’assenza, come aveva affermato Ortega. «La verità – osserva anche Zambrano – si riconosce già come parziale e la stessa ragione svelatrice dell’essere riconosce la differenza ingiusta tra ciò che è e ciò che vi è» . PLATONE E LA CONDANNA DELLA POESIA

Nelle prime tre conferenze, Zambrano affronta il celebre tema della condanna platonica della poesia (nella Repubblica), senza tuttavia approfondirne il contesto e le motivazioni di fondo, fatta eccezione per la terza conferenza dove accenna a cause teologico-mistiche piuttosto che prevalentemente etico-politiche. Ha inizio così «nella cultura occidentale la vita rischiosa della poesia, quasi respinta ai margini della legge, maledetta, costretta a vagare su accidentati sentieri, sempre sul punto di perdersi, esposta al continuo pericolo della follia». Pensiero e poesia erano inizialmente uniti nella


nostra cultura occidentale, come due facce di una stessa medaglia, poiché costituivano l’espressione completa dell’essere umano. «Poesia e pensiero ci appaiono come due forme insufficienti ed implicano le due metà dell’uomo: il filosofo ed il poeta. Non si troverà l’uomo integrale nella poesia; né si scoprirà la totalità dell’umano nella filosofia. Nella poesia troviamo direttamente l’uomo concreto, individuale. Nella filosofia, l’uomo nella sua storia universale, nel suo voler essere. La poesia è incontro, dono, invenzione con grazia. La filosofia è ricerca guidata da un metodo». Con Platone assistiamo alla scissione tra queste due fondamentali attività umane. «In Platone il pensiero, la violenza della verità ha combattuto una tremenda battaglia con la poesia (…); se ne sente il fragore in numerosi passaggi dei dialoghi, dialoghi drammatici in cui lottano le idee e al di sotto di esse si intuiscono battaglie ancora più aspre. Forse la più grande è quella di colui che, essendo nato per la poesia, si è deciso invece per la filosofia». È in Platone che «la lotta fra le due forme della parola, ingaggiata in tutto il suo vigore, si conclude col trionfo del logos, del pensiero filosofico, determinando ciò che potremmo definire “la condanna della poesia”». Commentando il mito platonico della caverna, Zambrano ne inverte il senso. Secondo Platone, l’uomo vive in un mondo di finzione e di sogno, da cui cerca la liberazione abbandonando la caverna. Al contrario, per Zambrano, quando nasce alla coscienza, l’uomo percepisce l’oscurità, è privo di qualsiasi protezione e sta solo dinanzi alla realtà; per cercare riparo si inoltra, pertanto, nella caverna della “formasogno” alla ricerca di sicurezza: è il regno dell’essere, mentre al di fuori rimane il mondo della realtà, che suscita interrogativi ai quali l’uomo cerca una risposta mediante la ragione. «La conoscenza dei sogni è una finestra – è noto da molto prima di Freud, sin dalla notte dei tempi – o è per lo meno una fessura aperta su una strana verità: la verità della menzogna, della congenita menzogna in cui la creatura umana sembra aver necessità di avvolgersi, così come si avvolgono le creature appena nate: coprendole per difenderle da quelle intemperie in cui si sono gettate dalla nascita. Entrando nel sogno l’uomo cessa per quanto è possibile di essere persona per ritornare creatura». (M. Zambrano, El sueño creador, Turner, Madrid 1986). Nel mito platonico, l’uomo abbandona la caverna nella quale si sentiva incatenato in un mondo di finzione e di ombre per aprirsi alla vera realtà, cioè al

ARMANDO SAVIGNANO È stato ordinario di Filosofia morale al Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Trieste. È anche ispanista, esperto di culture ispanoamericane, ambito al quale dedica molte energie editoriali con saggi su De Unamuno, Ortega Y Gasset, e Cervantes. È il direttore scientifico dell’edizione in italiano di tutte le opere di Maria Zambrano. Di recente ha pubblicato Miradas al pensamiento español. La Edad de Plata, Editorial Sinderesis.

mondo esterno. Per Zambrano, al contrario, il mondo esterno è contingente, mutevole e soggetto al tempo; perciò abbiamo necessità di ripararci addentrandoci in un altro mondo di sicurezze creato dall’uomo: quello della “forma-sogno”. «Entrare nel sogno significa entrare sotto il sogno o piuttosto attraverso il sogno in un luogo sotterraneo, in una grotta (…),cadere nel grembo della vita madre che tutto concede , cessare di prestare attenzione al gioco imposto dalla realtà». Il mondo esterno delle verità assolute di cui parla il mito platonico, costituisce invece, per Zambrano, l’universo di finzioni che ci accoglie nella caverna. All’esterno abbiamo, dunque, la realtà contingente e misteriosa, all’interno, c’è il mondo assoluto e perfetto “dell’essere”: evidenti le allusioni e le analogie con la differenza tra essere e realtà teorizzata da Xavier Zubiri. «Succede allora che – scrive Zambrano – l’essere si è installato al posto della realtà». Si tratta qui «dell’essere uno, identico a se stesso, senza pori, sottratto al tempo». In definitiva, «il mondo del sogno è il mondo di Parmenide», mentre Eraclito vive alle intemperie, nel tempo. Secondo Platone, l’ispirazione poetica non è anzitutto di indole intellettuale: «Il poeta è un essere leggero, alato, sacro, che non sa poetare se prima non sia stato ispirato dal dio, se prima non sia uscito di senno, e più non abbia in sé intelletto». Contrariamente al filosofo, che ha una totale fiducia nella coincidenza del pensiero con la realtà stessa (adaequatio rei et intellectus), il poeta non pretende definire la realtà, ma si lascia possedere dalle sue luci e soprattutto dalle sue ombre senza disfarsene. «Il poeta – osserva Zambrano – ha da sempre saputo ciò che il filosofo ha ignorato, cioè che non é possibile possedersi da sé. Si dovrebbe essere più di se stessi; possedersi a partire

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PENSIERO STUPENDO da qualche altra cosa che si situa al di là, da qualcosa che possa effettivamente contenerci. E questo qualcosa non sono più io». Il poeta non si affida all’intelletto per adeguarsi alla realtà; al contrario, ogni suo essere è un essere in altro. Platone condanna la poesia poichè ritiene che la natura dell’uomo consista soltanto nella pura ragione, emarginando, quindi, tutto ciò che sfugge al dominio dell’essere. «Solo la poesia ha il potere di mentire, perché solo essa ha il potere di sfuggire alla forza dell’essere. Solo la poesia sfugge all’essere, lo elude, se ne burla». Il poeta coglie la vera realtà non mediante la pura razionalità, bensì affidandosi alla memoria per poter ricevere la rivelazione del reale. La poesia, che svela le tracce di un altro tempo e di un’altra vita, non arretra di fronte all’eterogeneità e molteplicità delle cose. Prima di ogni conoscenza intellettuale, il poeta sente una presenza che lo fa essere più di se stesso oltre a mostrargli la sua mendicità «di fronte al vuoto che il suo sentire registra» (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni

Eastman Johnson, “The Girl I Left behind Me”. Smithsonian Museum, Washington.

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Lavoro, Roma 2001). María Zambrano apre una nuova via per fuggire dalle oscurità della caverna senza esporsi alla piena luce ma privilegiando la penombra. «Vale di più – osserva – accondiscendere dinanzi all’impossibilità, che andar errando, sperduto, negli inferi della luce». Ecco perché afferma: «Ho preferito l’oscurità che in un tempo ormai passato scoprii come penombra salvatrice, che andar errando, sola, sperduta, negli inferi della luce». POESIA, FILOSOFIA E MISTICA

Allontanandosi progressivamente dal “sentire originario”, la filosofia non esplorerà più la dimensione ermetica del cuore per decifrarne i momenti di sofferenza il cui orizzonte è la rivelazione dell’assenza. È a questo livello pre-logico del sentire originario che è possibile comprendere come «la realtà rivoluzionaria abbia una definizione poetica e non dottrinale. La rivoluzione sarebbe un atto di fede, che si dà all’interno di ciascuno e che miracolosamente si spera che un giorno si produca in tutti» (M. Zambrano, Luoghi della poesia, a cura di A. Savignano, Bompiani 2011). La valenza strutturalmente sociale della poesia rompe l’ermetismo della realtà mediante una parola in grado di esprimere l’ineffabile e attraverso una voce che, essendo suono inarticolato, non si lascia catturare dal logos per essere comunicabile. La voce del poeta, che risuona in fondo ad ogni espressione, è, secondo Zambrano, quella “solitudine sonora”, quella “musica silenziosa”, di cui parlava San Giovanni della Croce. In effetti, il senso si dà già nella cadenza e nell’intonazione della voce che risuona in quel «mare interiore della psiche senza parola, in cui sorgono voci disarticolate, da cui ci arriva continuamente un rumore simile a quello del mare: confuso, anonimo e ritmico» (M. Zambrano, I sogni e il tempo, Pendragon, 2004). Il grido, anche senza contenuto verbale, è pura materia sonora che irrompe dalle viscere e fa parte delle rivelazioni della physis, che Zambrano interpreta come corporeità vivente, attraverso la quale appare la realtà poetica dell’ápeiron. «Ciò che si intende per realtà in senso paradigmatico è il fatto di sentirla provenire da un fondo ultimo, che si potrebbe chiamare ápeiron, accettando in questo modo il primo concetto filosofico del reale di Anassimandro. Ma è un tipo particolare di realtà: quello per cui, sebbene sia già quando l’ho percepita, è appena giunta e si rivolge a me proponendomi qualcosa: vuole essere decifrata, essere captata» (M. Zambrano, Il sogno creatore, a


cura di C. Marseguerra, Bruno Mondadori, 2002). La vita umana si rivela nel dispiegarsi di un logos matematico-musicale, come emerge dalla tradizione orfico-pitagorica, che era stata ingiustamente esclusa dal logos della filosofia (specialmente da Aristotele), e che Zambrano tenta di reintegrare all’interno di un sapere più ampio. Con il logos numerico non si scopre soltanto l’armonia dei contrari, ma anche quell’ombra infinita e atemporale che vive nelle profondità del cuore dell’uomo: l’anima. La discontinuità della musica permette di pervenire ad un’unità non dell’essere, ma della vita nel suo fluire temporale, proprio in virtù di quel logos-armonia che cerca di rendere ragione dell’esperienza umana che il pensiero sistematico non è in grado di oggettivare. Nel pitagorismo, infatti, la parola, che è figlia del numero e del ritmo, non dell’essere, scaturisce da un movimento musicale. Mentre l’universo del logos (parola) costituirà la sostanza unica di un principio regolatore del reale, l’universo del numero è, invece, un’unità molteplice, fondata sulla discontinuità che dà origine al sapere molte cose (polimatìa). Ma con la filosofia di Parmenide quell’oscuro fondo indifferenziato diventerà pura unità del divino. «E così, l’ápeiron, come punto di partenza di ogni indagine, fu ben presto sostituito dall’uno di Parmenide, la seconda rivelazione conseguita dalla filosofia, una rivelazione ormai esclusivamente filosofica». Rispetto a questa ardita concezione, la filosofia pitagorica e le religioni misteriche anteriori avevano contrapposto la discontinuità e l’assenza di ogni finalità. Ma è soprattutto con Aristotele che, ormai lontano da quel “sentire originario”, il tempo è riscattato dalla molteplicità poiché è concepito come un tempo pieno, un motore immobile. L’unità aristotelica, distaccandosi dalla physis, dal sentire originario, sarà totalmente astratta, sostanza identica a se stessa e sottratta così alla pluralità e al mutamento. «Rimane così enunciata, dichiarata l’azione della Filosofia e del suo risultato, ciò che salva le aporie di questa unità e di questa molteplicità, come appare pienamente in Aristotele: la trasformazione del sacro in divino, poiché questa unità di identità, di essere e pensare, è il nucleo di ciò che si chiama Dio» (M. Zambrano, Note di un metodo, a cura di S. Tarantino, Filema, 2002). ARISTOTELE E IL POTERE

In nome della volontà di potere, che pervade d’ora in poi tutta la cultura occidentale, Aristotele estende i principi del pensiero a tutta la realtà attraverso la

Edgar Degas, “The Conversation”. Yale University Art Gallery.

storia. Invece la poesia – e qui Zambrano allude all’epica omerica – non solo precede la narrazione storica, ma genera la stessa storia. «La storia nasce quando si narra e si canta». La storia ha progressivamente abbandonato il sostrato musicale da cui scaturisce per configurarsi come costruzione architettonica orientata teleologicamente, alla quale Zambrano oppone la circolarità, la musicalità del logos che, rifuggendo dalle esclusioni, rompe le dicotomie ridando così un armonico equilibrio ai contrari. Il potere della poesia sta, infatti, anche nella sua capacità di circoscrivere un vuoto e di disfare attraverso di esso la storia. Il logos filosofico totalizzante e totalitario ha progressivamente annullato quanto la vita umana offriva nelle sue rivelazioni rinunciando a quell’intuizione originaria radicata nel sentire. Con la nascita della filosofia s’inaugura un tipo di sapere che chiede ragione delle cose, che domanda senza più porsi in ascolto; con la poesia, invece, la scoperta dell’essere avviene in seguito a una risposta. «L’idea dell’essere in quanto tale prima di essere domanda fu risposta». La filosofia, esigendo di cogliere il vero essere delle cose mediante il domandare, ha finito col perdere quella dimensione del senso che la risposta implicava. A causa dell’assolutizzazione della ragione discorsiva, la filosofia, divenuta sempre più impassibile verso qualsiasi rivelazione, farà in modo che solo «quanto

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PENSIERO STUPENDO è manifesto dev’essere non solo comprensibile, ma immediatamente compreso, ridotto pertanto a entrare in quella rete della ragione che sostiene, e che subito si stabilisce come ragione convenzionale e conveniente […] Che qualcosa sia dato, offerto: una presenza, anche un’assenza, e persino un cammino, un cammino offerto in dono come la vocazione,è in linea di principio condannato secondo quest’attitudine logica in termini di conoscenza, sottomessa alla storia come si pensa che accade». Invece, la risposta poetica che precede la domanda filosofica, implica non tanto la sfera visiva, come avviene nella filosofia, quanto l’ascolto, il cui centro è il cuore, non l’intelletto. Come ha rilevato Ortega Muñoz, la visione filosofica «tende ad essere una visione estatica spaziale ed a fissare di conseguenza la realtà in strutture stabili, mentre la visione poetica percepisce l’essere fluente della realtà, espresso piuttosto nel fluire del tempo, che la musica riduce all’unità». Mentre il poeta si affida con umiltà all’ascolto di ciò che ha ricevuto in dono, il filosofo, che aspira al potere ed al predominio, privilegia l’idea per «delimitare ogni cosa, ogni essenza nella sua forma». L’evidenza conseguita attivamente dal filosofo attraverso l’idea riflette una coscienza solitaria e perde ciò che invece richiede di essere captato passivamente. La solitudine del filosofo gli impedisce di vivere in comunità, nonostante Ortega y Gasset avesse «immaginato la vita come dialettica di solitudine e compagnia e avesse detto che “vivere è convivere”». Mentre il filosofo è un io autosufficiente in contrapposizione alla presenza di un altro, nel poeta c’è piuttosto un deserto, un vuoto, perché solo quando una presenza si manifesterà, giungeranno con essa tutte le altre. «L’esistenza dell’io, dell’io che pensa si rivela nella coscienza solitaria; nella solitudine del cuore non si sa chi parla, giacchè è dal silenzio dove risuona la parola come venuta da lontano; come se qualcuno abbandonato e infine atteso cominciasse a snocciolare il suo segreto: è l’oscurità che si schiude ed una chiarezza non vista comincia a brillare; qualcosa che brilla senza essere illuminato». Si tratta di quella presenza che si rivela nell’assenza. Richiamandosi a quel “realismo materialista spagnolo” che rifugge da speculazioni filosofiche astratte, con particolare riferimento alla grande tradizione mistica del Secolo d’oro e alle suggestive osservazioni di Miguel De Unamuno, Zambrano cerca con tenacia di recuperare e valorizzare tutti quei generi letterari che hanno portato abbondanti frutti attraverso un

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Robert Delaunay, “Political Drama”. National Gallery of Art, Washington.

pensare che è prima di tutto amore per la realtà concreta e molteplice. L’amore rappresenta il motore che consente quel trasferimento del centro di gravità in altro. La perfetta unità di amore e conoscenza viene a volte e fugacemente raggiunta proprio nell’esperienza mistica e nell’ispirazione poetica, dove si attua un misterioso contatto tra reale e soprannaturale, tra presenza e assenza. La teoria della ragione poetica nasce da questo sostrato mistico che in Zambrano costituisce un metodo per superare i radicalismi razionalistici ed idealistici, caratterizzati dalla volontà di sistema, che producono intolleranza, totalitarismo e violenza. Invece la prossimità tra il mistico e il poeta – e anche l’esiliato – emerge dal fatto che essi non hanno un proprio posto nel mondo «né geografico, né sociale,


né politico, né – cosa assolutamente decisiva per poter dar vita a quello sconosciuto – ontologico» (M. Zambrano, I beati, SE, 2015, a cura di C. Ferrucci). Delineando a suo modo una storia dei rapporti tra filosofia e poesia, Zambrano pone in luce il ruolo del cristianesimo che grazie alla visione platonica dell’amore ha potuto far spazio alla poesia nell’ambito dell’ascetica cristiana. Con la Divina Commedia dantesca si realizza un «momento felice, talvolta irripetibile di unione, senza vaghezze e nebulose identificazioni, tra poesia, religione e filosofia». Rispetto alla mistica, sottolinea fin d’ora «una questione grave, se cioè ogni poesia sia in definitiva mistica o la mistica sia nella sua radice poesia; una forma di religione poetica o religione della poesia». LA POESIA È TUTTO?

Nel pensiero moderno, Zambrano indaga su quella che chiama “metafisica della creazione” dei sistemi idealistici, per la quale l’io, a differenza del Medio Evo, è considerato libero, autonomo e soprattutto creatore. Pertanto, l’arte, quale manifestazione dell’assoluto, assurge a funzione divina nei pensatori dell’idealismo romantico tedesco. Nel romanticismo, poesia e filosofia «si abbracciano, giungono a fondersi in alcuni momenti con una furia appassionata; come amanti separati per lungo tempo e che nell’incontro presagiscono che la loro unione non sarà duratura, si fondano con la passione che precede la morte». Rispetto alle esagerazioni romantiche cercano di ristabilire un certo equilibrio figure come Beaudelaire e soprattutto Kierkegaard, dal momento che l’artista ritorna nel suo status di “creatura” e per la prima volta la poesia si divide dalla filosofia e assurge a potere imperiale riducendo il ruolo dell’ispirazione, da delirio irrazionale dei romantici, a mero “lavoro”. Con Paul Valéry e la poesia pura si assiste all’identificazione tra pensiero e poesia sulla base di quest’ultima, in quanto il poeta a partire dalla poesia acquisisce “coscienza pura del suo sogno” e “necessità per il suo delirio”. «E la poesia pura afferma dal versante opposto del romanticismo ma con maggiore profondità, con maggiori diritti, potremmo dire, che la poesia è tutto. Tutto, naturalmente, in relazione alla metafisica; tutto, relativamente alla conoscenza; tutto per ciò che concerne la realizzazione essenziale dell’uomo. Al poeta è sufficiente far poesia per esistere; è la forma più pura di realizzazione dell’essenza umana». Nel delineare i rapporti tra poesia e metafisica, nelle ultime due conferenze del libro, Zambrano

utilizza la nozione di potere nel senso di dominio per differenziare poesia e filosofia nell’esistenzialismo. Riconoscendo una procedura arbitraria, sostiene l’implicazione tra potere e angoscia, in quanto c’è libertà. D’altra parte solo il sistema, quale “muraglia di ragioni” e «ultimo e decisivo sforzo di un essere naufrago nel nulla che può contare solo su di sé», è in grado di dar sicurezza all’uomo angosciato. Solo la poesia, che ha preso le distanze dalla volontà e dal potere, può dare alla creazione poetica amore per l’essere piuttosto che predominio violento su di esso. A differenza dell’uomo d’azione affascinato dal potere, «vi è chi si incatena per l’incanto di una presenza, per amore; vi è chi si incatena rinunciando o non percependo neppure l’infinità del potere. Quest’ultimo è il poeta. Il poeta è incatenato per l’incanto, e non perviene all’attualità del potere». La poesia ha una «integrità maggiore della metafisica», a differenza del filosofo che pone la salvezza nella libertà di ricerca disinteressata. Mentre la filosofia avanza nel tempo e nella storia, la poesia «disfa la storia», si distanzia dagli eventi alla ricerca del sentire originario al di là del tempo e della stessa angoscia. Il poeta non si rassegna a perdere la “patria originaria” che tuttavia non può incontrare nel solipsismo bensì in comunione con gli altri essendo la sua missione e vocazione quelle di un mediatore. Ciò nonostante, Zambrano non si rassegna alla dicotomia tra filosofia e poesia quando sostiene: «Non sarà possibile che un giorno fortunato la poesia raccolga tutto ciò che sa la filosofia, tutto ciò che apprese nel suo allontanamento e dubbio, per fissare lucidamente e per tutti il suo sogno?». Il metodo della ragione poetica non è altro che un rincorrere indietro nel tempo ma fuori del tempo quel sogno originario dove filosofia e poesia erano unite per svelarne la presenza nei momenti di contemplazione estatica. Proprio a questo è dedicato tutto il pensiero di Maria Zambrano mediante l’originale teoria della ragione poetica, che ha aperto in questo modo una via nuova nella post-modernità. ■ RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI J. ORTEGA Y GASSET, Che cos’è la filosofia ?, Mimesis, Milano 2013, a cura di A. Savignano) PLATONE, Ione, V, 533-534, in Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1992, J.F.O. MUÑOZ, L’unità di filosofia e poesia in María Zambrano, in M. Zambrano, Luoghi della poesia. M. DE UNAMUNO, Filosofia e religione, Bompiani, Milano 2013 , a cura di Armando Savignano.

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INDAGINI IPOTESI SCOPERTE RICERCATORI E STUDIOSI DI TUTTO IL MONDO AUMENTANO OGNI ANNO IL LIVELLO DELLE NOSTRE CONOSCENZE, INTEGRANDO E A VOLTE RIDEFINENDO PRECEDENTI VERITÀ. UN PATRIMONIO UNIVERSALE SU CUI TENERSI AGGIORNATI.

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

REPLICARE I CANONI DI BELLEZZA È inarrestabile l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale alle facoltà umane. Un gruppo di ricercatori della Stanford University ha impiantato un chip correlato a un software AI nel cervello di un uomo paralizzato, che è poi riuscito a “digitare telepaticamente” 94 caratteri al minuto. Intanto, le università di Helsinki e di Copenaghen hanno cercato di capire se e come l’AI può identificare le caratteristiche del viso considerate attraenti e se è possibile replicarle. Lo studio ha interpretato i segnali cerebrali di alcuni soggetti mentre guardavano una sequenza di volti artificiali: centinaia di ritratti, ottenuti con una rete neuronale avversaria generativa (GAN). Le immagini sono state poi mostrate a trenta individui, che dovevano indicare le più gradite. Misurando i giudizi con l’elettroencefalografia e confrontandoli con la rete neuronale, i nuovi volti attraenti coincidevano all’80% con i criteri della scelta iniziale.

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CLIMATOLOGIA

BOMBE TERMICHE NELL’ARTICO Vettori di acqua calda fluiscono nell’Oceano Artico dall’Oceano Pacifico, accelerando lo scioglimento del ghiaccio marino. La ricerca, finanziata dall’Office of Naval Research americano e coordinata dall’oceanografa Jennifer MacKinnon della Scripps Institution of Oceanography (Università della California), descrive le “bombe termiche sottomarine” come elemento che modifica ulteriormente l’Oceano Artico, pregiudicando la sua funzione di stabilizzatore climatico globale. Il varco di ingresso di queste warm jet è lo stretto di Bering (e il Barrow Canyon, costa settentrionale dell’Alaska), con un meccanismo finora sconosciuto. L’Artico è infatti un oceano atipico: le sue acque fredde e dense sono in superficie, non in profondità. Le warm jet che entrano sono più salate dell’acqua superficiale artica, e quindi la “subducano”, creando sacche interne molto calde: un fenomeno destinato a insediare organismi con proprietà biogeochimiche uniche. Un video spiega il fenomeno https:// www.youtube.com/watch?v=F-IpzUyfBRI


GENOMA

VERSO UN MAGGIORE CONTROLLO DEL RITMO CIRCADIANO

NUOVA LINGUISTICA

TRA ALGORITMI E PAROLE SCONOSCIUTE Mentre la MIT Technology Review informa che i ricercatori di Google ipotizzano di modificare radicalmente la struttura linguistica dei motori di ricerca – il famoso algoritmo – altri indagini rafforzano la convinzione che sia possibile ricostruire stati primitivi del linguaggio, anche per parole mai riportate da tracce scritte. Un esperimento congiunto di due gruppi di ricerca - la Soas University of London e il Max Planck Institute for the science of human history - ha applicato il metodo tradizionale comparativo, con modalità computer-assistita, per individuare idiomi in lingua Western Kho-Bwa, cioè parlate da minoranze indiane. Gli studenti sottoposti al test in questo modo dovevano “predire” il suono di certe parole sconosciute, poi i ricercatori andavano a verificarne la congruenza nei villaggi nativi. È emerso che il 76% delle predizioni erano esatte: uno score molto alto, che lascia supporre meccanismi linguistici predeterminabili.

Un team dell’Università di Stato della Pennsylvania ha identificato i cosiddetti “geni tic-tac” che determinano il nostro orologio biologico. Lo studio ridefinisce ciò che si sapeva in proposito. In particolare, il ritmo circadiano viene controllato non da una semplice sequenza del Dna, ma da una articolata rete di geni. La scoperta può innovare molte terapie connesse al malfunzionamento dell’orologio biologico umano, ma anche di quello animale e vegetale. Per Rogling Wu, coordinatore della ricerca, il ritmo circadiano è un fattore decisivo anche, ad esempio, per la produzione agricola e più in generale per la salvaguardia e la protezione di tutti gli ecosistemi.

