Incipit_Memorie di una interprete di guerra

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ELENA RŽEVSKAJA MEMORIE DI UNA INTERPRETE DI GUERRA VOLAND AMAZZONI



Elena R탑evskaja

Memorie di una interprete di guerra La guerra vista da me, dalla battaglia di Mosca agli ultimi giorni nel bunker di Hitler, e i tentativi di Stalin di riscrivere la storia a modo suo traduzione di Daniela Di Sora

Voland


Titolo originale: Zapiski voennogo perevodčika © 2007 Elena Rževskaja Published by arrangement with ELKOST Intl. Literary Agency

© dell’edizione italiana Voland s.r.l. 2011 Tutti i diritti riservati Per le immagini © Elena Rževskaja Prima edizione: giugno 2015

ISBN 978-88-6243-120-0

Le note sono della traduttrice, escluse quelle con asterisco che sono dell’autrice.

The publication was effected under the auspices of the Mikhail Prokhorov Foundation TRANSCRIPT Programme to Support Translations of Russian Literature.

Published with the support of the Institute for Literary Translation (Russia).


Sono infinitamente grata a Elena Kostjukovič, che ha portato questo libro a una casa editrice italiana, si è preoccupata della sua sorte e nei giorni dell’uscita mondiale del suo stupefacente libro Perché agli italiani piace parlare del cibo, accolto anche da noi a Mosca da uno sfolgorante successo, ha continuato a essere prodiga di attenzioni al testo con consigli e osservazioni fin nelle ultime tappe del mio lavoro. Grazie per l’aiuto e il sostegno a questo libro anche alla mia amica e interlocutrice, mia nipote Ljuba. E.R.



INTRODUZIONE La voce dei documenti

Questo libro parla di vicende da me vissute in prima persona. Come interprete di guerra ho percorso con l’esercito l’intero fronte, dai dintorni di Mosca fino a Berlino, e nel maggio 1945 mi sono trovata nell’epicentro degli avvenimenti storici che hanno concluso la Seconda guerra mondiale. Nella mia qualità di interprete dello Stato Maggiore dell’Esercito sono entrata nel gruppo che aveva l’incarico di cercare Hitler, ero fra coloro che hanno ritrovato il suo cadavere carbonizzato, ho preso parte al processo di accertamento della verità sulla sua fine e all’identificazione dei suoi resti. A me è toccato il compito di esaminare lì sul posto i materiali rinvenuti nei sotterranei della Cancelleria del Reich e nel bunker del Führer, dove Adolf Hitler aveva trascorso i suoi ultimi giorni. Nella Cancelleria del Reich ho trovato alcuni dossier con le carte di Bormann1: i radiogrammi ricevuti da Hummel, suo assistente, che era a Obersalzberg2 e le copie di quelli a lui inviati. Vi si trovava la conferma che subito dopo il 20 aprile era stato progettato di trasferire il Quartier generale a Berchtesgaden e che Hitler aveva rinunciato al progetto ed era rimasto nel bunker perché l’offensiva che aveva ordinato era fallita e gli alleati erano entrati a Monaco. E poi molte carte con informazioni giunte a Bormann dai capidistretto del partito (Kreisleiter) sul carattere particolarmente critico della situazione. Ho visionato le carte di Hitler rimaste nel bunker, fra cui una cartella con i radiogrammi intercettati: uno conteneva l’informazione che Mussolini, dopo essere stato fucilato dai


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partigiani, era stato anche impiccato per i piedi insieme alla sua amante Clara Petacci. Questa frase era stata sottolineata da Hitler con una matita blu. Pensai che le disposizioni impartite per la distruzione del suo corpo dopo la morte fossero una conseguenza proprio di questa notizia. Sempre qui ho trovato le minute delle lettere di Hitler alla sorella, al presidente Hindenburg, e a von Papen3. Nell’ufficio di Goebbels erano rimaste due valigie di documenti. E proprio qui ci attendeva il ritrovamento più importante dal punto di vista della Storia, vale a dire una decina di quaderni del diario di Goebbels, scritti a mano e iniziati prima della presa di potere da parte dei nazisti, e interrotti l’8 luglio 1941. Sempre qui trovammo la corrispondenza di lavoro del Ministro della Propaganda e alcuni fascicoli di Magda Goebbels con l’inventario dettagliato dei beni di famiglia. E poi le foto private: Magda con i bambini, l’intera famiglia compreso Goebbels e un ritratto di Magda. Questo me lo sono tenuto come souvenir. Eravamo impegnati nella febbrile ricerca di Hitler, vivo o morto. Riuscivo a stento ad annotare il contenuto dei documenti che mi passavano per le mani e ad approntare una nota di accompagnamento per inviarli allo Stato Maggiore del Fronte. I miei brevi appunti mi sono stati utili in seguito, quando lavorando all’archivio mi resero possibile stabilire subito la provenienza di un determinato documento, il suo contesto. La notte del 6 maggio furono portati fuori dal giardino della Cancelleria del Reich i resti di Hitler e di Eva Braun. Fu eseguita una perizia medico-legale. L’8 maggio mi fu affidata una scatola rosso scuro che conteneva la mascella intatta di Hitler: una prova decisiva per la sua identificazione. In questa maniera singolare il mio destino si è intrecciato con la storia della Germania.


