BIOPOLITICS AND NEW TOOLS OF COLLECTIVE IDENTITY

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI LECCE FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE TESI DI LAUREA BIOPOLITICA E NUOVI STRUMENTI DI IDENTITÀ COLLETTIVA: IL CASO DI “LAS AGENCIAS”

Relatore: Prof. STEFANO CRISTANTE Laureanda: SARA VALERIA MONTINARO Anno Accademico 2004 - 2005


Indice

Premessa.......................................................... 7

“Las Agencias”.............................................. 11 De la Acción Directa como una de las Bellas Artes........................................................ 11 Organizzazione pratica, finanziaria e logistica 15 Come nascono “Las Agencias”................ 17 Organizzazione interna ed esterna............ 20 Le cinque Agenzie.................................... 23 “Agencia Grafica”................................. 23 “Agencia de Medios”............................ 38 “Agencia de Moda y Complementos”.. 41 “Agencia Espacial” e “Agencia Gatografica”....................................................... 46 La svolta dell’estate................................. 49 Cosa cambia ............................................ 51 YOMANGO.................................................. 57 Come nasce YOMANGO........................ 57


YOMANGO ............................................ 61 Logo e logotipo........................................ 65 La collezione primavera-estate................ 66 Materiale grafico e pubblicitario.............. 70 Tre azioni significative............................. 74 Il ‘debutto in società’............................ 74 YOMANGO TANGO........................... 76 La cena transnazionale e YOKÜ......... 78

Strumenti d’analisi......................................... 81 L’antagonismo biopolitico....................... 82 Impero e moltitudine................................ 89 Realtà e precarietà.................................... 94 Lo stile come momento di trasformazione 100 Creatività, innovazione e capitalismo.... 107 Consumo e realtà quotidiana.................. 113 Conclusioni.................................................. 121

Appendice.................................................... 129 Intervista a Marcelo Expósito................ 129

Bibliografia.................................................. 153

Sitografia...................................................... 157


Premessa

Perché scrivere una tesi di laurea su “Las Agencias” e YOMANGO? Innanzitutto, questo lavoro si può configurare come il risultato dell’incontro tra due settori della comunicazione verso i quali ho sempre nutrito grande interesse: lo stile pubblicitario, con un occhio particolare per la creatività grafica e linguistica, e l’attivismo politico, mediatico e non. Tale interesse si è consolidato lo scorso anno in Francia, durante l’esperienza Erasmus, nel corso della quale sono entrata in contatto con alcuni gruppi che operano nel tentativo di coordinare i due ambiti, spesso con notevoli risultati. Un esempio per tutti può essere “Casseurs de pub”, un’associazione francese con sede a Lione che riunisce grafici e creativi pubblicitari nella lotta contro il sistema dei consumi, le multinazionali, ‘l’inquinamento visivo’ degli spazi pubblici, ecc. e che opera tramite l’ideazione, la realizzazione e la diffusione di campagne di subvertising multi-supporto, annuari, bollettini d’informazione ed azioni di protesta. Così

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ho iniziato a svolgere qualche ricerca su internet, ad assumere informazioni su altri fenomeni simili e, in maniera abbastanza casuale, mi sono imbattuta in “Las Agencias” e YOMANGO. Dopo un periodo di approfondimento teorico sulla questione, mi sono recata a Barcellona, dove ho avuto modo di conoscere personalmente alcuni dei membri del gruppo, di visionare e commentare con loro il materiale prodotto e di raccogliere una lunga intervista.

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Uno dei fattori che hanno particolarmente attratto la mia attenzione è la dimensione multimediatica di “Las Agencias”, il fatto che si occupi di forme comunicative diverse, quali moda, grafica, fotografia, attivismo mediatico, ecc. contestualizzandole in un discorso unitario, che ha come obiettivo lo sfruttamento delle notevoli potenzialità dei linguaggi elaborati da tali forme, sovvertendone però il significato. L’altro aspetto che trovo veramente interessante è il processo di meta-riflessione che porta il collettivo a riformularsi, dopo circa due anni di sperimentazione nel tentativo di coordinare arte e politica, in YOMANGO; in quest’ultima fase dell’esperienza del gruppo emerge chiaramente la consapevolezza della funzione identificatrice dello

stile e la sua potenziale carica sovversiva nei confronti della realtà quotidiana sulla quale si propone di influire. La scelta di analizzare e presentare il collettivo catalano, piuttosto che i francesi di “Casseurs de pub” o un altro gruppo, deriva dall’elevato grado di complessità che il primo sviluppa e dai risultati raggiunti con YOMANGO che, sebbene da un lato caratterizzino univocamente tale esperienza, da un altro ci permettono di comprendere meglio anche altri progetti che, seppure con un ambito di azione ridotto e più settoriale, con risultati parziali ed un livello di consapevolezza inferiore, sviluppano strumenti di identificazione collettiva attraverso il coordinamento di pratiche creative ed attivismo politico.

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“Las Agencias”

De la Acción Directa como una de las Bellas Artes Nella primavera del 2000, la direzione del “Museu d’Art Contemporani de Barcelona” (“Macba”) propone a “Fiambrera Obrera” (gruppo spagnolo che ha lavorato contro la speculazione, rafforzando le reti locali di attivismo politico) di coordinare e organizzare un laboratorio all’interno del museo. Il progetto, denominato “De la Acción Directa como una de las Bellas Artes”, ha l’intento di dar vita a uno spazio di interscambio e di discussione, in cui si fondano pratiche artistiche e attivismo politico, uno spazio in cui alla disquisizione teorica corrisponda la realizzazione pratica, con l’obiettivo di formare gruppi di lavoro stabili,

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in grado di dare continuità e diffusione al lavoro realizzato.

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Con il laboratorio, in castigliano taller, avrebbero collaborato alcuni gruppi internazionali, che godono di una certa reputazione agli occhi del museo e con i quali “Fiambrera Obrera” ha già avuto modo di operare. Tra questi l’ “a.f.r.i.k.a. gruppe” (collettivo tedesco che ha sviluppato il concetto di guerriglia comunicativa, impegnato nell’azione politica e artistica), “Reclaim the Streets” (gruppo con base in Inghilterra; si occupa di recuperare un uso collettivo degli spazi pubblici, tramite un’occupazione festiva e immaginativa delle strade), “Kein Mensch ist Illegal” (“Nessuna Persona è Illegale”, collettivo di artisti tedeschi, che lavora in favore dei diritti degli immigrati), “Ne Pas Plier” (collettivo francese che opera realizzando e distribuendo materiale grafico e fotografico in collaborazione con altri movimenti sociali), “RtMark” (gruppo nordamericano quasi anonimo di artisti che si dedicano al boicottaggio delle strategie delle grandi corporations) e “Indy Media Center-UK” (centro di mezzi di comunicazione indipendenti collegato col movimento globale che ad una tensione riguardante il libero accesso ai media unisce il lavoro di una propria agenzia di notizie). Prendono inoltre parte ai lavori una trentina di organizzazioni di Madrid, Barcellona,

Valencia e Siviglia, appartenenti alle varie compagini del movimento globale: ecologisti, immigrati, centri sociali occupati, ecc. Così, dopo un’estate trascorsa a definire gli aspetti organizzativi e non, il progetto prende ufficialmente il via il 23 ottobre del 2000, con l’apertura dei lavori del taller “De la Acción Directa como una de las Bellas Artes”, che per quattro giorni si occuperà di sviluppare il seguente programma: Primera sesión

Redes globales de acción directa

Con Sonja Brünzels, Luther Blisset y a.f.r.i.k.a. gruppe, John Jordan de Reclaim the Streets y Operación Tambor. Segunda sesión Espekulación

Con Marcelo Expósito, Paloma Blanco, Jesús Carrillo, Fiambrera Obrera y la Colla Diables Casc Antic. Tercera sesión Fronteras

Con Florian Schneider, Alain Kessi y Rick Ammersvoort, de la campaña Kein Mensch ist Illegal

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(Nadie es ilegal) y Papeles para Todos. Cuarta sesión Desempleo

Con Gerard Paris-Clavel y Brian Holmes de Ne Pas Plier, APEIS (Association pour l'emploi, l'information et la solidarité des chômeurs et des précaires), Asambleas de Parados de Barcelona, AREBA (Asociación por la Renta Básica). Quinta sesión

Indy Media - Medios independientes

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Con Raymond Thomas y Frank Guerrero de Rtmark, Javier Ruiz y Rachel Whyte-Macpherson de Independent Media Center (Londres), MRG (Movimiento de Resistencia Global comisión de prensa). (www.”Macba”.es)

Il taller ottiene un discreto successo e viene recepito nella maniera migliore: a pochi giorni dall’inizio gli iscritti sono un centinaio, di cui ben più di novanta figurano nella lista dei collaboratori e solo una decina in quella degli spettatori.

Organizzazione pratica, finanziaria e logistica L’organizzazione del taller è significativa nella storia di “Las Agencias”, in quanto è in questo momento che si delinea il margine di autonomia dei gruppi rispetto al museo, la maniera d’agire e di presentare i progetti. In principio, il “Macba” pensava ad un laboratorio di tipo certamente più classico, simile forse a un seminario, in cui alcuni partecipanti più o meno interessati ascoltano relatori distaccati. In questa fase “Fiambrera Obrera” e gli altri gruppi riescono ad imporre il proprio punto di vista, il proprio modo di lavorare; il progetto è quello di far convergere a Barcellona équipes dal vasto raggio d’azione, così che possano intessere relazioni fruttuose e durature con chi di fatto è già da tempo impegnato sul territorio. Il museo accetta e lascia completa libertà d’agire, ma ovviamente è costretto a modificare la struttura del taller; il primo passo è l’abilitazione di uno spazio di lavoro, una specie di laboratorio

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permanente, in cui la gente possa incontrarsi, discutere e operare prima, durante e dopo le presentazioni pubbliche. Si tratta del cosiddetto cuarterillo, uno dei locali del museo, situato in Calle Joaquin Costa, 24.

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Il fatto che un progetto denominato “De la Acción Directa como una de las Bellas Artes” sia realizzato con il “Macba” pone non pochi problemi, in quanto il museo non ha dimostrato finora di essere un’istituzione particolarmente attenta alle istanze dell’attivismo politico. Fondamentalmente si può constatare un certo scetticismo tra i partecipanti riguardo la possibilità di lavorare con un’istituzione mantenendo intatta la propria autonomia e il proprio modus operandi; si teme che si finisca con il dare una immagine neutralizzata e inefficace di quello che succede nelle strade ed elaborare discorsi istituzionali, che poco hanno a che vedere con la realtà delle pratiche. In particolare, alcuni gruppi sospettano che il museo sia interessato esclusivamente all’effetto propagandistico e insistono affinché al cuarterillo sia affiancato uno spazio di riunione auto-gestito, nel

quale si sarebbero dislocate le varie presentazioni dei progetti. Anche in questo caso il museo non pone ostacoli e finanzia l’ “Espai Obert”. I fondi che il “Macba” stanzia in favore del taller prima e di “Las Agencias” poi raggiungono circa 12 milioni di pesetas (€ 72121), dei quali un milione e mezzo (€ 9015) costituisce il compenso di un’amministrativa del museo e un altro milione e mezzo spetta al commissario che ha avuto l’idea, il quale decide però di rinunciarvi e di aggiungerli alle risorse a disposizione di azioni e progetti.

Come nascono “Las Agencias” È durante i lavori del taller che, grazie al suggerimento di Javi, un membro di “Reclaim the Streets”, nasce l’idea di creare un’Agenzia di grafica, in cui grafici e attivisti possano lavorare insieme; l’intento è quello di creare un’intensa collaborazione tra chi sa fare grafica e chi sa come utilizzarla: si sceglie la denominazione di agenzia per rendere l’idea di “ […] algún tipo de entidad dota-

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da de recursos y autonomía suficiente para establecer puentes entre el museo, los artistas de diverso pelaje y los movimientos sociales”1 (http://sindominio.net/fiambrera/memoria.htm). L’idea piace sia al resto del variegato gruppo, che alla direzione del museo. Si decide quindi di continuare sulla stessa strada dando vita ad altre due agenzie: l’ “Agencia de Medios”, l’ “Agencia de Moda y Complementos”. La prima lavorerà a stretto contatto con “IndyMedia”, mentre la seconda dovrà occuparsi di realizzare abiti e accessori pensati esplicitamente per i manifestanti. 20

Tra gennaio e febbraio, dopo l’inizio dei lavori nel cuarterillo, arrivano infine le ultime due agenzie: gatografica (fotografia) ed espacial (intervento negli spazi pubblici tramite autobus, bar, ecc.). La scelta del termine agencias si rivela particolarmente appropriata ed è pienamente condivisa dal “Macba”, in quanto riesce ad esprimere bene il concetto di “ […] dispositivos de acción, no iden1 […] un certo tipo di entità dotata di risorse e autonomia sufficienti per stabilire ponti tra museo, artisti di diversa provenienza e movimenti sociali. (Trad. mia)

tificables ni con personas ni con instituciones determinadas, autónomas en sus decisiones asamblearias para abrir o cerrar frentes de trabajo ”2 (Ibidem). “Las Agencias” sono quindi il risultato della volontà comune, dei gruppi che vi prendono parte e del museo, di porre in essere un’entità capace di entrare in contatto con i fermenti politico-artistici del mondo della strada e con la democrazia partecipativa, senza però divorarli o soffocarli. “Las Agencias” vanno quindi intese come un “ […] ejercicio de “mediación”, en el que un museo echa una mano para impulsar proyectos así como políticos con un pie puesto en lo artístico, respetando sus dinámicas y sus ciclos, respetando su forma de ser y sus necesidades, sus especificidades y sin aplastar con su peso el poder real de funcionar que estos proyectos tienen […]”3 (Las Agencias, 2002). 2 […] dispositivi di azione, non identificabili né con persone né con istituzioni precise, autonome nelle loro decisioni assemblearie di aprire o chiudere fronti di lavoro. (Trad. mia). […] dispositivi di azione, non identificabili né con persone né con istituzioni precise, autonome nelle loro decisioni assemblearie di aprire o chiudere fronti di lavoro. (Trad. mia). 3 […] esercizio di “mediazione”, nel quale un museo dà una mano a far progredire progetti politici con un piede posto nell’artistico, rispettandone le dinamiche e i cicli, rispettandone la maniera d’essere e le necessità, le specificità e senza schiacciare col suo peso il potere reale di funzionare che hanno questi progetti […]”. (Trad. mia).

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Organizzazione interna ed esterna Nella scelta di costituirsi in cinque diverse agenzie ritroviamo due istanze fondamentali; si tratta, da un lato, di una rivisitazione ironica e provocatrice dei leitmotiv del momento, inter-disciplinarietà e media mix; e dall’altro di un’esigenza organizzativa.

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Come emerge da quanto affermato in precedenza, “Las Agencias” nascono dalle esperienze apportate e condivise da alcuni gruppi impegnati tra politica e arte, collettivi connessi con il mondo dei movimenti sociali, tutti soggetti che, seppur diversi tra loro, hanno sempre agito al di fuori di qualsiasi struttura verticale o di controllo. Risulta chiaro quindi che l’unica collaborazione possibile con un’istituzione come il “Macba” non può che basarsi sulla più ampia autonomia. Il museo quindi non interviene in merito ai progetti, né dal punto di vista contenutistico, né da quello amministrativo, non partecipa alle assemblee, non ha potere decisionale nella gestione dei fondi stanziati. La struttura organizzativa di “Las Agencias”

si configura come assolutamente orizzontale. La gestione delle risorse finanziarie si decide durante l’assemblea settimanale; i criteri decisionali a cui ci si attiene vanno dall’urgenza del progetto, agli interessi ad ampio raggio, alla ricezione interna al gruppo delle idee. Una volta che la decisione è presa, ogni agenzia lavora in maniera autonoma, seguendo tre linee fondamentali di lavoro: -una serie di talleres tacticos: 10-15 persone si concentrano su obiettivi concreti, di breve periodo e ben definiti (ogni agenzia può richiederne uno al mese); -un progetto strategico ad ampio raggio, il cui scopo è quello di ampliare la partecipazione, di servire da occasione per un bilancio dell’attività svolta dal gruppo e da opportunità di perfezionamento dei risultati raggiunti; -alcune idee definite “produzione propria”; vale a dire, quelle in cui ogni agenzia produrrà materiali utili per il proprio lavoro. Nello svolgere le varie attività, le agenzie hanno un livello di collaborazione molto elevato,

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sia fra loro, sia al loro interno. Spesso quindi si trovano a lavorare su un progetto comune, ognuna occupata nel settore che più le concerne; ma anche all’interno operano sulla base di un’interazione massima: si continua il lavoro iniziato da qualcun altro, lo si modifica, lo si riprende, lo si sviluppa.

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È però necessario sottolineare che la suddivisione in agenzie non è mai stata molto rigida. A tal riguardo, Marcelo Expósito, uno degli agenti, spiega che questa è sempre stata “molto artificiale” e che “in verità, non funzionò realmente e operativamente e soprattutto a partire dalla seconda fase, non si rispettò mai questa divisione” (Intervista in appendice). Per ciò che concerne le relazioni con altre organizzazioni affini, si può tranquillamente affermare che il collettivo si iscrive in una rete informale di livello internazionale. Ovviamente esistono rapporti molto stretti con tutti coloro i quali, insieme a “Fiambrera Obrera”, possono essere considerati i genitori di “Las Agencias”: l’ “a.f.r.i.k.a. gruppe”, “Reclaim the Streets”, “Kein Mensch ist Illegal”, “Ne Pas Plier”, “RtMark”; oltre che relazioni di tipo più informale con gruppi e collettivi molto legati al movimento globale.

Le cinque Agenzie Per poter comprendere esattamente il tipo di lavoro svolto da “Las Agencias”, anche considerando l’importanza che il gruppo dà alla pratica, è indispensabile procedere presentando le cinque agenzie tramite i principali progetti realizzati da ognuna.