PALEOLITICO MAGDALIENIANO

UN FRAMMENTO DI MANDIBOLA E LA STORIA DEGLI EUROPEI Grande fermento della paleontologia italiana. Oltre ai resti di Neanderthal rinvenuti al Circeo, unostudio recente mette in discussione le ipotesi sulla genesi degli “europei”. Gli archeologi del Bones Lab (Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna, sede di Ravenna) sono riusciti a decodificare i resti di un Sapiens rinvenuto nello scavo di Riparo Tagliente (Verona). Si tratta di frammenti di osso della mandibola

appartenenti a un uomo di trent’anni, vissuto nel 15.000 a.C. Il suo Dna presenta tratti comuni e affinità – in linea materna e paterna – con individui di periodi anteriori (19mila anni fa). Lo studio, coordinato da Stefano Benazzi e Eugenio Bortolini, documenta che, diversamente da quanto ipotizzato, gli antichi Sapiens erano stati capaci di adattamento anche durante il periodo glaciale, ricolonizzando poi il Continente.

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SUGLI SCAFFALI

LIBRIXIME UNDICI SAGGI. TITOLI STRANIERI E RISTAMPE. RISPOSTE SUL MONDO. UN AUTORE TRA LE PAGINE. RITRATTO BREVE. IL RACCONTO FINALE PER PROMETEO. 100 Fernanda Alfieri VERONICA E IL DIAVOLO di Sabina Pavone

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Paul Nurse CHE COSA È LA VITA di Luca Sciortino

Harald Haarmann CULTURE DIMENTICATE di Mariagrazia Pelaia

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Robin Blackburn IL CROGIOLO AMERICANO di Gianluca Beltrame

Eva Meijer LINGUAGGI ANIMALI di Lorenza Guidotti

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Marcello Flores IL GENOCIDIO di Alessandro Santagata

Allegra Iafrate CERCAR TESORI di Lucio Biasori

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Emanuele Dattilo IL DIO SENSIBILE di Bianca Maria Esposito

Edizioni estere e ristampe PUBLISHING & REPRINT

112 Fernando Bermejo-Rubio L’INVENZIONE DI GESÙ di Cristiana Facchini

115 Philippe Descola OLTRE NATURA E CULTURA di Gianfranco Marrone

118 Johann Chapoutot NAZISMO E MANAGEMENT di Marco Clementi

130 Adriano Prosperi TRA LE PAGINE

132 Giorgio Agamben RITRATTO BREVE di Antonio Lucci

134 Benjamín Labatut RISPOSTE D’AUTORE di Matteo Moca

138 DULCIS IN FUNDO STORIA SEGRETA Cesare Pavese


FERNANDA ALFIERI

VERONICA

E IL DIAVOLO 1834. UNA GIOVANE DONNA “POSSEDUTA” E LA COMPAGNIA DI GESÙ CHE CERCA DI SCACCIARE IL MALIGNO. SULLO SFONDO, UN PAPATO NERVOSO E UNA ROMA SOSPESA. di Sabina Pavone

C

hiunque entri in archivio lo fa per cercare storie, immaginare vite attraverso congetture che possono essere più o meno fondate. Talvolta le intuizioni sono corroborate dalle fonti a disposizione e allora ci si lascia andare all’interpretazione, forti di potersi avventurare su piste solide, talaltra gli appigli documentari si trovano con maggiore difficoltà e pur continuando quelle storie a vivere dentro di noi non arrivano sulla carta. Gli incontri possono essere frutto di casualità e – come scrive Fernanda Alfieri nelle prime pagine di Veronica e il diavolo – «è da questo limbo degli incollocabili che la storia di Veronica è arrivata qui, capitando tra le mie mani mentre cercavo altro, avvolta in una coperta dai margini sbriciolati e con sopra un nome che non era il suo: Esorcisazione di Maria Antonina Hamerani, ritenuta ossessa (1834-35)». La storia di questo libro è, infatti, quella di una giovane, presunta posseduta, e degli esorcismi che vennero messi in atto per

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liberarla dal diavolo in una Roma ottocentesca sospesa tra i cascami dell’antico regime e il tentativo di affacciarsi verso la modernità. È la narrazione della vicenda di una donna la cui voce fatica a uscire, se non per il tramite di quella del maligno, come d’altronde avevano faticato e stentavano ancora a farsi sentire le voci femminili perché – come recitava un’iscrizione riportata dall’autrice – «nell’infanzia del mondo, fin da quando la donna parlò, parlò male». In controluce, il libro è anche la storia di un ordine religioso, la Compagnia di Gesù soppressa alla fine del Settecento da un papa (Clemente XIV) e restaurata nel 1814 da un altro (Pio VII), che suscita ancora sentimenti contrastanti negli anni in cui è ambientata questa vicenda. TRA ISTERIA E POSSESSIONE

Il centro dell’azione vede un pullulare di figure affannarsi intorno al letto della presunta “ossessa”: Veronica Hamerani, ultima discendente di una famiglia romana ormai decaduta ma che ha visto i

suoi antenati coniare medaglie per i pontefici. La famiglia Hamerani «aveva una consuetudine di lunga data con il dolore e il soprannaturale […] aveva visto da tempo entrare e uscire dottori e sacerdoti […] fra salassi e benedizioni» ma è alla fine del 1834 che alcune voci suscitano l’attenzione dei gesuiti. In una casa di via sant’Anna, nei pressi della chiesa di san Carlo ai Catinari, una giovinetta pare essere preda di un maleficio diabolico ma per qualche motivo le autorità ecclesiastiche sembrano non interessarsene. Non così la Compagnia di Gesù che incarica padre Kohlmann e il confratello Böckmann di visitare la ragazza. Il primo rimarrà figura di riferimento nelle visite a Veronica, altri gesuiti – padre Manera e padre Massa – si avvicenderanno, con posizioni non univoche sulla natura del “male” che l’ha colpita. Sono anni in cui la medicina cerca di rintracciare in determinate manifestazioni i sintomi dell’isteria piuttosto che del maligno. Sono temi che l’autrice conosce molto bene grazie


alle sue ricerche precedenti su teologia e medicina nel XIX secolo e non a caso ci ricorda «una lunga tradizione [che] guardava al corpo femminile come interamente dipendente dall’utero, ostaggio della sua potenza tanto di generare quanto di distruggere». Sin dalla prima visita la giovane alterna momenti di quiete remissiva a momenti in cui, reagendo alle parole di benedizione pronunziate da padre Kohlmann «l’ossessa si cacciò ad urlare, alzò le gambe in alto […] [e] cominciò poi a gridare con voce alta e rabbiosa: Infame, infame, vattene via, cosa importa a te? Chi ti ci ha mandato? Che c’entri tu?». Per il gesuita i segni di possessione diabolica sono chiari e, a partire da quel primo incontro, il racconto si snoderà attorno al letto e, soprattutto, al corpo di Veronica. Il manoscritto dell’Esorcisazione, redatto da padre Manera e poi da padre Massa (custodito presso l’Archivio romano dei gesuiti) scandisce i tempi della narrazione, ma il racconto è disseminato da una serie di flashback, quasi fosse una sceneggiatura, attraverso i quali Fernanda Alfieri ricostruisce le biografie e, potremmo dire gli affanni, di quanti si alternano nella stanza di Veronica cercando di capire le origini del suo male. Non solo i gesuiti, che pure sono tra i princi-

pali protagonisti, ma anche figure legate alla religiosità popolare come il paolotto Bernardo Maria Clausi, il convertito ex luterano Augustin Theiner, medici tra cui Andrea Belli, assai poco convinto della genuinità della possessione. Ne dubita d’altronde lo stesso padre Manera – turbato anche da alcune voci diffamatorie che parlano di «un corpo disonorato [quello di Veronica] nel

Trenta ma gli echi del Quarantotto rivoluzionario già rimbombano sullo sfondo. Fallire nell’esorcismo sarebbe stato un segno di debolezza in un momento di difficoltà per il futuro della chiesa. Eppure, dopo tanto affannarsi, i tentativi di liberarla dal diavolo si rivelano vani, gli esorcismi, sempre più cruenti, dopo sei mesi s’interrompono. Il futuro della giovane

FALLIRE NELL’ESORCISMO DELLA GIOVANE HAMERANI SAREBBE STATO UN SEGNO DI DEBOLEZZA IN UN MOMENTO DI DIFFICOLTÀ PER IL FUTURO DELLA CHIESA. quale non era entrato il diavolo ma un uomo in carne ed ossa» e che per questo motivo chiede al generale della Compagnia di essere sollevato dall’incarico. L’alsaziano padre Kolhmann si affanna invece nell’impresa, convinto che dalla liberazione dell’ossessa dal maligno dipenda non solo il futuro di Veronica – paradossalmente essere posseduta è preferibile all’essere considerata pazza – ma quello della Compagnia e della Chiesa tutta. Scrive Alfieri che «sul corpo della giovane Hamerani, sul senso dato al suo dolore, si giocava la sorte della Chiesa, costruita su un esercito di celibi». Siamo a metà degli anni

Hamerani è comunque segnato, difficile pensare a una possibilità di redenzione e di lei si perdono le tracce, la sua voce si spegne, quella voce che talvolta lasciava intravedere Veronica, ma molto più spesso il diavolo. Fernanda Alfieri però non si perde d’animo e grazie all’intuizione corroborata dall’aiuto di una studiosa troppo presto scomparsa come Angela Groppi, rintraccia nell’Archivio di Stato di Roma il testamento dell’antica “ossessa”. Veronica ha vissuto una vita assai più lunga di quanto tutti si aspettassero: «Al mondo non c’era più nessuno dei suoi, e nessun altro si era aggiunto. Almeno stando

L’AUTRICE Fernanda Alfieri ha svolto dal 2006 attività di ricerca presso l’Istituto storico Italo-Germanico di Trento della Fondazione Bruno Kessler. Già docente a contratto presso l’Università degli Studi di Roma Tre e le Università di Trento e Verona, adesso è ricercatrice all’Università di Bologna. Fra le pubblicazioni: Nella camera degli sposi. Tomás Sánchez, il matrimonio, la sessualità (secoli XVI-XVII), Il Mulino, 2010; Il corpo negato. Tre discorsi sulla castità in età moderna, Edizioni Dehoniane 2014; con V. Lagioia (a cura di), Infami macchie. Sessualità maschili e indisciplina in età moderna, Viella, 2018.

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FERNANDA ALFIERI all’ufficialità delle carte. Ma c’erano ancora le cose, e si trattava, in fondo di mettere nero su bianco la propria volontà su quelle cose, e sul suo corpo che avrebbe lasciato dietro di sé». E Veronica lo fa, con «una scrittura dritta sul rigo invisibile». «Non c’era lo slancio della mano veloce, della mano maschia e impegnata» in quelle parole «ma una composta disciplina […] e una sottilissima, ma ancora viva, punta di gioco residuo, come di bambina invecchiata». Eppure, nemmeno le sue ultime volontà saranno accolte dopo la morte: alla richiesta di essere sepolta nella chiesa di san Carlo ai Catinari – magari accanto al padre sulla cui tomba aveva fatto scrivere un’epigrafe affettuosa (e sul fatto che il padre severo ricambiasse quell’affetto la lettura ci suscita numerosi dubbi) – l’avvocato Aquari, che ne eredita i beni, non dà corso. La sua tomba sarà lungo la cinta delle mura del Verano, lontana dai luoghi nei quali aveva vissuto. L’autrice, in una giornata fredda di dicembre, prova a cercarla ma non la trova. NON SOLO VERONICA

Veronica, dunque, posseduta, malata o impostora? Questa domanda non riceve risposta nel volume di Fernanda Alfieri. Perché Alfieri raccoglie indizi, fa congetture, cerca di riempire i vuoti, di rattoppare la stoffa con uno stile letterario che conquista il lettore ma non dimentica mai di essere una storica. Attraverso un’indagine minuziosa che esplora una trentina di archivi – le oltre cento pagine che seguono nel volume il dipanarsi della storia vera e propria attestano la ricchezza della ricerca – l’autrice riesce a rispondere a molte domande ma non a tutte perché la congettura non è invenzione, ma ipotesi

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plausibile. Colpisce nella lettura di Veronica e il diavolo il numero di volte che Alfieri utilizza la parola «forse», a voler sottolineare l’onestà intellettuale della ricercatrice rigorosa che non rinuncia a lasciarsi portare dalle storie ma si sente in dovere di specificare che «si può credere a questo racconto, ma non necessariamente perché sia davvero accaduto». Parlo al plurale di “storie” perché la vicenda che Fernanda Alfieri ci racconta non è solo la storia di Veronica, è la storia di tanti altri protagonisti di un mondo che sta cambiando e che ancora stenta a riconoscersi. Alcuni di essi emergono con particolare vividezza. Tra questi padre Manera, la cui penna prolifica ha lasciato diversi taccuini, fonte preziosa per ricostruire la sua biografia irrequieta e i suoi moti dell’animo. Ma si snoda di fronte a noi anche la storia di padre Kohlmann, dall’Alsazia a San Pietroburgo, a New York, passando dagli schiavi delle piantagioni che i gesuiti tenevano nel Maryland e che oggi l’università di Georgetown, ancora gesuita, si sta impegnando a risarcire, se mai ci può essere risarcimento. Le storie che ci racconta Alfieri non sono solo storie di uomini ma anche di paesaggi e, soprattutto, di città, tra cui spicca Roma, pulsante di uomini dalle storie minute; possiamo sentire il respiro quotidiano di quei «pigionanti di campagna e montanari, venuti in città in cerca di lavoro […] [quando] le febbri prendevano tutti, i poveri e i ricchi». Si comprende come l’autrice abbia fatto un grande lavoro non solo sulla documentazione scritta ma anche su quella iconografica del tempo. La città, il paesaggio, gli uomini e le donne che lo abitano.

Un affresco sociale in un passaggio importante come quello dall’antico regime a un Ottocento che ha attraversato la rivoluzione ma che stenta ad accettarne le implicazioni sul terreno sociale, politico, culturale e che pervicacemente tanta di attaccarsi al passato. L’esperimento di scrittura di Fernanda Alfieri è inconsueto nel panorama italiano – a me ha ricordato un testo come L’eremita di Pechino. La vita nascosta di Sir Edmund Backhouse di Hugh Trevor Roper, purtroppo oggi introvabile nel catalogo Adelphi. La scelta di lavorare su indizi e congetture lo avvicina per certi versi a testi importanti della stagione della microstoria ricordati dalla stessa autrice come L’eredità immateriale di Giovanni Levi (uscito nel 1985 per Einaudi ma ripubblicato nel 2020 da Il Saggiatore). Eppure questo volume è ancora qualcosa di diverso perché vi si ritrova un gusto per la narrazione non comune tra le storiche e gli storici. Le peregrinazioni di Alfieri non solo per archivi ma seguendo le tracce dei luoghi abitati dai suoi personaggi ne sono un indizio. Proprio il piacere del lettore nel lasciarsi andare alla narrazione può suscitare forse, alla fine del libro, un senso d’incompiutezza. Vorremmo più risposte, vorremmo sapere cosa era successo nel chiuso delle mura familiari degli Hamerani per provocare nella giovane Veronica la manifestazione di un dolore così scomposto da suscitare il sospetto che fosse posseduta dal diavolo. Dobbiamo invece accettare quei limiti che il rigore storico non ci permette di varcare. Un desiderio però lo possiamo assecondare: prendere il tram 19 e andare lungo le mura del Verano alla ricerca della tomba di Veronica. ■


PAUL NURSE

CHE COSA È

LA VITA?

TRA BIOLOGIA E COSCIENZA, TRA UMANO E ANIMALE, TRA UN RAGAZZINO E UNA FARFALLA: ANALOGIE E DIFFERENZE PER COGLIERE IL SENSO DEL BIOS. LE RIFLESSIONI DI UN PREMIO NOBEL CHE SI MISURA CON LA SCIENZA E CON SE STESSO.

di Luca Sciortino

A

L’AUTORE Paul Nurse, genetista e biologo cellulare, ha ricevuto oltre 60 lauree honoris causa e nel 2001 il Nobel per la medicina. Già presidente di Rockefeller University e Royal Society, è direttore del Francis Crick Institute di Londra, il più grande centro di ricerca biomedica d’Europa.

partire dal XIX secolo generazioni di scienziati e filosofi si sono interrogati su che cosa sia la vita. Con le loro risposte, fornite alla luce di conoscenze sempre nuove in biologia, la definizione di ciò che significa “vivere” è mutata nel tempo. Quella che Paul Nurse, biologo e premio Nobel in Medicina, propone nel suo libro Che cosa è la vita? (Mondadori) si alimenta di cinque concetti fondamentali: cellula, gene, evoluzione per selezione naturale, processo chimico e informazione. Per Nurse, un’entità vive se è costituita da una o più cellule, se possiede geni che codificano le istruzioni trasmesse alle nuove generazioni, se evolve per selezione naturale, se utilizza processi chimici ed elabora informazioni per conservarsi in vita e riprodursi. Il suo contributo si situa in un filone di spiegazioni del fenomeno della vita offerte da altri autorevoli scienziati.

TRE VISIONI DIVERSE

Uno di questi, Erwin Schrödinger, fisico che ha contribuito alla formulazione della meccanica quantistica, negli anni ’40 aveva concepito la questione in termini di ordine e disordine: come fanno gli esseri viventi a creare ordine in un universo che procede verso il disordine? La chiave per risolvere l’enigma stava, secondo Schrödinger, nell’esistenza di una grande molecola sufficientemente stabile da mantenere l’informazione genetica di generazione in generazione. Schrödinger chiamò questa molecola, allora solo teorizzata e oggi chiamata DNA, “cristallo aperiodico”. Più tardi, negli anni ’60, il premio Nobel in medicina Hermann Müller si era concentrato sull’evoluzione per selezione naturale affermando che l’essere vivente è semplicemente un’entità capace di evolversi. Da parte sua, nel celebre saggio del 1970 Il caso

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PAUL NURSE e la necessità, il biologo Jacques Monod aveva individuato come principale caratteristica dei viventi la capacità di mantenere inalterata nelle generazioni un piano organizzativo che implementa un progetto di fondo (teleonomia). LA VITA SECONDO NURSE

La tesi centrale del libro di Nurse può definirsi una sintesi delle soluzioni offerte da questi pensatori all’interrogativo della vita. Invece di concentrarsi su ciascuna delle caratteristiche da loro evidenziate, informazione e ordine nel caso di Schrödinger, evoluzione nel caso di Müller, teleonomia nel caso di Monod, Nurse le raggruppa insieme in tre principi fondamentali che definiscono la vita. «La capacità di evolvere attraverso la selezione naturale è il primo principio […]. Per evolversi, gli esseri viventi devono riprodursi, possedere un meccanismo di ereditarietà e mostrare variabilità». Il secondo principio individuato da Nurse è che «le forme di vita sono entità fisiche delimitate. Sono separate dal proprio ambiente, ma nel contempo comunicano con esso. Questo principio deriva dall’idea di cellula». […] Infine, il terzo principio consiste nel fatto che «le entità viventi sono macchine chimiche, fisiche e informazionali. Elaborano il proprio metabolismo e lo usano per crescere, conservarsi in vita e riprodursi». In questo modo «agiscono come insiemi teleonomici, dotati di uno scopo». Nurse conclude che, «insieme, questi tre principi definiscono la vita». ARGOMENTO E DIVULGAZIONE

Che cosa è la vita? di Paul Nurse approfondisce in cinque capitoli i tre principi sopra esposti. Seguono

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due capitoli che situano la definizione di vita proposta nel quadro degli sviluppi attuali della biologia. I primi due capitoli, offrono una chiara esposizione dei concetti di cellula e gene mettendo l’accento sulle relazioni tra le unità fondamentali della vita e l’ambiente. Per esempio, per Nurse la membrana esterna della cellula è fondamentale in quanto «spiega perché gli esseri viventi riescono a resistere alla generale tendenza dell’universo a evolvere verso il caos». I geni conservano l’informazione con la quale le cellule si organizzano per conservarsi in vita, e in questo «mostrano teleonomia o senso di scopo, cioè il bisogno imperativo di andare avanti». Il capitolo “L’evoluzione per selezione naturale” fornisce una spiegazione semplice delle idee centrali della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin. Insieme ai due capitoli sulla cellula e il gene, potrebbe essere letto con profitto da chi vuole comprendere meglio problemi attuali quali quelli connessi all’epidemia causata dal SARS-CoV-2 (brevemente trattati verso la fine del saggio). Concetti quali infezione, trasmissione, variante possono essere ben compresi solo alla luce della teoria dell’evoluzione e ai meccanismi di variabilità ed ereditarietà. I capitoli successivi, “La vita come chimica” e “La vita come informazione”, spiegano attraverso quali processi chimici la cellula raccoglie e usa le informazioni provenienti dall’ambiente esterno per fare ordine nel caos dell’universo con una chimica altamente organizzata. VERSO UNA NUOVA DEFINIZIONE

I capitoli di chiusura susciteranno interesse sia negli esperti sia nei non esperti di biologia perché

accennano agli sviluppi futuri delle recenti conoscenze scientifiche connesse allo studio della vita. Degno di nota in questo senso è il riferimento al machine learning, quel filone di ricerca che applica algoritmi matematici a varie discipline e promette di rivoluzionare le nostre vite. La sfida sarà raccogliere una quantità impressionante di dati, come sequenze geniche, stili di vita, documentazioni mediche di diversi individui per “istruire” i computer e sviluppare algoritmi in grado di prevedere in modo sempre più preciso i fenomeni più disparati, anche il nostro stato di salute. E I VIRUS?

Nell’ultimo capitolo, Nurse riconosce che i virus non soddisfano tutti i requisiti della sua definizione di vita in quanto per riprodursi hanno bisogno di infettare cellule di altri organismi. Il problema verrebbe risolto attribuendo la vita all’intero sistema interconnesso degli organismi viventi sulla Terra, piuttosto che alle singole entità che lo compongono. In questo caso, le altre possibili entità candidate a definirsi viventi sarebbero quelle costituite da altri sistemi interconnessi dell’universo simili a quello della Terra, forse esistenti in altri mondi e magari basati su una diversa chimica, come quella del silicio immaginata dagli scrittori di fantascienza. Allora l’universo conterrebbe diversi megaorganismi, non in comunicazione fra loro, ma costituiti da singole entità legate da una rete olistica di connessioni. Possedere una particolare interconnettività a diversi livelli e avere una peculiare storia, diverrebbero anch’esse caratteristiche salienti di ciò che consideriamo vita, oltre a quelle suggerite da Nurse. ■


ROBIN BLACKBURN

IL CROGIOLO AMERICANO

QUATTROCENTO ANNI DI STORIA, DALLE TRATTE AFRICANE AL CAPITALISMO. PER HOBSBAWN QUESTO LIBRO È «IL MIGLIOR SAGGIO SULLA SCHIAVITÙ IN OCCIDENTE CHE IO CONOSCA». di Gianluca Beltrame

C L’AUTORE Robin Blackburn è uno storico inglese, ha scritto diversi saggi di critica contemporanea ma si è concentrato particolarmente sui temi sociali. Il crogiolo americano (Einaudi) si snoda per oltre 680 pagine. L’opera è un’attenta e anche impietosa rilettura del forte legame tra mercantilismo, colonialismo e capitalismo.

on la pubblicazione di Il crogiolo americano: schiavitù, emancipazione e diritti umani, per la prima volta viene tradotto in italiano Robin Blackburn, storico inglese tra i più visionari. Studi a Oxford e alla London School of Economics, fin dagli albori colonna della New Left Review, nei suoi scritti Blackburn si è confrontato con i temi più diversi, dalla caduta del comunismo al credit crunch del 2008, ma è con i suoi studi sulla schiavitù e l’emancipazione da essa che diventa una figura di primo piano nel panorama culturale britannico, e non solo. QUATTRO SECOLI DI STORIA

Il crogiolo americano è la sua opera più acclamata: la si può vedere come il compimento di una trilogia (a mio avviso non intenzionale) iniziata nel 1988 con The Overthrow of Colonial Slavery, 1776-1848 e proseguita nel 1997 con The Making of New World slavery: from the baroque to the modern, 1492-1800. Il crogiolo americano, pubblicato

a Londra da Verso nel 2011, porta a compimento questo grande progetto (l’opus, nel suo insieme supera le 1500 pagine) se non altro perché ci accompagna, seguendo storia e conseguenze dello schiavismo e delle forze che vi si opposero, fino alla fine dell’Ottocento e, per alcune importanti considerazioni, fino ai giorni nostri. Lo fa analizzando - e dunque ricostruendo - una fitta e complicata trama che copre oltre quattro secoli di storia durante i quali si sviluppano interazioni molto complesse e prendono vita fenomeni nuovi e dirompenti: rivoluzione industriale e nascita del capitalismo, nuove leggi di mercato e inedite forme di sfruttamento, lotta di classe e nazionalismi, mercantilismo e colonialismo… NASCONO NUOVI MODELLI

Per esempio, alla fine del XVI secolo e agli inizi del XVII, in quella fascia dell’Europa nordoccidentale che si affaccia sull’Atlantico, si svilupparono i germi di un nuovo modello sociale basato sul denaro

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ROBIN BLACKBURN contante, la mercificazione e una produttività agricola abbondante e differenziata. I commerci su lunghe distanze non erano più solo quelli di poche merci di lusso. E in una società mercantile basata su rendite, salari e tasse si ampliò la domanda di stoffe dai colori vivaci, di tabacco, di dolci fatti di zucchero e spezie… COLONIZZAZIONE AGRICOLA

Questo avrebbe portato alla nascita di enormi piantagioni al di là dell’Atlantico e alla necessità economica di dare grande impulso la tratta degli schiavi. Contemporaneamente, in Europa nasceva una nuova cultura del consumo, ma non solo: per poter acquistare tabacco, zucchero, cotone e caffè, i lavoratori europei salariati, o in qualche modo retribuiti, si sottoposero volontariamente a una «rivoluzione industriosa», che potenziò fortemente la produttività. Ecco, colonizzazione del Nuovo Mondo e schiavismo sono coprotagonisti di queste dinamiche complesse che riverberano anche sui regimi schiavisti di America, Brasile e Caraibi. Tanto che, secondo Blackburn, questi regimi semplicemente «furono sottoprodotti dell’ascesa del colonialismo e del capitalismo». IL CASO HAITI

Il crogiolo americano segue l’evoluzione di questa complessità e, analogamente, quella delle idee e delle forze che si opposero allo schiavismo, in un percorso tortuoso fatto di improvvise accelerazioni e uscite di scena (basti pensare alla scomparsa, nel giro di pochi decenni, dei regimi schiavisti), mutamenti di pelle, rallentamenti, deviazioni, fughe in avanti. Emblematico il caso della rivoluzione di Haiti del

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1791, la prima colonia a farsi in nazione indipendente grazie a una rivolta di schiavi. Scrive Blackburn: «L’antischiavismo haitiano si distinse tuttavia dall’andamento generale dell’abolizionismo per il suo rifiuto del colonialismo. La cultura politica di Haiti, per certi aspetti fondamentali, risultava cioè molto più avanti di quella prevalente in Europa e Nord America. Rifiutando il colonialismo, essa respingeva anche il razzismo». Si può arrivare a dire che l’esperimento haitiano non fallì tanto per il blocco economico delle grandi potenze e l’arrivo al potere dei militari (uno schema che in Centro e Sud America vedremo ripetersi nei secoli a seguire) quanto perché, citando Mimi Sheller, «gli ex schiavi erano pronti per la democrazia fin da prima dell’avvento della emancipazione, era la democrazia a non essere pronta per loro». I semi della rivolta, comunque, non andarono persi, non solo per il fatto che si era trattato della prima emancipazione su larga scala e si fece esempio e spauracchio, ma anche per la sconfitta di tutti i tentativi di restaurare ad Haiti il dominio bianco. RAZZISMO VERSUS SCHIAVISMO

Nel resto del mondo atlantico, invece, la traiettoria fu differente. Blackburn analizza le diverse situazioni e fasi, ma sintetizza, al netto delle differenze: «Il capitalismo, rimasto privo della schiavitù americana, era sceso in un certo senso a un compromesso con le aspirazioni e le lotte popolari del mondo atlantico. Ma senza il razzismo, sarebbe stato un capitalismo per modo di dire. In effetti, la diffusione della società di mercato, pur indebolendo in qualche modo i vincoli

imposti dalla dominazione razziale (…), permise altresì la costruzione di identità rivali che lasciavano gli ex schiavi e i loro discendenti in condizioni di enorme svantaggio». Viene da chiedersi se i linciaggi dei neri, i lavori forzati, il ghetto e la prigione, non siano state forme successive di un impulso alla dominazione razziale che semplicemente ha mutato pelle nel corso dei secoli, fino a oggi. E I DIRITTI UMANI?