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In quei giorni ho partecipato alle ricerche dei testimoni chiave: i dentisti di Hitler. In calce ai protocolli dei loro interrogatori e dell’identificazione di Hitler c’è la mia firma come traduttore. I tre mesi precedenti al mio congedo, lo Stato Maggiore dell’Armata si trovava nella piccola città di Stendal. Qui ho avuto l’opportunità di occuparmi di nuovo dei documenti trovati nella Cancelleria del Reich e in altri luoghi: nei ministeri, nelle case dei dirigenti nazisti. Nel frattempo l’interesse per i documenti era scemato. La guerra apparteneva al passato. Noi stessi appartenevamo alla Storia, e quei documenti non interessavano nessuno. Tranne me. Io non sono una storica, non sono una ricercatrice. Sono una scrittrice. Non potrei scrivere un lavoro basato su avvenimenti storici, fare una ricerca su fenomeni sociali con i quali non avessi nessun legame. Questo è un libro personale che si basa su documenti. Vi si raccontano fatti e avvenimenti autentici, la sua fabula è autentica: le conseguenze della guerra, la ricerca e il ritrovamento del corpo di Hitler, la sua identificazione, l’inchiesta sulle circostanze del suo suicidio a cui l’autrice aveva preso parte direttamente in qualità di interprete di guerra. Credo che la cosa principale in queste circostanze sia l’autenticità. L’autenticità è la cosa più sensazionale. I sovietici tennero segreta la scoperta e l’identificazione del corpo di Hitler. Io scrissi della sua morte sulla rivista “Znamja” (1955, n. 2), tuttavia la parte relativa alle scoperte e alle indagini non fu autorizzata. Per la prima volta riuscii a rivelare questo segreto nel 1961, nel libro Vesna v šineli4. Solo allora ho potuto realizzare il desiderio in me maturato alla morte di Stalin: raccontare ai lettori la verità sulla fine di Hitler.


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Per dare ai lettori un’immagine più completa degli avvenimenti e supportare con documenti il mio racconto di testimone, per molto tempo ho cercato di ottenere l’autorizzazione a consultare gli archivi. A ogni mia richiesta mi veniva risposto: “Non si fanno eccezioni per nessuno.” Mi sono rivolta anche al Comitato Centrale, ma non ho ricevuto alcun sostegno. Scrissi allora a Suslov5. Ho ritrovato da poco nel mio archivio personale la minuta di questa lettera, datata 6 agosto 1964: essa giocò certamente un ruolo determinante, visto che a fine settembre di quell’anno le porte dell’archivio segreto mi si aprirono. Fui affiancata da un capitano con le mostrine da carrista. Si presentò come membro del “Gruppo di studio sulla Guerra patriottica”, si chiamava Vladimir Ivanovič. Era entusiasta del compito di fornirmi i documenti necessari a scrivere il mio libro. Molti anni dopo Vladimir Ivanovič mi telefonò, espresse giudizi lusinghieri su un mio nuovo libro (dedicato alla città di Ržev durante la guerra) e io gli chiesi il nome preciso dell’archivio di allora, dal momento che non mi era mai stato detto. “Archivi del Consiglio dei Ministri” mi rispose. E mi rivelò anche che ero stata autorizzata a consultarli su disposizione del Comitato Centrale. L’avvicinarsi del XX anniversario della vittoria risvegliò nel popolo il ricordo di quella guerra, e anche in un ex combattente come Vladimir Ivanovič, evidentemente un dilettante nel suo nuovo ruolo mentre io, sola in uno studio vuoto con il ritratto di Chruščëv alla parete, ero un “caso privilegiato”. Lui non si limitava a fornirmi i documenti che richiedevo, d’altronde difficilmente avrebbe potuto trovarli fra le montagne di faldoni, e mi portava tutto quello che gli capitava sotto mano. Alla fine della giornata di lavoro dovevo consegnare il quaderno con i testi copiati a mano dai documenti e le osservazioni che mi erano venute in mente. Non avevo a disposizione