“Agencia Grafica” L’agenzia di grafica è la più anziana delle cinque. È incaricata di lavorare con movimenti sociali, artisti e collettivi, sempre in stretta collaborazione con l’agenzia di moda e di media. Il suo compito fondamentale consiste nell’esplorazione dell’art of campaigning, sviluppando e strutturando linee grafiche per campagne pubblicitarie, utilizzando tutti i tipi di supporti (cartoline, flyers, manifesti, video, web, ecc.) e dispositivi di azione nello spa-

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zio pubblico. Alcuni dei progetti: -logo e immagini di “Las Agencias”;

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- ANTIMILITARISTA, in collaborazione con il “Movimento de Objeciòn de Conciencia”, il progetto è interamente giocato sul rovesciamento dei temi chiave delle campagne di reclutamento militare;

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-CAMPAÑA DE BCN 2001: in occasione della visita della Banca Mondiale a Barcellona nell’estate del 2001, “Las Agencias” crea una serie di manifesti, cartoline, flyers, che pur riprendendo alcuni degli slogan fondamentali del movimento globale, come un altre mon es posible, contemporaneamente si fanno apprezzare per l’ottimo risultato grafico e per l’operazione di ribaltamento di significato visibile nella riformulazione ironica del logo della Banca Mondiale;

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-DINERO GRATIS: “Las Agencias” creano una serie di materiali grafici dal grande impatto visivo, poi una campagna che si propone di reagire al primato della finanza sulla vita. Non è un progetto legato a nessun evento politico concreto, non è una rivendicazione, ma una proposta che dà voce al malessere comune di precari e disoccupati, al “[…] malestar de todos los que nos resistimos a las formas de sumisión que el dinero reparte e impone y a sus dos armas implacables: el miedo y la soledad”4 (www.eldinerogratis.com). Si tratta quindi di prendere parte senza grandi speranze a una lotta delirante, che riesca a mandare in corto circuito la paura ed a rompere il circolo della solitudine e della competitività. DINERO GRATIS non lotta per creare un domani un altro mondo possibile, ma si propone di cambiare il luogo in cui risiede la paura. Il denaro è quindi visto come un limite, il nostro limite, un limite che tende all’infinito, rispetto al quale il capitalismo propone una relazione semplice: dominio totale del denaro, basato su un nuovo patto sociale in cui il cittadino non si configura più come tale, ma come cliente. La azioni contro la Banca Mondiale del giugno 2001 a Barcellona offrono un’occasione, la

4 […] malessere di tutti coloro i quali resistono alle forme di sottomissione che il denaro ripartisce e impone e alle sue due armi implacabili: la paura e la solitudine. (Trad. mia)

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data del 25, per presentare la campagna. Durante la notte mani anonime si impegnano nell’affissione di manifesti e dell’altro materiale prodotto. Il giorno dopo la campagna si trasforma in un successo, almeno all’interno del mondo del movimento globale. E il nastro adesivo con il logo DINERO GRATIS è ovunque, sugli indumenti delle tute bianche, sulle magliette dei bambini, nella metropolitana, per strada ecc.

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-ESTĂ TOT FATAL: giornale popolare antagonista, in cui vengono pubblicati articoli e foto sulle azioni del gruppo e sul mondo dei movimenti sociali;

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-GENOVA: cartoline ed altro materiale prodotto in occasione del G8 di Genova;

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-LA BOLSA O…LA VIDA, campagna di guerriglia di comunicazione, connessa con le azioni contro la Banca Mondiale del 2001. Partendo dall’idea, che anima anche DINERO GRATIS, secondo cui l’economia stabilisce ogni giorno il prezzo della vita, gli agenti grafici operano una rivisitazione della classica frase “el bolso o la vida”, trasformando però bolso in bolsa, traslazione dei termini della scelta, che se in principio si giocava tra la borsa, intesa nel senso di denaro, e la vita; ora, grazie a un gioco di parole in castigliano, si decide tra la Borsa, quella con la b maiuscola, intesa come tempio della finanza, e la vita;

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-TARIFA, ampia campagna di richiamo e partecipazione nel bordercamp di Tarifa: cartoline, manifesti, segnaletica visiva nell’accampamento e altro tipo di materiale grafico;

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Come si può notare dalle immagini, si tratta di lavori grafici di grande qualità, che sfruttano qualsiasi tipo di supporto, manifesti, cartoline, flyers, segnali, ecc. e che hanno un forte impatto visivo. Al livello del contenuto, si evidenzia che la produzione di tale materiale si configura, spesso, come uno strumento complementare a campagne di più ampio raggio, connesse con la sfera d’azione dei movimenti. Alcune quindi sono fortemente legate a grandi eventi, al G8 di Genova ad esempio, ma anche alle proteste contro la banca mondiale o alle azioni nel bordercamp di Tarifa. Malgrado siano proposte in stretta relazione con determinati fatti di cronaca, rimane evidente la coerenza che si riscontra fra loro e la sistematicità che presentano al proprio interno. Infatti, così come è possibile tracciare un filo conduttore tra la CAMPAÑA DE BCN 2001, DINERO GRATIS e LA BOLSA…O LA VIDA, è anche facile notare che ogni progetto di “Las Agencias” non si riduce alla semplice produzione di un volantino ben riuscito, ma si configura come una vera e propria campagna pubblicitaria, che attraverso l’utilizzo di vari formati e supporti si colloca in un contesto e in un orizzonte di senso comune. Molto importante è, a tal proposito, lo stile comunicativo che fa da collante a questi lavori: uno stile ironico, sempre pronto a giocare sul filo delle ambiguità e a ribaltare significati e modi di fare, uno stile che diverte e che allo stesso tempo fa riflettere.

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“Agencia de Medios”

-creazione delle basi per l’organizzazione di un dispositivo di informazione autonomo su internet, collocato nella rete di “IndyMediaCenter” (Imc).

Il punto chiave del lavoro di questa sezione del collettivo è, senza dubbio, il rapporto con “IndyMedia”. Si tratta di una relazione molto stretta: come si ricorderà, infatti, “IndyMedia-Uk” è uno degli elementi costitutivi di “Las Agencias”; IndyMedia Barcelona”, frutto di tale collaborazione, nasce e funziona invece all’interno del gruppo, in senso anche fisico, visto che si installa nel bar dell’ “Agencia Espacial”, uno dei locali che il “Macba” mette a disposizione.

L’ “Agencia de Medios” raccoglie una collezione di video, si occupa della sezione MULTIMEDIA AGENCIAS, in cui vengono presentate animazioni in gif o in flash da posizionare in rete, ma anche di cortometraggi di presentazione del

In effetti la filosofia e l’organizzazione di “IndyMedia” si sposano bene con il modo di operare degli agenti, uniti nella comune ricerca di nuove forme di comunicazione e nuove strategie di collaborazione, tramite l’utilizzo degli spazi offer-

Nata immediatamente dopo quella grafica, l’ “Agencia de Medios” si interessa a tutti quegli aspetti del lavoro mediatico che, da un punto di vista artistico, possono essere considerati riconducibili e applicabili al mondo dell’attivismo politico. Due le linee fondamentali d’azione:

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gruppo, e si interessa anche della distribuzione del materiale.

-produzione e distribuzione di materiali che riescano ad influire sulla concezione che i movimenti sociali hanno della dimensione mediatica e della propria attività;

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ti dalle nuove tecnologie. Inoltre, considerando che il “ […] movimento per media alternativi si fonda su una struttura flessibile e aperta, sull’applicazione di valori democratici alle nuove tecnologie, e sul continuo coinvolgimento nel connettere persone in un movimento transnazionale” (D. D. Halleck, in M. Pasquinelli, 2002: pag. 54), un incontro con il gruppo di Barcellona sembra praticamente scontato, al punto che si può tranquillamente affermare che “IndyMedia” “fornisce quindi un modello per l’evoluzione dell’opposizione radicale, dallo spontaneo comparire di pratiche creative individuali, agli incontri collettivi di piccole cooperative per la diffusione e la condivisione di capacità pratiche e tecniche, alla crescita di collettivi nazionali e internazionali” (Ivi, pag. 55). È possibile rintracciare anche una certa corrispondenza tra la struttura organizzativa degli Imc e di “Las Agencias”: sono, infatti, entrambe basate su processi decisionali non gerarchici, che incoraggiano “ogni produttore […] a contribuire con i suoi migliori lavori, e a partecipare tanto quanto desidera” (Ibidem), e sono entrambe suddivise per medium in sottogruppi. L’Imc si colloca quindi come un’agenzia di notizie, come un esperimento “[…] para transformar las redes de comunicaciones, desprivatizar no sólo el acceso a la información, sino la producción

misma de esa información”5 (http://sindominio.net), è inteso come un dispositivo che non si deve semplicemente limitare a raccontare ciò che succede, ma che ha il ruolo strategico di svolgere la funzione fondamentale di generare iniziative, di configurare azioni ed organizzare eventi.

“Agencia de Moda y Complementos” Al contrario delle altre agenzie, le quali si occupano generalmente anche della questione dell’auto-rappresentazione, l’ “Agencia de Moda” ha come campo d’azione tutto ciò che è connesso con l’azione diretta non violenta negli spazi pubblici, ed ha il fine di renderla più efficace. Per questa ragione è implicata con iniziative di disobbedienza civile di vario genere, pacifiste, ecologiste, antiglobalizzazione, ecc. 5 […] per trasformare le reti di comunicazione, deprivatizzare non solo l’accesso all’informazione, ma la produzione stessa di questa informazione… (Trad. mia).

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Il lavoro di questo gruppo confluisce essenzialmente nell’ideazione, creazione e presentazione di una linea di abbigliamento: il PRÊT-ÀREVOLTER. Si tratta di una serie di indumenti pensati appositamente per gli attivisti, per permettere loro di resistere alle sempre più dure condizioni delle grandi manifestazioni e dei grandi vertici (Seattle, Praga, Barcellona, Genova, ecc.).

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Il progetto parte da un confronto tra l’immagine offerta dalle forze dell’ordine e quella che la gente può offrire: si effettuano così alcune ricerche sui materiali da utilizzare (trasparenti, resistenti, ecc.). Inoltre, ci si preoccupa che i vestiti prodotti offrano ampie possibilità di sviluppo di tecniche di difesa non violente, che proteggano le parti del corpo più sensibili e più colpite negli scontri e che possano permettere il posizionamento di una videocamera digitale, munita di un dispositivo che consenta la trasmissione diretta delle immagini in rete.

Per realizzare la linea P R Ê T- À R E V O LT E R , “si comprarono circa 200 abiti da lavoro da un fabbricante cinese, una lavatrice di seconda mano e moltissima vernice per tessuti […] bisognava poi disegnarli, cucirli, si comprarono macchine per cucire, si riciclarono, perché bisognava sperimentare con i colori e con le forme […] e si fece ciò per mesi, come progetto politico” (Interv. in app.). Prendono così il via i talleres di produzione e quelli detti di disobbedienza civile (una specie di test di resistenza effettuato in laboratorio), che nel giro di qualche mese conducono alla realizzazione della linea di abbigliamento. Il PRÊTÀ-REVOLTER è già pronto per il giugno 2001 e viene sperimentato con discreto successo durante le

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proteste contro la Banca Mondiale a Barcellona, ma tutti sono consapevoli che il vero banco di prova sarà Genova.

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“Las Agencias” arrivano quindi in Italia decise a diffondere la collezione tra i gruppi affini presenti. I vestiti sono dotati di protezioni intercambiabili a seconda della situazione, sono molto simili tra di loro, però allo stesso tempo distinti, non sono cioè delle uniformi, ma consentono di mantenere il proprio stile attraverso un certo grado di personalizzazione, lasciando a chi li usa la possibilità di decidere un colore piuttosto che un altro, di aggiungere un particolare o di modificarli come preferisce. L’esito di questo esperimento è stato, come racconta uno degli agenti, “positivo e negativo allo stesso tempo. Negativo all’inizio, perché cercava risultati che non riusciva a conseguire. Ne ha conseguiti però altri, molti esiti secondari, e poi è stato un gran serbatoio per progetti successivi” (Interv. in app.).

Effettivamente i due obiettivi principali non vengono raggiunti. Non si riesce a diffondere l’equipaggiamento e a generare quella “[…] dinamica proliferante di gruppi di affinità […]”(Ibidem) che ci si proponeva in principio, in quanto il PRÊT-À-REVOLTER viene subito identificato con “Las Agencias”, come il tratto caratterizzante del gruppo in quel contesto. Anche l’altro obiettivo, quello di proteggere i manifestanti, viene totalmente mancato. Gli abiti svolgono la funzione per cui sono stati concepiti fino alle proteste di Barcellona, ma i talleres di disobbedienza civile erano stati molto nominali, le simulazioni mai troppo realistiche e così a Genova si scopre che gli abiti non sono sufficienti e che le protezioni non proteggono; si scopre quindi la totale inadeguatezza del progetto di fronte alle forze di polizia italiane in assetto da guerra. Resta comunque il fatto che il PRÊT-ÀREVOLTER rappresenta un momento fondamentale dell’esperienza del collettivo, costituendo la fonte d’ispirazione per almeno altri due progetti successivi, NEW KIDS ON THE BLACK BLOCK e YOMANGO.

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“Agencia Espacial” e “Agencia Gatografica” L’ “Agencia Espacial” è quella incaricata di lavorare per la gestione e la circolazione di immagini nello spazio, nel tentativo di una sorta di riabilitazione e riappropriazione dei luoghi ‘pubblici privati’ come strade, parcheggi, piazze, centri commerciali.

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Gli agenti si occupano sia del Bar (situato nella parte posteriore dell’edificio del “Macba”), sia dello spazio di visibilità e confluenza che rappresenta l’adiacente Plaza Corominas. Il bar è gestito da professionisti del settore della ristorazione, sempre però collegati, socialmente e politicamente, con il movimento di resistenza globale. Il locale è quindi pensato sia come possibile iniziativa commerciale, ma anche, e soprattutto, come uno spazio di convergenza, luogo di riunione e confluenza per una parte della rete dei movimenti sociali, oltre che momentanea sede di Imc Barcelona. Funziona come un cybercafé, ed è dotato di una programmazione stabile di materiale video e di talleres connessi con l’arte e l’attivismo. Inoltre nel bar l’ “Agencia Gatografica” espone

lavori che partono da una concezione particolare della documentazione fotografica, fortemente caratterizzata e influenzata dalla “[…] participación y la complicidad del fotógrafo en los conflictos cuyas imágenes produce ”6 (www.lasagencias.org). Si tratta di fotografie che documentano le condizioni degli immigrati nella vita quotidiana e nella reclusione nei bordercamp, scatti in Almeria e in Egitto, momenti di manifestazioni e azioni contro la globalizzazione economica e altre mobilitazioni.

49 Il lavoro dell’agenzia spaziale prosegue con lo “ShowBus”, il cui scopo è quello di occuparsi della distribuzione di “video y fotografías en espacios que habitualmente carecen de soportes para la circulación de tales imágenes ”7(Ibidem). 6 […] partecipazione e complicità del fotografo nei conflitti prodotti dalle proprie immagini. (Trad. mia) 7 […] video e fotografie in spazi che abitualmente sono carenti di supporti per la circolazione di tali immagini. (Trad. mia)


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Concepito come uno strumento di supporto per l’ “Agencia de Moda y Complementos” ed equipaggiato a trasmettere secondo le modalità dell’ “IndyMedia Center”, lo “ShowBus” prima accompagna la sfilata di presentazione del PRÊT-À-REVOLTER, in Playa de La Mar Bella, poi, durante la campagna contro la Banca Mondiale del 2001, segue la manifestazione da Plaza Corominas, passando per la Ramblas, fino a Plaça Catalunya; ed infine diviene il mezzo di locomozione per la trasferta al bordercamp di Tarifa (prima settimana di Luglio 2001), occasione colta anche dall’ “Agencia Gatografica” per una esposizione sull’immigrazione nello stretto, istallata negli spazi pubblici e nei negozi della città.

La svolta dell’estate Già nella primavera del 2001 iniziano a sorgere i primi problemi, in contemporanea con l’apparizione di notizie sulla stampa, in cui si afferma che il “Museu d’Art Contemporani de Barcelona” finanzia talleres di disobbedienza civile. Proprio in questo periodo, infatti, viene pubblicata una foto che ritrae alcuni volontari del collettivo mentre testano il P R Ê T - À REVOLTER. Il direttore del museo, Manuel Borja-Villel, riesce a risolvere temporaneamente la situazione, ma la delegata del governo centrale in Cataluña, la signora Valdecasas, sembra essere già notevolmente infastidita da “Las Agencias” e dal “Macba”. Iniziano quindi le indagini della polizia, attraverso le quali si scopre che gli artisti del collettivo

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si riuniscono praticamente ogni giorno nel cuarterillo, il locale messo a disposizione dal “Macba”, insieme a vari esponenti e militanti del movimento anti-globalizzazione, tanto che risulta praticamente impossibile distinguerli. La CAMPAÑA DE BCN 2001, i disordini di Plaça Catalunya, lo “ShowBus” che trasmette informazioni sulle persone fermate dalla polizia, la distruzione del bar de l’ “Agencia Espacial”, la grande eco delle azioni di “Reclaim the Streets”, segnano l’inizio di quel processo che nel giro di circa tre mesi porta alla conclusione dei rapporti tra il collettivo e il “Macba”.