Blackburn, infatti, porta la sua analisi fino ai nostri giorni, seguendone il percorso tortuoso, anzi “a spirale”, per citare l’autore. Ci mostra come le conquiste realizzate nell’ultimo secolo in nome dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli possano paragonarsi ai processi di emancipazione degli schiavi, soprattutto nel modo in cui si combinarono con la nascita di nuovi valori sociali all’interno di contesti e congiunture internazionali. Dobbiamo allora pensare che i fondamentali diritti umani saranno fatti valere sempre e solo in seguito a terribili violazioni? Servono disastri spaventosi per garantire il progresso? Lo studioso britannico non si sottrae: “La storia dello schiavismo e dell’abolizione non indirizza verso conclusioni né fatalistiche né facili. In ciascun momento, vi erano delle alternative, e alla fine furono esse a vedere una realizzazione, seppure con molte imperfezioni”. Con una certezza , però, che è anche speranza: “…un impetuoso ampliamento del mercato distrugge periodicamente le stesse condizioni che ne garantiscono l’esistenza e provoca una controtendenza di protezione sociale”. È la storia di ieri, ma forse anche quella di oggi. ■


MARCELLO FLORES

IL GENOCIDIO L’ELIMINAZIONE DI INTERE POPOLAZIONI O GRUPPI ETNICI È STATA RICORRENTE NELLA STORIA. MA IL NOVECENTO HA MOSTRATO UNO ZELO PARTICOLARE IN QUELLO CHE WINSTON CHURCHILL AVEVA DEFINITO “IL CRIMINE SENZA NOME”.

di Alessandro Santagata

C L’AUTORE Marcello Flores ha insegnato nelle Università di Siena e Trieste. Fra i suoi libri editi da “Il Mulino”: “Il secolo mondo”, “Il genocidio degli armeni”, “Storia dei diritti umani”, “Traditori”,“Il secolo dei tradimenti”, “1968. Un anno spartiacque” (con G. Gozzini), “Cattiva memoria”.

on Il genocidio (Il Mulino, 2021) Marcello Flores torna ad affrontare uno degli argomenti cardine della sua ricerca; e lo fa con il taglio comparativo che lo ha sempre contraddistinto. Il libro è diviso in due sezioni: nella prima, lo storico parte dalla definizione della parola «genocidio» e mostra come, fin dalla sua genesi, il termine si sia rivelato di difficile applicazione, soprattutto quando è stato usato per descrivere un crimine nuovo in ambito giuridico internazionale; nella seconda passa in rassegna dieci eventi, tra il XX e il XXI secolo, da lui classificati come genocidi, nonostante non siano stati riconosciuti come tali dalla giurisprudenza internazionale. Il primo è lo sterminio delle tribù degli herero e dei nama a opera del generale tedesco Lothar von Trotha nel 1904-1905. Quello degli armeni avvenuto tra il 1915 e il 1916 e perpetrato dall’Impero ottomano.

Il terzo è quello che portò all’eliminazione di circa settecentomila kulaki, e alla deportazione di circa due milioni tra il 1932 e il 1933, ordinato e premeditato da Stalin. La panoramica si chiude con i massacri perpetrati dalle truppe dell’Isis ai danni degli yazidi tra il 2014 e il 2019, per i quali sono ancora in corsi i relativi processi internazionali. In questo modo, Flores tenta dunque di dare profondità storica alla categoria, ma anche ad allargarla rispetto alla Convenzione del 1948 delle Nazioni Unite. NASCITA DI UNA PAROLA

La genesi del termine «genocido» si deve a Raphael Lemkin, un giurista ebreo polacco che nella Shoah aveva perso la maggior parte della famiglia. La prima attestazione di questa parola, nata dall’unione della parola greca genos (razza, tribù) e della parola latina cidere (uccidere), compare nel suo Axis Rule in Occu-

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MARCELLO FLORES pied Europe, pubblicato nel 1944, in cui si parlava esplicitamente di «distruzione di una nazione o di un gruppo etnico».

LA GIURISPRUDENZA INTERNAZIONALE HA SCOPO PREVENTIVO, E QUESTO NE LIMITA L’EFFICACIA. Flores mostra in che modo si sia arrivati alla definizione del genocidio come crimine internazionale contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite, così come dalla risoluzione 96 (I) dell’11 dicembre 1946 e approvata il 9 dicembre del 1948. Sottolinea come per raggiungere un accordo Lemkin, chiamato a partecipare alle riunioni preparatorie (e anche tanto bramoso di farne parte da risultare onnipresente), dovette accettare compromessi importanti, di carattere per lo più politico, che, secondo Flores, avrebbero successivamente limitato l’occorrenza della categoria nelle sentenze, influenzando così l’esito dei processi. Per lo storico, l’esito finale fu infatti molto limitato: da un lato la Convenzione delle Nazioni Unite, entrata in vigore il 12 gennaio 1951, ha uno scopo più preventivo che punitivo, non a caso, infatti, la sentenza di genocidio non ha valore retroattivo; dall’altro la stessa Convenzione precisa come alla base del crimine debba essere presente l’intenzionalità degli autori. Il problema – spiega lo storico – è che in questo modo si limita la possibilità di applicarlo concretamente: non sempre, infatti, è possibile provare la volontà dei colpevoli di annientare e debellare per sempre un determinato gruppo

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etnico, sociale o razziale; e ancor più difficile è riuscire a provare la natura intenzionale e programmata di queste azioni in sede di processo. Questi paletti hanno fatto sì che a partire dal 1951 siano state comminate pochissime sentenze effettive di genocidio, se si escludono i processi relativi alle vicende del Ruanda, del Guatemala, della Cambogia e a la pagina nera di Srebrenica.

Mondo» e poi le pagine amare del colonialismo, criticando i luoghi comuni, ancora oggi ricorrenti nell’opinione pubblica e impiegati in modo sostanzialmente acritico. Un ultimo limite messo in luce da Flores, riprendendo le glosse e le battaglie di Lemkin successive alla risoluzione del 1946, è quello di aver eliminato l’annientamento culturale di un determinato gruppo etnico dalla definizione

ANCHE L’ANNIENTAMENTO CULTURALE DI UN DETERMINATO GRUPPO ETNICO È STATO ESCLUSO DALLA DEFINIZIONE DI “CRIMINE DEI CRIMINI”. Infine, Flores si interroga sulle motivazioni che hanno portato, nel corso della storia, a sostenere posizioni negazioniste. Emerge, tra gli altri, il caso dell’inglese David Irving e del processo contro la storica della Shoah, Deborah Lipstadt. «Nel corso del processo – spiega – furono utilizzati i pareri indipendenti di diversi storici, tra i quali va segnalato quello di Richard J. Evans, capace di evidenziare le strategie antiscientifiche e retoriche messe in atto da Irving per dare credibilità accademica alle proprie tesi. Già in precedenza Pierre Vidal-Naquet, in alcuni articoli raccolti poi in volume, aveva cercato di analizzare le modalità di questa negazione rintracciandone le radici non solo nell’antisemitismo ma in miti politici e in atteggiamenti psicologici che avevano una lunga storia». L’intervento critico dell’autore non si limita agli eventi della storia contemporanea, ma cerca sempre di dare profondità storica anche a eventi passati, come la distruzione delle popolazioni indigene del cosiddetto «Nuovo

del «crimine dei crimini». Si tratta di una decisione politica che invece viene meno in una prospettiva storica. Se, infatti, a livello giuridico la retroattività del crimine, l’intenzionalità e il genocidio culturale comportano difficoltà difficilmente superabili, in ambito storico-culturale la categoria di genocidio può essere utilizzata per comprendere nella loro profondità e complessità i massacri che hanno insanguinato la storia. È questa, del resto, l’intenzione di fondo del volume, che mira a suggerire altri approcci al genocidio per arrivare a una definizione più elastica, con l’auspicio di sensibilizzare la comunità internazionale nei confronti di crimini passati e con la speranza di contribuire così ad evitare quelli futuri. Non è un caso che si chiuda proprio con il racconto di Nadia Murad, giovane yazida sfuggita alla schiavitù dell’Isis, che ha ottenuto il premio Nobel per la pace nel 2018, e con il suo appello alla sensibilizzazione della comunità internazionale. ■


EMANUELE DATTILO

IL DIO SENSIBILE UN VIAGGIO ALLA SCOPERTA DI UNO DEI PENSIERI PIÙ CONTROVERSI DELLA FILOSOFIA OCCIDENTALE: L’UNITÀ TRA MENTE E MATERIA, TRA DIO E UMANITÀ. LE PROBLEMATICHE EMERSE DAI FRAMMENTI DI ALCUNE DOTTRINE ERETICHE MEDIEVALI HANNO IL MERITO DI RIPORTARE LA QUESTIONE DEL PANTEISMO ALLA NOSTRA MODERNITÀ.

di Bianca Maria Esposito

S L’AUTORE Emanuele Dattilo, laureato in filosofia a Roma, ha conseguito il dottorato all’Università di Firenze con una tesi su Giordano Bruno. Ha trascorso soggiorni di studio a Monaco di Baviera, Parigi e al Warburg Institute di Londra.

i chiama Il dio sensibile (Neri Pozza, 2021) ed è il poetico titolo di una genealogia complessa che riguarda non tanto la definizione del “panteismo” come dottrina unitaria, ma come nozione storico-polemica e mai sistematizzata, dal carattere disperso e frammentario, attraverso la quale è possibile ripensare l’intera tradizione metafisica occidentale come se si trattasse di descriverne l’ombra. Con questo intenso saggio sul panteismo, Emanuele Dattilo tenta infatti di ricostruire la lunga storia di questa categoria eresiologicostoriografica descrivendone il riflesso nello specchio di una critica che ha spesso semplificato i suoi presupposti. Con il termine “panteismo” non dobbiamo infatti intendere la riduzione ontologica di Dio e mondo in un unico essere, afferma il filosofo. Per pensare

la radicalità di quest’idea – che si presenta come un’identità incandescente, un’esperienza o un evento, più che un contenuto di coscienza – è piuttosto necessario abbandonare tutte le tradizionali divisioni che a partire da Aristotele e Platone, hanno influenzato la storia del pensiero occidentale. Il libro si presenta allora come una destituzione radicale di ogni dualismo metafisico e allo stesso tempo una critica a chi ha tentato di pensare il “panteismo” come mera coincidenza dell’Io di Dio con il mondo. SUPERARE I DUALISMI

È solo andando oltre l’idea di una semplice sovrapposizione di Dio e cosmo che si potrà infatti comprendere ed esperire l’enorme portata innovativa del panteismo. Un’idea “sensibile”, se così si può dire, che ci consente di rimuovere

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EMANUELE DATTILO e superare tutti i tradizionali dualismi – quello tra Dio e mondo, soggetto e oggetto, causa e effetto, mente e corpo, ma anche bene e male, sacro e profano, razionale e folle, sensibile e intellegibile – e allo stesso tempo di oltrepassare ogni teologia politica che pretenda di ancorare la sua fondazione a un ordinamento trascendente. «Il panteismo – scrive Dattilo – rappresenta innanzitutto la messa in discussione di tutti questi dualismi» (Dattilo, 2021, p. 11). PER UNA NUOVA STORIA DEL PANTEISMO

Leggendo Dattilo, si ha l’impressione di avere di fronte gli stessi problemi posti dalla filosofia di Deleuze. Senza voler proporre un canone esatto né una storia lineare del panteismo e delle sue influenze, il libro attraversa il pensiero di di-

dimensione più immediata e diretta come divinità e vita della e nella materia. Per la collana diretta da Giorgio Agamben, Dattilo riesce dunque nell’intento di stupirci con un lavoro innovativo e di grande profondità ermeneutica e filologica, allo stesso tempo attento alla ricostruzione storica e alla riscrittura di un percorso inedito di pensiero che dal Medioevo alla modernità, passando per la condanna di due importanti panteisti medievali, quali David di Dinant a Amalrico di Bène, riesce a far emergere la differenza teorica che c’è tra questi autori e la letteratura critica tomista che ce li aveva consegnati attraverso il filtro metafisico della loro confutazione. Seguendo le tracce di Bayle, il quale per primo ricostruì la storia del panteismo nelle note su Spino-

QUESTO SAGGIO ESPLORA L’IDENTITÀ SENSIBILE DI DIO E DEL MONDO. CRITICA LA NOSTRA RAZIONALITÀ E QUELL’IDEA DI COSCIENZA CHE HA CONDOTTO ALLE NEUROSCIENZE. L’IO NON È PIÙ AUTONOMO. versi autori che nella loro distanza cronologica e storica vengono tutti considerati come teorici di un pensiero che ha concepito la divinità in senso noetico, attraverso l’identità sensibile di mente e materia. Da David di Dinant a Amalrico di Bène, da Giordano Bruno a Avicebron, da Spinoza a Giovanni Scoto Eriugena a Schelling o ancora, stravolgendo la cronologia, dallo stoicismo alla Qabbalah luriana, l’autore ci accompagna in un viaggio che libera la divinità da qualsiasi riduzione dialettica o platonica, restituendola alla sua

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za del suo Dictionnaire, l’autore mostra infatti come questo concetto sia stato per secoli associato a quello di “ateismo”. Una sorta di materialismo che, pesando la coincidenza di Dio con la materia, ne eliminava la differenza rispetto al mondo consegnandolo dunque all’irrilevanza. «Se così fosse Dio e mondo sarebbero un unico essere», è la frase ripetuta nel corso dei secoli da numerosi teologi e filosofi che intendevano scongiurare il pericolo panteistico. In questa confutazione riduttiva si rivela tuttavia il fraintendimento di questa tesi, la

quale deve prima passare, sembra affermare l’autore, per la complessa premessa epistemologico-fenomenologica di David di Dinant, il quale intendeva pensare la divinità in un modo radicalmente nuovo attraverso quella che viene definita la “materia sensibile del pensiero”. La radicalità della tesi panteistica e la sua pericolosità per la teologia tradizionale vanno infatti ricercate non tanto nella semplice riduzione monista della differenza tra un Dio causa e volontà prima e un mondo creato come sue effetto, quanto in una diversa concezione di Dio e dell’uomo che ne fa esperienza. È a partire dal problema filosofico della coincidenza tra mente e materia, dove questi due concetti vengono ripensati in senso antidualistico, che Dattilo si propone infatti di esplorare le implicazioni teoriche del “panteismo”. Se si pensa al panteismo come a una mera estensione di Dio nel cosmo si rischia infatti di rimanere imbrigliati in quelle definizioni che rimandano a un’idea più tradizionale di Dio come “causa immanente” trascurandone invece la peculiarità ontologica e le conseguenze etiche. AL DI LÀ DELLA FORMA E DELLA RAPPRESENTAZIONE

È dunque, dicevamo, attraverso una ridefinizione della mente – non coincidente con l’intelletto o il pensiero di Dio, e della materia non più pensata in termini cartesiani come mera res extensa – che Dattilo riesce a superare i tradizionali dualismi della filosofia moderna, inscrivendo la storia del “panteismo” in una traiettoria assai vicina alla critica novecentesca della tradizione metafisica. Leggendo tra le righe si ha l’impressione che l’autore si confronti costantemente con alcuni dei più importanti te-


sti e autori del Novecento, come Rovesciare il platonismo e i testi su Spinoza di Deleuze, ma anche con la critica heideggeriana alla Metafisica, la fenomenologia di Husserl e alcuni testi di Agamben sul linguaggio. In tutti questi autori il superamento delle tradizionali distinzioni tra essere e ente, soggetto e oggetto, volontà e azione, andava di pari passo con una critica della razionalità moderna e l’idea di una coscienza separata e staccata rispetto al corpo. Attraverso alcune considerazioni quasi fatte a margine e che criticano l’idea di coscienza che dalla prima modernità ha portato alle attuali neuroscienze o alla psicanalisi, responsabile di «tenere in ostaggio l’inconscio» (Dattilo, 2021, p. 26), l’autore presenta innanzitutto una critica serrata al linguaggio della razionalità e alla separazione dualistico-platonica che per secoli ha voluto distinguere essenza e apparenza, mente e materia, verità e rappresentazione, esperienza sensibile e linguaggio razionale. In sintesi: il Dio come causa e il mondo come forma. Ripercorrendone dunque le tappe dagli stoici fino a Spinoza, Dattilo riesce a far emergere la storia del pensiero panteistico in tutta la sua attualità filosofica, consentendoci di superare il discorso della rappresentazione e detronizzando definitivamente, attraverso una “più originaria promiscuità ontologica tra mente e materia”, la forma del mondo a favore della materia vivente. Come affermato in riferimento a Alessandro di Afrodisia: «Il pensiero non è coscienza, Bewusstsein, non è sovranità, possesso, ma è innanzitutto la forma di accesso delle cose all’eternità, alla loro propria divinità, il processo in cui avviene questo incontro dove ciò che è se-

parato secondo potenza e secondo materia diventa uno nell’atto di pensiero» (Dattilo, 2021, p. 51). UNA LIQUIDAZIONE DELLA TEOLOGIA POLITICA?

Il dio sensibile non vuole dunque essere e non è direttamente un libro politico. Eppure se è vero quel che afferma il filosofo Roberto Esposito, ovvero che ogni ontologia – ma si potrebbe aggiungere ogni teologia – se pensata nella sua radicalità abbia delle conseguenze politiche anche indirette, possiamo tranquillamente affermare che il panteismo pensato come superamento di ogni forma e rappresentazione, sembri avere delle implicazioni politiche destituenti.

tivo di dar forma o rappresentazione a un fondamento nascosto e inaccessibile, la divinità panteistica ci appare in un’immediatezza che rimuove ogni possibile mediazione. Questa nuova nozione del divino non si lascia catturare nella dualità implicata da ogni teologia politica: essa rappresenta tutto ciò che è in quanto è e come è, ma soprattutto si apre e ci tocca attraverso quel puro desiderio di essere che è la vita stessa. In questo senso, scrive Dattilo, non «potrà mai rappresentare un modello che fondi una teologia politica o un ordinamento sociale, o una qualsiasi immagine di come il mondo dovrebbe essere, un esempio per la nostra buona

IL DIO SENSIBILE NON È ALTRO CHE LA VITA STESSA: DELLA MENTE, DELLA MATERIA, DELL’AMBIENTE IN CUI VIVIAMO. DATTILO APRE A UNA RIFLESSIONE ECOLOGICA SU COSA SIGNIFICHI STARE AL MONDO CON NUOVE MODALITÀ. Come afferma lo stesso Dattilo: «Poiché libera finalmente Dio da ogni sovranità, da ogni trono, da ogni governo, e infine da ogni figura e rappresentazione, si può comprendere perché il panteismo sia stato per lo più considerato, in Occidente, come la forma più estrema e conseguente di ateismo. Liberando dal dualismo tra Dio e mondo, l’oggetto del panteismo coincide, infine, con ciò che tutti i dualismi tengono imprigionato» (Dattilo, 2021, p. 16). Il panteismo pensato in questi termini è infatti, forse, in grado per la prima volta di indicarci una via percorribile per una liquidazione definitiva della teologia politica. Superando ogni sdoppiamento metafisico, ma anche ogni tenta-

condotta, qualcosa che dobbiamo riconoscere nel volto del nostro compagno» (Dattilo, 2021, p. 26). La divinità del panteismo si da piuttosto come evento irriducibile al linguaggio, un’esperienza davvero immediata per la quale non si potrà nemmeno più parlare di una via d’accesso. Una pura datità pervasiva e immanente alla vita stessa: un atto sensibile, più che una forma, che dal punto di vista etico apre a un orizzonte di senso del tutto nuovo e inesplorato che ci consente di esperire una nuova modalità gioiosa dello stare al mondo. Persino un abitare l’ambiente in cui viviamo secondo una nuova modalità antimoderna e in ultima istanza anche più ecologica. ■

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FERNANDO BERMEJO-RUBIO

L’INVENZIONE

DI GESÙ DI NAZARETH IL GESÙ DELLA STORIA E QUELLO DELLA FEDE. DUE NARRAZIONI CHE SI INTRECCIANO E SCONTRANO DA MILLENNI, SULLO SFONDO DELLA (DENEGATA) IDENTITÀ EBRAICA. di Cristiana Facchini

L

o studio del Gesù storico costituisce un oggetto tanto complesso quanto contestato della ricerca scientifica e accademica. Nessuno oggi sosterrebbe che Gesù abbia fondato il cristianesimo, ma sicuramente fu la figura attorno al quale sorse, nel corso dei primi secoli dell’era volgare, una nuova religione. Lo studio ponderoso di Fernando Bermejo-Rubio uscito in traduzione italiana per l’editore Bollati Boringhieri (apparso nell’originale spagnolo nel 2018) si inserisce in questo affascinante filone di studi. Con un titolo che potrebbe sembrare polemico, il libro di Bermejo-Rubio appare in un contesto, quello italiano, dove lo studio del Gesù storico ha avuto una storia difficile e tormentata. In questo breve intervento mi riservo di presentare questo voluminoso testo e svolgere qualche riflessione storiografica in margine alle questioni di carattere epistemologico che mi sembrano più significative. Suddiviso in quattro parti a cui si aggiunge una copiosa

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appendice di grande interesse, il libro di Bermejo Rubio si presenta con grande completezza di informazioni storiche e ricchezza di argomentazioni epistemologiche. QUALI SONO LE FONTI?

La prima parte del libro, dal titolo “La costituzione di Gesù come oggetto di studio storico” è una disamina accurata delle fonti e dei metodi che costituiscono le precondizioni necessarie per uno studio scientifico del tema. Va ricordato innanzitutto che le fonti sono problematiche: da un lato sono cospicue, ma prevalentemente generate dai seguaci di Gesù e quindi fortemente ideologiche; dall’altro, quelle esterne sono pochissime e inaffidabili. A cui segue una riflessione sulle condizioni di plausibilità della ricostruzione storica: Bermejo Rubio offre anche una critica alle posizioni dei “mitisti”, studiosi che, proprio a causa della problematicità delle fonti, sostengono l’inesistenza della figura di Gesù – speculari a quelle posizioni

“massimaliste” che ne assolutizzano invece la rilevanza. In questa prima parte, inoltre, l’autore discute in modo approfondito alcuni dei criteri metodologici più radicati che si sono consolidati nella ricerca sul Gesù storico e attraverso i quali sono indicati gli indici di storicità delle affermazioni che si trovano nelle fonti cristiane. Tali criteri hanno uno statuto speciale perché sono esclusivamente utilizzati in questo campo e giustamente Bermejo Rubio propone, in linea con altri studiosi, di seguire altri metodi, tra cui un paradigma indiziario ossia affidarsi alle tracce che rimaste nei testi possono svelare una fisionomia storica di Gesù. UNA BIOGRAFIA IMPERFETTA

La seconda parte, “Verso una ricostruzione critica” si compone di sette capitoli che costituiscono l’affondo analitico sulle vicende “biografiche” di Gesù. In sé questa parte potrebbe costituire un vero e proprio libro. Quali sono le caratteristiche del contesto storico


in cui appare la figura di Gesù? E cosa si può dire della sua reale e concreta missione? La tesi di Bermejo-Rubio, sostenuta da una fitta discussione relativa alla verosimiglianza di determinate pericopi neotestamentarie, si situa nel solco di quella ricerca che colloca Gesù nel suo contesto ebraico e che cerca di comprenderne la fisionomia. Una lettura che, a bene vedere ha una sua lunghissima tradizione – anche i teologi e polemisti di età rinascimentale e barocca erano ben consapevoli della ebraicitá di Gesù – e una consolidata tradizione novecentesca che trova una svolta propulsiva anche per effetto del Concilio Vaticano II. Tuttavia, il Gesù ebreo non è cosí semplice da ricostruire, per quanto gli sforzi degli ultimi 40 anni siano stati notevoli. Il testo di Bermejo-Rubio si presenta con due caratteristiche: Gesù è il Messia, liberatore del suo popolo dal giogo opprimente dell’impero romano che parla solo al popolo ebraico e che ha chiare predisposizioni zelote e nazionaliste; Gesù non ha inclinazioni antinomiche, non si pone come colui che vuole eliminare la legge contenuta nella Torah ebraica. Leader indiscusso del gruppo, il Galileo, non solo fu pretendente messianico (e quindi in attesa di una liberazione po-

litica dalla oppressione romana) ma anche personalità carismatica, capace di attrarre a sé seguaci e sostenitori grazie alle azioni di tipo più propriamente religiose. Gesù fu taumaturgo, esorcista e maestro spirituale. Attivo in un contesto politico e culturale caratterizzato dai mutamenti introdotti dai processi della espansione imperiale romana, la sua attività non fu

politica della condanna a morte e sul fatto che a morire insieme a Gesù non furono “ladroni” ma ribelli, attribuendo così una fisionomia politica alle attività del Nazareno. Inoltre, la responsabilità della condanna di Gesù ricade esclusivamente sulle autorità romane, suggerendo anche alcuni percorsi di riflessione sul funzionamento dei servizi di intelligence imperiale,

IL MESSIA È IL LIBERATORE DEL SUO POPOLO DAL GIOGO OPPRIMENTE DELL’IMPERO ROMANO. LUI PARLA AL POPOLO EBRAICO E HA CHIARE PREDISPOSIZIONI ZELOTE E NAZIONALISTE. particolarmente speciale se, come emerge dalle fonti antiche, furono parecchie le figure carismatiche e politiche che ebbero caratteristiche simili. Particolarmente importante fu, nella evoluzione della figura di Gesù, Giovanni Battista (o il Battezzatore), che appare nelle fonti con un ruolo importante. Non sono certo ipotesi nuove e non potrebbero esserlo, visto che l’opera di Bermejo Rubio si pone in dialogo con alcuni tra gli autori più noti in questo campo di studi e ha frequentato il gruppo di lavoro italiano che si riunisce ogni anno a Bertinoro. L’autore però a differenza di altri insiste sulla rilevanza

un tema estremamente affascinante. Secondo l’autore, così come per altri studiosi, il processo e la morte di Gesù sono il punto di partenza privilegiato per capire la storia del Galileo perché quelli sono i racconti maggiormente contradditori e di difficile interpretazione. Per lo storico, questi indizi costituiscono le tracce rilevanti che permettono di iniziare lo scavo per ricostruire la figura di Gesù. INTERFERENZE TEOLOGICHE

La terza parte del libro è dedicata allo studio del processo attraverso il quale la fisionomia storica di Gesù comincia a dissolversi per lasciare

L’AUTORE Fernando Bermejo-Rubio è docente presso il Dipartimento di Storia antica, U.N.E.D., Madrid. Ha firmato numerose pubblicazioni in riviste internazionali e volumi specialistici. Tra i libri più recenti: il volume collettivo El maniqueísmo. Textos y fuentes (2008), il testo apocrifo copto El evangelio de Judas. Texto bilingüe y comentario (2012), l’edizione spagnola di contributi storiografici del XX secolo: Judíos y romanos ≠en la historia de la pasión (2018) e Los judíos en la Antigüedad. Desde el exilio en Babilonia hasta la irrupción del islam (2020).

