Alberto Salarelli Dal non realizzato al non esposto Osserva Mario Botta nell’autobiografia recentemente edita da Casagrande a cura di Marco Alloni1 come, nel corso della sua attività professionale, sia riuscito a vedere realizzati circa un centinaio di edifici rispetto agli oltre seicento progettati. Questo rapporto, che ovviamente giocherà su numeri differenti nel caso venga conteggiato non su un’archistar ma su architetti e artisti di minore rinomanza, è tuttavia significativo del triage che viene a distinguere nettamente la dimensione progettuale rispetto a quella realizzativa, con tutti gli elementi - e gli attori - che vanno a determinare tale selezione: committenze, condizioni economiche, ripensamenti, casualità di varia natura. Nel mondo delle arti che si basano su tecniche analogiche (vale a dire tecniche che sia durante la progettazione sia nell’esito finale del lavoro prevedono di poter manipolare la
materia
senza
l’ausilio
di
tecnologie
digitali)
le
due
fasi,
quella
dell’ideazione/progettazione e quella della realizzazione, sono quindi caratterizzate dalle attività specifiche che a ciascuna di esse pertengono, e dagli strumenti che vengono di volta in volta utilizzati. Diversi, inevitabilmente, sono anche i materiali che originano da queste fasi: schizzi, disegni, bozzetti, planimetrie, cartoni preparatori e, se si riesce a compiere il passo avanti, l’opera finalmente realizzata. La mente dell’artista è perfettamente conscia di questa dualità che contraddistingue il percorso creativo, e si conforma su questo tragitto esercitando nella fase progettuale quella libertà di esplorare i confini del possibile che, inevitabilmente, risulterà arginata dalle fattezze materiali dell’opera portata a compimento. Le cose cambiano se ci spostiamo nell’ambito della digital art. Qui, infatti, la fase di progettazione e di realizzazione presentano un continuum caratterizzato dal sostrato tecnologico che contraddistingue e accomuna queste forme di espressione artistica. Onde evitare fraintendimenti vale la pena notare che in questa sede intendiamo l’arte digitale in un’accezione restrittiva. Infatti le osservazioni che seguono si applicano unicamente a tutte quelle manifestazioni espressive che portano alla creazione di 1 Mario Botta – Marco Alloni, Vivere l’architettura, Bellinzona, Casagrande 2012.
opere la cui natura è intrinsecamente digitale, opere che, perciò, non possono essere fruite senza la mediazione di un computer; diverso, evidentemente, il caso di opere create con l’ausilio (sostanziale o marginale poco importa) di tecnologie digitali ma che, in ultima battuta, si concretano in una dimensione analogica di prodotti fruibili su carta, pietra, legno o qualsiasi altro materiale fatto di atomi e non di bit. Nel primo caso digitale è il prodotto, nel secondo caso il processo.