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Prendono il via così alcune sessioni di dialogo, nelle quali Marcelo fa da mediatore con il museo. Ci si mette d’accordo su un periodo di vacanza estivo, durante il quale la maggior parte degli agenti si sposta a Tarifa, mentre la direzione del museo si riorganizza. È chiaro che, dopo i fatti accaduti e le reazioni di stampa e governo, qualcosa deve cambiare. Il museo propone di continuare a lavorare insieme, ma in maniera diversa: un’asettica collaborazione per progetti, che l’istituzione si riserva di accogliere o di bocciare. Ovviamente per il collettivo accettare questo modus operandi significherebbe rinunciare completamente alla propria autonomia:

un prezzo troppo alto che il gruppo non è disposto a pagare. Ufficialmente il progetto dovrebbe comunque andare avanti fino ad ottobre, ma nella pratica vengono frapposti diversi ostacoli alla sua realizzazione: non si può più lavorare di notte; soltanto un paio di persone hanno accesso alla chiave del locale, finché un vigilante privato è incaricato di aprire e chiudere. L’ovvia e prevedibile conseguenza è l’allontanamento di “Las Agencias”, del materiale informatico e dei relativi archivi dal museo.

Cosa cambia Nell’autunno 2001 inizia la seconda fase dell’esperienza del collettivo e si assiste ad una serie di cambiamenti di vario genere. Ha luogo una variazione della composizione interna di “Las Agencias”: alcuni gruppi, come

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quello di Madrid, se ne distaccano e ritornano ad occuparsi a tempo pieno di ciò che facevano fino ad un anno prima, altri si dissolvono in altre organizzazioni, ad esempio il gruppo di “IndyMedia Barcelona” diventa totalmente autonomo, mentre il nucleo duro, composto da circa quindici persone, continua a mantenerne la denominazione.

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“Las Agencias” riescono quindi a sopravvivere alla rottura col “Macba”, ma si trovano ad affrontare alcuni problemi pratici e a dover rivedere, almeno in parte, il proprio funzionamento. Va inoltre considerato il contesto internazionale di quel periodo: si tratta di un momento particolare, incerto e problematico, diretta conseguenza del G8 di Genova, per quasi tutti i soggetti più o meno coinvolti nel movimento globale, a cui si aggiungono le tensioni e l’intensificarsi dei controlli di polizia in seguito ai fatti dell’11 settembre. La prima conseguenza dell’allontanamento dal museo è la drastica riduzione delle risorse finanziarie, il trasferi-

mento della sede del gruppo in un centro sociale occupato di Barcellona e il taglio di alcune spese: è infatti impossibile, ad esempio, riparare lo “ShowBus”, che accusa i colpi della calda estate appena trascorsa, così il mezzo viene sostituito da più economiche biciclette, modificate in modo che possano almeno in parte svolgere la stessa funzione. “Las Agencias” iniziano così ad operare come un collettivo autonomo, fluttuante ed eterogeneo, che lavora direttamente nell’arena sociale, dando vita di volta in volta a collaborazioni con istituzioni artistiche per realizzare progetti concreti. Si impegnano nella contestazione, nel marzo del 2002, contro il semestre spagnolo di presidenza dell’Unione Europea e, allo stesso tempo, esplorano forme nuove di lotta, politicamente efficaci, con lo scopo di rompere la dicotomia tra dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori il sistema, nell’intento di preservare quel ruolo di mediatore che il gruppo si era attribuito in principio. Si sceglie di lavorare tramite progetti collabo-

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rativi con movimenti sociali ed in generale si fa in modo di evitare che questi portino la firma del collettivo in calce, anche a causa del clima decisamente teso del momento. Proprio a causa di questa tendenza all’anonimato, è difficile ricostruire, in maniera organica e sistematica, l’operato degli agenti in questo periodo, definire a quali azioni collaborino, in quanti e quali progetti siano coinvolti e in che misura. Tra le tante collaborazioni si ritrova un progetto autonomo e sufficientemente strutturato, che merita un piccolo approfondimento: NewKiDsoNTheBLAckBlOCk.

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NewKiDsoNTheBLAckBlOCk sono uno spunto di riflessione sul fenomeno dell’appropriazione, da parte del mercato, delle tendenze giovanili marginali. I NewKiDsoNTheBLAckBlOCk (NKBB) propongono un interessante paradosso: mostrano cosa succederebbe se il sistema dei consumi si riappropriasse della carica politica dei Black Block, ridisegnandola e riformulandola come se si trattasse dell’ultima novità lanciata da un’etichetta musicale. Gli agenti decidono

quindi di stare al gioco, costruiscono la propria immagine come se si trattasse di un normalissimo gruppo pop, si costruiscono un’identità a colpi di immagini e di processi di affiliazione e rifiuto. Procedono quindi con la realizzazione del merchandising, reintroducendo così il dibattito sulle maniere di agire, i discorsi sulla violenza e sul suo grado di opportunità e di opportunismo. Nel viaggio negli Stati Uniti, a New York, i NKBB esportano, grazie all’aiuto di “Reclaim the Streets”, ARTMANI, degli ‘scudi’ (gli apici sono obbligatori in quanto non si tratta di materiali particolarmente resistenti, ma più che altro di pannelli espositivi) molto leggeri sui quali vengono stampate delle foto, così da sfruttare la visibilità mediatica delle grandi manifestazioni per far passare un certo tipo di messaggi.

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YOMANGO

Come nasce YOMANGO Siamo giunti così a quella che potrebbe essere definita la terza ed, attualmente, ultima fase di vita del collettivo: il periodo YOMANGO, che si apre ufficialmente, dopo alcuni mesi di preparativi, il 5 luglio 2002, con la presentazione ufficiale. Si tratta del vero punto di svolta per il gruppo, in quanto, sebbene non tutti condividano questa interpretazione all’interno, il progetto YOMANGO inizia ad assorbirne sempre di più le energie ed a catalizzarne l’impegno, fino al punto che non sarebbe errato sostenere la dissoluzione di “Las Agencias” in YOMANGO.

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In questo momento gli agenti si propongono di recuperare, per il proprio lavoro artistico e politico, una nozione strategica di autonomia. Un’autonomia in grado di liberare le pratiche artistiche dai condizionamenti del capitalismo globale e di socializzarle, così da poter passare da un concetto astratto e teorico di autonomia dell’arte (tipico delle avanguardie) alla organizzazione di collettivi autonomi, dotati di strumenti che permettano di stabilire nuove alterità e di funzionare come società civili, capaci di interpellare non solo l’apparato statale, ma anche e soprattutto le sempre più potenti corporations. 60

“Las Agencias” pensano in questo caso ad una forma di autonomia, in grado di contaminare i vari campi della vita, un’autonomia che si estenda e che produca effetti politici, tramite progetti che si articolino su registri differenti, ad alto grado di complessità. Partendo dalla consapevolezza che il capitalismo tardivo produce e riproduce non tanto beni e merci, ma piuttosto logiche e modi di vita, il collettivo si indirizza verso un tipo di lavoro che si risolva nella creazione di modi di relazioni e stili di vita, in grado di giocare con gli stessi codici utilizzati dal capitale, ribaltandoli e rovesciandoli.

Notevole il contributo dato all’ideazione di questo progetto dal gruppo “Chainworkers” di Milano, tramite l’introduzione del concetto di precarietà lavorativa come costante della vita odierna e fattore in grado di stabilire una cultura generale della paura. Sarebbe proprio tale paura di sentirsi esclusi dalla società dei consumi a fare in modo che la precarietà dall’ambito puramente lavorativo si trasferisca anche in quello delle relazioni sociali. La nascita di YOMANGO deve molto a questi presupposti ed alla circostanza contingente che molta gente del collettivo si trovi a lavorare presso “Zara”8 . I ragazzi sono nel turno di notte, come magazzinieri o tra il personale incaricato di porre i dispositivi antitaccheggio sui prodotti in vendita. Lavorare di notte permette un certo margine di libertà, così che gli agenti riescono a rubare molta merce e numerosi allarmi. Il bottino di abiti ed accessori vari è usato poi per vestirsi, o viene regalato ad altri amici o addirittura “rivenduto”9 allo

8 Si tratta di una catena spagnola che opera nel settore dell’abbigliamento a livello internazionale. È definita “filiera virtuale”, in quanto non dispone di aziende di proprietà, ma si appoggia interamente a terzisti. “Zara” rappresenta una maniera di produrre innovativa del settore. Grazie alla sua struttura, riesce a mantenere tra disegno e realizzazione un ritardo minimo. 9 La politica di “Zara” è infatti quella di restituire l’importo pagato dal cliente per il capo acquistato, nel caso questi per una qualsiasi ragione decida di riportarlo indietro.

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stesso “Zara”, mentre si iniziano a condurre degli esperimenti sugli allarmi, al fine di testarne il grado di resistenza al calore e scoprire come è possibile farli saltare o fare in modo che non suonino al momento del passaggio tra gli archi elettronici posti all’uscita dei negozi. Contemporaneamente, a qualcuno viene in mente di realizzare delle etichette da applicare su quelle dei capi rubati, qualcun altro pensa ad un catalogo primavera-estate, finché non si arriva all’ideazione di YOMANGO. 62

YOMANGO YOMANGO è una campagna che promuove e legittima il furto alle grandi corporations ed alle multinazionali come metodo di resistenza quotidiana al capitale. Il suo funzionamento si basa sui seguenti meccanismi: -talleres, laboratori volti a dare una formazione tecnica di base su magnetismo, videocamere, sorveglianza, strumenti da utilizzare per rubare, ecc.; ad aumentare il proprio grado di disinvoltura e a migliorare la coordinazione nelle azioni collettive. I laboratori sono affiancati dalla pratica nelle “simulazioni in laboratorio” e nei negozi delle corporations; -azioni: la pratica stessa può diventare azione pubblica qualora se ne valuti l’opportunità. È inoltre prevista la possibilità di distribuire informazioni sul negozio preso in considerazione e sui suoi sistemi di protezione dal furto;

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-spazio di lavoro: un luogo in cui si possano sperimentare e realizzare borse ed altri strumenti che siano capaci di schermare le onde magnetiche o radio dei dispositivi antitaccheggio, o che siano disegnati con una forma particolarmente funzionale a rubare libri, cd, ecc.; -materiale promozionale: cataloghi dei materiali, flyers, testi, loghi, adesivi, etichette, ecc.

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YOMANGO può essere considerato una marca d’abbigliamento a tutti gli effetti, ed esattamente come quest’ultima può essere definito “un’istituzione riflessiva che ottenendo l’adesione del suo pubblico e ridefinendo costantemente il suo carattere a seconda dei mutamenti culturali, stabilisce con essi un rapporto solido che è al contempo ontologico, comunicativo e emozionale” (N. Barile, 2004: pag. 94). Infatti, come ogni marchio che si rispetti, ha una propria identità visiva, dispone di un’etichetta, ha un catalogo di presentazione della collezione, distribuisce merchandising di varia forma e si fa pubblicità. L’unico elemento che manca è il prodotto, diventato totalmente virtuale: si tratta, infatti, di un brand che si applica a qualsiasi tipo di merce, purché rubata.

L’oggetto infatti si concretizza e si attualizza tramite il gesto attivo del furto. Non abbiamo qui a che fare con un soggetto passivo che compra e consuma, ma con il cosiddetto prosumer (produttore e consumatore nello stesso tempo). YOMANGO fa quindi leva sulla sfera emozionale delle persone, cercando di liberarne il desiderio e l’aspirazione alla felicità dalla logica del denaro e delle carte di credito. YOMANGO accetta in maniera ironica il principio di libera circolazione delle merci, portandolo al punto estremo di proporne una versione assoluta, si concretizza nell’idea di una diffusione tanto libera che neppure il denaro (in qualsiasi sua forma, cartacea o elettronica) può ostacolarla. Tutto circola, fluisce e rifluisce; il furto non è funzionale all’accumulazione dei beni, alla costituzione di un’altra forma di proprietà, sebbene costruita con mezzi diversi. Rubando un oggetto si compie una sorta di gesto doppiamente liberatorio: in primo luogo, nei confronti del proprio desiderio, poi nei confronti dell’oggetto in questione, che una volta ottenuto è destinato ad essere messo in circolo, condiviso o magari regalato. E risulta evidente l’importanza che due progetti come NKBB e DINERO GRATIS rivestono nella genesi di YOMANGO: se quest’ultimo da una parte recupera quella specie di “gioco delle parti” messo in atto con NKBB, l’esperimento di fare le veci del mercato e di utilizzarne gli strumenti ed i codici di azione, dall’altra recupera la

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visione, elaborata nella campagna DINERO GRATIS, del denaro come un limite al fluire di desideri e passioni ed al raggiungimento della felicità.

Logo e logotipo

Tuttavia i ragazzi del collettivo non sono e non vogliono essere i Robin Hood delle metropoli del XXI secolo: non si ruba ai ricchi per dare ai poveri. Anche a loro, ma non solo. YOMANGO non riguarda le necessità primarie degli individui, non si tratta di dar da mangiare agli affamati o di vestire chi non se lo può permettere. Ciò che si propone YOMANGO è liberare il desiderio e, per farlo, non inventa nulla di nuovo. Rubare nei punti di vendita delle grandi multinazionali è una pratica sufficientemente diffusa al giorno d’oggi. Sono azioni che possono essere eseguite sulla scorta di motivazioni politiche, pratiche o semplicemente per divertirsi, ma si tratta di piccoli gesti quotidiani che il gruppo cerca di rappresentare e cerca di dotare di una certa continuità in modo che possano diventare vere e proprie pratiche di resistenza.

Dietro la scelta di YOMANGO come logotipo ritroviamo un gioco di parole: in primo luogo, il gruppo vuole rifarsi, in maniera come sempre ironica, alla popolare catena di abbigliamento spagnola operante su scala internazionale “Mango”. Il procedimento che qui si compie è di proporre la totale e provocatoria identificazione del consumatore nell’universo di significati proposto dalla marca, la completa assunzione del soggetto all’interno della sua logica: dire YOMANGO equivale quindi a dire IOBENETTON, IOCOOP, ecc. Ma YOMANGO è anche un modo per dire “io rubo, io frego”: il popolare termine spagnolo mangar, infatti, rimanda etimologicamente alla parola manga, in italiano “manica”, ed allude all’idea di procurarsi qualcosa di nascosto, “sotto manica”. all’occhio più distratto la notevole somiglianza grafica tra i due loghi, anche se quello di YOMANGO è

Non sfugge poi neanche

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senza dubbio più versatile e si presta a sempre nuove contestualizzazioni e formulazioni.

La collezione primavera-estate

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I ragazzi di YOMANGO svolgono nei loro talleres un tipo di lavoro che potrebbe essere paragonato a quello del settore Ricerca e Sviluppo di una qualsiasi azienda: ricercano e sperimentano nuove idee e nuove soluzioni, creando così una serie di prototipi che confluiscono nelle pagine del catalogo Primavera-Estate.

ca” ricca di tasche segrete che permettono di nascondere agli occhi di un eventuale addetto alla sicurezza gli oggetti appena rubati. Lo slogan che ne accompagna la descrizione, “Haz tu bolso a la medida de tus deseos”10 , è un invito rivolto a tutti, affinché ognuno crei la propria borsa a seconda di esigenze e desideri personali. .ZIP, cioè un paio di pantaloni, discreti e alla moda, dotati però di una cerniera supplementare, che inaspettatamente apre e chiude u n a capiente tasca segreta. In questo caso il claim vuole enfatizzare la vicinanza con il soggetto, perché “YOMANGO està muy dentro de ti”. Il terzo tema su cui si gioca è quello del SE TU MISMO, “sii te stesso”: poiché è impossibile

THE MAGIC BAG, ovvero una “borsa magi-

10 Realizza la tua borsa secondo i tuoi desideri. (Trad. mia)

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rimuovere i dispositivi antitaccheggio dagli a b i t i senza danneggiarli, YOMANGO propone che le tracce dei danni rimaste sugli indumenti (piccoli fori, strappi, ecc.) diventino segni distintivi di questo stile un po’ speciale. 70

BOLSO DANES: un’altra borsa, questa volta realizzata con una scatola di latta, una di quelle in cui sono confezionati i biscotti danesi al burro, concepita per assicurare un’uscita silenziosa e discreta da tutti quei negozi che usano sistemi di allarme radio.

Il catalogo si conclude infine con un’ironica interpretazione della famosa campagna pubblicitaria di una carta di credito “Ci sono cose che il denaro non può comprare. Per tutto il resto Mastercard”.

È doveroso precisare che nessuno dei materiali presentati finora è in vendita, così come non lo erano gli abiti creati per il PRÊT-À-REVOLTER (non si tratta comunque dell’unica somiglianza tra i due progetti: le linee dei capi realizzati, le mille tasche di cui sono dotati e l’interesse per la moda sono prova evidente di quanto il PRÊT-ÀREVOLTER abbia influenzato, teoricamente e praticamente, YOMANGO). Gli oggetti realizzati sono da considerarsi piuttosto delle idee, degli strumenti che il collettivo propone a un pubblico non più inteso come un obbediente consumatore, ma come un soggetto attivo e creativo, libero di ricostruirli e reinterpretarli personalmente.

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Materiale grafico e pubblicitario

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YOMANGO è un marchio ed in quanto tale cerca di rendersi visibile, attraverso eventi e canali comunicativi molto diversi tra loro. Si spazia dai media ufficiali-istituzionali a quelli alternativi, dai supermercati agli incontri tra attivisti, dalla realizzazione di manifesti ed altro materiale grafico a internet, con la creazione di “[…]un forum de las culturas-yomango donde realizar la puesta en común de los saberes-yomango ”11 (Brumaria 3, 2004: pag. 215). Si cerca costantemente di fare in modo che lo stile di vita YOMANGO diventi una forma di resistenza capillare, organizzata e quotidiana, che sia quindi presente nella realtà urbana e negli spazi in cui essa si sviluppa. 11 […]un forum delle culture-yomango in cui realizzare la posta in comune dei saperi-yomango. (Trad. mia)

La prima campagna pubblicitaria realizzata è costituita da un manifesto pieghevole fronte-retro. In questo lavoro si cerca di spiegare che cosa è YOMANGO, qual è il suo obiettivo e come intende raggiungerlo. Partendo dall’interrogativo “che cosa è la realtà?”, domandandosi fino a che punto essa arriva, quali sono i parametri che calibrano la vita della gente, i ragazzi del collettivo analizzano brevemente il post-capitalismo contemporaneo e il sistema dei consumi, sempre più impegnati a venderci brandelli di felicità, confezionata in un prodotto, simbolo materiale e tangibile di uno stile ed arrivano alla conclusione che, sebbene non si possa affermare con certezza se esiste una dimensione esterna al Capitale, si può comunque agire e reagire dal suo interno, provando a fare impazzire questa macchina (Cfr. Yomango, 2002). Ciò che è proposto in alternativa è un boicottaggio sistematico e quotidiano

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delle multinazionali, che non si esplicita però in una forzata riduzione dei consumi, ma nella sovversione delle logiche di scambio economico e di accumulazione materiale e immateriale. Come recita lo stesso slogan, si tratta di “creare nuovi gesti che nel loro ripetersi aprano nuovi mondi in cui vivere”.