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FERNANDO BERMEJO-RUBIO spazio al Gesù delle tradizioni teologiche cristiane. “Dalla storia alla finzione” descrive questo percorso, che sancirà – va detto – la vittoria del cristianesimo, prima nelle sue plurali e conflittuali configurazioni, poi nella sua vittoria politica all’interno delle strutture e istituzioni culturali dell’impero. In altri termini, se si vuole seguire un altro linguaggio, qual è il percorso dal Gesù della storia al Gesù della fede? Bermejo Rubio individua molti motivi – sociali, religiosi, psicologici, culturali – che contribuiscono a tracciare un percorso che porta a ridefinire radicalmente la figura del Nazareno, un processo che segna la sua divinizzazione e singolarizzazione, ma soprattutto la reinterpretazione di una morte inaspettata e per molti versi infame. I testi sono ancora una volta un punto di partenza importante per comprendere come si siano formate e trasmesse certe nozioni sulla divinizzazione, sulla concezione della morte salvifica, sulla esaltazione e glorificazione della figura del Nazareno. Su questa parte mi preme individuare due aspetti importanti: da un lato l’autore ricostruisce un mondo ebraico articolato, complesso, anche se sembra talvolta dimenticare che furono quasi tutti ebrei i seguaci di Gesù che contribuirono a diffondere il suo messaggio nelle zone della terra di Israele e nelle città imperiali. Il conflitto intraebraico sembra invece poco valorizzato ma credo che vada tenuto maggiormente presente. LA FINZIONE STORIOGRAFICA

La quarta parte è dedicata ad un campo molto noto negli studi sul Gesù storico, quello della storiografia. “La distorsione dell’identità di Gesù di Nazareth che persiste

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nell’epoca contemporanea nel mondo accademico non si limita alla ricostruzione del personaggio, bensì è giunta ad avere luogo in un ambito apparentemente tanto neutrale e innocuo quale il modo in cui si è narrata la storia stessa dell’indagine: la finzione storica si è accompagnata in tempi recenti a una finzione storiografica”. È una critica serrata alla cosiddetta Leben-Jesu-Forschung alla quale ci si affida per avere cognizione sia della tradizione storiografica che dei metodi che caratterizzano questo ambito di ricerca. L’autore critica in particolare il paradigma delle “tre fasi della ricerca”, che indicano momenti storiografici significativi: la prima segue la cronologia individuata da Albert Schweitzer, fa iniziare la storiografia sul Gesù storico con il deista Hermann Samuel Reimarus e include il periodo che va dalla fine del Settecento agli inizi del Novecento; la seconda fase viene associata alla “scuola di Ernst Käsemann” e coincide con gli anni ’50 del Novecento; infine, la terza fase celebra le innovazioni apportate allo studio su Gesù dall’apporto delle scienze sociali, l’archeologia, la storia delle religioni e che vede la scoperta della ebraicità di Gesù. Il paradigma storiografico delle “tre fasi della ricerca” è stato da tempo criticato e l’invito a riscrivere la storia della storiografia è stata proposta, tra gli altri, da studiosi come Mauro Pesce: da anni invita gli storici a riscostruire le vie complesse e contorte che hanno contribuito alla formazione e circolazione di rappresentazioni storiche di Gesù e della nascita del cristianesimo. Altri studiosi hanno esplorato la storiografia con approcci di storia culturale, come ad esempio Halvor Moxnes, anche se, a mio parere, i

contributi più interessanti provengono dagli storici della cultura che di recente hanno dedicato studi dettagliati a studiosi singoli. Ma in questa sezione l’autore si pone un fine preciso e abbastanza circostanziato: denunciare una storiografia in cui l’appartenenza religiosa e la teologia cristiana giocano un ruolo non del tutto secondario e che, nonostante le metodologie raffinate, ha contribuito a perpetuare quel processo di de-giudaizzazione di Gesù opponendogli, nella ricostruzione storica, una religione ebraica fossilizzata e arida, fino a teorizzare, negli anni del nazismo, il “Gesù ariano”, studiato da Susannah Heschel (e qui descritto nelle appendici finali). Lo sguardo critico di Bermejo Rubio sfida le convenzioni classiche secondo le quali la storiografia moderna abbia contribuito a debellare i pregiudizi religiosi e a de-teologizzare la storia del cristianesimo. E pur concordando con l’autore nel riconoscere la profonda ostilità nei confronti dell’ebraismo, credo che questa sezione sia quella più problematica dal punto di vista proprio della ricostruzione storica e del metodo utilizzato: una mera storia di testi non è sufficiente ad illustrare le battaglie e i conflitti, anche istituzionali, che hanno consolidato questi studi, non sempre accolti con favore. Se sicuramente va ricostruita la voce degli ebrei, bisogna anche tenere conto delle persecuzioni degli studiosi cattolici e infine non dimenticare i cambiamenti politici e la ristrutturazione culturale degli anni post-bellici. Una storia intrecciata, di voci, dialoghi e conflitti ci restituirebbe una storiografia più complessa e ridimensionerebbe l’egemonia degli storici teologi. ■


PHILIPPE DESCOLA

OLTRE NATURA E CULTURA

OVVERO, OLTRE LE PRESUNZIONI DEI NOSTRI MODELLI PERCETTIVI. UN GRANDE ANTROPOLOGO RIDEFINISCE (E RIBALTA) I PARAMETRI DEL MONDO A CUI SIAMO ABITUATI. di Gianfranco Marrone

P

L’AUTORE Philippe Descola è un antropologo francese di chiara fama. Ha insegnato Antropologia della natura al Collège de France, in quella che era stata la cattedra di Claude Lévi-Strauss. Dirige il Laboratorio di “Antropologia Sociale” di Parigi, fondato dallo stesso Lévi-Strauss.

iena foresta amazzonica. Al confine fra Ecuador e Perù, scorre il Kawapi, nella cui valle vivono gli Achuar. L’antropologo è a casa di Chumpi, la cui dimora è una specie di capanno coperto di foglie di palma a pochi passi dalla boscaglia fittissima e dal fiume assordante. Chumpi è molto preoccupato: quel pomeriggio la moglie è stata morsa da un serpente velenosissimo che gli Achuar conoscono bene e che non si avvicina quasi mai agli insediamenti umani. A cosa si deve quell’attacco letale all’amata consorte? Chumpi non crede nella fatalità. Parla piuttosto di vendetta, perpetrata da Jurjri, spirito protettore della selvaggina, come reazione verso ciò che lui stesso il giorno prima aveva fatto. Venuto in possesso di un fucile, Chumpi aveva commesso una vera e propria strage di scimmie lanose, sparando a destra e a manca, ferendone a dozzine e catturandone molte più di quante avrebbero potuto servigli per il pasto serale. Una trasgressione dell’etica della caccia, di quel patto implicito che lega le ‘persone complete’, ossia gli umani, a quegli esseri che, anch’es-

si perfettamente dotati di anima, fanno parte della grande famiglia dei viventi sotto forma di cognati. Da cui la rappresaglia. UN CONCETTO ESTRANIANTE

L’antropologo comincia a capire che, per gli Achaur, non esiste un corrispondente di ciò che noi occidentali moderni chiamiamo ‘natura’ e che consideriamo un’evidenza indiscutibile. Le piante dell’orto sono per le donne che le coltivano come dei bambini, veri e propri consanguinei. Mentre le scimmie e parecchie altre specie animali, così come gli spiriti della foresta, contraggono con gli umani complessi rapporti di parentela. In una scala di relazioni, fra umani e non umani non c’è alcuna separazione di principio – da una parte la società, dall’altra la natura –, poiché tutti quanti costituiscono una ben precisa forma di socialità, dotata di una spiritualità e di un’etica comuni, di leggi e di rituali condivisi, di un’organizzazione complessiva del mondo che è al tempo stesso antropologica e biologica, storica e cosmologica. Gli Achuar, del resto, danno del tu

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PHILIPPE DESCOLA a moltissime specie animali, come anche ad alcune forze fisiche come il vento e la pioggia, per non parlare di divinità o apparizioni oniriche. E appellare alla seconda persona, si sa, non è mai casuale: significa costruire una connessione intersoggettiva, una situazione di comunicazione fra due esseri pari grado. Come dire che, per questo gruppo etnico, molte delle entità che noi consideriamo esistenti a prescindere da noi, dunque naturali

biano di molto: i cacciatori della taiga siberiana non lancerebbero una freccia contro un qualsiasi animale – loro simile nell’interiorità – se non dopo complessi rituali che giustifichino un tale ardire. Stessa cosa in alcune zone della Mongolia, della Malesia, della Cina, della Nuova Guinea, come anche nelle Isole Salomone, per non parlare della Nuova Caledonia, e giungendo con un lungo giro sino all’Africa, dove si riscontrano situazioni sostanzialmente – anzi,

IN NUMEROSE ZONE DEL PIANETA, UMANI E NON UMANI NON SONO PERCEPITI COME SE EVOLVESSERO IN MONDI INCOMUNICABILI E SECONDO PRINCIPI SEPARATI; L’AMBIENTE NON È CONCEPITO COME UNA SFERA AUTONOMA. e oggettive (parlandone alla terza persona), hanno invece un’anima, un’interiorità: sono veri e propri soggetti, individui, persone, attori sociali. Entità cui dare del tu, con le quali instaurare alleanze, forme di parentela, relazioni sociali di vario genere. Ecco l’essenza dell’animismo, opposto dialettico del nostro naturalismo occidentale moderno, secondo il quale, invece, fra umani e non umani esiste una differenza interiore, che è pura apparenza, dato che, in fondo, tutti quanti possediamo la medesima esteriorità, la stessa base biologica, fisica, materiale. L’ANIMISMO NEL MONDO

Ma l’animismo non è prerogativa esclusiva degli Achuar: lo si trova un po’ dovunque nel mondo, anche in territori assai poveri dal punto di vista della biodiversità come l’enorme zona surbartica che va dal Labrador sino all’Alaska. E anche passando dall’altro lato dello Stretto di Bering le cose non cam-

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formalmente – affini. E l’esplorazione potrebbe continuare. Ma è già sufficiente per giustificare l’idea per cui «in numerose zone del pianeta, umani e non umani non sono percepiti come se evolvessero in mondi incomunicabili e secondo principi separati; l’ambiente non è oggettivato come una sfera autonoma; le piante e gli animali, i fiumi e le rocce, i fenomeni metereologici e le stagioni non esistono in una stessa nicchia ontologica definita in virtù della sua assenza di umanità. Questo, peraltro, sembra vero a prescindere dalle caratteristiche ecologiche del luogo, dai regimi politici ed economici, dalle risorse accessibili e dalle tecniche utilizzate per sfruttarle». A parlare è l’antropologo di cui sopra, l’interlocutore del povero Chumpi, ovvero Philippe Descola, fra i più brillanti allievi di Claude Lévi-Strauss, che fino a pochi mesi fa ha tenuto al Collège de France l’insegnamento di Antropologia della Natura, dicitura che la dice

lunga sul suo modo fortemente innovativo di studiare le culture umane, tradizionali, selvagge, primitive o comunque le si voglia chiamare, con tutte le virgolette del caso. In un libro che arriva finalmente in ottima edizione italiana, Oltre Natura e Cultura (a cura di Nadia Breda, Cortina), Descola dimostra con grande destrezza e una gran mole di dati etnografici che la famigerata opposizione fra natura’ e ‘cultura’, su cui s’è fondata l’antropologia culturale e, in fondo, l’intero campo delle scienze umane e sociali, è un grande abbaglio, tutto moderno, e tutto occidentale. L’idea di una ‘natura’ come ‘regno’ che esiste a prescindere dall’uomo, realtà silente che la scienza si adopera a gran fatica di conoscere, è invenzione recente, databile grosso modo nel Seicento razionalista, periodo in cui il metodo cosiddetto sperimentale prende definitivamente piede. Così come l’idea di una ‘cultura’ – o di un pacchetto di più culture – come realtà che si erige a partire da uno stacco più o meno mitico rispetto a tale ‘natura’ (col linguaggio, la gestione del fuoco, il tabù dell’incesto, la produzione di artefatti etc.) è ancora più recente, e risale grosso modo ai primi dell’Ottocento. Questa Grande Divisione sta tutta dentro la nostra tradizione intellettuale, che è, come s’è detto, naturalista, ritenendo che tutti gli esseri viventi abbiano le medesime basi biologiche, ossia, appunto, naturali, mentre soltanto gli umani sarebbero dotati di una tendenza verso la socialità. Oltrepassare la distinzione fra natura e cultura significa pertanto, da una parte, circoscriverla nello spazio e nel tempo e, dall’altra, ricostruire se e quanti altri ‘modi di identificazione’ fra uomo e am-


biente possono darsi nella formazione delle culture umane. RELAZIONI INCROCIATE

La scommessa di Descola, da questo punto di vista, è audace: «stabilire una tipologia delle relazioni possibili con il mondo e con gli altri, umani e non umani», provando a ipotizzare un numero limitato di “schemi della pratica” al quale - mediando fra le strutture profonde di Lévi-Strauss e l’idea di habitus di Bourdieu - le varie culture possono essere ricondotte. Così, gran parte del libro è dedicata a immaginare - con geniale ricostruzione strutturale - una tale tipologia, dove, accanto all’animismo e al naturalismo, trovano spazio il totemismo e l’analogismo: il primo fondato su una totale continuità fra interiorità ed esteriorità, e il secondo, al contrario, basato su una discontinuità radicale fra gli esseri. Animismo, naturalismo, totemismo e analogismo sono, dice Descola, ontologie, ossia quattro modi mediante cui ogni cultura costruisce la propria idea di realtà e di società, del sé e dell’altro. Da qui la nozione, alquanto rivoluzionaria, di multinaturalismo, coniata com’è chiaro per calco dal multiculturalismo: così come nel pianeta ci sono diverse culture, ci sono anche diverse nature, diversi modi di identificazione, diversi schemi della pratica. Ontologie che, nel concreto dell’esperienza di ciascuno, spesso si mescolano fra loro, come quando facciano convivere con estrema disinvoltura la medicina scientifica (naturalismo) con quella misticheggiante di certe culture orientali (totemica), magari affidandoci alla lettura dell’oroscopo (analogismo). Il libro di Descola si rivela un vero capolavoro, ed è destinato a

diventare un classico nel campo delle scienze umane e non. Un libro che rimarrà: non soltanto perché ha cambiato in profondità i percorsi di base della ricerca scientifica ma, più generalmente, perché sta incidendo nelle pieghe dell’intera cultura contemporanea. Negare l’evidenza della natura non è cosa da poco. Tanto più rilevante quanto più si scontra sia con l’euforica moda dell’ecologia e dell’organic che contraddistingue il mondo attuale dei consumi (che il marketing sfrutta ai propri fini), sia col riduzionismo naturalista che imperversa in certo pensiero filosofico dei nostri giorni. Del resto la natura, ripete Descola seguendo alcune intuizioni di un filosofo come Bruno Latour, non è che l’esito di una parola socialmente autorevole, quella della scienza che prova a ricostruirne i

sottomissione e lo sfruttamento intensivo, sino a una distruzione progressiva che – com’era prevedibile dall’inizio – si riverbera su noi umani saccenti e prepotenti. Cosa che in altri luoghi del pianeta, in altre società e culture, non è mai successo, né potrebbe del resto succedere. AMBIENTALISTA A CHI?

Si genera a un apparente paradosso. Le società che, come la nostra, credono nell’esistenza della natura la distruggono. Quelle che non ci credono, come gli Achuar o gli aborigeni, la custodiscono. Gli altri sono ecologisti molto più di noi e da sempre, per natura verrebbe da dire. Senza saperlo forse, ma con grandi convinzioni religiose, cosmologiche, politiche a supporto. Gli attuali ambientalisti delle nostre terre,

VIENE PROPOSTA LA NOZIONE DI MULTINATURALISMO, CONIATA PER CALCO DAL MULTICULTURALISMO. PERCHÉ, COSÌ COME NEL MONDO CI SONO DIVERSE CULTURE, CI SONO ANCHE DIVERSE NATURE. supposti misteri, e di una concomitante serie di prassi (religiose, politiche, economiche etc.) che la trattano come un’alterità ora da sfruttare sino a distruggerla (come per secoli s’è fatto e si continua a fare) ora da proteggere e coccolare (come i vari ecologismi ci invitano giustamente a fare). La credenza occidentale moderna in una natura data, unica e separata rispetto alla società, si fonda allora su un gesto antropologicamente curioso, quello dello scienziato che la pensa come un tutto estraneo e meccanico da indagare accigliatamente; gesto che ha esiti politici ed ecologici disastrosi: la

suggerisce Descola, avrebbero molto da imparare dalle popolazioni cosiddette primitive, molto più attente di noi nel rispetto delle specie viventi. Potrebbero per esempio mettere da canto le nostalgie per un passato verdeggiante che forse non è mai esistito, dismettere le pose un po’ ingenue di chi va ad adorare una mitica wilderness, e provare piuttosto a pensare al futuro. A una natura da inventare, da progettare, da costruire, in funzione nostra e insieme a noi. Una natura nuova che è al tempo stesso un nuovo modello di società. Un mondo migliore, insomma. ■

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JOHANN CHAPOUTOT

NAZISMO E MANAGEMENT TESI PROVOCATORIA? FORSE, ANZI CERTAMENTE. MA ANCHE NARRAZIONE RICCA DI EFFICACI PARALLELISMI. di Marco Clementi

L

iberi di obbedire» è uno slogan e il sottotitolo dell’ultimo libro di Johann Chapoutot, Nazismo e management, pubblicato da Einaudi. L’autore affronta un tema caro alla storiografia, quello della mancata epurazione in Germania occidentale e del conseguente inserimento degli ex nazisti all’interno dei gangli della vita pubblica, sociale ed economica del Paese. Partendo da brevi biografie di giovani nazisti, che attraverso il regime fecero importanti carriere, Chapoutot analizza la formula Blut und Boden, il sangue e il suolo, che determina il destino dei popoli e rappresenta il superamento del bene egoistico individuale a favore di quello supremo collettivo. I giovani di cui si occupa sono tecnocrati riformatori; lavorano al piano economico quadriennale diretto da Hermann Goering e scalano la gerarchia dell’SD, il servizio informazioni delle SS. Il Reich non era mai venuto meno, neanche durante la Repubblica di Weimar, quando si usò proprio questa espressione per indicare lo Stato tedesco, in continuità con il

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passato. Ma se Reich è un concetto positivo, lo Stato come inteso Der Staat, indica conservatorismo e degrado. Il nazismo nasce per superare ciò che è statico: alla parola Partei, partito, i giovani preferiscono Bewegung, movimento. Il movimento porterà la Germania fuori dalla stagnazione della statualità di origine tardo romana, che tanto aveva influenzato negativamente la storia tedesca a causa di una realtà giuridica impastata di retoriche catastrofiche e contaminata di miscugli ematici giudeo-cristiani. PANGERMANESIMO

Recuperare l’essenza tedesca significava superare l’anarchia ebraica e l’ingannevole ordine mondiale stabilito a Versailles attraverso una nuova trinità: ein Volk, ein Reich, ein Führer, un popolo, un impero, una guida. Hitler, novello Augusto, avrebbe posto fine ai torbidi abolendo la repubblica e riportando il Reich alla sua origine, mentre il diritto romano degiudeizzato avrebbe riunito giuridicamente il sangue e il suolo. Chapoutot concentra la propria

attenzione su un giurista di diritto pubblico, Reinhard Höhn, che negli anni Trenta scala posizioni all’interno dell’SD. Attraverso il darwinismo sociale, il razzismo e l’eugenetica i nazisti fanno respirare le istituzioni perché l’unità di razza e spirito trovi nuova sintesi nel grande spazio che si apre a Est. Höhn raggiunge una posizione di grande prestigio, ma si fa diversi nemici, viene estromesso dai servizi segreti, quindi nominato professore all’Università di Berlino e direttore dell’Istituto di ricerche sullo Stato che ha sede a Wannsee, nei locali delle SS. Anche qui le sue capacità lo pongono in ottima luce e Himmler lo prende sotto la propria ala protettrice. Nel 1939 è nominato Oberführer delle SS [generale], e con questo grado termina la guerra. UNA STORIA EMBLEMATICA

Al termine del conflitto Höhn si nasconde. Come molti, evita l’epurazione e torna in campo mettendo al servizio del nuovo Stato e del nuovo mondo bipolare la sua precedente esperienza all’interno dell’amministrazione pubblica. In


Bassa Sassonia, a Bad Harzburg, fonda un Istituto per la formazione dei quadri dirigenziali dell’industria. Le sue concezioni, messe da parte le idee su razza e sangue, sono le stesse del periodo nazista: preparazione pratica, storia militare e studi di casi, specializzazione, motivazione e capacità di raggiungere in modo autonomo l’obiettivo, definito dall’incarico che viene affidato al quadro. Al pari di quanto accadeva nell’esercito nazista, dove l’ufficiale sul campo decideva come conquistare una quota nemica, così il quadro di azienda in tempo di pace è «libero di obbedire», scegliendo la strada da percorrere. Gli obiettivi sono decisi a livello centrale, la flessibilità nell’esecuzione è di chi agisce sul territorio. In realtà, durante la guerra i militari tedeschi furono anche liberi di non obbedire. È noto, per esempio, che il comandante dell’undicesima compagnia del terzo battaglione del reggimento di polizia “Bolzano”, colpito in via Rasella nel marzo del 1944, non volle partecipare all’eccidio delle Fosse Ardeatine. Così, durante le mattanze sul fronte orientale contro gli ebrei, i militari potevano rifiutarsi di sparare ai civili. Questo fatto aumenta o diminuisce la loro responsabilità personale? Quanto è sostenibile la litania, usata anche da Adolf Eichmann durante il

processo a Gerusalemme, di aver semplicemente eseguito gli ordini? Höhn voleva una Germania autonoma, indipendente, forte e prospera. La guerra era stata persa perché alcune rigidità avevano imbrigliato il sistema. Nel dopoguerra era giunto il tempo di portare nella vita civile la tradizione militare prussiana, passata per le idee rinnovatrici e liberatrici del nazismo. Il Terzo Reich era fallito per non essere sufficientemente nazista, per aver mancato nel mettere in atto le libertà germaniche, la flessibilità di uomini e organizzazioni. IL CITTADINO IN UNIFORME

Ora che la Germania costituiva l’avamposto del mondo libero contro il blocco comunista, come già era successo nel decennio precedente, non si poteva più fallire. Nel 1955 nasceva il nuovo esercito federale sul principio del cittadino in uniforme. In azienda questa nuova cultura, che riprendeva i modelli più cristallini del vero nazismo, diventava il «management per delega di responsabilità». Höhn scrive manuali, diventa famoso, finisce sulle copertine dei settimanali. Sono anni in cui si discute in tutta Europa del rapporto tra lavoratori e manager e se la Jugoslavia sceglie la via dell’autogestione, Höhn chiama la sua soluzione «cogestione». Si devono evitare le

contrapposizioni tra datore di lavoro e operaio, perché il conflitto di classe indebolisce la Germania. L’autonomia del collaboratore aiuta a scongiurare le divisioni. Alcune parole ritornano nei suoi scritti, tragicamente, riprese da quella lingua del Terzo Reich magistralmente illustrata da Victor Klemperer nel 1947: nel 1969 l’Accademia dei manager offre ai quadri dell’amministrazione alcuni Sonderseminare (seminari speciali), che ricordano troppo da vicino le Sonderaktionen (le azioni speciali) contro ebrei e comunisti. Reinhard Höhn è il precursore della nuova gestione pubblica, che sarebbe entrata in crisi solo con l’irrompere sulla scena del “management per obiettivi”, di origine statunitense. Solo in quel momento i giornali ricorderanno il suo passato nazista, che si affianca critiche per le debolezze del suo modello aziendale. La delega e la libertà di obbedire dei quadri hanno concluso la parabola, come la vita di Höhn, che vede l’alba del nuovo millennio. Quando si spegne, il 14 maggio del 2000, la stampa tedesca gli rende omaggio, ricordando il manager e l’insegnante di talento. Restano i suoi scritti, enfatici prima del 1945, pieni di tecnicismi dopo la guerra come “Esami senza paura” o “Il pane quotidiano del management”. ■

L’AUTORE Johann Chapoutot è professore di storia contemporanea alla Sorbonne Nouvelle–Paris III. Tra i maggiori rappresentati europei di una nuova generazione di studiosi del nazismo, ha dedicato all’argomento saggi fondamentali come Controllare e distruggere (2013), La legge del sangue: pensare a agire da nazisti (2015) e La rivoluzione culturale nazista (2017), tutti pubblicati in Italia da Einaudi.