L’artista il cui fine è un prodotto digitale compone “in diretta” la propria opera: il valore euristico del “fare” attraverso le tecniche digitali consiste nella possibilità di proporre, di ipotizzare differenti configurazioni dell’opera: nella capacità, in altri termini, di simulare possibili scenari. Si procede per tentativi, per rimaneggiamenti, per imbastiture. È l’effetto a fungere da elemento guida di questa pratica artistica. Già notava questa tendenza McLuhan cinquanta anni fa quando scriveva che «oggi l’industria e l’urbanistica incominciano a costruire le loro opere al contrario, partendo cioè dall'effetto, come gli artisti stanno facendo da oltre un secolo»2. Tuttavia è evidente come solo con la maturazione delle tecnologie digitali questo modo di procedere sia stato portato alla massima potenza, e questo perché solo la simulazione digitale ci consente di assaporare gli effetti senza preoccuparci delle cause ma unicamente per giungere allo scopo desiderato. Non c’è soluzione di continuità nella pratica artistica digitale tra ciò che viene progettato e ciò che sarà l’opera realizzata: il prodotto su cui stiamo lavorando è sempre l’ultima versione, la versione che contiene in sé stessa non solo l’idea ma la realizzazione della compiutezza, della perfezione in quanto oggetto perfectum cioè compiuto, «che continuamente si rigenera come la pelle degli eroi mitologici, e riprende sempre l’esatto allineamento, qualunque sia l’aggiunta»3. In questa dimensione, come viene a perdersi la distinzione tra originale e copia, viene anche ad assottigliarsi, e forse ad annullarsi, la distinzione tra progetto e realizzazione, perché la nostra epoca «sarà l’epoca in cui il vissuto, la pura esperienza disancorata e sprotetta, senza disegno o progetto, allo stato brado e irriflessa, sarà più ricca, più molteplice e dinamica del pensato»4. Quindi, nel mondo dell’arte digitale, il metro per misurare lo stato di realizzazione di un lavoro non è più quello del passaggio dalla bozza di progetto alla compiuta realizzazione dell’opera, bensì il suo gradiente di visibilità, di esposizione. Indubbiamente, come scrive Mario Costa, gli artisti digitali «predispongono a un tipo di esperienza caratterizzata dal dominio dell’immateriale e dell’energia pura e, da questo punto di vista, essi possono essere considerati come il punto di arrivo di tutto il lavoro “concettuale” delle avanguardie»5, tuttavia mi pare fondamentale osservare come tale immaterialità consegni nelle loro mani non solo la facoltà ma la possibilità di realizzare le loro opere attraverso l’esposizione telematica delle stesse. Delle stesse in quanto 2 Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Saggiatore, 1997, p. 378. G. Raimondo Cardona, I linguaggi del sapere, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 191. Franco Ferrarotti, Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Roma, Donzelli, 1999, p. 130. 5 Mario Costa, L’estetica della comunicazione, Roma, Castelvecchi, 1999, p. 34. 3 4
tali, non dei loro simulacri digitali, come potrebbero invece fare – e spesso fanno – gli artisti che lavorano con tecniche analogiche. Quale allora il ruolo di un museo digitale dedicato al non realizzato per le opere della digital art? Paradossalmente potrebbe essere proprio quello della loro realizzazione attraverso l’esposizione. Il ruolo del MoRE, quando auspicabilmente si troverà ad avere a che fare con opere di questa natura, opere che rappresentano un segmento vitalissimo nel panorama dell’arte contemporanea, non sarà quello di testimoniare ciò che non si è compiuto, ma di portare a compimento – istituzionalmente – il lavoro dell’artista: esponendolo. Alberto Salarelli
From the unrealised to the unexposed Mario Botta in his autobiography, recently published by Marco Casagrande and edited by Marco Alloni6, notes how in the course of his professional career he managed to see completed just about a hundred bulildings, compared to over six hundred he designed. This relation, which will obviously put different numbers into play in case you do not count on archistar but on less known architects and artists, it is nonetheless significant of the triage that comes out to clearly distinguish the project dimension compared to that of the realization, with all the elements - and the actors - which determine this selection:
commissioners,
economic
conditions,
rethoughts,
various
kinds
of
randomness. In the world of arts based on analogical techniques (that means techniques that both in the planning stage and both in the final outcome of the project plan to manipulate the material without the digital instruments) the two steps, the conception/planning and the realisation are characterized by the specific activities that belong to each other and by the instruments that are used from time to time. Moreover the materials that origin these steps are inevitably different too: sketches, drawings, plans, preliminary papers and, if it is possible to go on, the final work. The artist’s mind is perfectly conscious of this duplicity that will mark the creative process, and it shape itself on this way using in the planning phase that freedom in exploring the limits of the possible that will inevitably result limited by the material shapes of the work bring to pass. Things change if we pass to analyse the digital art. Here in fact, the phase of the planning and the realisation present a continuum characterized from the technological substratum that mark and combine these form of artistic expression. Moreover to avoid misunderstandings it is worth noticing that in this case we consider the digital art in a restrictive meaning. In fact, the considerations that will follow concern only to all the expressive outputs that bring to the creation of works of digital nature, works that, for this reason, could not be experienced without a computer; differently, clearly, the case of works created with the help (fundamental or not, it doesn't matter) of digital techniques but the, definitely, realize themselves in a analogical dimension as products
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Mario Botta – Marco Alloni, Vivere l’architettura, Bellinzona, Casagrande 2012.