Le campagne che seguono si aprono a supporti di tipo diverso (adesivi, flyers, magliette, ecc.), pur mantenendo sempre gli stessi toni e lo stesso stile comunicativo, ormai già ampiamente rodato.

Sono inoltre parte integrante del materiale promozionale alcuni video girati durante alcune delle azioni più significative del gruppo (la presentazione del marchio, YOMANGO TANGO, la cena organizzata in Germania, ecc,) e un dvd interattivo, contenente foto, lavori grafici, testi, video, files musicali, ecc. che, sebbene sia ancora in una versione provvisoria, ha già iniziato ad essere distribuito attraverso canali informali.

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Tre azioni significative Il ‘debutto in società’

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Per ogni marca che si rispetti arriva il momento della presentazione al pubblico, così i primi di luglio 2002, in pieno periodo di saldi, tra le sei e le sette di pomeriggio, una cinquantina di persone si ritrovano nel centro commerciale e turistico di Barcellona, in Portal Angel, proprio davanti “Bershka”12 . Il collettivo ha in mente di realizzare il primo YOMANGO FASHION SHOW: già nei giorni precedenti si era provveduto a preannunciare ai media che “un atto magico stava per essere compiuto”. Si recinta così la zona con strisce di nastro adesivo DINERO GRATIS, mentre alcuni sfilano indossando abiti adatti a rubare, altri si occupano di coinvolgere il pubblico e di spiegare quello che succede, altri ancora entrano dentro e 12 “Bershka” è una catena di negozi di abbigliamento, facente parte del gruppo spagnolo “Zara”. A differenza di quest’ultimo, “Bershka” si rivolge ad un target decisamente più giovane, composto per lo più da teen-agers, offrendo una linea di abbigliamento comoda e sportiva, molto influenzata dalle tendenze rap e hip-hop.

rubano, utilizzando la borsa danese, un abito dal negozio, con il quale viene poi vestito un volontario. Il tutto avviene divertendosi come se ci si trovasse ad una festa, tra amici in mezzo alla musica; ed ecco che la magia è compiuta: “un oggetto si trasforma in un’esplosione di vita”. Il vestito rubato viene esposto nel Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona (CCCB), all’interno del festival dell’ “INn Motion”, per alcuni giorni. Molti giornali il giorno successivo riportano la notizia, parlando di saccheggio di massa; in realtà il gruppo ha rubato solo un vestito in saldo dal prezzo irrisorio di € 9.90, proprio per far passare il significato del gesto; quello che succede è che le persone presenti si trasformano automaticamente in manguisti ed iniziano a rubare qua e là, quasi a voler confermare la tesi avanzata dal gruppo che YOMANGO si limita a dare visibilità ad un comportamento già esistente e radicato nella società. Il lunedì seguente il vestito viene riportato a “Zara”, in un negozio situato sempre in Portal de Angel, accompagnato da un messaggio in cui si spiega che YOMANGO non promuove il furto con l’intento di accumulare beni, ma con quello esattamente opposto di invogliare la circolazione di cose

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e desideri. Entrambi i negozi vengono avvisati dell’imminente rilascio tramite una telefonata anonima, nella quale vengono preannunciate future azioni YOMANGO. La scelta di lasciare l’abito a “Zara” piuttosto che a “Bershka” è una maniera per enfatizzare e sottolineare la falsa alternativa che il mercato ci offre. Secondo il collettivo, nel preferire una marca ad un’altra il consumatore si illude soltanto di effettuare una scelta, poiché si ha a che fare con lo stesso soggetto economico: l’unica reale alternativa possibile si basa a questo punto sulla contrapposizione YOMANGO - denaro.

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YOMANGO TANGO

Il 20 e 21 dicembre 2002 ricorrono le Giornate di Disobbedienza Sociale Globale ed in diverse parti del mondo si celebra l’anniversario della ribellione popolare argentina. YOMANGO si dà appuntamento presso un supermercato della catena “Champion” (appartenente al gigante “Carrefour”), situato su Las Ramblas, nel centro di Barcellona preso d’assalto per le compere natalizie. Alcuni iniziano a “suona-

re” il mangoneòn , uno “strumento che permette di fare magia e musica con le bottiglie di spumante”, sette coppie (che avevano appreso a danzare durante alcuni talleres organizzati precedentemente) ballano a ritmo di una versione un po’ particolare di tango e contemporaneamente rubano champagne, riponendolo nel cesto di Natale per YOMANGO, mentre gli altri distribuiscono materiale informativo. Vengono inoltre trasmesse in diretta, proiettate su uno schermo allestito tra due alberi di fronte, le immagini di ciò che succede dentro. L’azione riscuote un certo successo, riuscendo a coinvolgere anche regolari clienti che si trasformano in ballerini e si uniscono al gruppo. Il giorno dopo vengono presi di mira i quartieri generali del “Banco Santander”, coinvolto nel crack argentino. Le bottiglie, ri-etichettate tutte con adesivi YOMANGO, vengono stappate all’interno della banca, e sotto una pioggia di champagne si continua a ballare tango e si gridano slogan contro il mondo della finanza.

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La cena transnazionale e YOKÜ

ne in un hotel lussuoso.

Una delle attività di maggior successo realizzate da YOMANGO è l’organizzazione di cene: dopo aver rubato e ri-etichettato gli ingredienti da un negozio di un qualsiasi sistema di distribuzione multinazionale, si provvede a cucinare e a condividere il cibo così preparato con altre persone non appartenenti al gruppo.

Anche in questo caso, l’obiettivo principale che si vuole raggiungere tramite l’organizzazione di eventi di questo genere non è riconducibile alla necessità di soddisfare un bisogno primario, ma all’appagamento di un desiderio, al quale si aggiunge il piacere derivante dal momento di festosa condivisione e offerta del cibo. Non si rubano infatti solo generi alimentari di prima necessità, ma il ‘carrello’ si riempie di prodotti appartenenti ad una fascia medio-alta, come champagne, vini di qualità, ecc.

Due gli eventi che hanno riscosso maggior successo: a Ginevra il 12 dicembre 2003 il collettivo promuove la “Cena Transnazionale”, all’interno del contro vertice, in concomitanza con il “World Summit of the Information Society”; ad Amburgo, in occasione del tour tedesco di YOMANGO (maggio-giugno 2004), in collaborazione con i centri sociali del posto, si organizza YOKÜ. YOKÜ è una parola creata unendo le iniziali del collettivo di Barcellona con quelle di un cibo popolare tedesco, il Küche Vokü; si tratta di un piatto che tradizionalmente si realizza con prodotti riciclati, che in questo caso sono rubati. Ad Amburgo l’azione si inserisce nelle proteste rivolte contro la privatizzazione di uno dei parchi pubblici della città, e la sua conseguente trasformazio-

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Strumenti d’analisi

Prima di addentrarsi nei testi prodotti dal collettivo e in un’analisi delle istanze teoriche che confluiscono nel loro operato, è necessario fornire alcuni riferimenti. Per “Las Agencias”, infatti, la produzione scritta e le discussioni teoriche rappresentano un aspetto secondario, in particolar modo durante la prima fase della sua storia; in seguito, il gruppo ha iniziato ad occuparsene più seriamente, preoccupandosi dei testi che circolavano per una certa campagna, argomentandoli e discutendoli, ed allo stesso tempo ha aumentato anche l’attenzione rivolta alla questione della relativa ricezione all’esterno. Le motivazioni di tale atteggiamento possono essere rintracciate nel fatto che, soprattutto all’inizio, in “Agencias” convergono molte soggettività diverse, che creano un gruppo eterogeneo e promiscuo, per certi versi difficile da gestire, che, come sostiene Marcelo Expósito durante l’intervista, “[…] si nutre di tutto e non riconosce niente” (Interv. in app.); ciò che conta per la maggior parte degli aderenti sono attivismo e creatività, che tramite operazioni molto sensibili, come talleres, progetti, azioni di protesta, ecc., si concre-

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tizzano in una pratica decisamente raffinata e curata. La maggiore riflessione e meta-riflessione riscontrate nel secondo periodo sono sintomatiche di una relativa stabilizzazione del collettivo e dei suoi componenti e sono da leggere come una tendenza, come una sorta di processo di maturazione che conduce alla formazione di YOMANGO, che ne rappresenta senza dubbio il momento di più alta auto-consapevolezza.

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L’antagonismo biopolitico Tra i pochi testi prodotti da “Las Agencias” si registra un costante, per quanto non particolarmente approfondito, riferimento al concetto di biopolitica elaborato da Michel Foucault. Anche in questo caso la pratica aiuta più della teoria. Sebbene non sia possibile affermare che il collettivo abbia proposto e realizzato una propria interpretazione sistematica di ciò che è il potere, di come esso si configura e di come agisce, si evince

chiaramente dalla struttura stessa del gruppo e dal suo modo di operare una concezione di matrice foucaultiana. Lo studioso francese pensa ad un “[…] potere che si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme” (M. Foucault, 2005: pag. 98). Una forma di potere che trae le sue origini nell’Ufficio Pastorale, esercitato da alcuni individui che ricoprono la funzione di pastore-allevatore rispetto ad altri che costituiscono il gregge. Si tratta di una serie di meccanismi che il Cristianesimo ha introdotto nella società romana al fine di diffondere alcuni imperativi morali, anche se Foucault stesso precisa che il Cristianesimo non inventa alcun tipo di morale, ma ne recupera una già diffusa nel mediterraneo orientale, soprattutto nelle società egizie, assire ed ebraiche (Cfr. M. Foucault, 2005: pag. 174). Il potere pastorale si presenta quindi in una forma ben diversa da quello politico. Innanzitutto non regna come quest’ultimo su un territorio delimitato, ma su una moltitudine in movimento e, per questa ragione, non si preoccupa di difendere i propri confini o di attaccare un eventuale nemico, ma è interessato, prendendosi cura del gregge su cui veglia, ad esercitare un potere positivo, benefico, che sia in grado di

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assicurare sostentamento sia al singolo nella sua individualità che al gruppo nel suo insieme. Inoltre, a differenza di quanto accade normalmente, non si persegue l’assoggettamento dell’individuo, né si richiede al cittadino di sacrificarsi in nome del sovrano; al contrario è quest’ultimo che è disposto ad immolarsi per la salvezza sia dell’individuo che della collettività. In questa maniera si configura un tipo di potere che, coordinandosi con le tecniche di governo, giunge alla costituzione del biopotere, che agisce e si colloca a livello della vita del singolo e della popolazione. 86

Tale processo inizia nel XVII secolo, articolandosi prima nella cura del corpo attraverso il potenziamento delle sue qualità ed attitudini al fine di aumentarne l’efficienza e il grado d’integrazione con il sistema; poi, a partire dal XVIII secolo, nella cosiddetta biopolitica della popolazione, la quale si occupa del corpo, non considerandolo come individuo, ma piuttosto come specie; si tratta di un tipo di politica che, tramite interventi e controlli regolatori, assume nella sua sfera d’interesse e d’azione tutta una serie di processi biologici, quali la nascita, la morte, la riproduzione, la durata media dell’esistenza umana, le condizioni di vita, ecc.

Lo stesso Foucault precisa che l’interazione tra queste due forme avviene solo nel XIX secolo, facendo notare come il biopotere sia stato “[…] uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo” (Ivi: pag. 101); esso risulta infatti funzionale all’assorbimento controllato del soggetto nel sistema di produzione e rende possibile l’adattamento della popolazione ai meccanismi ed ai processi economici, quando, nel momento della divisione del lavoro, è stato necessario tenere sotto controllo i movimenti popolari di resistenza. La biopolitica è dunque ciò “[…] che fa entrare la vita e i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e fa del potere sapere un agente di trasformazione della vita umana […]” (Ivi: pag. 102). Questo procedimento si compie tramite lo sfruttamento di quelli che il filosofo francese chiama “dispositivi di controllo” dell’individuo e della specie. Il più efficace mezzo di controllo creato dal capitalismo è, per Michel Foucault, la sessualità, sulla quale non si esercita l’imposizione di divieti, ma una continua sollecitazione sia al livello discorsivo che pratico. L’obiettivo che si vuole raggiungere è la completa e totale strumentalizzazione della sessualità, che conduca ad un’idea del corpo, del piacere e del sesso come un qualcosa di funzionale al soddisfacimento dei bisogni della società, dell’organizzazione familiare e delle necessità produttive. Si tratta quindi della costituzione di un meccanismo che poggia sia sulla conoscenza interna sia su

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quella esterna degli individui, ma anche uno strumento di potere sapere degli individui su loro stessi.

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Il terreno d’indagine di Foucault non è però il potere in quanto tale, ma le cosiddette relazioni di potere, vale a dire “[…] tutte le costrizioni extragiuridiche che pesano sugli individui e attraversano il corpo sociale […]” (M. Foucault, 2001). Sono quindi rapporti di tipo mobile, tramite i quali si cerca di dirigere ed orientare il comportamento dell’altro, ed in quanto tali, a differenza degli stati di dominio, presuppongono sempre un certo grado di libertà e possibilità di resistenza, derivante proprio dalla considerazione dell’altro come un soggetto, in grado di agire e di reagire. Il punto centrale delle relazioni di potere, e della biopolitica, è che queste si sviluppano nelle micro-questioni e micro-problemi, all’apparenza irrilevanti, che insieme costituiscono la vita quotidiana. Ciò non significa però che il processo di implementazione della vita nelle tecniche di gestione sia esaustivo. Il fatto che il biopotere riguardi la vita costituisce indubbiamente il punto di forza che ne ha permesso l’evoluzione, ma anche il tallone d’Achille. Esso deve, infatti, occuparsi delle mille sfaccettature dell’esistenza, ma

ognuna di queste rappresenta anche un possibile punto di partenza per lotte e rivendicazioni. Si tratta di un discorso che si sposa perfettamente con la filosofia di “Las Agencias”: dalla storia stessa del gruppo emerge chiaramente, anche se in maniera indiretta, la concezione del potere come qualcosa di flessibile, frammentato e senza dubbio permeabile. La stessa stretta collaborazione del gruppo con un’istituzione quale un museo è altamente significativa in questo senso: si tratta di un’esperienza che non sarebbe stata possibile senza pensare di poter entrare nel territorio del potere e di sovvertirlo dall’interno; il collettivo non ha mai pensato l’autonomia “come lo stare extra-muros o fuori dalle cose, ma al contrario come l’essere attraversati dalle cose” (Interv. in app.). E lo stesso vale anche per i mezzi di comunicazione; se non si parte dal presupposto che le strutture di potere sono penetrabili e porose, se si pensa ai mezzi di comunicazione come a un qualcosa di strutturato e di definito a priori, si prospettano solo due alternative: o rimanerne fuori, rifiutandoli; o accettarne la logica. Quello che fanno gli agenti, invece, è lavorare all’interno dei media con un alto grado di ironia e di ambiguità, creando discorsi ambivalenti e sinuosi, prodotti nello stesso linguaggio che utilizza il nemico che si cerca di combattere, riappropriandosi e riutilizzandone il

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codice con finalità sovversive.

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Alla luce di quanto fin qui affermato, non risulta difficile comprendere cosa si intende quando si sostiene di “[…]trabajar construyendo posiciones de antagonismo biopolitico” 13 (Las Agencias, 2002). Sebbene il concetto sia stato utilizzato in maniera molto leggera, è indiscutibile che il collettivo, per ciò che concerne quanto meno il suo funzionamento, abbia una dimensione biopolitica chiara ed evidente. Il gruppo è sempre stato cosciente di come il corpo, il bios sia attraversato da due tipi di politica contrapposti, quella del potere e quella antagonista, e di come la soggettività e la realtà siano continuamente prodotte da queste due componenti. Inoltre, “Las Agencias” non sono solo un gruppo di artisti particolarmente attivi, ma sono uno spazio di produzione e scambi affettivi, anche per questo le implicazioni della politica nella vita di chi vi prende parte sono altissime. Tuttavia non come “[…] nella vecchia militanza, nella quale la tua vita dipendeva dalla militanza […]” (Interv. in app.): non si tratta della sottomissione dell’esistenza ad un processo politico, ma della produzione della politica come una funzione della vita stessa, basata sul presupposto secondo cui “[…] non si può soffrire facendo poli13 […] lavorare costruendo posizioni di antagonismo biopolitico. (Trad. mia).

tica” (Ibidem). Tutto ciò è decisamente evidente nella pratica del collettivo e ne diventa un aspetto sempre più importante fino alla sua radicalizzazione ed estremizzazione in YOMANGO.