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HARALD HAARMANN

CULTURE

DIMENTICATE DAVVERO LA CIVILTÀ INIZIA NEL VICINO ORIENTE? SCAVI INTERNAZIONALI E STUDI MULTIDISCIPLINARI RIVELANO COMUNITÀ PIÙ ANTICHE E VITALI. MA ANCORA OGGI AVVOLTE DALL’OBLIO. di Mariagrazia Pelaia

U IL LIBRO Gli insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, le guerriere del Mar Nero, le popolazioni pelasgiche, le mummie bionde ritrovate a Xinjiang, gli abitanti dell’Isola di Pasqua... Sono alcune delle storie che Harald Haarmann trae da un lontanissimo passato e consegna alla nostra contemporaneità.

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no studioso interdisciplinare dal respiro rinascimentale. Da pochi mesi è uscito Culture dimenticate. Venticinque sentieri smarriti dell’umanità (Bollati Boringhieri 2020, traduzione di Claudia Tatasciore), il primo libro tradotto in italiano di Harald Haarmann, illustre linguista autore di oltre cinquanta saggi, che ha indagato le radici culturali dell’umanità spingendosi in zone poco o nulla esplorate dalla storiografia ufficiale. A parte alcuni testi usciti su Prometeo e il saggio ora pubblicato, la sua vasta opera è inedita nel mondo culturale italiano. Attraverso di lui abbiamo conosciuto l’ipotesi di un’antica scrittura europea di età neolitica, più antica di due millenni rispetto a quella sumera e a quella egizia, ritenute le più antiche al mondo. E abbiamo letto interessanti ridefinizioni della cultura greca con l’ausilio di analisi linguistiche del substrato preellenico e preindoeuropeo, facendo intravedere un retaggio più complesso e più antico risalente all’Antica Europa neolitica, ampliando quindi di alcune migliaia

di anni il processo di evoluzione culturale europeo (vedi il focus di approfondimento a pagina 56). LE CENERENTOLE DEL MONDO

«In genere i nostri libri di storia si occupano delle civiltà e delle culture sommerse solo se sono di un certo interesse per gli sviluppi politici e culturali che hanno condotto all’Europa moderna». Dall’Egitto e dalla Mesopotamia ereditiamo lo stato e la scrittura. Da Israele, le radici della cristianità europea. Dalla Grecia democrazia, filosofia e teatro. Dall’Impero romano lingua latina, letteratura, diritto e religione. Quando un’età storica non ha invenzioni produttive per l’attuale modello culturale si parla di “secoli oscuri” (ad esempio il Medioevo europeo). «Certo, questa è un’estremizzazione: tutti abbiamo imparato che la storiografia non può essere eurocentrica e che dobbiamo molto alle culture extraeuropee». Nonostante questa consapevolezza diffusa, il modello storico sopra descritto è ancora prevalente. Ad esempio, nonostante l’unanime


condanna del nostro passato colonialista nei resoconti storici tuttora «si omettono tutti gli avvenimenti che, apparentemente o realmente, non hanno lasciato tracce durature in una storia che punta i riflettori sull’Europa». Tutto ciò che non entra nel quadro diventa una Cenerentola marginalizzata. «Questo volume è dedicato a venticinque esempi rappresentativi di queste civiltà outsider, la più antica risalente al paleolitico. Vedremo come molte di esse in realtà abbiano lasciato, eccome, una loro traccia modificando il corso della storia, ma sono state poi dimenticate perché i vincitori o le civiltà successive le hanno rimosse, tacendone o vietandone la memoria, o semplicemente perché le loro conquiste sono state attribuite ad altre culture. L’auspicio è che sfogliando i capitoli di questo libro, organizzati in ordine cronologico, il lettore riceva almeno un’impressione di come la storia sia progredita in modo diverso da quanto abbiamo imparato, e di come avrebbe potuto seguire tutt’altro corso se la dea Fortuna avesse baciato altre civiltà e culture». «Alcuni modelli culturali apparentemente sommersi riaffiorano più tardi in altri contesti, vengono nuovamente istituzionalizzati senza che si possano dimostrare connessioni dirette. Vale però la pena di riflettere sui collegamenti». «Se dalla prospettiva attuale le civiltà sommerse ci appaiono misteriose è perché la nostra memoria culturale non ci fornisce indirizzi o punti di riferimento per mezzo dei quali collocare una civiltà dimenticata nel suo contesto appropriato. Uno degli obiettivi di questo volume è perlomeno abbozzare una rete storica di riferimento, che fornisca i necessari punti di orientamento».

«Ogni volta ci si chiederà, alla fine, perché una data cultura è stata dimenticata, quali elementi continuano probabilmente a vivere e quali sono gli enigmi ancora da chiarire, in modo da stuzzicare la curiosità del lettore o della lettrice». (Dall’Introduzione di Culture dimenticate, cit.). VENTICINQUE SENTIERI

Percorrendo l’indice del libro si prospetta un itinerario cronologicamente disposto che, a partire dal Paleolitico superiore fino a tempi più prossimi a noi (1500 circa) e spostandoci fra i cinque continenti, ci consente di scoprire le venticinque “misteriose Cenerentole della storia del mondo”. La più antica che Haarmann ci presenta è la cultura della caccia di Homo Heidelbergensis che 320 mila anni fa ha costruito le prime armi a noi note, le “misteriose lance di Schöningen”. Propongono infatti un enigma: come mai le otto lance sono state abbandonate tutte insieme e posizionate in un punto specifico, accanto a crani di cavallo? Data la loro preziosità impossibile che i cacciatori le abbiano abbandonate lì per caso. Sembra trattarsi di azioni rituali di un gruppo di ominidi che ha preceduto in Europa sia Homo Sapiens che Neanderthal. La religiosità è quindi un fenomeno più antico nella storia dell’evoluzione di quanto gli studiosi hanno ritenuto finora... Oltretutto viene strappata alla nostra specie l’esclusività di una vita spirituale. Nei crani di Homo heidelbergensis mancano parti nella zona mascellare, dove si trova “l’osso del linguaggio”… solo ulteriori ritrovamenti potranno escludere che ci abbiano preceduti anche in questo ambito! La cultura mesolitica dei cac-

ciatori di Göbekli Tepe (Turchia), che hanno costruito il primo tempio dell’umanità nel X millennio a.C., pone questioni affascinanti. Sembra strano che una scoperta così importante, fatta negli anni Sessanta del Ventesimo secolo, sia rimasta nell’oblio per un trentennio e che solo negli anni Novanta si sia proceduto a veri e propri scavi a cura dell’archeologo Klaus Schmidt. È una scoperta che invita «a rivedere il tradizionale schema dell’evoluzione culturale dell’uomo: all’origine della civilizzazione non c’è la città, e il contesto urbano non è la premessa per il sorgere di un’architettura monumentale. Anzi il rapporto è inverso: il tempio, punto di cristallizzazione di un ordine cosmico religioso e luogo chiave per la ritualizzazione del sentimento comunitario di determinati gruppi sociali, diventa la pietra miliare dell’evoluzione culturale» (p. 58). Un altro punto oscuro da indagare è come mai il luogo di culto sia stato poi abbandonato e ricoperto. Sembra quasi che i nostri antenati abbiano voluto lasciare un messaggio ai posteri di un lontano futuro… Çatalhöyük, la più antica metropoli del mondo, si trova in Anatolia, e siamo di nuovo in Turchia (Neolitico antico, VIII-VI millennio a.C.). La particolarità di questo popoloso abitato è che le mura delle case erano condivise, le case erano attaccate una all’altra e gli ingressi erano dalle terrazze: una specie di grande labirinto comunicante. Mancavano edifici distinti dagli altri, per i ricchi o per i sovrani. Erano i primi agricoltori europei, con una società egualitaria e con pratiche funerarie in cui particolare importanza avevano le donne, il cui teschio veniva separato dalla salma dopo la decomposizione e

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HARALD HAARMANN sistemato in casa. Probabilmente si trattava delle antenate o delle fondatrici della tribù. Il sito comprende un ciclo di affreschi notevoli, e secondo Mellaart si riferivano al culto di una Grande Dea. «La storia straordinaria di Çatalhöyük ci suggerisce la possibilità di un modello alternativo di rivoluzione culturale nell’antichità […] l’organizzazione della vita comunitaria di alcune migliaia di membri in un contesto urbano poteva funzionare anche senza una gerarchia sociale» (p. 68). Allo stesso ambito culturale che potremmo definire “Antica Europa” appartengono i Pelasgi, i Cretesi, gli Etruschi e le Amazzoni, cioè culture raffinate ed elevate che hanno preceduto o sono state contigue con le culture vincenti della classicità, quella greca e quella romana, venendone poi eclissate. Ma con l’aiuto di nuovi studi e nuove metodiche, per esempio lo studio dello strato linguistico preindoeuropeo, sempre più emerge quanto i vincitori abbiano ereditato dai vinti. Non solo in Europa, anche negli altri continenti si trovano enigmi culturali e culture enigmatiche. Per esempio, scopriamo che sono i cacciatori di foche della calotta artica europei i primi scopritori dell’America nell’era glaciale fra 23mila e 19mila anni fa (cultura solutreana). Ovviamente non possedevano i mezzi per affrontare una traversata oceanica, però costeggiando le banchise raggiunsero l’insperata meta! Si arriva a risolvere il caso archeologico comparando gli arnesi delle antiche culture americane (clovis e protoclovis) con quelli dei presunti progenitori europei (solutreani), e viene in soccorso anche la genetica. L’aplogruppo X2 è radicato infatti nella zona nordorientale

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nel continente americano, ma lo ritroviamo anche nella zona sudoccidentale della Francia o nella Spagna settentrionale, dove è ereditato dai moderni baschi. Anche la linguistica porta su tracce analoghe. Tutto converge e collima. Le lingue indiane del Nordamerica, la famiglia algonchina, hanno numerose caratteristiche in comune non con le altre lingue del continente, bensì proprio con il basco. Anche la scoperta precolombiana dell’America, casuale e intrecciata a forti spinte economiche, in questo caso era stata determinata da esplorazioni per nuove riserve di caccia. CINA, AFRICA, MESSICO...

Un’altra anomalia riguarda i “guerrieri delle nubi” in Perù: i Chachapoyas delle Ande (VIII-XV secolo) hanno molto in comune con gli europei, tanto che i peruviani li chiamano “gringuitos”, piccoli stranieri bianchi. Di nuovo, un collegamento fra questi continenti avvenuto molto prima della scoperta ufficiale dell’America da parte di Colombo. E nuovamente a venire in aiuto a risolvere il rompicapo è la genetica: è stato trovato infatti in loro un gene in comune con il ceppo celtico europeo. Il fatto che questi caratteri si siano mantenuti e non siano stati assorbiti da quelli prevalenti nelle successive generazioni è dovuto al fatto che devono aver conservato un ruolo dominante all’interno della società, evitando di mescolarsi alla popolazione locale. Ci sono ancora le misteriose piramidi di Teotihuacán in Messico e gli earthworks geometrici nella foresta amazzonica avvistati con le immagini satellitari. Ben il 95% della superficie è tuttora inesplorata, anche qui ci sono tante storie culturali da scoprire.

Interessante incontro quello con gli indoeuropei nell’Asia orientale, nella provincia cinese di Xinjiang fra II e I millennio a.C., davvero una popolazione irrequieta! Li ritroviamo grazie alle “mummie di Loulan”, appartenenti agli uighuri, una popolazione turca arrivata qui nell’alto Medioevo. Le mummie conservate in perfetto stato hanno rivelato i loro costumi, e in particolare quello di donne che probabilmente erano delle sciamane. Dopo mille anni arrivarono anche i tocari, parenti linguistici della stessa famiglia indoeuropea. E a quanto pare è grazie a loro che in questa regione si diffusero alcune innovazioni che arrivarono all’area culturale cinese. La Via della Seta era già trafficata in epoche più antiche del previsto, ma con movimento in un’unica direzione da Occidente a Oriente. E inoltre, in Africa troviamo tracce di antiche culture matriarcali, la donna faraone Hatshepsut, Axum probabile origine della regina di Saba (ca. IX secolo a.C.) e Zenobia, la colta e abile politica e stratega regina di Palmira che per un certo periodo aveva saputo tener testa ai romani (III secolo). Infine, alcune misteriose costruzioni megalitiche si associano ad altri rompicapo culturali: le torri di Angkor Wat in Cambogia (802-1431) e le mura ciclopiche della città di Grande Zimbabwe, un centro di commercio dell’Africa meridionale (XI-XV secolo). Il nostro passato storico in quest’opera si dilata in direzioni inusitate e se la tendenza attuale della ricerca archeologica è quella di retrodatare sempre più reperti, rovine e manufatti, ci sarebbe da riscrivere la storia del nostro pianeta con nuove prospettive di impensate evoluzioni future. ■


EVA MEIJER

LINGUAGGI ANIMALI

SENTONO, AMANO, PIANGONO E SOPRATTUTTO PARLANO. È GIUNTO IL MOMENTO DI RICONOSCERE I LORO DIRITTI? di Lorenza Guidotti

S

L’AUTRICE Eva Meijer è una scrittrice e filosofa, ricercatrice all’Università di Wageningen (Paesi Bassi). Dirige vari organismi e associazioni dedicati alle ricerche di filosofia ambientale e agli Animal Studies. Ha scritto romanzi e saggi tradotti in diciotto Paesi.

e avrete un po’ di fortuna, incontrerete un animale che vorrà parlare con voi. Se avrete ancor più fortuna, ne incontrerete uno che si prenderà la briga di conoscervi. L’esperienza mi insegna che la maggior parte degli animali è ben disposta a fare quattro chiacchiere». L’incipit del libro di Eva Meijer è chiaro: al di là del nostro Ego antropocentrico, esiste un Pianeta abitato da esseri viventi, gli animali appunto, dotati di logos. In barba alla filosofia classica - Cartesio deduce dall’incapacità di parlare degli animali un’analoga inabilità al pensare, Kant per la stessa ragione li esclude dalla comunità morale, Heidegger considera il linguaggio così importante per definire la nostra posizione nel mondo, che chi non può accedervi non esiste - Linguaggi animali (Nottetempo) ci esorta a un rovesciamento prospettico. Gli animali parlano, e anche in modo eloquente, dobbiamo solo imparare ad ascoltare, acquisire una nuova alfabetizzazione di un linguaggio a noi sconosciuto: “l’animalese”. È con questo invito che Eva Meijer ci conduce via via alla scoperta di un nuovo idioma.

SALUTI E CONVENEVOLI

Gli esseri umani si salutano in continuazione, con numerose varianti e posture. Diciamo «buongiorno» o «ciao», con alcuni è solo un cenno di urbanità, con altri siamo più affabili, se l’incontro ci è gradito. Così fanno le sule, uccelli marini monogami, che avviano un lungo rituale di saluto ogni volta che un membro della coppia torna al nido. I due uccelli sfregano collo e testa contro quello del partner. Spesso, inoltre, il maschio porta regali alla femmina, come fiori per decorare il nido o come collane: dispongono cioè di una “teoria della mente” (la capacità di immedesimarsi nella prospettiva altrui), prerogativa che si riteneva esclusiva solo di esseri umani e primati. Per fare un esempio più vicino a noi, gli animali che convivono si salutano spesso, e riservano un’accoglienza diversa agli estranei. I cani al primo incontro si annusano per avere informazioni su status e caratteristiche di un loro simile. Alcuni si ignorano, altri scodinzolano, e se uno è incerto e timoroso seguono ringhi e abbai. Se i cani sono felici scodinzolano verso destra, esattamente come

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EVA MEIJER noi sorridiamo, mentre se hanno paura, muovono la coda a sinistra. EROS...

Abbiamo sempre considerato l’innamoramento e il corteggiamento come una caratteristica prettamente umana, relegando i comportamenti animali a scopi riproduttivi. Ma dovremmo ricrederci perché l’esempio qui sotto è degno del più sublime amor cortese. L’uccello giardiniere (Sericulus chrysocephalus) raccoglie oggetti per fare colpo sulla futura partner: gusci di lumaca, foglie, fiori, sassi che colora con succo di bacche, con cui decora un pergolato (in inglese bower, da cui il nome bowerbird). Quindi attira la femmina cantando e danzando: lei arriva a dare un’occhiata. Se la costruzione è di suo gradimento, si concede. Altrimenti, tutto da rifare. Anche gli albatri in fatto di galanteria non sono da meno. Questi uccelli monogami e longevi (vivono fino a 60 anni), raggiunta la maturità sessuale, danzano con molti partner per 3-4 anni, finché non ne rimane che uno: il vero amore. I due uccelli, che restano insieme per tutta la vita, sviluppano un linguaggio amoroso specifico solo per la loro coppia. E THANATOS

Riteniamo da secoli che il culto dei morti sia una prerogativa prettamente umana. Ma anche per gli animali le urne confortate dal pianto sono un valore. L’etologa Jane Goodall descrive minuziosamente i rituali di lutto negli scimpanzé. Gli elefanti vegliano i cadaveri dei loro cari e tornano per anni nei luoghi in cui sono morti, il che indica un’idea della morte che va al di là della singola perdita. Le cornacchie seppelliscono i membri del loro gruppo, così come le volpi.

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LA MORALITÀ

Già Darwin riteneva che gli animali sapessero distinguere tra bene e male. La psicologia ci insegna che la moralità è questione di abitudine e socializzazione: la impariamo adottando le norme della comunità. Molti animali hanno la stessa attitudine, e non solo quelli domestici. Nel 1996 un bambino di tre anni cadde nel recinto dei gorilla dello zoo di Brookfield, in Illinois, negli Stati Uniti. Binti Jua, un esemplare femmina di 8 anni, lo prese in braccio e lo tenne al riparo dagli altri gorilla, prima di consegnarlo allo staff dello zoo. Diversi animali in cattività sembrano tenere in considerazione il benessere degli altri. I macachi Reshus si rifiutano di mangiare se in cambio un loro simile viene sottoposto a una scossa elettrica. Ma la moralità animale viene applicata anche in natura: i delfini rimangono al fianco dei propri simili malati e li assistono il più possibile, per esempio formando intorno a loro una zattera di salvataggio. Ma la facoltà di operare scelte etiche in questi cetacei è un fenomeno addirittura interspecifico: nel 2004, in Nuova Zelanda, un gruppo di delfini si dispose in cerchio intorno ad alcuni nuotatori per proteggerli da uno squalo bianco. UN SOGGETTO POLITICO?

Gli animali sanno quindi distinguere tra bene e male. Ma allora, si chiede Eva Meijer, perché non possono diventare un soggetto politico? Le ricerche sulle decisioni di gruppo ci dicono che sanno perfino votare. Nelle comunità di api diversi individui discutono le opzioni possibili e scelgono collettivamente la migliore. I cervi nobili iniziano a muoversi quando il 62% degli adulti si alza. I filosofi

della politica Sue Donaldson e Will Kymlicka sostengono che i diversi gruppi di animali andrebbero considerati come comunità politiche. Gli animali selvatici, che rifuggono l’uomo, dovrebbero essere considerati membri di comunità indipendenti e sovrane; agli animali domestici e da fattoria si dovrebbe invece riconoscere un diritto di cittadinanza; infine, quelli che vivono in mezzo a noi, pur non essendo addomesticati, dovrebbero avere diritti di residenza, e non di piena cittadinanza. Al di là dei suggestivi rimandi letterari (come non pensare a Orwell e a Filelfo?), l’ipotesi propone nuove visioni di convivenza interspecifica che valgono più di una riflessione. NUOVO METALINGUAGGIO

«Se un leone potesse parlare, noi non potremmo capirlo» diceva Wittgenstein, dove il felino qui non rappresenta la comunità degli animali ma l’incomunicabilità tra esseri umani, data l’aleatorietà dei linguaggi nazionali. In pratica, anche con un dizionario alla mano, non è detto che si riesca a capire la gente di un paese straniero, perché non riusciamo a riconoscerci nel loro linguaggio del corpo, nei loro gesti, nelle loro pratiche e nelle loro abitudini. Per dirlo con MerleauPonty, «il linguaggio è sempre incarnato»: parlare è un’attività fisica, le parole sono parte della cassetta degli attrezzi del nostro corpo, «modi di cantare il mondo» li definisce lui. Ecco, il senso di questo libro è proprio questo: per capire il linguaggio degli animali, dobbiamo cambiare prospettiva: immaginare una nuova sintassi con cui tutti gli esseri viventi, umani e non, abbiano lo stesso diritto di “parola”. ■


ALLEGRA IAFRATE

CERCAR TESORI TRA MEDIOEVO ED ETÀ MODERNA SALOMONE, ALÌ BABÀ, L’ORO DEL RENO, IL SACRO GRAAL... TRA QUATTROCENTO E SEICENTO DIVAMPA LA RICERCA DELLE RICCHEZZE PERDUTE E TRA LE SPONDE DEL MEDITERRANEO AFFIORA L’EPICA DEI CERCATORI. UN LIBRO CHE È ANCHE UNA MAPPA. di Lucio Biasiori

S L’AUTRICE Allegra Iafrate ha studiato Storia dell’arte medievale alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È autrice di The Wandering Throne of Solomon: Objects and Tales of Kingship in the Medieval Mediterranean e The Long Life of Magical Objects: A Study in the Solomonic Tradition.

i potrebbe forse scrivere una storia del mondo in cento tesori», scrive Allegra Iafrate a p. 92 del suo Cercar tesori. Tra Medioevo ed età moderna (Laterza 2021). Peccato che quel libro forse esiste già ed è proprio quello dove si legge questa frase. Nonostante infatti siano ambientate soprattutto nel mondo mediterraneo durante i secoli che vanno dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente al Settecento, le moltissime storie che si intrecciano e dipanano tra le sue pagine superano spesso e volentieri questi confini spazio-temporali già molto ampi e finiscono per formare un’unica storia, a cui abbiamo partecipato tutti almeno una volta. UN GRANDE DESIDERIO CHE DIVENTA OSSESSIONE

Il primo capitolo parla del desiderio che anima i cercatori, anzi dei desideri, perché hanno forme e colori diversi: giallo, come la sabbia del deserto; rosso, come il sangue che bagna le reliquie; bianco, come

il marmo delle rovine antiche. Seguendo le tracce lasciate dietro di sé dal colore di ognuno di questi tre desideri, Allegra Iafrate ci accompagna in luoghi remoti nel tempo e nello spazio. Il giallo della sabbia del deserto ci porta nell’Africa del Nord, dove gli Arabi – nuovi signori di quelle che erano state tra le regioni più ricche dell’Impero Romano – scoprono ed esplorano un mondo sotterraneo abitato da presenze misteriose che celano inaspettati tesori. Tesori appartenuti ai vecchi padroni, su cui crescono leggende, come quelle intorno al mausoleo fatto costruire nel III secolo a.C. dall’ultimo re di Numidia a una decina di chilometri a sud di Tipasa, in Algeria, ribattezzato dagli Arabi “tomba della Romana”. Ma, prima ancora di quelli appartenuti ai romani, sono i tesori egizi che accendono l’immaginazione – e il desiderio – dei nuovi padroni della costa meridionale del Mediterraneo, come il califfo omayyade Umar ibn

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ALLEGRA IAFRATE ‘Abd al-‘Aziz, che nella sua reggia di Damasco mostra ai suoi visitatori una collezione di antichi oggetti trovati nelle tombe dei faraoni.

rovine antiche. Bianco, quindi più puro rispetto alla frenetica ricerca dei mutalibun maghrebini e alla malcelata avidità con cui si muove-

LO STUDIO ANTIQUARIO DEL PASSATO, BASATO SU REPERTI REALI E CONOSCENZA DIRETTA DELLE FONTI, HA APERTO LA STRADA ALL’ARCHEOLOGIA E, SECONDO ALCUNI, ANCHE ALL’ANTROPOLOGIA. Ecco allora nascere la figura del mutalib non un vile tombarolo ma un più nobile cercatore (la parola, che è imparentata con il termine a tutti noto di taliban, rimanda all’idea di studio e di ricerca, più che al risultato finale della caccia al tesoro). Mille anni prima di Napoleone, anche il califfo Al-Ma’mun sguinzaglia i suoi “Champollion” per provare a decifrare i geroglifici, convinto che siano mappe di tesori nascosti. Niente da fare: si scrivono decine e decine di “libri di tesori”, come il Kitab al-Kanuz, per ritrovarli, ma loro rimangono spesso nella fantasia. Del resto, quei romani, i cui tesori giacevano ora sotto le sabbie del deserto, avevano già capito tutto, visto che per dire ritrovamento, incluso quello dei tesori, usavano una parola piena di futuro: inventio. La seconda sfumatura del desiderio inseguita dall’autrice di questo libro – che, via via che lo si legge, assume la forma del tema che tratta – è rossa, come il sangue contenuto nel più ambito dei tesori sacri: il “Santo Graal”, ovviamente. Qui il piatto da portata (gradalis), coppa contenente il sang real, pietra dalle virtù magiche, la sua ricerca (la quête dei romanzi cavallereschi) anima l’immaginario collettivo da Parzival al Codice da Vinci. Il desiderio può essere infine anche bianco, come il marmo delle

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vano i crociati nei loro furti sacri di reliquie? Certo, c’è in gioco l’imitazione della gloria degli antichi per uscire dal buio del Medioevo. Ecco quindi Petrarca donare all’imperatore Carlo IV delle antiche monete con l’effigie di Cesare perché il sovrano potesse «conformarsi alle loro persone e ai loro pensieri». Ma da dove venivano quelle monete che il padre della riscoperta umanistica dell’antico donava all’imperatore? Diamogli ancora la parola: «Spesso in Roma io mi vidi venire innanzi un lavoratore di vigna con in mano un’antica gemma o una moneta d’argento o d’oro che fresco fresco mostrava il solco della mazza o dell’aratro, affinché la comperassi e vedessi il modo di riconoscere le scolpite effigie de’ prischi eroi». Lo studio antiquario del passato, basato sulla conoscenza diretta delle fonti di prima mano e non più solo su fonti secondarie e quindi viziate dal punto di vista degli storici antichi, ha aperto la strada all’archeologia e, secondo alcuni, anche all’antropologia, perché ha fatto emergere tutto quello che nelle società antiche era scritto con l’inchiostro invisibile, poiché dato per scontato e non trasmesso con l’intenzione di lasciare una traccia per i posteri. Tutto vero, ma quanto dovettero gli eroi di questa riscoperta dell’antico, come Petrarca, a decine di anonimi

contadini o scavatori che, per caso o fiutando l’affare, si sporcavano le mani disseppellendo tesori dalle campagne italiane? Quanto c’è di vero nella descrizione che Vasari fa di Brunelleschi e Donatello che si aggirano «vestiti a caso» in mezzo ai ruderi di antichi edifici romani con un’aria più da tombaroli che da artefici della rinascita dell’antico, tanto che la gente li segnava a dito come «persone che attendessino alla geomanzia per ritrovare tesori»? Chissà poi quante altre volte sarà capitato quello che successe a un vignaiolo di Castellina in Chianti nel 1508: «Facendo una buca col palo di ferro per piantarvi una vite, il palo cascò in una sepoltura antica delli Etruschi ed uscì dalla buca un fetore di tanfo». Tappatosi il naso, aprì gli occhi e vide «una mensa, gli ornamenti di una regina, cioè uno specchio d’argento, un dirizzatoio d’argento, maniglie d’argento e in un vaso di cenere una cicala d’oro, una donna infino al busto d’alabastro, con un filo d’oro ad armacollo, un vaso di rame col coperchio di sopra ad uso d’un caldano da barbiere, dove erano cassette piene d’anella e pietre preziose». CHI CERCA TROVA?