avaible on paper, stone, wood or any others materials made by atoms and not by bit. In the first case what is digital is the product, in the second one the process. The artist, whose goal is a digital product, arranges his work: the heuristic value of making trough digital tecniques consist in the possibility to suggest and hypothesize different configurations of the work: in the ability, in other terms, in simulating possible scenarios. He goes on by trials and errors, by revisions and outlines. It is the final effect that acts as guide element of this artistic practice. Moreover McLuhan already noticed this tendency fifty years ago when he wrote that «today the industry and city planning started to build their products contrariwise, starting from the effect, as artist are doing since a century». Nevertheless it is clear that only with the growth of the digital tecniques this way of proceeding arrived at the maximum expression, and this happened because just the digital simulation allow us to enjoy the outcomes without questioning ourslves about the causes, but just to reach the desired goal.
Non c’è soluzione di continuità nella pratica artistica digitale tra ciò che viene progettato e ciò che sarà l’opera realizzata: il prodotto su cui stiamo lavorando è sempre l’ultima versione, la versione che contiene in sé stessa non solo l’idea ma la realizzazione della compiutezza, della perfezione in quanto oggetto perfectum cioè compiuto, «che continuamente si rigenera come la pelle degli eroi mitologici, e riprende sempre l’esatto allineamento, qualunque sia l’aggiunta»7. In questa dimensione, come viene a perdersi la distinzione tra originale e copia, viene anche ad assottigliarsi, e forse ad annullarsi, la distinzione tra progetto e realizzazione, perché la nostra epoca «sarà l’epoca in cui il vissuto, la pura esperienza disancorata e sprotetta, senza disegno o progetto, allo stato brado e irriflessa, sarà più ricca, più molteplice e dinamica del pensato»8. Quindi, nel mondo dell’arte digitale, il metro per misurare lo stato di realizzazione di un lavoro non è più quello del passaggio dalla bozza di progetto alla compiuta realizzazione dell’opera, bensì il suo gradiente di visibilità, di esposizione. Indubbiamente, come scrive Mario Costa, gli artisti digitali «predispongono a un tipo di esperienza caratterizzata dal dominio dell’immateriale e dell’energia pura e, da questo punto di vista, essi possono essere considerati come il punto di arrivo di tutto il lavoro
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G. Raimondo Cardona, I linguaggi del sapere, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 191. Franco Ferrarotti, Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Roma, Donzelli, 1999, p. 130.
“concettuale” delle avanguardie»9, tuttavia mi pare fondamentale osservare come tale immaterialità consegni nelle loro mani non solo la facoltà ma la possibilità di realizzare le loro opere attraverso l’esposizione telematica delle stesse. Delle stesse in quanto tali, non dei loro simulacri digitali, come potrebbero invece fare – e spesso fanno – gli artisti che lavorano con tecniche analogiche. Quale allora il ruolo di un museo digitale dedicato al non realizzato per le opere della digital art? Paradossalmente potrebbe essere proprio quello della loro realizzazione attraverso l’esposizione. Il ruolo del MoRE, quando auspicabilmente si troverà ad avere a che fare con opere di questa natura, opere che rappresentano un segmento vitalissimo nel panorama dell’arte contemporanea, non sarà quello di testimoniare ciò che non si è compiuto, ma di portare a compimento – istituzionalmente – il lavoro dell’artista: esponendolo.
Alberto Salarelli
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Mario Costa, L’estetica della comunicazione, Roma, Castelvecchi, 1999, p. 34.