Impero e moltitudine Un altro referente ricorrente ed allo stesso tempo contraddittorio per “Las Agencias” è il testo di Toni Negri e Michael Hardt, Impero. Nell’opera i due autori cercano di analizzare il nuovo ordine globale, a partire da due concetti fondamentali: quello di Impero e quello di Moltitudine. Il punto di partenza di questo studio sulla costituzione dell’Impero è una nuova formulazione del concetto di autorità, che si esercita tramite la produzione di norme giuridiche atte a risolvere eventuali conflitti. L’Impero è qui definito come “[…] una vera e propria macchina high tech: è virtuale, è costruita per controllare eventi marginali, è organizzata per dominare e, se necessario,

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per intervenire nei punti di rottura del sistema” (M. Hardt, T. Negri, 2003: pag. 53). Si tratta in buona sostanza di un regime che si estenderebbe in uno spazio senza confini e che opera al di fuori della storia; ciò che l’Impero vuole fare è produrre e riprodurre la vita, cercando di generare il mondo in cui abita. Si tratta di un’entità decisamente biopolitica che ha come obiettivo raggiungere il pieno dominio della natura della specie umana, esercitando il suo potere sulla vita sociale e sui meccanismi che la regolano.

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L’Impero si presenta così come un’istituzione disciplinare che non è in se stessa sovrana (non di tratta infatti di uno stato e non si può identificare con nessuno degli stati nazionali esistenti) e che è caratterizzata da una natura astratta e trascendente; esercita quindi un tipo di sovranità del tutto virtuale, che viene attualizzata, al di fuori delle dimensioni spazio-temporali, tramite l’applicazione delle discipline. Il dispositivo di comando della volontà imperiale si sviluppa nell’articolazione di tre distinti momenti: quello inclusivo, quello differenziale e quello manageriale. La tendenza inclusiva della macchina imperiale si realizza in una sorta di processo di integrazione universale che, lasciando da parte differenze ritenute ingestibili, potenzialmente in grado di creare conflitto sociale, attrae le soggettività in uno “spazio liscio”, in cui queste

ultime scivolano senza opporre resistenza. Un discorso di questo tipo, e qui arriviamo al secondo momento, implica che le differenze assorbite dall’Impero in quanto ritenute controllabili possano affermarsi ed essere valorizzate da un punto di vista culturale, senza dimenticare però l’importanza della terza fase amministrativa, funzionale al controllo e alla gerarchizzazione di queste nel contesto di un’economia generale di comando (Cfr. M. Hardt, T. Negri, 2003). Un comando che non può che esercitarsi tramite le modalità del controllo biopolitico su ciò che viene considerata e definita una “[…] moltitudine produttiva che […] occorre governare nella sua autonomia” (Ivi: pag. 319). La Moltitudine (a differenza del concetto di popolo, caratterizzato da una volontà unica che si esprime in un’azione unica) è intesa da Negri e Hardt come un insieme plurale, un processo sempre aperto di soggettività creative e produttive, potenzialmente in grado di sovvertire l’ordine instaurato dall’Impero. La Moltitudine deriva la propria capacità trasformatrice dal fatto che essa costituisce in realtà il vero soggetto attivo e produttore di senso: il potere imperiale quindi può essere considerato alla stregua di “un parassita che trae la sua vitalità dalla capacità della moltitudine di creare sempre nuove fonti di energia e di valore. Un parassita che fiacca la resistenza del suo ospite, comunque, può mettere a repentaglio anche la propria esistenza” (Ivi: pag. 336).

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Inoltre la stretta “simbiosi” esistente tra Impero e Moltitudine permette a quest’ultima di sferrare attacchi non da un punto esterno contro una specie di castello-roccaforte difficilmente espugnabile, ma direttamente dal suo interno. Per questa ragione forme di resistenza alla logica imperiale possono emergere in ogni momento ed in ogni dove, per cui si può sostenere che concetti come crisi e declino siano strutturali all’esistenza stessa dell’Impero e si può attribuire alla Moltitudine la capacità di utilizzare tecnologie e produzione al fine di aumentare la propria gioia ed il proprio potere. Sono le forze che la compongono ad avere un alto potenziale creativo e, di conseguenza, esse possono generare un contro-potere, un’alternativa politica che sia in grado di proporre nuove forme di democrazia e nuove visioni del potere capaci di lottare contro l’Impero nel suo stesso territorio. Le lotte che nascono dal contesto moltitudinario si caratterizzano come momenti intensivi, che si sviluppano verticalmente in maniera molto violenta, toccando nell’immediato il livello globale, senza riuscire però a propagarsi in maniera orizzontale ed in forma ciclica (Cfr. M. Hardt, T. Negri, 2003).

In questo senso tutto il primo periodo di vita di “Las Agencias” può essere caratterizzato come un discorso moltitudinario: le azioni in cui il collettivo raccoglie dei buoni risultati sono riconducibili a politiche di questo genere. Si agisce infatti tramite progetti di breve periodo, aperti, ibridi, con obiettivi chiari, che esplodono per poi spegnersi dopo aver toccato il picco di intensità. Questa maniera di operare così intensivamente su certi progetti per un periodo di tempo breve, per poi distaccarsene e passare ad occuparsi di altro, costituisce, come già accennato in precedenza, un problema di incomunicabilità delle lotte condotte dalla Moltitudine e, di conseguenza, rappresenta un limite alla loro efficacia operativa. Si potrebbe a questo punto considerare, seguendo il ragionamento di Marcelo Expósito, YOMANGO come una risposta a questo tipo di problema. Quello che ricercano gli agenti con questo progetto è esattamente la coordinazione di momenti di forte impatto, di azioni estremamente visibili e riconoscibili, con un processo meno violento e appariscente, ma decisamente più radicato e continuativo, di incorporazione della disobbedienza sociale nella vita quotidiana come strumento di sopravvivenza nella precarietà della realtà.

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Realtà e precarietà

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Come già affermato in precedenza, la fase YOMANGO rappresenta il momento di maggior auto-consapevolezza del collettivo: è a partire da questo periodo che ci si preoccupa di creare, pubblicare e diffondere un discorso strutturato sulla visione della realtà elaborata dal gruppo fino ad ora e sui metodi da utilizzare per modificarla. Tale processo di riflessione passa fondamentalmente per tre testi, “¿Pero qué es la realidad?”, “De la precaridad laboral a la precariedad social” e “Yomango anda en la búsqueda”, ispirati sostanzialmente agli stessi riferimenti teorici presenti in “Las Agencias”, ai quali si aggiunge però il contributo apportato da “Chainworkers”14 sul tema della precarietà. 14 Collettivo milanese relazionato con il “centro sociale occupato deposito bulk”. A partire da un’inchiesta sulle condizioni di precarietà, il gruppo inizia ad occuparsi di azioni mediatiche che hanno come obiettivo la denuncia delle condizioni di lavoro nelle grandi multinazionali, con l’appoggio del sindacato C.U.B., con il quale inizia un lavoro di assistenza di tipo giuridico nei confronti dei lavoratori precari del capoluogo lombardo.

Lo spunto analitico per indagare la realtà contemporanea è costituito da un raffronto con ciò che succedeva nel quotidiano fino a circa venti anni fa. Quello che nel testo è presentato come un mondo ormai lontano nel tempo e nello spazio è un modello in cui la vita ruota attorno a parametri sufficientemente definiti o quantomeno riconoscibili, che costituiscono ancora la fonte di senso delle azioni e dei comportamenti delle persone; un momento in cui le differenze tra privato e pubblico, tra i relativi comportamenti da “primo piano” o “palcoscenico” e da “retroscena” (utilizzando la terminologia goffmaniana), sono percepibili, in cui le fonti di valori e significati sono rappresentate dalle agenzie di socializzazione ‘classiche’ come famiglia, scuola, religione, ecc. L’attenzione del gruppo si sofferma in particolar modo sulla maniera fondamentale, fino a qualche tempo fa, di raggiungere la felicità, sul rimando del suo conseguimento ad una dimensione altra rispetto a quella quotidiana, collocata in un aldilà spazio-temporale faticosamente raggiungibile. Partendo da questo spunto di riflessione, si inizia ad indagare la realtà odierna e se ne sottilinea la sostanziale diversità con il mondo appena descritto. L’accento cade inevitabilemente sulla fusione, attualmente operante a pieno regime, tra pubblico e privato, tra tempo lavorativo e tempo libero, che confluisce nella tendenza a produrre “[…] prevalentemente comportamenti da ‘palcoscenico laterale’ o da ‘spazio intermedio’

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”(J. Meyrowitz, 1993: pag. 83) e che conduce ad una sorta di “sfera pubblica allargata” che “offre quasi a ognuno una nuova prospettiva […] dalla quale vedere gli altri e acquisire una percezione riflessa di sé” (Ivi: pag. 510).

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A differenza però di Meyrowitz, che trova la causa di tali modifche della percezione delle situazioni e dei relativi modelli comportamentali nella diffusione capillare dei elettronici, il comune denominatore individuato da YOMANGO è il pieno sviluppo del capitalismo. Ciò a cui si riferisce il gruppo è la società dei consumi, che grazie al mercato globale mette a disposizione il prodotto salvifico di cui si necessita, in grado di condurre al raggiungimento della felicità qui ed adesso, in maniera molto più rapida e semplice di qualsiasi altra proposta elaborata da qualsiasi religione o politica (Cfr. Yomango, 2002). Il capitalismo avanzato stabilisce quindi un prezzo per la felicità senza inventare nulla di nuovo, ma sfruttando semplicemente i desideri, le necessità, i modi di fare, in una sola parola, la vita degli stessi soggetti che ne diventeranno i consumatori. A questo discorso si aggiunge il contributo apportato dagli italiani di “Chainworkers” con l’estensione del concetto di precarietà dall’ambito

lavorativo a quello delle relazioni sociali. Il rapporto con l’organizzazione milanese è frutto di un’intesa spontanea, di una connessione molto forte derivante dalla comunanza di interessi e di modi fare. La tesi che si sostiene parte dalla constatazione che la precarietà sia la costante che caratterizza i rapporti di lavoro odierni e che ormai si sia evoluta in una situazione generalizzata, nella quale si stabilisce una cultura della paura di perdere il proprio posto, di non riuscire a pagare l’affitto o il mutuo, la macchina, ecc. “Esto no solo ha modificado las relaciones de la gente con el trabajo, sino también con el entorno”15 (Yomango, 2003 a: pag. 2); infatti il collettivo parte da un’analisi di come negli ultimi venti anni si sia trasformato le spazio metropolitano, di come le città abbiano accolto l’avanzata di nuovi spazi di socializzazione al proprio interno, ed evidenziando il fatto che si tratta di una rivoluzione urbanistica e sociale che crea luoghi sempre nuovi e sempre più funzionali alla logica del consumo (centri commerciali, bar, catene di negozi, mega cinema multisala, ecc.), giunge ad affermare lo slittamento dei concetti di precarietà e di cultura della paura, dal mondo del lavoro a tutto il contesto dei rapporti sociali. La cultura della paura di non riuscire ad “arrivare alla fine del mese” si traduce allora in paura di non consumare abbastanza e di soffrire

15 Ciò non solo ha modificato le relazioni della gente con il lavoro, ma anche quelle con ciò che la circonda. (Trad. mia)

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l’esclusione da parte della società dei consumi e quindi del contesto cittadino in cui si vive, diventando una specie di dispositivo foucaultiano, che permette alle tecniche di potere di investire nella vita e di controllarla.

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La visione di YOMANGO non si limita però alla fase analitica della situazione contemporanea. In un panorama presentato sicuramente non come uno dei più rosei, è ancora presente una possibilità di agire e reagire. Ed è la stessa società ad offrirla, la sua natura composita e varia lascia aperte numerose porte alle forme collettive di opposizione, che proprio a causa dell’endogena diversità e ricchezza possono arrivare a diventare incontrollabili. Questo discorso si concretizza per quanto riguarda YOMANGO e “Chainworkers” in uno scambio di esperienze di attivismo mediatico contro la privatizzazione e la precarizzazione sociale, che convergono nel progetto di livello europeo di www.eurosocialactivism.org. Alla luce della presa di coscienza del fatto che “toda la vida se ha puesto a trabajar” 16 (Yomango, 2003 b: pag. 1) e della totale identificazione del tempo libero con l’attività del consumo, 16 tutta la vita si è messa a lavorare (Trad. mia)

YOMANGO si inoltra nella ricerca di nuove armi e strategie di opposizione. Ciò che interessa al collettivo però non sono “[…] las cosas, sino la búsqueda de las cosas” 17 (Ivi: pag. 2); le cose, gli oggetti, i prodotti insomma, non hanno valore in quanto tali, l’attenzione si focalizza sui rapporti che si stabiliscono tra di essi e tra questi e le persone, sulla scorta della convinzione che le relazioni sociali stesse non siano ormai nulla di diverso dalle relazioni che si stabiliscono tra le cose, che le relazioni tra soggetti siano quindi diventate delle relazioni tra oggetti. YOMANGO ricerca allora dei mezzi pratici di reazione, sapendo però che non è necessario in realtà trovare delle forme nuove di opposizione, in quanto gli elementi fondamentali sono già presenti nel tessuto sociale, sia al livello di teoria che a quello di tecnica. Il gruppo risulta consapevole dell’impossibilità di vivere in questo momento storico al di fuori del capitalismo, anzi arriva addirittura a negare l’esistenza stessa di un al di fuori, ma non si rassegna a continuare ad esserne vittima. Ciò che tenta di fare è cercare di costituire al suo interno una soggettività che, sfruttandone le strategie, si ponga in antitesi, operando un discorso sovversivo che parta dai piccoli gesti quotidiani di rivolta, cercando di trasformarli in pratiche sistematiche, in modi fare, in stile di vita, che funzioni da strumento politico in grado di 17 […] le cose, ma la ricerca delle cose. (Trad. mia)

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“[…] inventar nuevos gestos que en su repetir abran nuevos mundos en los que habitar” 18 (M. Traful, in Yomango, 2003 a.: pag. 3).

Lo stile come momento di trasformazione

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La riflessione intrapresa da YOMANGO tocca il suo momento di massima auto-consapevolezza con la pubblicazione del testo “10 sugerencias para un estilo Yomango: porque la felicidad no se puede comprar”, nel quale, come si intuisce facilmente dal titolo, il collettivo spiega in una decina di punti come fare per creare un proprio stile di vita YOMANGO. In primo luogo, si sottolinea la natura e lo scopo di YOMANGO, che nel suo proporsi alla stregua di una marca non ricerca l’acquisizione da 18 […] inventare nuovi gesti che nel loro ripetersi aprano nuovi mondi nei quali abitare (Trad. mia).

parte delle persone di prodotti, ma più che altro quella massiccia di uno stile di vita. Immediatamente dopo, l’attenzione è rivolta a come raggiungere tale obiettivo. L’operazione compiuta dal collettivo è cercare di ottenere la felicità, sempre focalizzandosi sul corpo e sulle sue necessità, tramite “[…] la proliferación articulada de gestos creativos […]”19 (Yomango, 2002 c: pag. 1), che, innovando e imparando a desiderare, metta ognuno in grado di crearsi un proprio personale stile YOMANGO. Il gruppo continua sul tema sostenendo che, in base al principio che “[…] la felicidad no se puede comprar” (Ivi: pag. 2), l’appropriazione degli oggetti, legale o illegale che sia, risponde all’esigenza di articolazione e autorganizzazione di obiettivi, strumenti, desiderio e intelligenza, nella pratica riappropriativa. Ciò che si ruba, continua ancora il gruppo, non è il frutto dell’inventiva del mercato, ma un qualcosa che di per sé apparterrebbe al comune, derivando dallo sfruttamento della cosiddetta creatività collettiva. Nel quarto punto, quindi, si insiste sulla differenza esistente tra l’atto di comprare e quello di rubare. Se il primo si caratterizza come passivo, alienante, noioso e socialmente predeterminato, il secondo è dipinto come una pratica attiva, creativa ed eccitante, che risponde ad un concetto di legittimità altro rispetto a quello dominante della società del 19 […]la proliferazione articolata di gesti creativi […] (Trad. mia).

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consumo; una legittimità che viene del basso, che esiste e prolifera nel quotidiano e nel desiderio di vivere liberamente, carica di un’elevata potenzialità sovversiva, che, tramite uno stile disobbediente, riesce a rovesciare la situazione, presentando la proprietà stessa come la reale forma di furto.

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Il discorso continua nel punto seguente con l’esplicitazione di uno dei principi cardine della politica YOMANGO, vale a dire il fatto che in nessun momento si propone la riappropriazione come una forma di accumulazione. L’operazione condotta dai ragazzi del collettivo consiste nel portare il principio capitalista della libera circolazione dei beni fino all’estremo, nell’estenderlo fino al punto in cui neanche il denaro sia fonte d’attrito o ne limiti il flusso. In realtà, ciò che fa YOMANGO, come risulta evidente nel sesto punto, è presentarsi come la vera alternativa per sfuggire alla dittatura dei consumi attraverso l’opposizione nei confronti del denaro. Infatti il consumatore, fa notare il gruppo, nel momento in cui propende per un brand si illude soltanto di esercitare un potere di scelta, in quanto in realtà finisce per contribuire sempre ai proventi del medesimo soggetto commerciale. Nel settimo punto l’attenzione si concentra sui cosiddetti “espacios públicos privatizados” (Ivi: pag. 3). Così come il mercato cristallizza il fluire dei desideri in cose che poi diventano pro-

dotti, allo stesso modo si preoccupa di fare in modo che la necessità di condividere esperienze e di sentirsi parte di una qualche comunità sia codificata e si svolga in questi nuovi luoghi, o piuttosto ‘non luoghi’, come centri commerciali, cinema multisala, ecc., che funzionano come spazi di aggregazione sociale, basati però unicamente sulla logica del consumo. Il risultato che vorrebbe ottenere un progetto come YOMANGO è liberare l’esperienza collettiva da queste cattedrali del consumo, creando gesti e modi che riescano a porsi in maniera contraddittoria nei confronti della routine e della prassi dell’agire passivo consumistico. YOMANGO, si ribadisce nell’ottavo punto, si incarica di rendere visibile, di organizzare e di coordinare una forma di resistenza sovversiva, già di per sé presente nel panorama globale. YOMANGO diventa un vero e proprio stile nel momento in cui accompagna chi vi aderisce in ogni momento della sua vita ed in ogni suo gesto; ciò che si tiene però ad evidenziare nel punto 9 è il carattere aperto di tale processo e l’elevato valore che si attribuisce alle pratiche creative soggettive presenti al suo interno. Lo stile YOMANGO, infatti, non è un qualcosa di codificato e definito, al contrario è un continuo evolversi ed adattarsi alle situazioni, che trae la propria linfa vitale e la propria carica sovversiva dalla ricchezza che scaturisce dalle differenze apportate, al livello pratico e teorico, dal confluire di personalità diverse e di interpretazioni

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diverse del messaggio iniziale e degli strumenti preposti alla sua concretizzazione. Infine il documento si conclude con uno slogan che ben sintetizza la filosofia del gruppo: “YOMANGO.¿Lo quieres?... Lo tienes” (Ibidem).