Un desiderio, se uno lo tiene per sé, si realizza, ma non è questo che interessa alla maggior parte dei cercatori, per i quali conta forse più il viaggio della meta finale. Ecco allora spiegata l’importanza dei racconti sui tesori. Allegra Iafrate ne sviluppa nel secondo capitolo cinque, che però sono le matrici per mille altri racconti possibili. Racconti che parlano soprattutto di re. Del re sapiente per eccellenza, prima di tutto: quel Salomone, custode dei segreti della conoscenza, che, come tutti i lettori di Konrad Lorenz sanno, aveva un


anello per parlare come gli animali, ma aveva anche una piccola chiave (la Clavicula Salomonis, appunto, il “grimoire” più efficace nel domare con gli incantesimi la natura) che permetteva di aprire ogni cosa, forzieri inclusi. Ma anche Ottaviano, depositario dei tesori di Roma antica, che popola i sogni di gloria di molti cercatori insieme a colui che quei tesori predò: il re visigoto Alarico, che secondo la leggenda si sarebbe fatto seppellire con il favoloso bottino del Sacco di Roma nel letto del fiume Busento, momentaneamente deviato. Come si vede, l’incontro di popolazioni rimaste ai margini dell’impero romano – arabe, ma anche germaniche – con una civiltà più ricca mise in moto l’immaginazione degli eredi di Maometto e Carlo Magno, veri fondatori di questo Medioevo tesaurizzatore. Ha proprio ragione l’autrice: «I tesori sono l’altra faccia della devastazione» (p. 61). Le fonti insomma ci mostrano che spesso la ricerca è più importante del tesoro stesso. Talvolta è anche il contenitore che può essere più prezioso dello stesso contenuto. Un capitolo del libro è dedicato perciò anche agli scrigni – la parola greca “thesauros” indicava in origine proprio questi. Vero e proprio tesoro nel tesoro, lo scrigno accende la fantasia del cercatore sia che si riesca ad aprirlo o meno. La prima cosa che viene in mente sono i sarcofaghi, ma diamo un’occhiata all’elmo del guerriero di Sutton Hoo, “the British Tutankhamun”, ritrovato nel 1939 da archeologi dilettanti. Era pensato come una sorta di cassa di risonanza, che conferiva alla voce di chi lo indossava un timbro scuro e potente e al suo volto delle fattezze caratteristiche quasi soprannaturali.

Dove non si frappone uno scrigno, tra il cercatore e il suo tesoro c’è spesso un custode. Oggi abbiamo le casseforti, un tempo avevano il “lucchetto tedesco”, geniale strumento di creazione di doppi sensi ed enigmi con parole e numeri che scatenava le fantasie dei creatori di emblemi nell’età del Manierismo e del Barocco. Ma prima ancora, nella notte dei tempi, i tesori erano custoditi da guardiani in carne e ossa. Più ossa che carne, a dire il vero, visto che naturalmente i primi custodi dei tesori sepolti sono i morti che riposano accanto a loro. Ma presto ai morti si aggiungono diavoli e altre creature, come i nani.

sulla superficie increspata dell’acqua, che nel passato gli uomini e le donne (soprattutto i primi, occorre dire, con buona pace di regine cattive e di specchi delle brame) cercavano di intravedere il nascondiglio di ricchezze nascoste. Ma l’immaginario medievale e moderno era anche pieno di erbe che indicavano il nascondiglio del tesoro e aiutavano a forzarne il contenitore. Noi pensiamo subito al sesamo che doveva aprire ad Alì Babà la grotta del tesoro. Come mostra Allegra Iafrate, l’etimologia è troppo bella per essere vera: l’arabo simsim pare essere piuttosto un riferimento al masso (timtim) che chiude la caverna.

LA STESSA ESPRESSIONE “CACCIA AL TESORO” EVIDENZA CHE SI TRATTA DI UN OGGETTO IN MOVIMENTO, CHE APPARE E SCOMPARE COME UNA BELVA BRACCATA, PRONTA A RIEMERGERE. CACCIATORI E PREDE

Inventio, quête e le imprese dei mutalibun: tanti nomi diversi per indicare quella che nelle lingue moderne è diventata la caccia al tesoro. Se, come ci esorta l’autrice, facciamo attenzione all’espressione “caccia al tesoro”, capiamo subito che il tesoro è qualcosa in perenne movimento, che appare e poi scompare proprio come una belva braccata, pronta a riemergere dove meno la si aspetta. Per questo è necessario trovare degli strumenti che la stanino, questa fiera errante che è il tesoro. Questi strumenti possono assumere, ad esempio, la forma di uno specchio: ben prima infatti che fossero fatti di vetro restituendo così un’immagine troppo fedele per far galoppare la fantasia e quindi innescare la ricerca, era nel loro metallo opaco, così come

In mancanza del sesamo c’era però un’infinità di altri vegetali, come lo Springwurzel, la radice esplosiva che faceva saltare ogni ostacolo che si frapponeva tra il cercatore e il suo tesoro. Altrimenti si poteva trasformare il ramo di un albero in bacchetta, lo strumento per eccellenza del sourcier, il rabdomante cercatore di fonti (sources), in fondo parente stretto dello storico, anche lui ossessionato dalle fonti. E così siamo tornati al punto di partenza del libro, che non a caso è dedicato «a chi fa ricerca, nonostante tutto». Sotto le mille e una storia che racconta, infatti, il filo conduttore di questo libro insolito e avvincente è quell’amore per l’esplorazione che accomuna tutti i cercatori, di ogni tempo e ogni tesoro. ■

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SAGGI DAL MONDO LEÇONS D’UN SIÈCLE DE VIE EDGAR MORIN

BIRDSONG IN A TIME OF SILENCE STEVEN LOVATT Mentre eravamo in lockdown, una pace innaturale ha avvolto il mondo. Per questo molte persone hanno iniziato a diventare più consapevoli dei suoni primaverili degli uccelli. Il libro di Lovatt (Penguin books, 2021) è una riflessione lirica accompagnata da una ricognizione scientifica. Da una descrizione del merlo, il cantante più celebre e complesso del periodo, al modo di gorgheggiare degli uccelli (con le loro motivazioni, inclusa la scelta del luogo di nidificazione) alle ispirazioni che hanno tratto gli umani: in sintesi, storia naturale e storia umana non possono essere separati.

Filosofo e sociologo francese, Edgar Morin compirà cento anni il prossimo 8 luglio. Appartiene all’eletta schiera dei grandi intellettuali d’Oltralpe ed è noto per l’approccio transdisciplinare con cui nella sua lunga vita ha affrontato differenti temi di studio, dalle questioni metodologiche all’ecologia, alla didattica, al rapporto complesso tra civiltà e cultura (ma ha dedicato molta attenzione anche al cinema). Con questo libro, che l’editore Denoël manda in libreria ai primi di giugno, dà voce alle osservazioni che ricava dal nostro presente. «Dovrebbe essere chiaro che non sto insegnando

a nessuno. Cerco di apprendere le lezioni di un’esperienza di vita laica, e spero che siano utili a tutti, non solo per mettere in discussione la propria vita, ma anche per trovare la propria via». A 100 anni, Edgar Morin non nasconde le sue preoccupazioni. Questi sono tempi molto tormentati, persino per un pensatore umanista che è stato testimone e attore dei vagabondaggi e delle speranze, delle crisi e dei turbamenti del secolo. Leçons d’un siècle de vie (Denoël, 2021) è un saggio sulla complessità umana. E una forte esortazione a non perdere lucidità.

PUBLISHING

WORLDWIDE THE BRILLIANT ABYSS HELEN SCALES Le profondità oceaniche sono l’ultima grande regione selvaggia del pianeta. Per secoli, i mitografi e gli scrittori hanno inventato mostri immaginari degli abissi e ora gli scienziati stanno cercando proprie nei fondali marini specie bizzarre e sconosciute, nuove sostanze chimiche e dati per una maggiore comprensione del mondo. Con una profondità media di 12mila piedi (oltre 3,6 chilometri) e voragini ancora più profonde, questa è in effetti l’ultima frontiera ancora aperta a nuove scoperte. The Brilliant Abyss. True Tales of Exploring the Deep Sea, Discovering Hidden Life and Selling the Seabed,

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(Bloomsbury Sigma, 2021) racconta la storia del nostro rapporto con i mari profondi, reali e immaginari. Nel corso del tempo, gli esploratori degli abissi sono stati spinti dalla curiosità scientifica e altri dal desiderio di profitto. La tensione tra questi due opposti è il tema che attraversa il libro, mentre i lettori sono condotti in un viaggio cronologico che ne storicizza il formarsi. The Brilliant Abyss indaga anche gli impatti ambientali del progressivo avanzamento umano nelle profondità abissali, comprese l’estrazione mineraria e l’inquinamento, proponendo alcune soluzioni.

A SWIM IN A POND IN THE RAIN GEORGE SAUNDERS L’autore ha trascorso oltre vent’anni alla Syracuse University, dove insegnava scrittura creativa nel programma MFA. Materia di studio: il racconto breve russo del XIX secolo e la sua struttura. In questo saggio (Penguinbooks 2021), i meccanismi che intrecciano la fiction di sette storie memorabili – Cechov, Tolstoj, Turgenev e Gogol – vengono proposti assieme a una sottile capacità di analisi, in grado anche tracciare un ponte tra l’arte e la vita. «Quando si diventa lettori migliori», sostiene George Saunders, «si diventa anche migliori cittadini del mondo».


LE RISTAMPE ITALIANE LA RIVOLUZIONE RUSSA VICTOR SERGE

BREVE STORIA DELL’INFINITO PAOLO ZELLINI È la terza volta che Adelphi porta in libreria lo stesso stesso saggio. Zullini, matematico eclettico, aveva saputo interpretare con decenni di anticipo l’interesse silente ma potente che i lettori tributano all’infinitamente grande, tema oggi di gran moda in Italia e nel mondo, ben risolto da Carlo Rovelli e altri, soprattutto fisici. Quello di Zullini è stato un libro in grado di suscitare sottili passioni e dichiarati elogi. E giustamente la casa editrice di Roberto Calasso ne ricorda il giudizio di Italo Calvino: «Tra i libri italiani degli ultimi anni quello che ho più

letto, riletto e meditato è la Breve storia dell’infinito di Paolo Zellini, che si apre con la famosa invettiva di Borges contro l’infinito: “concetto che corrompe e altera tutti gli altri”, e prosegue passando in rassegna tutte le argomentazioni sul tema, col risultato di dissolvere e rovesciare l’estensione dell’infinito nella densità dell’infinitesimo». Non è un libro di numeri. Pagina dopo pagina (265), ai testi dei grandi matematici si aggiungono quelli di Musil e di Simone Weil, di san Tommaso e di Boezio, di Broch e di Florenskij, di Pitagora, Bruno, Cartesio e Leibniz...

Con la cura di David Bidussa e la traduzione di Elisa Maria Jachia, questo libro Bollati Boringhieri propone due momenti centrali dell’analisi di Victor Serge, rivoluzionario che ha emozionato intere generazioni. Il primo (La Rivoluzione russa), viene scritto nel 1938: Serge è appena arrivato a Parigi, proveniente dalla prigionia siberiana. Il secondo (Trent’anni dopo la Rivoluzione russa), è del 1947, pochi mesi prima di morire a Città del Messico. Come nota lo stesso Bidussa nella prefazione, rappresentano «l’alfa e l’omega» dell’ultima stagione pubblica di Victor Serge.

REPRINT

NUOVE EDIZIONI L’UOMO GRECO JEAN-PIERRE VERNANT Laterza ristampa questo testo di Jean-Pierre Vernant, storico della filosofia e delle religioni, antropologo e membro del Collège de France. All’indagine sui miti e sulle tragedie, che l’autore ha condotto lungo tutta la vita, si affianca una radiografia sociale. Cosa pensavano degli dei, dei soldi e della guerra? Attraverso quali tappe (e quale educazione) un bambino giungeva all’età adulta? Che reputazione aveva un artigiano o un contadino? Scandagliare la “vita privata” è un modo efficace per cogliere una Grecia antica più complessa della retorica classicista che da sempre la sublima.

STORIA DEL MEDIO ORIENTE MODERNO JAMES L. GELVIN È una nuova edizione ampliata quella che Einaudi offre ai lettori. Un saggio poderoso, di 690 pagine, basilare per la comprensione di un mondo tuttora ulcerato da guerre e conflitti. Il libro intende ricostruire la storia politica, sociale, economica e spirituale del Medio Oriente nel corso degli ultimi 500 anni. Ma cosa ha sospinto, se non determinato, le attuali contraddizioni sociali e politiche dell’intera area? Prima di dedicarsi all’analisi dei giochi di potere dell’imperialismo occidentale – iniziati assieme alle grandi trasformazioni di fine Ottocento, e in

modo particolare alla scoperta del petrolio come ingrediente essenziale dello sviluppo industriale – Gelvin dedica molta attenzione alla caduta dell’Impero Ottomano e alle nevralgie politiche che, complice il colonialismo, hanno ridisegnato in modo assai improrio interi territori. La parte preponderante del libro è perciò dedicata al XIX e al XX secolo, nella convinzione che solo il complesso integrato di tutti questi fattori possa dare conto, ad esempio, dell’emergere e dell’egemonia dell’islam politico e delle violente pulsioni antioccidentali di oggi.

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TRA LE PAGINE - ADRIANO PROSPERI

UN TEMPO

SENZA STORIA «NESSUNA APOCALISSE, NESSUN PESSIMISMO, SOLO UNA RIFLESSIONE SUL PRESENTE. HO SCRITTO QUESTO LIBRO PERCHÉ SIAMO DI FRONTE ALLA FINE DEL PASSATO. E FORSE ANCHE DEL FUTURO».

«La storia intellettuale dell’umanità – ha scritto Jurij M. Lotman – si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi». La verità di questa osservazione non ha bisogno di essere dimostrata. Basta ripercorrere rapidamente i momenti fondamentali della storia dell’Europa e del mondo per trovarci davanti a continue conferme.

L’ARTICOLO Tutti i brani sono tratti dal primo capitolo di Un tempo senza storia, saggio breve (128 pagine), quasi “un’apologia della storia”, che Adriano Prosperi ha pubblicato con Einaudi nel mese di febbraio 2021.

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Quello che invece si è fatto sempre più evidente è un processo che potremmo definire di distruzione del passato. La definizione non ci appartiene. È stato Eric Hobsbawm nel suo celebre Secolo breve a individuare questo fenomeno con parole degne di attenta lettura: «La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono». Da quando sono state scritte queste parole il fenomeno si è fatto sempre più evidente, tanto da suscitare diversi allarmi dando vita a diagnosi di vario genere. Oggi si va dicendo che una nuova malattia sociale incomberebbe su di noi: quella della memoria. Lotte e speranze, generazioni passate: cioè storia. Che non è memoria, termine che da tempo sostituisce insidiosamente quello di storia, magari con l’aggiunta di aggettivi come storia “collettiva” o con più ardite semplificazioni cariche di veleni ideologici, come “identità”. Cosa debba intendersi per memoria collettiva è domanda che ha trovato molte risposte da quando – quasi un secolo fa – il grande pensatore ebreo francese Maurice Halbwachs (morto a Buchenwald nel 1945) propose la sua geniale tesi sull’argomento. A suo avviso, le due realtà non si confondevano né si sovrapponevano: piuttosto, si succedevano e si opponevano. La storia comincia quando finisce la tradizione vivente, quando si estingue il


gruppo sociale che quella memoria aveva conservato e trasmesso. È vero che c’è stato un progressivo deperimento della qualità della scuola. E c’è stato un ancor piú forte oscuramento nella percezione dell’importanza della storia, tanto che di recente un ministro nel candore della sua ignoranza ha immaginato giunto il tempo di regalare alle famiglie la cancellazione dell’intera materia dall’esame di maturità. Più in generale sembra essere il contesto del nostro tempo quello che contribuisce in massima parte a confondere verità e falsità. Il bombardamento continuo di informazioni che hanno l’inconsistenza, l’atemporalità e l’impersonalità dello schermo su cui le si leggono ne è l’aspetto più visibile e socialmente più deleterio. Il fal-

so e il finto assediano il vero, lo intimidiscono e lo rendono flebile e soprattutto noioso, quando non insorge perfino una reazione infastidita contro il principio di autorità del dotto. Oggi si è davanti a una esplosione incontrollabile di etnie, religioni e tradizionalismi chiusi, intolleranti e arcigni verso chi bussa alla porta. Proprio l’Europa come costruzione unitaria, utopia che sembrava realistica sognata sull’isola di Ventotene davanti alle rovine della Seconda guerra mondiale, ha mostrato con atti e con parole come intenda riconnettere memoria e senso del futuro. Gli atti sono stati l’erezione di barriere e reti di protezione per lasciare fuori dei suoi confini chi cercava rifugio e prospettive di lavoro e libertà dalle tragedie di guerre e genocidi. Le parole sono state le tante professioni di sacro

egoismo patriottico da parte di capi di Stato e di leader politici di popoli distratti e indifferenti davanti alla strage di bambini e di adulti nelle acque del Mediterraneo o nelle guerre di un molto vicino Oriente. Ma forse le più desolanti sono le parole trionfali declamate solennemente dal Parlamento europeo in un documento dedicato al tema dell’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa: For the importance of European remembrance for the future of Europe. Ecco che di recente le istituzioni di un’Europa unita sotto l’egemonia tedesca hanno deciso che era venuto il tempo di dare a questa costruzione la dignità di una storia. È così che è nato il solenne voto del Parlamento europeo sull’importanza della “European Remembrance” per il futuro d’Europa. Si trattava di compiere un atto di “remembrance” per esorcizzare lo spettro di un passato che minacciava di far sbiadire la speranza e l’attesa del futuro. Che si sia preferito parlare di “remembrance” e non di “storia” rientra in una tendenza generale a sfumare la durezza della storia tra le nebbie della memoria. ■

L’AUTORE DEL LIBRO Allievo di Armando Saitta e Delio Cantimori, Adriano Prosperi ha insegnato Storia moderna in Calabria, a Bologna, Pisa e alla Scuola Normale Superiore. È membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei. I suoi principali interessi di studio hanno riguardato la storia dell’Inquisizione romana, la storia dei movimenti ereticali nell’Italia del Cinquecento, la storia delle culture e delle mentalità tra Medioevo ed età moderna. Dal 1969 a oggi ha pubblicato molti saggi, l’opera forse più nota è Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari (Einaudi, 1996). Ha un’intensa vita pubblicistica, su vari quotidiani e periodici.

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RITRATTO BREVE

AGAMBEN,

FILOSOFO SACER L’ULTIMO LIBRO È SU HÖLDERLIN, REINTERPRETATO COME ABITANTE DELLA SUA “FORMA-DI-VITA”: UN CONCETTO CHE ATTRAVERSA L’INTERA OPERA AGAMBENIANA.

di Antonio Lucci

G

iorgio Agamben è probabilmente il filosofo italiano più letto, dibattuto e tradotto all’estero, eppure, paradossalmente, solo nell’ultimo decennio ha ottenuto una certa risonanza anche in patria. Pensatore raffinato e al contempo eterodosso, Agamben si è contraddistinto per una conoscenza profonda tanto della filologia, dell’estetica e della tradizione teologica, che di autori distanti tra loro come Walter Benjamin (di cui Agamben in gioventù ritrovò degli importanti inediti considerati perduti) e Carl Schmitt. Per questo il filosofo nato a Roma nel 1942 rappresenta ad oggi una di quelle figure intellettuali che, a livelli diversi, possono essere considerate dei veri e propri sismografi del proprio tempo. E come per molti altri filosofi italiani – da Bruno a Campanella, da Gramsci a Negri – anche per Agamben non è possibile separare profilo biografico e produzione intellettuale. Come egli stesso ha raccontato nella sua autobiografia – Autoritratto nello

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studio (Nottetempo 2017) – il suo percorso biografico e intellettuale ha intersecato quello di molti dei grandi del Novecento: dalle lezioni di piano prese da Stravinskij al ruolo dell’apostolo Filippo interpretato per Pasolini ne Il vangelo secondo Matteo, dalla partecipazione a uno degli ultimi seminari di Heidegger allo scambio epistolare con Arendt, fino ad arrivare all’amicizia con personaggi come Debord, Morante e Calvino. Il tutto, però, rimanendo sempre autonomo, come testimoniano, da un lato, il suo rapporto critico con il mondo accademico, e dall’altro la sua enorme e variegata produzione letteraria. Più che seguire una scuola, o specializzarsi su un autore, come è uso comune in contesto accademico, Agamben ha preferito, piuttosto, dedicare gran parte della sua vita filosofica a un progetto titanico e solitario, durato vent’anni (1995-2016), che ha preso il nome dal primo dei nove volumi (divisi in quattro parti) che lo compongono: Homo sacer. Qui

Agamben ha tentato di ricostruire i momenti basali della politica e dell’ontologia occidentali, partendo da una dicotomia biopolitica fondamentale: quella sussistente tra i concetti greci di zoe e di bios, ossia tra vita “naturale”, quella che hanno in comune uomini, piante, animali e dèi, e vita “organizzata”, sociale, politica. La prima parte del progetto Homo sacer è dedicata a una cartografia di questa dicotomia, analizzata soprattutto dal punto di vista di coloro che ne sono esclusi: coloro che, estromessi sia dalla vita politica che da quella naturale, diventano “nuda vita”, ossia portatori di una vita dimidiata, espulsa dal sociale, ma che è al contempo esposta alla violenza del politico. La seconda parte del progetto, quella più propriamente storica, è divisa in cinque volumi, ciascuno dedicato a un concetto che, secondo l’autore, ha contribuito alla formazione delle categorie politiche e filosofiche tramite cui pensiamo la nostra contemporaneità: stato di


eccezione, guerra civile, sacramento, teologia economica e liturgia. La terza parte del progetto, forse quella maggiormente dibattuta e criticata a livello internazionale, è dedicata al problema della testimonianza di Auschwitz e dopo Auschwitz. In questo volume diventa chiaro quale sia il funzionamento politico della “produzione” della nuda vita: a una vita politica, quella dell’ebreo in questo caso, vengono progressivamente sottratte dallo Stato nazista tutte le caratteristiche definitorie che la rendono “umana”, socialmente qualificata: un bios, nel lessico agambeniano. Essa diventa così vita “nuda”, esclusa cioè dal mondo civile e politico, e in quanto tale esposta alla barbarie (questa concezione è stata alla base anche delle sue trascorse polemiche sulla pandemia). La parte quarta, bipartita, del progetto Homo sacer, quella che lo chiude, è dedicata

alla “forma-di-vita”, concetto che rappresenta la pars construens della filosofia di Agamben. La forma-divita va pensata come un’alternativa alle dicotomie concettuali – zoe/ bios; teologia politica/teologia economica; oikos/polis, ecc. – che avevano caratterizzato la macchina ontologico-politica occidentale lungo tutta la sua storia. E alla “forma-di-vita”, una vita non concettuale, che può essere meglio mostrata, indicata, che dimostrata con i mezzi dell’argomentazione filosofica classica, sono dedicati molti dei volumi di Agamben successivi alla chiusura del progetto Homo sacer, di cui l’ultimo in ordine temporale è La follia di Hölderlin (Einaudi 2021), appena pubblicato. Qui Agamben ricostruisce la “forma-di-vita” di Hölderlin tramite gli stilemi dell’antico genere letterario della cronaca: affastellando, cioè, in elenco, eventi e aneddoti

sull’Hölderlin uomo e poeta, che si susseguono creando un mosaico il cui senso è dato solo dall’osservazione del quadro di insieme, e non da un criterio logico o espositivo scelto a priori. La struttura del libro, così, assume uno svolgimento cronologico, mostrando, tramite una selezione di testimonianze di contemporanei, di lettere di e a Hölderlin, ma anche attraverso una contestualizzazione della vita del poeta nella situazione geopolitica e storicoculturale della sua epoca, quella che Agamben definisce una “vita abitante”. Una vita, cioè, paradigmatica nel suo essere irriducibile a ogni tentativo di analisi oggettualizzante, una forma-di-vita che, per citare le parole dell’autore, «“ha” in modo ripetuto e intensivo un certo modo di essere, che, cioè, vive secondo abiti e abitudini. […U]na vita che ha un modo speciale di continuità e di coesione rispetto a se stessa e al tutto» (p. 204). Dopo aver analizzato le strutture del potere e della politica occidentali, Giorgio Agamben si è fatto ritrattista di forme-di-vita, di cui quella di Hölderlin, protagonista del suo ultimo lavoro, rappresenta un caso tanto commovente quanto esemplare. ■

ALPRAZ

GIORGIO AGAMBEN Romano, ma veneziano per origini familiari. Le sue opere spaziano dall’estetica alla biopolitica. Ha avuto un’intensa ma controversa vita accademica in Italia, Europa e Stati Uniti. Attualmente organizza un seminario annuale all’Università di Paris Saint-Denis e dirige la collana saggistica “Quarta Prosa” dell’editore Neri Pozza.