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L’operazione che compie il collettivo con la realizzazione di questa sorta di decalogo è riconducibile all’idea, e non si tratta certamente di una novità, dello stile inteso come un momento di trasformazione, “[…] come forma di Rifiuto, l’elevazione ad arte del crimine” (D. Hebdige, 1990: pag. 6). Tale caratterizzazione dello stile come un’area altamente conflittuale pone un fenomeno come YOMANGO in un rapporto di continuità con le sub-culture20 degli anni ’70, in particolar modo con l’esperienza del punk, con la quale risulta quasi spontaneo stabilire un paragone. Già a partire dalle fasi “Agencias”, come sottilinea Marcelo Expósito durante l’intervista, il collettivo funziona in maniera simile ad un gruppo punk, vivendo nella massima precarietà e generando “[…] un’au20 Con il termine sottocultura ci si vuole rifare a quella “forma di resistenza nella quale l’esperienza diretta delle obiezioni alla ideologia dominante viene rappresentata indirettamente nello stile” (D. Hebdige, 1983: pag. 147), che nasce e si sviluppa nell’Inghilterra degli anni ’70 tra i giovani della working class e che si concretizza nella loro costituzione in gruppi identificabili per l’espressione di un comune modo di fare e di vestire e la condivisione di un insieme di valori e di autodefinizioni (es. i punk, i mod, ecc.).

to-rappresentazione della gioventù irriverente attraverso, ad esempio, l’abbigliamento […]” (Interv. in app.) esprimendo, proprio come avevano fatto i punk qualche decennio prima in maniera spettacolare la propria carica sovversiva, stravolgendo le dinamiche del concerto: ognuno di questi momenti rappresenta una possibilità di cambiare le cose e un tentativo di fiaccare “[…] quella grossa e intransigente barriera che separa nel capitalismo l’arte e il sogno dalla realtà e dalla vita” (D. Hebdige, 1990: pag. 122). Ciò che fa YOMANGO è sviluppare un modo di vestire elegante ed in continua evoluzione tramite strumenti che sono effettivamente delle rappresentazioni sofisticate, ma non cristallizzate o definite una volta per tutte, ed esattamente come il punk si caratterizza per la filosofia del do it yourself, lasciando al soggetto che vi aderisce il ruolo attivo di produttore-consumatore. Anche in questo caso, quindi, lo stile diventa il linguaggio attraverso il quale si sfida, in modo indiretto, il sistema dominante caricandolo sempre più di significati, attraverso l’appropriazione di “oggetti umili” (una scatola di latta), che portati fuori dal contesto subordinato di provenienza (contenitore di biscotti), acquisiscono una serie di significati segreti (strumento atto a schermare il proprio interno dalle onde radio dei sistemi anti-taccheggio), che espri-

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mono una forma di resistenza all’ordine (il furto presso le grandi multinazionali come pratica sovversiva e quotidiana di boicottaggio del sistema vigente). Si tratta quindi di “[…] trasformazioni che vanno contro natura, interrompendo il processo di normalizzazione”21 (Ivi: pag. 19) sociale, che ripresentando e rappresentando, senza risolverle, le contraddizioni del reale tramite giochi ambigui e strategie di guerriglia semiologia e comunicativa, cercano di violare simbolicamente e praticamente l’ordine sociale, esprimendo contenuti proibiti e sovversivi (come la necessità di ribellarsi al sistema dei consumi e delle multinazionali) in modi proibiti, attraverso un mutamento e un ribaltamento dei codici esistenti e dominanti.

21 Si vuole intendere con per normalizzazione o naturalizzazione quel processo tramite il quale una serie di rapporti e sistemi particolari di organizzazione del mondo ci appaiono come universali ed eterni.

Creatività, innovazione e capitalismo Uno dei punti fondamentali nell’analisi dell’esperienza di “Las Agencias” è costituito dal rapporto che intercorre tra creatività ed innovazione, da una parte, ed economia e capitalismo, dall’altra. Seguendo il ragionamento portato avanti da Richard Florida ne L’ascesa della nuova classe creativa, risulta evidente l’importanza rivestita dalle pratiche innovative e creative nella storia dello sviluppo economico, in particolare di quello delle società occidentali: ad un’attenta riflessione emerge che i momenti più importanti e ricchi di cambiamento della nostra storia economica, come l’affermarsi dell’agricoltura organizzata, la comparsa dei moderni sistemi di commercio e specializzazione, l’ascesa del capitalismo industriale e l’era dell’organizzazione sono dei punti di svolta basati proprio sulla valorizzazione di questa singolare capacità umana di innovazione e creazione. Se, quindi, da un lato questa ha sempre costituito in un certo senso il motore dell’economia umana, dall’altro il suo ruolo all’interno del processo produttivo è cresciuto di importanza solo negli ultimi

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decenni del ‘9oo e solo da qualche tempo si può parlare di una ‘ascesa’ della classe creativa: oggi, infatti, in ogni settore del sistema produttivo il vantaggio competitivo di un’impresa su un’altra deriva dalla propria capacità di creare e di innovare. “Nell’economia di oggi la creatività è pervasiva e continua: ogni immaginabile prodotto, processo o attività viene costantemente revisionato, perfezionato e raccordato in vario modo” (R. Florida, 2003: pag. 24), tramite la coordinazione sinergica della creatività tecnologica ed economica con quella artistica e culturale. Con il capitalismo postfordista nasce quindi una classe che “[…] si distingue perché i suoi membri si dedicano ad attività la cui funzione è di creare forme nuove e significative” (Ivi pag.102), vale a dire dei soggetti che sono gli ideatori di nuove soluzioni facilmente riproducibili e riutilizzabili (stilisti, scienziati, docenti universitari, scrittori, ingegneri, ecc.) o svolgono il ruolo di ‘creativi di professione’, intendendo con questa espressione tutti coloro i quali (medici, avvocati, dirigenti, ecc.), disponendo di una formazione di livello alto, riescono a ricombinare in maniera innovativa le proprie conoscenze. Contemporaneamente, però, aumenta anche il tasso di creatività richiesto alla classe operaia o dei servizi, a differenza di quanto succedeva in epoca fordista. Oggi anche un lavoratore di basso profilo è in una qualche maniera obbligato ad apportare la propria soggettività e creatività: basti pensare ad

esempio ad un lavoratore di un qualsiasi call-center che si trova a dover convincere un cliente dell’opportunità di sottoscrivere un nuovo contratto telefonico o ad indurlo ad avere un po’ di pazienza per la risoluzione di un problema di connessione internet. Il capitalismo non si è limitato all’implementazione consapevole della creatività nel processo produttivo, ma ha operato la completa inclusione della personalità creativa all’interno del suo sistema allargando “ […] la sua sfera di azione per catturare il talento dei gruppi, fino a quel momento esclusi, degli eccentrici e degli anticonformisti” (Ivi: pag. 25). Tra gli innumerevoli esempi che si possono portare a sostegno di tale tesi, uno dei più pregnanti è quello del cosiddetto “procedimento di recupero” (D. Hebdige, 1990: pag. 104), che ha determinato la fine delle esperienze sottoculturali. Ciò che fa il mercato in questo caso è ricomporre l’ordine violato e integrare la sottocultura nel sistema come spettacolo divertente, e lo fa, sostiene Hebdige, attraverso un processo che si articola in “[…] due forme caratteristiche: 1) la trasformazione dei segni sottoculturali (abbigliamento, musica, ecc.) in oggetti di produzione di massa (cioè la forma di merce); 2) l’etichettamento e la ri-definizione del comportamento deviante da parte dei gruppi dominanti: polizia, media, magistratura

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(cioè la forma ideologica)” (Ibidem). Traducendo in merce quelle che in origine sono le innovazioni stilistiche significative delle sottoculture, si compie un processo di sfruttamento di un lavoro altamente creativo e innovativo, che comporta inevitabilmente la perdita della carica sovversiva e del senso stesso del progetto iniziale. Si tratta di un procedimento con un elevato grado di organizzazione, che si interessa in particolar modo al campo della moda in quanto costituisce un sistema che, dipendendo da numerosi aspetti di natura diversa (cultura, costume, linguaggio, mercato), opera nell’interazione tra mutamenti socio-economici e alterazioni dei comportamenti e degli stili di vita, producendo una “estetizzazione della vita quotidiana e l’assunzione di oggetti significanti, al di là del loro valore funzionale […]”(L. Ricci, in N. Barile, 2001: pag. 202). A partire dai primi anni novanta, in concomitanza con la crisi del branding, emerge anche una figura professionale specifica, il cool-hunter, letteralmente un cacciatore di tendenze spesso scelto tra gli stessi componenti di una sub-cultura “[…] per la sua appartenenza ad un sistema di codici, valori e attitudini, a un dato stile di vita, che il resto dell’azienda non potrebbe comprendere o analizzare” (N. Barile, 2004: pag. 117). Applicando quanto detto finora allo studio del

collettivo di Barcellona, emerge chiaramente come già nella fase “Agencias” sia presente un discreto grado di consapevolezza dell’importanza che le pratiche artistiche e creative rivestono nel sistema dei consumi. Partendo proprio dalla coscienza della funzione che queste ultime hanno nella logica del capitalismo post-fordista, il gruppo si impegna costantemente a realizzare nel proprio agire quotidiano un procedimento analogo, che questa volta si preoccupa però di coniugare, già a livello di obiettivi di partenza, arte, creatività e nuove tecnologie con l’attivismo politico e il modo di produrre significati del movimento globale. Con l’avvento di YOMANGO si va anche oltre, dimostrando di aver assorbito e attraversato l’esperienza sottoculturale. Ciò che si può leggere, da questo punto di vista, in un progetto come YOMANGO, è un tentativo di reazione al fenomeno del cool-hunting ed in generale al processo di riappropriazione da parte del mercato degli stili di vita creati da giovani anticonformisti. Partendo dalla convinzione che malgrado l’industria si appropri, ad esempio, dell’hip-hop o del rap, provocandone un’inevitabile ricontestualizzazione e desemantizzazione, esiste “[…] una possibilità di ricezione del soggetto che può essere sempre sovversiva” (Interv. in app.), il gruppo crea uno stile difficilmente imitabile per due fondamentali ragio-

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ni: in primo luogo perché si tratta di un processo aperto, in continua evoluzione, che lascia a chi decide di aderirvi un ampio margine di libertà di sperimentazione ed innovazione, che porta alla creazione di tanti stili YOMANGO originali e diversi per quante sono le personalità che li utilizzano. In secondo luogo, il collettivo non produce oggetti che cristallizzandosi possono diventare merce in vendita, ciò che realmente crea YOMANGO sono i procedimenti; pensando al bolso danés, non sarebbe per nulla improbabile immaginare una borsa dal design simile in vendita insieme ad altri accessori all’ultima moda, ma un’operazione del genere non comporterebbe in realtà nessuna perdita di senso, perché la sua importanza ed il suo significato non risiedono nell’oggetto in sé, ma nel suo essere uno strumento atto a indagare la realtà con un alto potenziale sovversivo.

Consumo e realtà quotidiana

Un altro concetto fondamentale ai fini dell’interpretazione della costituzione di “Las Agencias”, e della sua trasformazione in YOMANGO, è quello di consumo e di come questo definisce costantemente la vita di ogni giorno. Per ben comprendere la concezione teorica di consumo che sta alla base dell’agire del collettivo ci si può rifare alla definizione proposta da Jean Baudrillard, che lo caratterizza come “[…] la potenziale totalità di ogni oggetto e messaggio costituito in linguaggio più o meno coerente fin da ora. Il consumo, se mai ha un senso, è un’attività di manipolazione sistematica dei segni” (J. Baudrillard, 2004: pag. 250): un oggetto, per essere consumato, deve necessariamente diventare prima un segno, deve cioè iscriversi in un rapporto astratto ed allo stesso tempo sistematico, coerente e pregno di senso con gli altri oggetti. L’intellettuale francese continua il suo discorso sostenendo che, proprio in conseguenza di tale

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conversione dell’oggetto in una condizione sistematica di segno, si verifica una serie di cambiamenti nel rapporto umano che fanno sì che quest’ultimo diventi relazione di consumo, nel senso che esso si realizza e si annulla nell’oggetto e grazie all’oggetto. “Si nota dunque che ciò che viene consumato non è l’oggetto, ma piuttosto il rapporto stesso […], l’idea di rapporto si consuma nella serie di oggetti che rimandano ad essa” (Ivi: pag. 251).

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Passando dal livello di formulazione teorica a quello della pratica, è interessante analizzare come il consumo si caratterizzi rispetto alla produzione e come si sviluppi nella prassi della vita quotidiana. Il rapporto tra queste due fasi del ciclo economico può essere visto nei termini della categoria di finish, vale a dire ponendo l’accento sul momento del consumo “in quanto conferisce significato alla produzione come ultimo anello della catena del valore capace di conferire significato a tutto il processo. In secondo luogo, il consumo è il momento che, individualizzando la produzione, conferisce ad essa un aspetto umano e creativo” (N. Barile, 2004: pag. 63). Tale considerazione implica una visione dell’atto di consumare come un’azione che, situandosi al di fuori della sfera economica, non può che caratterizzarsi come eminentemente culturale e come pratica significante, capace di

dare senso all’intero processo produttivo. Una connotazione così direttamente sociale, culturale e comunicativa del consumo comporta quella riformulazione della vita quotidiana in sua funzione che costituisce il punto di partenza e di opposizione di YOMANGO alla società contemporanea. Il collettivo si dimostra, nell’articolare un progetto di questo genere, consapevole del fatto che le pratiche di consumo sono diventate in un certo senso totalizzanti, fattore preponderante di socializzazione metropolitana e surrogato delle relazioni interpersonali. Già Guy Debord nel 1967 nella sua Società dello Spettacolo, fa notare come la merce sia divenuta ormai l’occupazione totale della vita sociale e come lo spazio sociale stesso sembri “[…] una sovrapposizione continua di strati geologici di merci”; il tendenziale abbassamento nel sistema capitalistico del valore d’uso della merce, che risolve solo apparentemente la questione della sopravvivenza, limitandosi nella realtà a spostarla ad un livello sempre superiore, fa sì che il consumatore moderno non sia altro che un consumatore di illusioni, che acquista un oggetto non per consumarlo, ma a causa della sua carica simbolica (Cfr. G. Debord, 2004). Basti pensare ad esempio alle grandi marche: esse cercano di agire nel vuoto relazionale che si crea nel momento in cui l’acquirente è lasciato solo, senza il supporto

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del venditore-amico del piccolo negozio sotto casa, nella scelta del prodotto, istituendo un tipo di fiducia astratto e impersonale con il consumatore, proponendosi ai suoi occhi come una sorta di garante (Cfr. N. Barile, 2004: pagg. 86-87). Il consumo contemporaneo, compiendo insieme con la marca un’operazione di sintesi di vari fattori, quali società, vita aziendale, tecnologia, comunità, luoghi comuni, ecc., non si caratterizza più per il suo valore distintivo, ma per quello esperienzale, poiché ciò che il cliente in realtà ricerca non è tanto un oggetto che funga da status symbol, quanto piuttosto uno stile di vita, un modo di fare, con il quale intrattenere un rapporto di tipo cognitivo ed affettivo. Ad un’invasione così pervasiva di tale modello nella realtà quotidiana, la società civile risponde proponendo molteplici strategie di resistenza che orientano l’azione dei principali movimenti anticonsumistici secondo quattro tipologie diverse: il consumismo ironico, che consiste in un vero e proprio atteggiamento di distacco; il boicottaggio, tramite l’esercizio del potere di scelta e di rifiuto da parte dei consumatori; il thrift style, cioè l’adozione di un stile austero e ispirato alla parsimonia; il culture jamming, letteralmente interferenza culturale, che agisce riappropriandosi degli spazi sociali occupati dalla pubblicità, ribaltandone i messag-

gi emessi. A ciò va aggiunta una quinta strategia che consiste nella necessità vitale per i soggetti di appropriarsi e condividere spazi in cui potersi esprimere (Cfr. V. Codeluppi, in N. Barile, 2004: pag. 9). L’esperienza di YOMANGO può quindi essere intesa come un possibile risultato dell’articolazione di questi due ultimi modi di procedere, un’esperienza nella quale risulta evidente la lezione situazionista proprio nella sua proposta di ribaltare il senso che risiede nelle immagini e nelle merci-oggetti prodotte dalla cultura dominante in chiave sovversiva. Si tratta, ed è esattamente ciò che si propone anche YOMANGO, di cercare di operare nella e sulla realtà partendo da desideri, condivisi e diffusi in diversa maniera, con l’obiettivo di arrivare a costituire un campo di attività che sia temporaneamente funzionale alla proliferazione di tali desideri. Il recupero effettuato da un progetto come YOMANGO del Situazionismo si esplicita in una maniera d’agire che propone il furto come una sorta di espropriazione e riappropriazione dei mezzi produttivi dell’economia postfordista, che agisce impossessandosi della logica del consumo e modificandone il relativo linguaggio, quello pubblicitario, curvandolo su stesso, giocando sulle ambiguità, deformandone i contenuti, ma mantenendone intatta l’efficacia e la portata comunicativa. Il gruppo cerca di attuare tale processo nella pratica, impegnandosi nella costruzione di nuovi ambienti sociali, contemporanea-

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mente identificabili come prodotto e come strumento di nuovi comportamenti, di nuovi modi di fare, che nel loro ripetersi e susseguirsi riescano a sconvolgere lo scenario attuale, aprendo la possibilitĂ della creazione di nuovi mondi.

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Conclusioni

Alla luce di quanto affermato fino ad ora, risulta evidente come “Las Agencias” e YOMANGO rientrino perfettamente nel discorso sui meccanismi di formazione di identità collettive nella società in rete. Innanzitutto si tratta di due esperienze che si iscrivono nel contesto dei movimenti sociali, in quanto sono forme di agire collettivo che, perseguendo un obiettivo specifico, cercano di operare una trasformazione di valori ed istituzioni sociali tramite la formazione di identità che si oppongono alla globalizzazione finanziaria, partendo dalla modifica del proprio ambiente e della propria realtà quotidiana. Si può quindi parlare, seguendo l’analisi di Manuel Castells, del collettivo catalano come di un movimento “proattivo”, che, in quanto tale, mira alla trasformazione delle relazioni umane ad un livello profondo e che produce un’identità di tipo progettuale, che “si ha quando gli attori sociali, quali che siano i materiali culturali a loro disposizione, costruiscono una nuova

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identità che ridefinisce la loro posizione nella società e, così facendo, cercano di trasformare la struttura sociale nel suo complesso”(M. Castells, 2004: pag. 8). Abbiamo a che fare, in questo caso, con un meccanismo che produce soggetti, intendendo con tale espressione un “attore sociale collettivo tramite il quale gli individui conferiscono un senso generale alla loro esperienza singolare” (Ivi: pag. 10), che sfruttano la globalizzazione e l’informazionalizzazione della società ed operano grazie all’accrescimento delle capacità produttive, della creatività culturale e del potenziale comunicativo realizzatosi nella diffusione capillare dei nuovi media. 124

Si può quindi sostenere che l’esperienza di “Las Agencias” e di YOMANGO sia definibile attraverso l’interrelazione delle categorie di movimento urbano e società in rete, che dà impulso alla costituzione di processi di mobilitazione sociale, i quali, partendo da rivendicazioni relative allo stile di vita ed alla sfera dei consumi, si sviluppano su un territorio urbano secondo forme e strutture che, tramite la creazione di flussi d’informazione opposti rispetto a quelli prodotti dai processi di dominio, si organizzano, secondo il modello della rete delle reti, in maniera orizzontale e non gerarchica in un contesto che è allo stesso tempo globale e locale (Cfr. M. Castells, op. cit.).

Il processo di costituzione di identità raggiunge la piena maturazione con la creazione di YOMANGO. Infatti, come emerge anche dall’intervista, nella prima fase di “Agencias” è molto difficile rintracciare dei parametri che possano definire l’identità del gruppo, a causa dell’elevato tasso di eterogeneità delle soggettività che vi prendono parte e della contemporanea volontà degli agenti di dare vita ad un’entità che si caratterizzi proprio come un processo aperto e in costante mutazione: risulta quindi praticamente impossibile anche solo stilare un’ipotetica lista dei membri che la compongono. È in concomitanza con il G8 di Genova e con la contestuale presentazione del PRÊT-À-REVOLTER, e poi con NKBB, che il gruppo si stabilizza intorno ad un nucleo duro, composto da circa una quindicina di persone, che ne costituisce la fonte d’identità primaria, produttrice di un senso che, sopravvivendo in maniera quasi autonoma nel tempo e nello spazio, riesce a determinare il contenuto simbolico di tale esperienza e ad orientarne l’azione. Sebbene in questo secondo momento il collettivo individui ed inizi ad organizzare la propria attività intorno ad alcuni attributi culturali che assumono un’importanza prioritaria rispetto ad altre fonti di significato, non si può ancora affermare che il processo di costituzione di una vera e

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propria identità sia completo. “Las Agencias”, infatti, definendosi “[…] tanto un experimento político de trabajo artístico colaborativo, como un experimento artístico de trabajo político colaborativo”22 (Las Agencias, 2002), ammettono già autonomamente di trovarsi in una fase di ricerca. L’opposizione alla globalizzazione delle multinazionali, l’importanza attribuita alle pratiche artistiche e creative sia nel sistema dei consumi che nei progetti che cercano di reagire ad esso, il biopotere, l’osservazione e l’azione nella realtà quotidiana, l’antagonismo biopolitico, l’Impero e la Moltitudine, la guerriglia comunicativa, ecc. rappresentano ancora dei campi di indagine, degli strumenti tramite i quali, riuscendo a coordinare arte e creatività con l’attivismo politico, si cerca di realizzare un progetto identitario forte, però allo stesso tempo flessibile nelle sue strutture, fonte continua e costante di senso. È solo con YOMANGO, quindi, che tale ricerca giunge ad un risultato e soprattutto si organizza e si sistematizza, rendendosi visibile in uno stile di vita quotidiano che, producendo soggettività e comportamenti, tenta di modificare la realtà sociale che vive tramite la creazione di una coscienza del possibile, proprio a partire dall’attenta analisi sperimentale di “Agencias”. Sintomo evidente della maturazione 22 […] sia come un esperimento politico di lavoro artistico collaborativo, che come un esperimento artistico di lavoro politico collaborativo. (Trad. mia)

del gruppo e della sua costituzione come un’agenzia di identificazione è la crescente attenzione che si presta al campo della moda. Si tratta infatti del territorio privilegiato del gioco della costruzione e dello smantellamento di diverse identità, oltre a costituire anche lo strumento di mediazione apparente tra identità collettiva e individuale (Cfr. L. Ricci, in N. Barile, 2001). Seguire una tendenza piuttosto che un’altra, essere alla moda: sono procedimenti tramite i quali il soggetto veste e sveste una serie di significati che si riassumono negli elementi espressivi e formalizzanti di uno stile, il quale diventa il veicolo di identità di un dato gruppo o sottogruppo sociale, espressione visibile della condivisione di un modo di fare comune. Un fenomeno come quello appena analizzato si iscrive nell’interazione locale-globale nella forma che è detta “localizzazione globalizzante”, intesa come il frutto di un’apertura del locale al globale, come “un tipo di localizzazione che è già predisposta geneticamente ad avere un ruolo decisivo nel panorama globale” (N. Barile, 2004: pag. 159). Sebbene l’esperienza qui analizzata conservi intatta la sua originalità e specificità, sia nel suo approccio teorico-analitico alla realtà che nelle soluzioni cui giunge nell’azione pratica e quotidiana, si vuole qui far notare come non si tratti di un esperimento isolato o atipico, ma piuttosto di un

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tipo di pratica ‘associativa’ giovanile sempre più presente nel panorama del movimento globale. Si assiste da un po’ di tempo a questa parte, grazie alle possibilità offerte dai nuovi media sia a livello comunicativo che organizzativo, al proliferare di culture giovanili che esprimono la loro opposizione al sistema dei consumi e alla sua invasione della vita quotidiana, proprio tramite la coordinazione di creatività ed attivismo. Ci si vuole in particolare riferire a tutti quei gruppi, come “Adbusters”, “Casseurs de Pub”, “Reclaim the Streets”, “Carbusters”, ecc., costituiti nelle forme associative più diverse, che operano processi di identificazione seguendo la stessa logica che usa il mercato ed utilizzandone il medesimo linguaggio. Si tratta delle pratiche ipercreative del culture jamming, vale a dire di pratiche che creano, tramite l’applicazione di tecniche diverse, quali subvertising, sniping, no-shopping day 23 , ecc., a partire da qualcosa che già di per sé deriva da un lavoro creativo, ricontestualizzandolo e caricandolo di nuovi significati sovversivi. 23 Per subvertising si intende la produzione e diffusione di messaggi dai contenuti antipubblicitari, che ne mantengono però la forma e lo stile comunicativo. Con il termine sniping ci si riferisce a tutte quelle azioni che hanno l’obiettivo di riformulare l’immagine degli spazi pubblici. Il no-shopping day, come l’espressione lascia trasparire, consiste nell’organizzazione di una giornata senza acquisti.


Appendice

Intervista a Marcelo Expósito Marcelo Expósito, occasionale portavoce di “Las Agencias” e di YOMANGO, nasce a Puertollano, Ciudad Real, nel 1966. Dopo aver intrapreso gli studi di scienze dell’informazione, si dedica al lavoro artistico nei campi della musica sperimentale, fotografia, video e letteratura, cercando di articolare forme interdisciplinari con l’interazione con gruppi sociali; partecipa fin dall’inizio al progetto. Qui si riportano i punti salienti di un’intervista durata oltre un’ora e mezza, realizzata a Barcellona il 31 maggio 2005.

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SM: Fate parte di una rete organizzata di livello nazionale e/o internazionale?

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ME: Nel primo periodo indiscutibilmente. Poi a partire dal 2002 si crea un rapporto più stretto con “Chainworkers”; in realtà la composizione del gruppo è molto eterogenea. Ad esempio, si è verificata una certa espansione di YOMANGO in America Latina, perché ci sono state tre persone argentine che hanno lavorato con “Agencias” per un periodo di due mesi e che successivamente hanno diffuso YOMANGO in Argentina. YOMANGO Cile invece nasce spontaneamente. In ogni caso, c’è da dire che il grado di comunicazione all’interno del movimento globale è elevatissimo: nel momento in cui Oriana, una ragazza argentina di “Agencias”, arrivò in un centro sociale di Buenos Aires con il materiale informativo, scoprì che avevano già il video di NKBB e non si sapeva come l’avessero ottenuto… - SM: Intrattenete rapporti con altre organizzazioni affini? ME: La rete con la quale si lavora durante il taller de “L’acción directa”, che è più o meno l’ambito relazionale di “Agencias” nel periodo

della campagna contro la Banca Mondiale, è costituita da alcune persone del gruppo “Reclaim the Streets” di Londra, di “Ne Pas Plier” in Francia, dell’ “a.f.r.i.k.a. gruppe” in Germania, “RtMark” negli Stati Uniti, e poi gruppi, collettivi e movimenti molto legati al movimento globale. - SM: Leggo nel vostro sito che “lavorate costruendo posizioni di antagonismo biopolitico”. Che cosa intendete per antagonismo biopolitico, e quindi per biopolitica? ME: “Agencias” non è un gruppo che ha prodotto realmente testi e teorie. Credo che soprattutto il primo periodo sia stato ‘alluvionale’… qualcuno all’improvviso creava un progetto grafico e lo si incorporava e trasformava, un altro scriveva qualche testo e si faceva lo stesso. È stato un momento promiscuo, molto delegativo e collaborativo […]. Successivamente nel secondo periodo, non c’è stata più partecipazione collettiva, tuttavia i testi elaborati sono stati discussi, per lo meno la gente se ne è interessata di più…se c’era un testo che circolava per una campagna o che apparteneva nominalmente al gruppo, la gente lo leggeva ed esprimeva la sua opinione, cosa che nel periodo precedente non succedeva.

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L’utilizzazione del concetto di biopolitica in “Agencias” è uno degli aspetti che sono stati trattati con più leggerezza […]. I concetti teorici sono stati in fondo molto poco sofisticati. È stata molto più sofisticata la pratica […]. Il primo progetto in cui “Agencias” ha utilizzato la produzione scritta in una maniera un po’ più raffinata è NKBB e, chiaramente, YOMANGO. YOMANGO genera testi, ma con un certo tono: anche se sono scritti da persone diverse, hanno uno stile e un contenuto riconoscibile.

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Rispetto al concetto di biopolitica, io credo che “Agencias” si caratterizzi per il suo funzionamento in una dimensione biopolitica molto chiara, anche se non se ne è discusso realmente. […] Senza dubbio, “Agencias” non è solo un gruppo di azione politica, è anche uno spazio di interscambio e produzione affettiva. È stato sempre così, per questo le discussioni e i litigi che possono avvenire al suo interno sono giganteschi, perché è come se stessi litigando con il tuo fidanzato, o qualcosa del genere. Quindi, è stato letteralmente uno spazio di produzione biopolitica per i due anni ed io mi identifico molto in questo discorso, anche se non è chiaro nella testa delle persone. Ciò che invece la gente ha in mente è il riconoscersi in questa idea che il bios e la soggettività sono prodotti simultaneamente dal potere e dalla resistenza. E

questo nella pratica è stato chiarissimo in tutto il percorso ed è stato portato all’estremo, perché le implicazioni della politica nella vita erano elevatissime. Però non come nella vecchia militanza, nella quale la tua vita dipendeva dalla militanza, ma perché si trattava veramente di una costruzione permanente del gruppo e della condizione soggettiva di ognuno […] perché in principio non si può soffrire facendo politica, non si può sottomettere la propria vita ad un processo politico stabilito a tavolino. E questa è la dimensione biopolitica di “Agencias”, non la subordinazione della vita e della soggettività all’azione politica, ma la produzione della politica come funzione della vita. - SM: Secondo voi come si potrebbe definire oggi il potere? Siete d’accordo con l’analisi di Foucault da cui deriva il concetto di biopotere? ME: Ancora una volta credo che “Agencias” non abbia sviluppato nessuna definizione o pensiero su che cosa è il potere, tuttavia nella pratica è risultato sempre molto chiaro per il gruppo che il potere è un territorio frammentato. A differenza di altri settori politici, non abbiamo mai pensato al potere come a una specie di castello, dal quale bisogna restare fuori o di cui si deve avere paura, ma abbiamo invece sempre saputo che i terreni su

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sui si giocano le azioni di potere sono porosi, penetrabili. E il concetto di guerriglia comunicativa è chiaro in questo senso. Si può entrare nel territorio del potere e, sempre all’interno di un contesto contraddittorio, si può operare in modo sovversivo. Non si può pensare alla sovversione se non si pensa che si ha a che fare con qualcosa di sovvertibile dall’interno. Non abbiamo mai pensato l’autonomia come lo stare extra-muros o fuori dalle cose, ma al contrario come l’essere attraversati dalle cose, come gruppo tra le istituzioni, i movimenti, ecc. Credo che tutto ciò sia sempre stato chiaro nel funzionamento di “Agencias”, anche se non è mai stato teorizzato. […] Lo stesso discorso vale per i mezzi di comunicazione, il punto è che se non si parte dalla convinzione che il potere e le sue strutture sono porose non si lavora in modo sovversivo con i media o non è possibile agire con il grado di ambiguità con cui opera, ad esempio, la guerriglia comunicativa. […] Ci siamo sempre trovati a nostro agio in discorsi molto ambivalenti, sinuosi, sovversivi, molto guerriglieri in un certo senso. Posizioni sempre fluttuanti, che utilizzano molto del codice del nemico, sovvertendolo. Da questo punto di vista, credo si tratti di una concezione di potere molto flessibile, molto foucaultiana. - SM: Sempre nel sito emerge un esplicito

riferimento alle teorie sull’impero e la moltitudine di Negri e Hardt. Perché avete scelto questi riferimenti? ME: è stato tutto fatto con un po’ di leggerezza. Semplificando molto, credo che nel gruppo ci sia gente che è molto pro-Negri e gente che è molto anti-Negri, e non è un problema. Impero è apparso un po’ così, ovvero c’era gente che aveva una serie di connessioni con la teoria operaia e post-operaia. È stato un referente contraddittorio per il gruppo e i concetti che sono più identificabili con questo testo sono stati utilizzati in modo molto leggero e congiunturale. - SM: Cosa rende politica l’azione della moltitudine? ME: Malgrado il concetto di moltitudine abbia sempre sollevato un serie di problemi in “Agencias”, resta il fatto che il tipo di azioni politiche in cui ha funzionato bene sono azioni politiche moltitudinarie. Sono sempre stato dell’idea che “Las Agencias” sono fondamentalmente la prima fase di vita del gruppo, dopo c’è YOMANGO. “Agencias”, lasciando YOMANGO a parte, è il prodotto diretto del ciclo dei contro-vertici, di

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quel periodo del movimento globale, infatti funziona con una chiara mentalità da contro-vertice. Mi spiego: si tratta di progetti che vengono sviluppati in un periodo di tempo molto breve, ad alta intensità, con obiettivi precisi, con strumenti e processi sofisticati, molto promiscui, molto moltitudinari, aperti, ibridi e dopo…boom, distacco e si passa ad un’altra cosa, lasciando residui, processi aperti e stando sempre attenti a quello che si crea…in questo senso è sempre stato un discorso moltitudinario e caratteristico di questo periodo dei contro-vertici, mentre YOMANGO non è esattamente un progetto moltitudinario, è un progetto di proliferazione. 138

-SM: In che modo pensate sia possibile superare il problema posto dai due autori in relazione all’incomunicabilità delle lotte condotte dalla moltitudine? ME: YOMANGO è una risposta a questo problema. Ciò che si chiede YOMANGO è come realizzare un progetto sostenibile nel tempo, che abbia sì questi momenti di eruzione molto intensi, che però tali momenti nascano da una specie di fuoco sotterraneo. YOMANGO è un progetto di disobbedienza sociale nel senso che è un progetto di incorporazione della disobbedienza, del gesto

disobbediente quasi codificato in una specie di teoria della sopravvivenza nella precarietà sociale. Cos’è quindi YOMANGO? Le sue azioni sono momenti di forte eruzione, che rimangono impressi negli occhi della gente, sono momenti che hanno una grande risonanza. Tuttavia sono momenti di impatto di una corrente che deve essere permanente, che è un’estensione della disobbedienza come strumento di sopravvivenza nella precarietà metropolitana. Questo è ciò che si propone YOMANGO. Si tratta di una risposta a quelle intensità discontinue della politica moltitudinaria, la cui idea di base è che YOMANGO sia permanente, quotidiano e allo stesso tempo ricco di momenti di concentrazione intensivi. YOMANGO non può concretizzarsi soltanto in azioni, ma neanche può ridursi a rubare nel supermercato per mangiare! Deve essere tutte e due. Deve fare in modo che questi gesti più invisibili, più quotidiani di sopravvivenza nella precarietà comunichino tra di loro, si rendano manifesti, contagino, proliferino, confluiscano con altri tramite azioni visibili. […] - SM: Che funzione hanno le pratiche artistiche e creative nel sistema dei consumi? Quale ruolo hanno invece nel vostro progetto? ME: La creatività è l’alimento della macchi-