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RISPOSTE D’AUTORE

BENJAMÍN LABATUT

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CAPIRE

IL MONDO

AUTENTICI SCIENZIATI MA ANCHE FINZIONI LETTERARIE E PARALLELISMI ARDITI. SONO MOLTE LE SUGGESTIONI CHE RIENTRANO A PIENO TITOLO NEL CALEIDOSCOPIO DI LABATUT, PER DICHIARATO OMAGGIO ALLA “VERITÀ DELLA FINZIONE”.

di Matteo Moca

C

osa succede alla mente umana quando si trova a raggiungere i suoi limiti di comprensione del mondo? Quali sono le forze che la spingono a rivoluzionare le coordinate che ha fino a quel momento utilizzato e ad aprirsi a nuovi universi di senso? Quanto è concreto il rischio di scivolare verso la follia? Si concentra su domande come queste il libro di Benjamín Labatut Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021, traduzione di Lisa Topi) che narra, mescolando con attenzione la verità scientifica con alcune finzioni biografiche, i momenti in cui i paradigmi e le regole solitamente utilizzate per muoversi nel mondo non funzionano più. Tra le pagine del libro si incontrano personaggi come Shinichi Mochizuki, che pubblicò sul suo blog una dimostrazione di oltre cinquecento pagine su una delle congetture più importanti della teoria dei numeri ma da quel momento decise di scomparire, o Alexander Grothendiek, matematico rivoluzionario che non ebbe forse la forza di sostenere il peso delle sue scoperte, e poi Albert Einstein, Werner Karl Heisenberg ed Erwin Schrödinger. Il mezzo letterario

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viene utilizzato da Labatut non solo per raccontare le storie di questi personaggi, ma anche come strumento privilegiato per indagare i vicoli ciechi generati da ciò che sfugge alla comprensione. Il tuo libro Quando abbiamo smesso di capire il mondo si muove attorno ad alcuni degli scienziati più importanti del ventesimo secolo, da Heinseberg a Schrödinger, da Shinichi Mochizuki ad Alexander Grothendieck: da dove nasce l’interesse di scrivere un libro su questi argomenti? Devo la scrittura di questo libro a due forze, una personale e l’altra intellettuale. Dal punto di vista intellettuale, sono affascinato dai limiti della ragione, le idee che le nostre menti non possono sopportare, le esperienze che ci portano al di là del limite della conoscenza, nell’irrazionale. Sento un’attrazione per le singolarità, quelle situazioni che non possono essere paragonate a nulla e che offrono una potente resistenza contro l’essere racchiusi in qualsiasi tipo di ordine. A livello personale invece, mi sono sempre sentito respinto dai limiti e spinto a oltrepassare


JUANA GOMEZ

Altre domande a Benjamín Labatut, sempre a cura di Matteo Moca, si possono legggere alla pagina web www.iltascabile.com/scienze/labatut-scienza-letteratura/

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RISPOSTE D’AUTORE qualsiasi linea tracciata sulla sabbia. Questo mi ha portato anche a prendere delle decisioni molto stupide, soprattutto una decina di anni fa, quando ho sofferto una crisi autoinflitta che ha fatto a pezzi il mio buon senso e mi ha lasciato, come dicono i buddisti, senza terra sotto i piedi e cielo sopra la testa. Anche se è durato non più di un paio di mesi, quel periodo di stranezza ha cristallizzato qualcosa dentro di me e mi ha spinto verso i temi e le idee di cui non posso smettere di scrivere. In uno dei capitoli, un personaggio misterioso in un bar parlando con Heisenberg trasforma il titolo del libro in una domanda: “Quando abbiamo smesso di capire il mondo?”: la vera domanda potrebbe forse essere “Quando abbiamo iniziato a capire il mondo?” perché anche nel libro nei pochi momenti in cui sembra arrivare una comprensione, lo scivolamento verso il fallimento è dietro l’angolo. Per ogni singola cosa che pensiamo o percepiamo, ne lasciamo fuori altre. Viviamo con un’immagine incompleta e frammentaria del mondo che ci porta a rincorrere i significati come un cane ossessionato dalla propria coda. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che costruiamo modelli del mondo e che siamo continuamente a lavoro su questi modelli per ampliarli, per far entrare cose nuove, e per vedere le lacune, le crepe, le linee di faglia che indicano i nostri inevitabili punti ciechi. Queste crepe sono ciò di cui mi piace scrivere. Secondo una tua definizione, il tuo libro è “un’opera di finzione basata su fatti reali” e infatti mescoli realtà

e finzione, con gradi di intensità differenti, in ognuno dei capitoli, mantenendoti sempre comunque fedele alle idee scientifiche che analizzi. Credi che questo tipo di scrittura possa essere un modo per provare a raggiungere in maniera più semplice territori così complessi? Pur essendo affascinato dal mondo così com’è, credo che la fiction non solo sia più potente dei fatti, ma sia anche più importante, perché fornisce la cosa più essenziale, l’unica cosa senza cui l’umanità non può vivere: il significato. La finzione ci permette di oltrepassare il reale, di raggiungere substrati più profondi che non possono essere ridotti alle comode categorie di vero/falso, giusto/sbagliato. In questo senso la vera narrativa dovrebbe essere qualcosa in cui ci si perde, perché costruisce un territorio che contiene ogni nostra fantasia, i nostri demoni più oscuri, i nostri sogni più selvaggi poiché il mondo senza finzione è insopportabile. Non mi riferisco solo alla letteratura, ma anche ai molti aspetti “finzionali” delle nostre vite quotidiane: il linguaggio, il sentimento, il pensiero, l’emozione, la percezione; tutte queste cose sono, in un certo senso, finzioni che dovremmo tenere in grande conto affinché illuminino e trasformino il mondo che abitiamo. Ogni storia del libro mi sembra segnata da una narrazione circolare: muovi sempre da un punto ben preciso e poi, attraverso deviazioni che ricordano da vicino le talvolta imprevedibili ramificazioni della ricerca, ricostruisci tutti i pezzi, come se tu volessi restituire gli itinerari tortuosi della scienza. La forma di cui parli è fondamentale, e arriva al

L’AUTORE Benjamín Labatut è uno scrittore cileno. Nato a Rotterdam nel 1980 ha trascorso l’infanzia tra L’Aia, Buenos Aires e Lima, poi si è trasferito a Santiago. Il suo primo libro di racconti, “La Antártica empieza aquí”, ha vinto il Premio Caza de Letras 2009. Il suo secondo libro, “Después de la luz”, è uscito nel 2016, mentre con il successivo “Un verdor terrible”, edito da Pushkin Press, è stato candidato all’International Booker Prize 2021. “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” (Adelphi) è la prima traduzione in italiano.

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cuore di ciò che rende la finzione così artificiale e allettante, perché le storie hanno quella forma, non la vita. Per questo scrivere del mondo in maniera veritiera è impossibile, se non attraverso tecniche straordinarie, come i cut-up di Burroughs, romanzi completamente privi di struttura o di un punto di vista stabilito e in grado così di avvicinarsi alla realtà. Scrivendo e parlando tradiamo la realtà e la letteratura è onesta su questo: scrivere correttamente è un atto di tradimento e arroganza. Citerete male le vostre fonti, distorcerete i vostri personaggi e stravolgerete la verità storica semplicemente perché credete in una forma di verità più alta e più strana: la verità della finzione. Nel primo capitolo, Blu di Prussia, il lettore assiste a un viaggio tra i crimini compiuti da scienziati, come il caso di Fritz Haber che inventò lo Zyklon B, ma che tuttavia ha vinto anche il premio Nobel per la chimica per i suoi lavori precedenti. Un caso limite che utilizzi per riflettere sulle relazioni tra scienza ed etica. Ogni persona deve fare i conti con quella tensione che esiste tra ciò che possiamo fare e ciò che dovremmo fare, un elemento che è parte della condizione umana e che nella scienza si tinge di un valore ancora più importante per gli effetti che può scatenare: la comprensione ha un prezzo e la conoscenza è una cosa pericolosa, non facilmente domabile. Non si deve poi dimenticare che la scienza, utile per qualsiasi scopo ma indifferente a ognuno, è fatta da uomini e donne che portano su di sé le loro colpe. Una delle figure più interessanti del libro è il matematico Alexander Grothendieck: pugile, fanatico di Bach e di Beethoven, rivoluziona la geometria come non avveniva dai tempi di Euclide, e poi, all’apice della sua carriera, abiura la matematica, lascia la sua famiglia e vive fino alla morte come un eremita. Un’esistenza che mette in campo la complessa relazione tra genialità e follia. Grothendieck era un uomo che non si adattava a questo mondo, un matematico con idee fuori misura e un dono per qualcosa che, credo, è una proprietà che si trova nel cuore delle nostre più grandi realizzazioni e delle nostre più crudeli cadute: l’astrazione. Il modo in cui guardava alla matematica mi ricorda il desiderio di assoluto che ho provato molte volte nella mia vita e per cui ho sofferto. L’astrazione ha spinto Grothendieck oltre la ragione, nei territori della follia, un richiamo che nella storia hanno sentito

molte persone. Si tratta di qualcosa che è allo stesso tempo meraviglioso ed estremamente pericoloso perché ti allontana dal mondo che hai in comune con gli altri, un insieme di esperienze che sembrano quasi inumane, una realtà popolata da demoni, angeli e molte altre figure dell’immaginazione umana, che possono, in certe circostanze, diventare molto reali. Al quinto congresso Solvay nel 1927 a Bruxelles si riunirono gli scienziati più importanti del mondo per analizzare come la meccanica quantistica stesse modificando le fondamenta della fisica. Nel loro intervento Heisenberg e Bohr dissero, riprendo le tue parole, che non esisteva un “mondo reale” e che “il metodo basato sull’analizzare, spiegare e classificare il mondo ha preso coscienza dei propri limiti, limiti che nascono dal fatto che il nostro intervento altera gli oggetti che indaga”. Si potrebbe individuare in questo momento una delle fratture che segnano l’incomprensione umana del mondo? Assolutamente. La Conferenza di Solvay è stata davvero un punto di svolta, un profondo cambiamento che ha scosso la scienza nel profondo, e dal quale non ci siamo ancora ripresi. Eppure il mondo è ancora una cosa molto solida, anche se abbiamo scoperto il ruolo che la casualità gioca nel regno dei quanti e sappiamo che non possiamo parlare delle cose subatomiche con le metafore della realtà del senso comune. Noi continuiamo a vivere - e così dobbiamo - in un regno che è per lo più newtoniano, e quindi comprensibile. C’è sempre questo strano ritmo nell’esperienza umana: apriamo una nuova porta a meraviglie e orrori, e poi ci giriamo e ci facciamo una bella tazza di caffè, come se non avessimo appena guardato giù in un abisso incomprensibile. La capacità di vedere oltre noi stessi e tuttavia rimanere relativamente sani di mente, è davvero una delle meraviglie della nostra specie. La scienza continuerà a rompere la nostra immagine del mondo, ci colpirà con l’incomprensibile e l’orribile, creerà armi che possono cancellarci dalla faccia della Terra, e probabilmente farà nascere un’intelligenza che un giorno potrà rivaleggiare con la nostra, ma noi - nella maggior parte dei casi - vivremo in una placida isola di ignoranza, e continueremo a guardare video di gatti sui nostri telefoni. Questa potrebbe non essere la cosa peggiore da fare mentre arriva la fine del mondo. I mostri escono e ti mordono solo se scendi al loro livello, ma non sono in molti a farlo. Abbiamo un debito di gratitudine verso coloro che sono abbastanza coraggiosi e sciocchi da farlo. ■


DULCIS IN FUNDO

STORIA SEGRETA La Sandiana, suo padre, la campagna come paesaggio e come destino. Un grande racconto, fintamente autobiografico. Cesare Pavese

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er questa strada passava mio padre. Passava di notte perch’era lunga e voleva arrivare di buon’ora. Faceva a piedi la collina, poi tutta la valle e poi le altre colline, finché sbucavano insieme il sole in faccia e lui sull’ultima cresta. La strada saliva alle nuvole, che si rompevano nel sole sopra il fumo della pianura. Io le ho viste queste nuvole: luccicavano ancora come oro; mio padre disse, ai suoi tempi, che quand’erano basse e infuocate gli promettevano una buona giornata. Allora sui mercati correvano pezze d’oro. Ancor oggi i passanti vanno verso la pianura piegati innanzi col mantello sulla bocca. Non si guardano intorno, neanche se il tempo è sereno. Le ombre cadono dietro, sulla strada, e li seguono adagio. La collina li segue, col suo orizzonte uguale. Io conosco quest’orizzonte, ciascuno degli alberi piccoli che incorona le creste. So che cosa si vede da sotto quegli alberi. Mio padre a prima luce non scendeva in pianura. Girava per coste e cascine a cominciare il mercato. Parlava nei cortili con gente assonnata. Facevano colazione. Bevevano un bicchiere taciturni sulla porta. Mio padre conosceva tutti quanti e sapeva le stalle di tutta la strada; sapeva le disgrazie, i bisogni, le donne. Parlava poco. Quando incontrava nei cortili altri sensali, stava zitto e lasciava che dicessero. Anni e anni fa – era vedovo, e noialtri, bambini – qualcuno gli aveva detto di smetterla e attaccare il biroccino. Ma era inverno e lui diceva che il cavallo avrebbe patito su per quelle stradette. Col mantello

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sugli occhi e il berretto di pelo, partiva nella nebbia e saliva alla Bicocca due valla te lontano. Ci stava la Sandiana, ch’era la figlia di un suo amico, giovane e disperata da quando si vedeva sola in quelle vigne. Mio padre aveva in mente di portarsela in casa e farsi fare ancora un figlio. Ma lei passava le giornate addosso al fuoco, in una stanza come un pollaio, e non faceva che ripetere ch’era sola e che aveva paura. Poi si seppe che un sensale di fuori le aveva parlato di vendere e andarsene a vivere tranquilla in città. Mio padre sospettava qualcosa e pestò molta neve per venirne in chiaro, finché un giorno alla Bicocca trovò quell’altro che si scaldava i piedi al fuoco. Ma ancora non capiva chi poteva comprare la terra: sapeva l’idea di tutti là intorno. La donna diceva di no; mio padre tornò verso sera e trovò i figli del sensale che caricavano la roba. Allora capì di essere vecchio. La Sandiana andò a stare vicino al mercato. Non parlava di queste cose con noi. Si sapevano dalla gente e dai sospiri che cacciava in quegli anni. Adesso, le volte che scendeva in città, passava a farsi il sangue cattivo là sotto. Era in un cortiletto basso, coperto di vite vergine, dove il rumore del mercato arrivava appena. Il sensale, venduta la terra, era tornato ai suoi paesi. La Sandiana aspettava, seduta alla stufa come una gatta. Per un pezzo mio padre le mandò un piatto caldo. Quel l’inverno lo passò all’osteria. Veniva a sedersi, guardava il va e vieni, il fumo, i sensali, e pareva che ascoltasse i discorsi. Lasciava che gli affari li facessero gli altri. Pensava


ancora a quella vigna. La Sandiana per tutto l’inverno non uscì dal cortile. Senza terra, sapeva di non valere più niente; e, sul patto, era incinta. Si sfogava con la donna che le portava da mangiare, e diceva che i vecchi sono peggio dei giovani. Mandò a dire a mio padre che si voleva ammazzare. Mio padre lasciò che passasse l’inverno; poi riprese a battere le colline. A marzo gli dissero che s’era sgravata. Allora venne a cercarla, e le propose di portarsela in casa. Dicono che la Sandiana, dimagrita, piangesse; ma so che mio padre dovette tagliar corto e dirle che veniva da noi per far la donna dove non ce n’erano, e non la padrona. Ma neanche la serva. Non eravamo signori. Così diede una stanza alla Sandiana e al bambino, e lui continuò a dormir solo. L’idea di fare quel figlio era sfumata con la vigna. Neanche nell’estate, che la Sandiana rifiorì come una sposa e allattava, mio padre cambiò. Partiva col buio, e la Sandiana si levava a preparargli la roba. Tra loro parlavano appena. Noialtri ragazzi, messi su dalla serva, tendevamo l’orecchio per sentire qualcosa. La Sandiana piaceva anche a noi. Ci accudiva e aiutava. Verso sera, d’estate, andavamo con lei per le campagne. Sapevamo la strada per dove tornava mio padre, e bastava che la tenessimo d’occhio dall’alto. Noi portavamo la Sandiana a vedere i nostri posti, e lei sapeva dirci il nome dei campanili e dei paesi più lontani. Ci descriveva quel che lassù da quei boschi si vedeva in pianura, e quel che faceva la gente nelle casupole isolate. Ci parlava di suo padre e di quando alla Bicocca erano in tanti, fratelli e sorelle, e la sera giravano con le lanterne a chiudere stalle e cantine. Raccontava di quando d’inverno i suoi nonni sentivano un lupo raspare alla porta e continuavano a vegliare e intrecciare cavagni. Prendevamo i sentieri attraverso le vigne, e chi primo arrivava, gridava e agitava le braccia sul cielo. Correva anche lei. Quell’anno ero cresciuto, e nell’inverno avrei dovuto andare a scuola in città. La Sandiana mi diceva che ci sarei stato bene e avrei scordato il paese. Mi sarei vergognato di casa e di noialtri. Io capivo che aveva ragione, eppure, anche adesso che l’estate finiva, guardavo le strade, le nuvole, le uve, per stamparmi ogni cosa dentro e vantarmene poi. Avrei voluto anch’io esser nato alla Bicocca coi suoi vecchi e aver conosciuto i fratelli e provato quelle notti che venivano i lupi. Di questo avrei voluto vantarmi, e ascoltando

la Sandiana sapevo che me ne sarei vantato. Così era fin da allora: godevo non le cose che facevo ma quelle che sentivo dagli altri. Non sembravo mio padre. La casa della Sandiana era in mano a due vecchi, mezzadri di un signore che l’aveva ricomprata e che nessuno conosceva. Andavamo sovente su quella collina e di là si vedevano i pini, neri, dietro la casa, alti in mezzo alle vigne come campanili, pieni d’uccelli che volavano. La Sandiana ci portò una volta fin nel cortile; c’era un cane che la riconobbe e le corse adosso saltando. Allora uscì la vecchia, e si parlarono e girarono insieme nella casa e sull’aia. Noi aspettammo nel cortile, sotto il pagliaio, e tiravamo dei sassi nel pino più grosso. Io guardavo il sentiero che dai beni portava al pozzo. Non ero mai stato in un cortile più vuoto, sembrava abbandonato: anche il cane che mugolava di sopra con le donne non l’avevo mai visto: non la voce di un cane ma più fiera. Pensavo a quei tempi che i fratelli della Sandiana giravano i boschi. Il bosco era nero, profondo, sull’altra sponda della collina. Quando tornò con la Sandiana e si lamentavano insieme, la vecchia ci disse che voleva darci qualcosa – una cotogna – ma non ne trovò. La Sandiana rideva, contenta.

NON PARLAVA DI QUESTE COSE CON NOI. SI SAPEVANO DALLA GENTE E DAI SOSPIRI Il cane voleva venire con noi; lo legarono al filo. Per tornare passammo da un altro sentiero, e per tutta la strada la Sandiana non parlò: disse soltanto di non dire a mio padre ch’eravamo saliti lassù, perché era troppo lontano. Ma quella sera mi chiese se sapevo che mio padre ci fosse venuto quell’estate. Le risposi che avrebbe dovuto domandarlo alla vecchia, e lei allora stette zitta. Un mattino trovammo mio padre in cucina. Non era domenica, ma tutto aveva l’aria insolita. Tornò la Sandiana dal cortile con una faccia agitata e i capelli negli occhi. Il bambino piangeva e mandarono la serva a calmarlo. Mio padre comandava e scherzava. Non era ancora il giorno ch’io dovessi partire, e non

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DULCIS IN FUNDO capivo il perché del l’agitazione, ma poi lo seppi da una parola della serva. La Bicocca era nostra; mio padre l’aveva comprata. Partirono sul biroccino lui e la Sandiana. La serva quel giorno fu cattiva e ci disse, come fossimo uomini, che ormai la padrona era l’altra e la Bicocca era sua e di suo figlio. Aspettammo tutto il giorno che tornassero. Io speravo che almeno girare nel bosco la Sandiana mi avrebbe lasciato, e per meritarmelo accudii il bambino che – la serva diceva - era ormai mio fratello. Pensavo più di tutto a quei fratelli morti, e godevo a sapere che sarebbero stati anche i miei. Quella sera la serva disse a mio padre che bisognava far festa e andò a prendere il vino. Tanti anni eran passati e dovevano ancora passare, nell’inverno andai in città e cambiai vita; ci tornai l’anno dopo, divenni un altro; venivo in paese per le vacanze e così mi sembrò di esser stato ragazzo soltanto l’estate. La Sandiana era sempre la stessa; il bambino era morto; così il tempo in casa nostra non passò quasi più. Tutti gli anni l’estate fu come quando non andavo ancor via, un’estate che durò sempre. Tutti gli anni io guardavo le nuvole, le uve e le piante per vantarmene in città, ma, non so come, pensavo a tutt’altro laggiù e non ne parlavo. Doveva aver ragione la Sandiana che mi chiedeva sempre se i compagni mi avevano canzonato e se sarei tornato ancora nella vigna. Ma nella vigna io ci tornavo felice e le chiedevo se veniva anche lei. Il giorno stesso che rientravo a casa facevo il giro delle strade e dei sentieri, e quei mattini mi svegliavo contento se era sole e più contento se pioveva, perché non c’è che l’acqua fresca per metter voglia di girare la campagna. La Sandiana rideva se tornavo bagnato e infangato e mi dice va che sarebbe venuta anche lei – una volta. Non venne, ma una sera ci prese il temporale sulla strada, e noialtri ragazzi avevamo paura del tuono, la Sandiana del lampo. A me il lampo piaceva, quella luce violetta improvvisa che inondava come un’acqua, ma la Sandiana raccontò ch’era di zolfo e che

uccideva con la scossa. «Se non è niente,» le dicevo, «si vede una luce che passa.» «Tu non sai,» mi rispose, «dove tocca ammazza. Mamma mia.» Io allora fiutavo nell’aria bagnata e sentii finalmente l’odore del lampo: un odore nuovo, come d’un fiore mai veduto, schiacciato tra le nuvole e l’acqua. «Senti?» le dissi; ma la Sandiana si premeva con la mano sulle orecchie, sotto il portico dov’eravamo rifugiati. Il profumo ci durò fino a casa: era fresco, pungeva dentro il naso come quando si tuffa la faccia nel catino. La Sandiana diceva che quello era vento passato sui boschi, ma non l’avevo mai sentito prima: era davvero l’odore del lampo. «Chi sa dove è caduto,» mi disse. Ma non volle venire a cercarlo. Doveva esser caduto nei boschi, sapeva troppo di selvatico. Ora capisco perché tante cose strane si raccontano dei boschi, perché ci sono tante piante, tanti fiori mai veduti, e rumori di bestie che si nascondono nei rovi. Forse il lampo diventa una pietra, una lucertola, uno strato di fiorellini, e bisogna sentirlo all’odore. Di terra bruciata ce n’era sì, ma la terra bruciata non sa quel profumo d’acqua. La Sandiana mi rispondeva e diceva di no. Nel bosco della Bicocca c’era uno spacco dentro il tufo. La Sandiana diceva ch’era stato un terremoto prima ancora che noialtri nascessimo. Nessuno se non qualche biscia poteva passarci. Ma io avevo visto una volta lassù un bel fiore lilla e chi sa che il suo odore non fosse lo stesso del lampo. Capivo che il tuono facesse gli spacchi ma il temporale cadeva dal cielo e qualcosa di bello doveva portare. «Macché,» disse la Sandiana, «tutto quello che nasce, è fatto di terra; acqua e radici sono in terra; dentro il grano che mangi e il vino d’uva c’è tutto il buono della terra.» Io non avevo mai pensato che la terra servisse a fare il grano e a mantenervi, tanto più adesso che studiavo. Se anche avevamo la Bicocca, non eravamo contadini. Ma quando mangiavo le frutta, capivo. Le frutta, secondo il terreno, hanno molti sapori. Si conoscono come fossero gente. Ce n’è delle magre, delle sane, delle cattive, delle aspre. Qualcuna è come

LA MISTICA DELLA COLLINA Pubblicato anche nell’antologico Racconti italiani del Novecento (Mondadori), questo brano di Cesare Pavese documenta con acutezza quasi filologica i sentimenti e i linguaggi di un’Italia ancora immersa nell’ethos della vita di campagna, con i suoi personaggi, i suoi amori, i suoi pensieri e le debolezze. È lo straordinario affresco di un mondo tramontato ma ancora vivido, in grado di suscitare allo stesso tempo distanza, memoria e malinconia.

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le ragazze. Ci sono fichi e uva luglienga alla Bicocca che sanno ancora di Sandiana; io ne ho mangiate di ogni sorta, e specialmente la selvatica, le prugnole e le nespole acerbe. Specialmente le prugnole mi facevano gola. Ancora adesso lascio tutto per le prugnole. Le sento a distanza: fanno siepi spinose, verdissime lungo le forre, in mezzo ai rovi. Alla fine d’agosto i rami ingrossano di chicchi azzurri, più scuri del cielo, agglomerati e sodi. Hanno un sapore brusco e asperrimo che non piace a nessuno eppure non mancano di una punta di dolce. Con novembre son tutte cadute. Che le prugnole sappiano di succhi selvatici, si capisce anche dai luoghi dove crescono. Io le trovavo sempre all’orlo delle vigne, dove il coltivo finisce e più nulla matura se non l’arido del terreno scoperto. Allora non pensavo a queste cose; avrei solamente voluto che mio padre, la Sandiana e tutti quanti mangiassero prugnole. Degli altri non so; la Sandiana diceva che le mordevano la lingua. «Per questo mi piacciono,» dicevo io, «loro sì che si sente che crescono nella campagna. Nessuno le tocca eppure vengono. Se la campagna fosse sola farebbe ancora delle prugnole.» La Sandiana rideva e diceva: «Sapessi...». Sapessi cosa? Fin che un giorno mi disse che di là dai suoi boschi dopo un’altra vallata, alla Madonna della Rovere la costa era tutta una prugnola. «Ci andiamo?» Era troppo lontano. «Ma nessuno le coglie?» chiedevo. A questo ci pensavo sempre. Non soltanto non bastavo a scoprire tutte quelle delle nostre strade, ma tante colline c’erano al mondo, tanta campagna sterminata, e dappertutto prugnole, su per le rive, nei fossi, in luoghi impervi, dove nessuno anche volendo arriva mai. Ma le vedevo con le foglie ricciute, coi rametti pesanti di frutto, immobili, in attesa di una mano che non sarebbe mai venuta. Oggi ancora mi pare un assurdo tanto spreco di sapori e di succhi che nessuno gusterà. Raccolgono il grano, raccolgono l’uva, e non ce n’è mai abbastanza. Ma la ricchezza della terra si rivela in queste cose selvagge. Nemmeno gli uccelli, selvaggi anche loro, non potevano goderne, perché le spine dei rametti li ferivano negli occhi. Allora pensavo alle cose, alle bestie, ai sapori, alle nuvole che la Sandiana aveva conosciuto quando stava nei boschi, e capivo che tutto perduto non era, che ci son delle cose che basta che esistano e si gode a saperlo. Anche le prugnole, diceva la Sandiana, non se ne mangia più di due tre alla volta. Ma è un piacere sapere che ce n’è dappertutto.