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na di produzione e consumo capitalista. Il post-fordismo si basa nell’innovazione, in un recupero estremo di tale concetto. Considera che quello che si richiedeva un tempo per lavorare in fabbrica era di essere una specie di soggetto passivo e che tutto quello che aveva a che vedere con la condizione del soggetto si lasciasse all’entrata. Ciò che esige il post-fordismo a tutti i suoi livelli è: innovazione, creatività e coinvolgimento della soggettività, sia che si lavori come creativo pubblicitario o che si vendano enciclopedie. […] A tutti i livelli quello che si richiede è un grado estremo di implicazione del soggetto. Ciò che succede è che all’interno di questi gradi di implicazione, di questo sfruttamento intensivo della soggettività, ci sono forme che sono più socialmente valorizzate, con un plus di capitale simbolico, ed altre che sono denigrate […] tuttavia il fattore comune che le attraversa tutte è lo sfruttamento intensivo della soggettività per la produzione, la riproduzione e il consumo. Ciò che dice YOMANGO è, ironicamente, con un gesto di guerriglia comunicativa: lavoriamo per la libera circolazione, che deve essere tanto libera che neanche il denaro la può impedire. Libera circolazione? Perfetto. Libero mercato? Nessun problema. Però che circoli tutto, che circolino le cose. Quando si compra un oggetto oggi non lo si fa per il suo valore reale, ma per quel più di status che ne deriva, per il suo valore simbolico. È questo che congela la creatività ed il desiderio nel commercio. Gli

oggetti congelano il desiderio ed il denaro è la contropartita per ottenere ciò che si desidera, o che il mercato fa desiderare. […] L’ironia di YOMANGO fa sì che le cose circolino fino al punto che è possibile rubare qualcosa in un negozio e lasciarlo poi in un altro. YOMANGO ruba per regalare agli amici e non solo…non è rubare per mangiare, o per meglio dire è anche quello, però è anche la gratificazione che deriva dal far circolare merci interrompendo il flusso del commercio, come un regalo, un dono. Rubiamo per cenare insieme. Perché ceniamo insieme? Per mangiare, per alimentarci certamente, ma soprattutto come celebrazione, quindi rubiamo per fare una celebrazione collettiva. Non rubiamo solo per vestirci e coprirci, ma perché riconosciamo che nelle sotto-culture urbane gli stili di vita sono individuati dall’abbigliamento, dai segni esterni. Indiscutibilmente cerchiamo di generare una soggettività attraverso segni di identificazione, come ci si veste, si parla, ci si comporta. - SM: Può essere attribuita una valenza positiva al consumo? ME: Non al consumo in sé. Però ciò che YOMANGO non condivide è la visione canonica di sinistra per la quale non si può consumare, non

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si può comprare niente, non si possono desiderare le cose…è un’autentica agonia! Noi non condividiamo affatto questa idea quasi di fondamentalismo religioso, di ascetismo di sinistra. È molto chiaro per noi il fatto che apparteniamo ad una generazione che costruisce soggettività in una maniera creativa e che le costruisce attraverso il modo in cui vive, in cui si relaziona, attraverso il suo abbigliamento, la sessualità, il cibo, la musica, e che tutto funziona in un modo che permette al mercato di appropriarsene…quello che dobbiamo fare è liberare tutto questo dal processo del consumo, attaccandolo, ma non dall’esterno, dall’interno, perché altrimenti automaticamente il consumo diventa una macchina che continua ad assorbire, mettendo in funzione lo sfruttamento intensivo della soggettività. Bisogna stare all’interno di questa macchina sovvertendola costantemente. Tuttavia il consumo in quanto tale non ha un valore positivo. Ciò che non si può comunque negare è che la produzione, la circolazione, l’uso di oggetti, abiti, forme di vita e stili non è che non abbia un valore positivo, costituisce l’ambiente, il sistema ecologico in cui ci muoviamo, ed è necessario renderlo davvero ecologico. Il consumo non ha quindi un valore positivo, ma la circolazione di queste cose sì. E siamo radicalmente in contrasto con la sinistra su questo punto. Quest’ultima

approva YOMANGO per quanto riguarda ciò che è necessario per sfamarsi. No, mi dispiace, per me YOMANGO inizia a partire da qui, anche se può sembrare un po’ radicale…ed è necessario che ci sia un meccanismo costante di appropriazione e riappropriazione, tu assumi l’appropriazione del sistema che assorbe costantemente quello che tu crei, insieme ad un meccanismo di espropriazione permanente. È questo YOMANGO, in realtà. - SM: Come si configurano i rapporti di potere esistenti tra società, consumi e media? ME: Quello che ti posso dire è che YOMANGO con condivide in assoluto la visione della società come un campo controllato dal potere e dai mezzi di comunicazione. La ricezione dei discorsi del potere e dell’influenza dei media è sempre contraddittoria proprio a causa della struttura stessa del potere. Voglio dire che la gente attraverso media, potere e consumo, in modo molto contraddittorio, sovverte, incorpora, rifiuta, devia, modifica quelli che indiscutibilmente sono discorsi fatti per imporsi. Non è che cerchino di imporsi dall’esterno, ma attraversano il soggetto per configurarlo, però in questo procedimento il ruolo che il soggetto può giocare è molto complesso. Ciò permette all’individuo di riconvertire tali discorsi.

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[…] Esiste senza dubbio una struttura di potere, un suo funzionamento che si sviluppa con i mezzi di comunicazione, non si può negare, ciò che è più discutibile è il fatto che la gente stia in casa ipnotizzata dalla televisione. Non è sempre così, perché esistono ad esempio ragazzi nei quartieri che generano proprie forme di vita. Sono influenzati dai mezzi di comunicazione? Sì. Sono controllati dal potere? Sì, in qualche modo. Contemporaneamente però stanno generando un ambiente di vita proprio, una forma di vita propria e un modo di fare proprio.

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Ciò su cui bisogna indagare è come tutto ciò si può articolare politicamente in una forma antagonista non di tipo classico. È comprovato che tale processo creativo può diventare direttamente carne per il sistema del consumo che si riappropria di te, ti trasforma, ti converte in moda e stili e ti codifica, ma in ogni caso c’è qualcosa di latente nella creatività delle gente che è potente. Le persone non sono sempre manipolate, totalmente controllate, perché, per iniziare, la biopolitica non immagina il potere come un qualcosa di interno all’individuo. Ciò non si sposa con la teoria del riflesso: il potere dice qualcosa e la gente risponde, o i mezzi di comunicazione colonizzano la testa delle persone e basta. Per esempio, pensa alla presentazione di YOMANGO […]. La gente del gruppo di azione

non rubò niente, prese solo un abito molto economico, in saldo, per esporlo in un centro culturale. Non abbiamo compiuto un saccheggio, ma è vero che la gente saccheggiò il negozio, rubò massicciamente, la gente, però, non noi. Quello che voglio dire con questo è che quando si creano certe condizioni moltitudinarie, la risposta del soggetto è imprevedibile. È questa la moltitudine, ed effettivamente è successo che un’azione che iniziammo in 50 sia diventata una sfilata per i centri commerciali di 100 e più persone; le 150 che vi si aggiunsero non sapevano che cosa stesse succedendo, non ne avevano nessuna idea e senza dubbio videro che i negozi chiudevano, che le guardie di sicurezza erano nervose, che la gente rubava e decisero di prendervi parte. Perché in fondo a nessuno piace dover pagare, nessuno simpatizza per le multinazionali o gradisce la presenza delle guardie di sicurezza. Se si generano le condizioni adeguate, se si crea la situazione è impossibile prevedere come il soggetto si riappropria di tali meccanismi. - SM: Come vi collocate rispetto al fenomeno delle sottoculture? Riscontrate una qualche continuità tra le pratiche di creazione di modi di vita incentrate sullo stile, tipiche delle esperienze sottoculturali, e il vostro modo di agire?

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ME: Il concetto di sottocultura è stato maneggiato in “Agencias” in maniera indiretta: ad esempio è molto chiara nel gruppo l’influenza di fenomeni come il punk. In realtà “Agencias” è come una specie di gruppo rock nel suo funzionamento. Non come un gruppo rock di stelle, ma come un vero gruppo punk. È stato sempre l’impossibile, l’estrema precarietà…le presentazioni di “Agencias” non sono conferenze, sono spettacoli. Letteralmente spettacoli, sono state preparate in questa maniera. Ed è molto chiaro per esempio in NKBB e in YOMANGO. Negli anni ’70 fu necessario generare un’auto-rappresentazione della gioventù irriverente attraverso l’abbigliamento e lo stile; quello che YOMANGO fa è sviluppare un vestirsi elegante, strumenti ed altro sono rappresentazioni eleganti e sofisticate, però è una specie di stile elegante do it yourself. […] - SM: Pensate che sia possibile definire lo stile come pratica di libertà e momento di trasformazione? ME: Credo che sia sempre stato chiarissimo in “Agencias”, ancor prima di YOMANGO.

- SM: Però lo stile non dipende anche dai consumi? ME: Sì, come ti dicevo prima…la relazione dialettica che c’è tra il tipo di ambiente di vita in cui si è immersi e, partendo da questo, quello che si vuole sviluppare. Si tratta di una relazione che è sempre molto organica, l’innovazione sotto-culturale e la trasformazione dell’innovazione sottoculturale in consumi di massa sono in un rapporto di simbiosi evidente. Credo a partire dagli anni ’50, da che si scopre la gioventù come un settore sociale. Il rock and roll non lo inventa l’industria, ma è senza dubbio quest’ultima a riprodurlo. E qui si trova l’origine di tutto. Però “Agencias” e YOMANGO non hanno mai avuto una visione agonica di questo, nel senso che se il mercato si appropria di quello che si crea, ce ne si può sempre riappropriare nuovamente. In questa specie di moltiplicazione c’è anche quella del germe sovversivo, perché ciò di cui si riappropria il consumo non è riprodotto in modo totalmente disattivato, ed il capitalismo lo sa. Quando il mercato vende alla gioventù uno stile di vita irriverente, sa che è un modo di canalizzare potenziali sovversioni o disconformità del soggetto, però sa anche che sta giocando su un filo molto delicato. E questo è NKBB: un gioco sul filo della provocazione […] e chiaramente nello stesso tempo si verifica una

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riappropriazione del linguaggio partecipativo e democratizzatore del movimento da parte delle istituzioni. Qui a Barcellona il governo si riempie la bocca con il concetto di partecipazione, con il fatto che la gente partecipi ai giochi olimpici, alla costruzione della città, ecc. finché non è giunto un momento in cui a furia di sentire parlare di partecipazione le persone hanno deciso di partecipare seriamente e si scopre che ci sono due milioni di persone nel movimento contro la guerra e la città paralizzata. […] Quello che succede è che la gente non ha sentito gli attivisti parlare di partecipazione, ma il governo stesso. Ed il governo perché lo dice? Perché lo diciamo noi attivisti. Repentinamente si ha un effetto moltiplicato per strade che non si speravano. È interessante come processo politico, è difficoltoso, contraddittorio, ma è un processo interessante. Il rap, l’hip-hop sono stati riprodotti dall’industria, malgrado ciò, fanno passare uno strumento incredibile di liberazione nei quartieri di tutto il mondo. Ed hanno generato stili territoriali, stili locali allucinanti, con un grado di ibridità e mostruosità incredibile. Questo è stato fatto anche dall’industria, non solo, ma in gran parte. Ciò che fa la gente quando compra un cd hip-hop non è semplicemente comprare un disco. Ciò che fa è riappropriarsi dell’ hip-hop e creare uno strumento di identificazione, autorappresentazione…protesta con forza! […] C’è una possibilità di ricezione del soggetto che può essere

sempre sovversiva. Bisogna credere in questo, se no non si crede nella biopolitica rivoluzionaria, altrimenti si sta nel sistema paralizzante dell’estrema sinistra. - SM: Vi definireste un movimento? ME: L’esperienza di“Agencias” non è stata esattamente un movimento, però è strettamente collegata alla rete movimentista. Di fatto nasce da questa. - SM: Quali sono i vostri rapporti con il “World Social Forum” e i movimenti ad esso collegati? ME: Io penso che ci identifichiamo maggiormente, nel bene e nel male, con i gruppi che hanno sempre operato ai margini dei forum sociali mondiali; nel forum europeo contribuimmo soltanto con un progetto che sul momento non funzionò bene, quello degli spazi autonomi a Firenze. […] In ogni caso trovo che ci sia stata una visione erronea di ciò che si pone in atto con i forum sociali. Questi ultimi sono un mostro, davvero, sono una cosa mostruosa, però è il nostro mostro. Non si può

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lottare e opporsi al forum sociale come se fosse qualcosa prodotto dallo stato o dalla social-democrazia. È un mostro che nasce dall’ampiezza, dalle contraddizioni, dal carattere ibrido e strano del movimento globale. Quindi rappresenta la destra del movimento? Ne rappresenta le tendenze più filo-istituzionali? Sì, probabilmente è così. È un tipo di sfera pubblica del movimento, ciò che succede è tanto ampio, selvaggio, contraddittorio e strano che non funziona come noi vorremmo, come una mente radicalmente democratica, orizzontale ed assemblearia; è sede di conflitti e di giochi di potere spaventosi…quello che bisognerebbe fare davvero è occupare i forum sociali. […] Il forum di Firenze ha avuto un buon esito a suo modo, quello di Parigi di meno, Londra è stato un disastro, un’autentica vergogna, totalmente inutile, come se non fosse esistito.[…] Il problema è che necessitiamo di una struttura più stabile, che però non si riunisca come un’assemblea classica. Cosa faremo? Non sappiamo. È necessario trovare una struttura intermedia che sia permanente, costante, continua e che allo stesso tempo non sia classica, fissa ed unitaria… non sappiamo ancora come farlo…bisogna sperimentare.

- SM: Sul vostro sito vi definite una rete di gruppi autonomi costituiti da cinque diverse agenzie. Da quale esigenza deriva la necessità di tale suddivisione? ME: Sono anni che non è più così. È stato sempre molto artificiale, in verità, non funzionò realmente e operativamente e, soprattutto a partire dalla seconda fase, non si rispettò mai questa divisione. - SM: In occasione del G8 di Genova avete proposto PRÊT-À-REVOLTER, una linea di abbigliamento rivolta direttamente ai manifestanti. Di che si trattava? ME: Il PRÊT-À-REVOLTER è molto complesso…è un esperimento, ha avuto un effetto positivo e negativo allo stesso tempo. Negativo all’inizio, perché cercava risultati che non riusciva a conseguire. Ne ha conseguiti però altri, molti esiti secondari, e poi è stato un gran serbatoio per progetti successivi. […] La gente non indossava gli abiti, le protezioni non funzionavano…andava bene a Barcellona, poi furono portati a Genova per sperimentarli e lì non c’era niente in grado di proteggere. Il PRÊT-À-REVOLTER funziona nel

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momento in cui la polizia non sa ancora che cosa fare con i dimostranti, però dopo Genova…

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[…] Per il PRÊT-À-REVOLTER si comprarono circa 200 abiti da lavoro da un fabbricante cinese, una lavatrice di seconda mano e moltissima vernice per tessuti […] bisognava poi disegnarli, cucirli, si comprarono macchine per cucire, si riciclarono, perché bisognava sperimentare con i colori e con le forme […] e si fece ciò per mesi, come progetto politico. Quello che è successo è che il PRÊT-À-REVOLTER è stato identificato come un qualcosa di “Agencias”. Era come le tute bianche, non esattamente come per loro che tutti indossano lo stesso indumento, ma allo stesso tempo distinto, personalizzato. Da qui si voleva generare una dinamica proliferante di gruppi di affinità, ognuno con il proprio stile.[…] - SM: Nel 2002 nasce YOMANGO, un brand a tutti gli effetti che potrebbe facilmente assomigliare ad una qualsiasi marca d’abbigliamento, se non fosse per il fatto che si applica soltanto a dei prodotti rubati. Come nasce tale idea? ME: L’idea di YOMANGO nasce effettivamente quando ci si rende conto, dopo Genova, che

bisogna passare a fare progetti che siano una disobbedienza civile quotidiana. Nasce in quel momento, molto influenzato dal punk, dall’idea di disobbedienza sociale e dal concetto di precarietà, che deriva da “Chainworkers”. È un momento in cui il gruppo vuole lavorare ed essere identificato con qualcosa. […] YOMANGO nasce perché molti del gruppo stavano lavorando presso “Zara” durante la notte, il che premette di rubare molta roba e molti dispositivi anti-taccheggio, in quanto alcune persone erano impiegate in questo settore. Rubammo quindi numerosi allarmi e facemmo una serie di esperimenti su questi. YOMANGO nasce anche dal fatto che molta gente stava lavorando precariamente a “Zara”. Si rubava per regalare, per vestire e per rivendere al negozio stesso. Ci vestivamo con queste cose e partendo da qui iniziammo a sviluppare etichette YOMANGO da applicare su quelle dei vestiti, perché volevamo mantenere la marca originale più YOMANGO. Non vogliamo eliminare le marche, ma sovrapporre a tutte YOMANGO.[…]

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