Già a quel tempo bastava che dicesse un paese, e mi pareva di vederlo. I suoi paesi erano fatti di cascine, di canneti e di raccolti, come i miei. Mi pareva di esserci stato o di poterci andar domani. Qualcuno ne spuntava dietro ai boschi. Eppure se salivo in biroccino con mio padre partivo come alla scoperta. C’era di mezzo quel selvatico che lei non sapeva ma io mettevo dappertutto.

MA NELLA VIGNA IO CI TORNAVO FELICE E LE CHIEDEVO SE VENIVA ANCHE LEI Una strada e un canneto sono cose comuni, per lo meno da noi, ma avvistati così in lontananza sotto una cresta e sapendo che dietro ci sono altre creste altri canneti e per quanto si passi tra loro ne restano sempre do ve noi non andremo e qualcuno c’è stato e noi no - ecco questo pensavo ascoltando la Sandiana. Invidiavo mio padre ch’era stato in tanti luoghi e aveva fatto quelle strade e quelle creste giorno e notte. Che fosse fatica lo seppi più tardi. Ora mi accontentavo di guardarlo la sera quando saliva taciturno i tre scalini o aspettava noialtri. In quel momento non pareva più mio padre. Gli si capiva in faccia che veniva da lontano e ch’era stanco, aveva negli occhi anche lui quel selvatico. Era tanto stanco che, se la Sandiana lo chiamava, veniva senza risponderle. Dei paesi tra loro non parlavano mai. Qualche volta ci portava in biroccino per un tratto, ma poco, perché il cavallo faticava già troppo con lui. Andammo sempre più lontano a piedi. Solamente al principio e alla fine dell’estate facevo con lui lo stradone della città, e lui guidava, io pensavo a quei giorni che laggiù c’era stata la Sandiana, e mi pareva tanto tempo perché allora la città non l’avevo mai veduta. Gli chiedevo s’era vero che da giovane ci scappava di nascosto, e lui brusco, scherzando, diceva che ci andavano i vecchi soltanto, a vedere la festa, e tornavano a piedi la notte mentre loro ragazzi contavano le botte e guardavano i riflessi in lontananza. «Adesso hanno troppi palazzi,» diceva, «e si vergognano di noi delle campagne. Si divertono al

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DULCIS IN FUNDO chiuso. Non vale più la pena di venirci.» Nel fresco dell’alba stavo attento per accorgermi dove finiva lo stradone e cominciavano i palazzi e c’era sempre come un fumo dorato e nebbioso che sembrava un’altr’aria e uno c’entrava a poco a poco e, una volta arrivato, pareva impossibile che ci fossero ancora dei paesi e delle colline. Lontano, chi sa dove, c’era il mare. Lo dicevo a mio padre, e lui rideva, brusco. Adesso che il tempo è passato e quelle estati le ricordo, so che cosa volevo dalla Madonna della Rovere. Una siepe di prugnole mi chiudeva l’orizzonte, e l’orizzonte sono nuvole, cose lontane, strade, che basta sapere che esistono. La Madonna della Rovere è sempre esistita, e dappertutto, sulle coste, sulle creste dei paesi, ci sono chiese e masse d’alberi impiccolite nella distanza. Dentro, la luce è colorata, il cielo tace; e donne come la Sandiana ci stanno in ginocchio e si segnano, qualcuna c’è sempre. Se una vetrata della volta è schiusa, si sente un soffio di cielo più caldo, qualcosa di vivo, che sono le piante, i sapori, le nuvole. Queste chiese di cresta sono tutte così. Ce n’è sempre qualcuna più lontana, mai vista. Nel porticato di ciascuna è tutto il cielo e vi si sentono le prugnole e i canneti che il cammino non basta a raggiungere. Tanto vale fermarsi a due passi e sapere che tutta la terra è un gran bosco che non potremo mai far nostro davvero come un frutto. Anzi, le cose che ci crescono a due passi hanno il loro sapore da quelle selvatiche, e se il campo e la vigna ci nutrono è perché affiora alle radici una forza nasco sta. Mio padre direbbe che al mondo tutto viene dal basso. Io non so né sapevo di questo, ma la Madonna della Rovere era come il santuario delle cose nascoste e lontane che devono esistere. Quando anni fa morì mio padre, trovai nel mio dolore un senso di calma che non mi aspettavo eppure avevo sempre saputo. Andai in chiesa e al cimitero; rividi le donne col velo sul capo e i quadretti della Via crucis, sentii l’odore dell’incenso e di terra scavata. Più abbattuta di me, la Sandiana pregò sulla tomba; poi ritornammo a casa insieme e lei ci preparò la cena. Da molto tempo non tornavo, e il cortile mi parve più piccolo. Parlammo di mio padre e della Bicocca, della vendemmia e della morte, poi a notte avanzata rimasi solo alla finestra. In quei giorni ripensai molte cose che avevo dimenticato. Pensai che mio padre ora esisteva come qualcosa di selvatico e non aveva più bisogno di girare giorno e notte per dirmelo. La chiesa, com’è

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giusto, l’aveva inghiottito, ma la chiesa anche lei non va di là dall’orizzonte e mio padre sotterra non era cambiato. Da corpo di sangue era fatto radice, una radice delle mille che tagliata la pianta perdurano in terra. Queste radici esistono, la campagna ne è piena. I finestroni colorati della chiesa non cambiano niente, e anzi fanno pensare che nulla muta neanche fuori sotto il cielo, e che quanto è lontano o sepolto continua a vivere tranquillo in quella luce. Ora in tutte le cose sentivo mio padre; la sua assenza pungente e monotona condiva ogni vista e ogni voce della campagna. Non riuscivo a richiuderlo dentro la bara nella tomba stretta: come in tutti i paesi di queste colline ci son chiese e cappelle, così lui mi accompagna va dappertutto, mi precedeva sulle creste, mi voleva ragazzo. Nei luoghi più suoi mi fermavo per lui; lo sentivo ragazzo. Guardavo dalla parte dell’alba la strada e la città nascosta in fondo dove – quanto tempo fa? – lui era entrato un mattino, col suo passo campagnolo e raccolto.

COME ME, ANCHE MIO PADRO ERA ENTRATO IN CITTÀ, MA PER FARE FORTUNA Parlavamo di lui. La Sandiana bambina l’aveva veduto ballare e sapeva la voce che aveva a quei tempi. Diceva che invece di aiutare in campagna, lui già allora era sempre per strade e comprava i cavalli. Comprava e vendeva, ma più che il commercio gli piaceva girare. Lui sì che i paesi li aveva veduti. Nostra madre l’aveva trovata in città e sposata senza dirlo a nessuno, poi tornato in paese e rifatta la pace aveva dato un grosso pranzo di nozze. La prima delle mie sorelle era nata due giorni dopo quel pranzo. Allora mio padre era allegro e manesco. La Sandiana diceva che a quarant’anni si mise coi suoi fratelli e andava in giro con loro scherzando come un giovanotto. Si vedevano sempre alla Bicocca ma lei non pensava che l’avrebbe sposato. Ci veniva mia madre a cercarlo quando stavano fuori la notte. Mia madre era giovane, sempre spaventata, e sembrava una figliola accanto a lui. Chi avrebbe pensato che doveva


morire la prima. La Sandiana scordava mio padre e parlava di donne, di loro. Io tacevo e rivedevo la città nella nebbia. Non era questo che cercavo di lui. Le donne l’avevano fatto mio padre, ma c’era qualcosa di più antico di questo, di più segreto e sepolto per sempre. Voglio dire, un ragazzo. Come me anche mio padre era entrato in città, non per chiudersi in scuola ma per fare fortuna. C’era entrato selvatico e non era cambiato. Mi chiedevo che cosa l’aveva cacciato laggiù, quale rabbia, quale istinto, lui che pure era nato in un campo. La città sonnolenta gli era parsa superba alla fine, e non ci s’era mai fermato, ma le sue donne le aveva trovate laggiù, anche l’ultima, anche quella che veniva dalla Bicocca. Forse sapeva tutto questo da principio. Forse anche lui cercava in città l’ignoto, il selvatico. Qui mi voltavo alla Sandiana e le chiedevo se mio padre non aveva mai pensato di fermarsi in città. Lei sembrava non capire e mi diceva che in quel caso non avrebbe comperato la Bicocca. Invece capiva benissimo: la risposta era quella. A mio padre piaceva venire in città da una terra: il suo lavoro si faceva sopra un’aia, e d’aia in aia la città glielo pagava. Palazzi e mercato per lui volevano ancor dire pezze d’oro, carrate di sacchi e di botti, campagna. Nella città non conosceva veramente se non quelli che venivano dai campi come lui. Con gli altri scherzava. Così era stato da ragazzo e così era morto. Adesso era inutile salir quelle creste per essere solo con lui. Mi bastava incontrare un canneto, un fico storto contro il cielo, una terra vangata, per commuovermi e contentarmi. Quel che c’era lontano, di là dalle creste, la città, la pianura fumosa, se ne stava sepolto, nulla più che una chiesa coperta dagli alberi sull’orizzonte. Invece i gerani che la Sandiana teneva sulla finestra, mi parevano davvero città. Avevano un colore vivacissimo come soltanto i rosolacci, ma dalla forma complicata e dalle foglie si capiva che non crescono in terra. S’avvicinava l’ora che ne avrei veduti molti in pianura, sui terrazzi delle ville. Quando vedevo la Sandiana alla finestra per bagnarli, mi pareva che anche lei fosse qualcosa di mai visto, di scarlatto come loro. La Sandiana era come una forestiera; quel che faceva lei sembrava sempre nuovo, tanto più adesso che non c’ero che d’estate. Quando andavamo alla Bicocca la seguivo dappertutto, nelle stanze rossastre,

sui solai, da vanti alle finestre. C’erano contro i muri cassapanche massicce, sempre chiuse, e i pavimenti di mattoni eran coperti di grano, di patate, di meliga. Per traversarli bi sognava scalzarsi. La Sandiana girava, toccava e vedeva. «Chi sa che freddo fa d’inverno in quelle stanze,» dissi una volta. «Non fa freddo dappertutto?» mi disse lei, brusca. Sembrava che fosse la casa di un altro e che lei ci tornasse per impararla sempre meglio. Era felice, si capiva. «Vedi, tuo padre,» diceva, «ha comperato tutto questo per voialtri.» Non appena arrivava, tirava sù l’acqua dal pozzo e la portava in cucina. Se i contadini erano fuori a far fieno o qualcosa, si legava un fazzoletto sul capo e ci andava an che lei. Io salivo i sentieri di punta a cercare le prugnole in fondo alle vigne, e di là vedevo che si muoveva in mezzo al campo. Già allora mi piaceva appiattarmi in quella solitudine, nell’incolto sotto gli ultimi filari, a due passi dal bosco. Poi mi prendeva la paura e ritornavo a rompicollo dal sentiero. Vedendomi correre ridevano tutti. «Se scappi,» dicevano, «la paura ti acchiappa.» Era qualcosa, la paura, che per tutti esisteva. La Sandiana mi disse che dovevo resistere. «Se stai fermo al tuo posto, la paura si spaventa. Ma se scappi ti vien dentro come il vento di notte.» Le risposi che avevo paura anche al chiaro. «Quand’è chiaro la devi guardare negli occhi. Lei scappa a nascondersi.» Ma l’idea di guardar la paura mi spaventava ancor di più. «Tu l’hai vista?» le chiesi. «Com’è?» «Se l’hai vista anche tu.» «Io no.» La Sandiana rideva. «Stacci attento alla prima occasione. Vedrai com’è fatta.» Questi discorsi mi mettevano in orgasmo. «Non è soltanto la paura,» dicevo. «Quando sto solo nella vigna o sotto il portico, aspetto qualcosa. Mi par sempre che de va succedere. Delle volte ci vado apposta. Se non fosse che scappo vedrei che cos’è.» «E tu fèrmati,» diceva la Sandiana. «È una cosa come quando per stirare metti il ferro al la finestra. Sopra la brace si vede il cielo tremare. Hai già visto?» «Sì.» «Tu in campagna non vedi mai niente?» «Ne vedo sì.» «No, tu ridi. A me sembra che dalla terra esca un calore continuo che tien verdi le piante e le fa crescere, e certi giorni mi fa senso camminarci perché dico che magari metto il piede sul vivo e sottoterra

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DULCIS IN FUNDO se ne accorge. Quando il sole è più forte si sente il rumore della terra che cresce.» A nessun altro confidavo queste cose. Ma la Sandiana diceva che avevo ragione; raccontava che una volta ave va un fiore che si apriva ogni mattina sotto il sole e si muoveva. «Ce ne sono nei boschi?» «Chi lo sa,» disse la Sandiana. «Nei boschi c’è di tutto.» Nei boschi andavamo qualche volta per funghi, ma bisognava che avesse piovuto, e la Sandiana ne trovava più lei sola che tutti noialtri. Lei sapeva il terreno e ficcava la mano sotto le foglie marce: non si sbagliava mai. Delle volte io passavo, guardavo, non ce n’era nessuno. Veniva lei, sembrava che le fossero cresciuti sotto i piedi. Ma diceva ridendo che i funghi crescono di colpo, dalla sera al mattino, da un’ora all’altra, e che conoscono la mano. Sono come le talpe, si muovono; li fa l’acqua e il calore. Peccato che la strada era lunga, sapevo venirci soltanto con lei. Partivamo da casa al mattino e arrivavamo sulle creste sudati. Passavamo una valle e una costa, perdevamo i sentieri. Quelle notti, nel letto, tutta quanta la collina mi pareva un vivaio caloroso di pioggia e di funghi, che solamente la Sandiana conosce va a palmo a palmo. «Mio nonno diceva,» mi disse una volta, «che ogni fatica che si fa in campagna, ritorna in forza dentro il sangue nella notte. C’è qualcosa nel terreno, che si respira sudando. E diceva che è meno fatica camminare sui beni che non sulla strada. Era già vecchio e non voleva mai saperne.» «Perché sulla strada?» Chiedevo ma avevo capito. La Sandiana mi guardò se dovesse scherzare. «Perché. Sulla strada non zappi.» «Ma è terreno anche quello.» «Vallo a chiedere a lui.» Alla Bicocca nella balza di tufo, proprio dietro la casa, c’era uno scavo profondo che faceva cantina, e là dentro tenevano attrezzi, carrette, robe. Mi misi in testa che l’avesse scavato quel nonno. Col tempo la muraglia di roccia s’era fatta grigia, ma nel fondo dov’era più scuro, sudava ancora umidità e c’era un pozzetto. Qui si cresceva il capelvenere. Ragazze in paese dissero che il capelvenere è una bella pianta, e la Sandiana andò una volta per sbarbarne e farne un vaso. Io le tenevo la candela. «Qui siamo sotto la collina,» dissi. «È più fresco che sopra.»

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Fin che restammo sottoterra io pensavo a suo nonno e dicevo che l’acqua è il sudore delle radici. Lo dicevo tra me perché avevo paura che la Sandiana mi burlasse. Ma non mi tenni che le chiesi se non vengono sotterra anche i gerani. «Sei matto,» gridò. Poi mi chiese perché. «Si somigliano.» «Come?» «In campagna non vengono.» La Sandiana mi chiese: «Non siamo in campagna?». Allora capii ch’era inutile dirlo e m’accorsi ch’era ve ro, la campagna non è solamente la terra ma tutto quello che c’è dentro. Mi venne voglia di restarmene là sotto, e che fuori piovesse, crescessero gli alberi, passasse la sera e il mattino. “Qui di notte è già buio”, pensai, “dentro la terra è sempre notte”. Ci tornai qualche volta da solo, ma come dappertutto dov’era silenzio, tendevo l’orecchio perplesso. Dalla soglia spiavo nel buio. Credevo di udire il gorgoglio del l’acqua che sudava dal tufo, inzuppava la volta, scorreva tutta la collina. Pensavo a quel vecchione che cammina va solamente sui sentieri. Lui sì che doveva sapere che cosa è campagna. Ma adesso era morto e sepolto, e con un passo ero in cortile sotto il cielo. Quel che dicevo alla Sandiana accadeva nell’ora che tutti dormono, tra pranzo e merenda, quando il sole brucia e ancora adesso esco a girare. Esco in mezzo alle case, nel riverbero bianco, e penso a quello che pensavo allora. Credo che mi annoiavo e anelavo il momento che la giornata riprendesse, ma è nella noia che toccavo il fondo della giornata e dell’estate. Nulla accadeva, nemmeno una voce, nei cortili e sulle coste, e questo vuoto m’incantava come se il tempo si fermasse nell’aria. Veni vo al punto che ogni cosa era possibile e vigeva; sola mente, non capivo perché in tanto fervore ogni cosa tacesse. Allora guardavo le formiche in terra, o le piante lontano, minuscole anch’esse sulla grande costa; e le formiche irrequiete e le piante sembravano smarrite anche loro nel tempo. La collina è tutta fatta di cose distanti, e a volte rientrando salivo a osservarla nella finestra dei gerani. Tra i gerani e le creste calcinate nel sole c’era comune la distanza, la ricchezza nascosta. Io guardavo dai fiori alle creste ma senza sapere perché lo facessi; né l’avrei detto alla Sandiana che mi voleva canzonare. Mi serviva piuttosto anche lei da finestra, e molte volte la guardavo come guardavo quei gerani, fioriti in città. Anche lei c’era stata a suo tempo. La città aveva viuzze raccolte, dove s’aprivano por-


toni sui giardini improvvisi. Li intravedevo andando a scuola e pensavo che fossero una nuova campagna più segreta e più bella. Sapevo certo che mio padre non li aveva mai guardati e non osavo domandargliene. Ma la Sandiana ch’era stata in quelle viuzze, doveva averli conosciuti; e cercai di riconoscere la sua vite vergine, che d’inverno era rossa più del fuoco. Né mio padre né lei me ne avevano mai detto nulla; da chi l’avessi sentito non so. Ma nei cortili non mettevo piede, m’accontentavo di passare; quando c’era una vite mi chiedevo perché la Sandiana non fosse rimasta, e immaginavo di venirci adesso, di salire le grandi scale solenni, di stare con lei nel palazzo.

NON CAPIVO, A DIR VERO, COSA FOSSE RICCHEZZA. MI PAREVA QUALCOSA DI ESOTICO Qualche volta d’inverno venivano insieme a vedermi la domenica, e avevo il permesso di uscire con loro, con lei; ma dei tempi ch’era stata in città non le sapevo mai parlare. Mi portavano fino al mercato dove mio padre comandava merenda; poi lui si fermava con l’oste discorrendo, noialtri uscivamo a vedere la gente a passeggio. Prendevamo dai portici fino al Castello; c’erano donne ben vestite, signori, soldati, e ragazzi come me ma più ricchi, e tutti andavano adagio, si fermavano un poco, tornavano, facendosi segno e vociando. M’incantavano nel freddo le porte dei caffè piene di fumo e dorate, ma la Sandiana mi tirava per la mano, se mi staccavo s’inquietava, e assisteva tra curiosa e impaziente fin che avesse veduto ogni cosa. Preferivo le volte che aveva da fare e tagliavamo nella folla, correvamo le viuzze deserte dei miei giardini. Faceva freddo, ma potevo sempre dirle quali fiori ci fossero nella bella stagione e le chiedevo chi ci stesse nei palazzi e se non c’era mai salita. Lei mi chiedeva di dov’erano i compagni e invidiava i più ricchi, ma diceva che i ricchi non stanno mica nei palazzi, ci fa troppo caldo e l’aria è chiusa, vanno invece in campagna dove hanno le ville, nelle montagne e al mare. Così parlavamo del mare; conoscevo diversi che d’estate ci andavano, lei stava a sentire e

mi chiedeva se da uomo ci avrei condotti i miei bambini. Ma io non pensavo a bambini, pensavo a me stesso su coste lontane e a lunghi viaggi; passavamo davanti ai portoni e così i fiori più ricchi e nascosti si confondevano col mare nel mio cuore. Pensavo allora alla finestra dei gerani come a uno sfondo di luoghi marini. La sera rientravo dai compagni carico di frutta, e ne davo ai più degni e mangiavamo ripetendoci le storie più assurde. Così la ricchezza, ch’era tutta la giornata di mio padre, per me si faceva fantasticheria e perdeva quell’astio con cui la sentivo agognata da tutti. Non capivo quel l’astio. Non capivo, a dir vero, cosa fosse ricchezza. Mi pareva qualcosa di esotico che di là dall’orizzonte pro mettesse stupori, come una luna di settembre ancor na scosta dalle piante. Non capivo i rapporti del grano e dell’uva coi palazzi e la vita in città. La Sandiana che girava la Bicocca misurando i raccolti con occhio cattivo, mi scoraggiava: io cercavo le prugnole. Una volta senza dirmelo fece roncare una riva d’incolto per metterla a grano: arrivai ch’era tutto finito e i cespugli buttati: le diedi dei nomi, minacciai, tirai calci – lei rise. Non capiva le lacrime, e perciò non piansi. Tanto feci che divenne cattiva e lo disse a mio padre, che mi picchiò. Mi canzonarono poi tutta la sera perché non capivo le cose. Io piansi di nascosto, e per vendetta mi vietai per un pezzo di guardar la collina attraverso i gerani. Ma la guardavo dai canneti della strada, dove basta fermarsi e si è soli, e anche qui la lontananza, filtrata dal canneto, pareva nitida e più azzurra, tra fiorita e marina. A salire più in alto – ma ci andavo di rado e non solo – s’intravedeva la pianura; e minuscole chiazze sperdute nel vago, ch’eran case o paesi, parevano vele, arcipelaghi, spume. Eran queste le cose che portavo con me nell’inverno in città; e non le dicevo, le chiudevo orgoglioso nel cuore. Ascoltavo i compagni parlare e vantarsi; io stavo zitto, non perché non godessi a sentirli, ma piuttosto capivo che le cose proprio vere non si riesce a raccontarle. Non soltanto è necessario che chi ascolta le sappia, ma bisognava già saperle quando si sono conosciute, e insomma è impossibile saperle da un altro. Io stesso mi chiedevo quando avevo cominciato a sapere, ma era come se mi avessero chiesto quando avevo conosciuto mio padre. La Sandiana un bel giorno era venuta a star con noi, eppure nemmeno di lei ricordavo che prima non c’era. A quei tempi sapevo soltanto che niente comincia se non l’indomani. ■

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CONTRIBUTI Gianluca Beltrame, laureato in Storia contemporanea, ha sempre fatto il giornalista: è stato, tra l’altro, caporedattore cultura (e poi caporedattore centrale) a Panorama, e direttore di Rolling Stone.

tazione. È istruttrice di Mindfulness a Milano, dove tiene regolarmente corsi MBSR (Mindfulness based stress reduction, per privati e per aziende). Scrive sul blog di lettura: gruppodilettura.com.

Lucio Biasiori (Trento, 1984) ha studiato nelle Università di Trento e Pisa e alla Scuola Normale Superiore, dove è stato allievo, perfezionando, assegnista e ricercatore. Ora insegna all’Università di Padova. Specialista della storia religiosa e culturale della prima età moderna, vuole capire cosa passava per la testa degli uomini e delle donne di ieri e se, come e perché sia diverso da ciò che ci passa oggi.

Antonio Lucci è Visiting Scientist presso il Dipartimento di Scienze Filosofiche e dell’Educazione dell’Università di Torino. In precedenza ha svolto attività di docenza e ricerca per università europee, tra cui la Freie Universität e la Humboldt Universität di Berlino. Tra le sue pubblicazioni: La stella ascetica. Ascesi e soggettivazione in Friedrich Nietzsche (Roma 2020).

Marco Clementi è professore associato di storia delle relazioni internazionali all’università della Calabria. Tra le sue pubblicazioni Storia della comunità ebraica di Rodi. Dalla convivenza alla distruzione (1912-1945), TAB Edizioni, 2021 e Camicie Nere sull’Acropoli. L’occupazione italiana in Grecia (1941-1943), DeriveApprodi, 2013.

Gianfranco Marrone, semiologo, si occupa di linguaggi della contemporaneità. Ha scritto su media e brand, gastronomia e città, stupidità e pigrizia. Tra gli ultimi libri: Roland Barthes: parole chiave (2017), Storia di Montalbano (2018), La fatica di essere pigri (2020). Insegna all’Università di Palermo. gianfrancomarrone.it

Bianca Maria Esposito, laureata in filosofia a La Sapienza di Roma, è dottoranda della Scuola Normale Superiore di Pisa dove si occupa di teologia politica. Ha fatto ricerca all’École Normale Supérieure di Parigi e all’Università di Heidelberg. Cristiana Facchini è ordinaria di Storia del cristianesimo all’Università Alma Mater di Bologna. Dal 2014 è stata più volte fellow del “Max Weber Centre for Advanced Cultural and Social Studies” di Erfurt, centro di eccellenza tedesco. È membro del Collegio di Dottorato in Storie, culture e politiche del globale. Dirige Annali di storia dell’esegesi e Quest Issues in Contemporary Jewish History. Lorenza Guidotti, giornalista professionista, lavora da molti anni al mensile Starbene occupandosi di ecosostenibilità, psicologia e alimen-

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Matteo Moca, dottore di ricerca in Italianistica all’Université Paris Nanterre e all’università di Bologna, è assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna. La sua ultima monografia è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba, 2020). Alessandro Santagata è assegnista di ricerca all’università di Padova. Si occupa di storia politica e culturale del cattolicesimo. Tra le sue pubblicazioni, La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ‘68 (Viella, 2016) e Una violenza “incolpevole”. Rappresentazioni e pratiche dei cattolici nella Resistenza veneta (Viella, 2021). Luca Sciortino è un filosofo della scienza e divulgatore scientifico. È professore incaricato alla Università Ecampus e firma del settimanale Panorama.

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