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nessun mezzo tecnico. La mattina seguente il quaderno mi veniva restituito, suppongo dopo essere stato esaminato. Una volta riempite tutte le pagine, il quaderno rimaneva a me e potevo portarmelo a casa. Furono in tutto cinque grossi quaderni. Vidi di nuovo i documenti del maggio 1945, in calce a molti dei quali c’era la mia firma. In vent’anni nessuno li aveva toccati, ne fui molto turbata. La prima edizione del mio libro Berlino, maggio 1945, corredato da questi documenti, uscì in Russia nel 19656. Con il titolo La fine di Hitler fuori dal mito il libro fu pubblicato in italiano, tedesco, ungherese, finlandese, giapponese e in molte altre lingue. Berlino, maggio 1945 ha avuto in patria fino a oggi 12 edizioni, con una tiratura complessiva di 1.500.000 copie, e ogni edizione era più completa della precedente. Nel quarto capitolo del presente volume propongo al lettore una variante aggiornata di quel testo, con le aggiunte successive. Con il passare degli anni le vicende vissute non si cancellano dalla mente, anzi, alcuni aspetti assumono una maggiore chiarezza. La memoria continua a tornare a quei fatti e il racconto degli importanti avvenimenti storici degli ultimi giorni di guerra rimarrebbe a mio parere incompleto senza le pagine sui primi giorni del conflitto, sul corso per interprete di guerra, sui quasi quattro anni passati al fronte. Credo che anche per il lettore non sia indifferente sapere attraverso quali esperienze l’autrice è arrivata a Berlino. L’interprete militare occupa una posizione particolare nel turbine della guerra. Si trova sempre in contatto con entrambe le parti belligeranti. Per le mie mani sono passati documenti di ogni tipo, da quelli di fondamentale importanza alle istruzioni per i soldati tedeschi su come proteggersi dal freddo, dagli ordini e dai volantini fino alle lettere private. Traducevo questi documenti e li trascrivevo per me su un quaderno, per ricordo.


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I quaderni portati dal fronte, tutti laceri, con le pagine strappate, fogli aggiunti, interi pezzi quasi illeggibili scritti nel retro di un camion traballante, hanno nutrito il mio racconto sulla guerra. Io ora mi rivolgo a loro per ricostituire il mio viaggio da Mosca a Berlino. Una volta completato, il libro continua ad arricchirsi di scoperte inattese. Nel novero degli incontri più importanti nati dalla prima pubblicazione di Berlino, maggio 1945 includo la conversazione con il maresciallo Georgij Žukov7. Altri che hanno partecipato alle ricerche, al ritrovamento e al riconoscimento di Hitler sono entrati in corrispondenza con me, compreso il responsabile della perizia medico-legale sui suoi resti, F.I. Škaravskij, e mi hanno fornito numerosi dettagli. Le loro lettere, insieme a molte altre, costituiscono il mio archivio e sono state da me utilizzate per questa nuova edizione. E, per finire, i documenti. Nella prima edizione di Berlino, maggio 1945 avevo inserito la seguente nota: “I documenti che compaiono in questo libro (deposizioni, atti, diari, lettere e altro) sono pubblicati qui per la prima volta.” In nome di tale principio ho agito a volte contro l’interesse del lettore, evitando di includere testi già noti, come il testamento politico e quello privato di Hitler, e accennandovi solo rare volte. Ho incluso solo i documenti da me esaminati all’inizio di maggio del 1945 nella Cancelleria del Reich e poi allo Stato Maggiore dell’Esercito, e i documenti da me rinvenuti nell’archivio segreto nel corso dei venti giorni d’intenso lavoro nel settembre del 1964. Per scrivere il libro ho utilizzato in grande quantità le mie ricerche di archivio. Sono stata la prima a pubblicare alcuni brani della deposizione di Hans Rattenhuber, capo delle guardie del corpo di Hitler8; i verbali dei primi interrogatori dell’aiutante personale di Hitler, Otto Günsche, e del suo cameriere


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personale Heinz Linge. Per prima ho riportato le deposizioni dei medici che avevano partecipato all’avvelenamento dei figli di Goebbels, gli atti del ritrovamento dei cadaveri di Hitler ed Eva Braun, di Goebbels e di sua moglie, i referti medici. Nell’archivio erano conservate le trascrizioni dattiloscritte in russo di documenti essenziali, come i diari di Bormann, (l’originale era stato trovato all’inizio di maggio a Berlino, in strada) e una versione più dettagliata delle memorie di Hans Rattenhuber. Uno dei miei contributi più significativi è stata la pubblicazione di alcuni brani del diario di Goebbels, che ha spinto gli storici tedeschi alla pubblicazione in quattro tomi dei suoi quaderni, dopo averne ottenuto i microfilm dai nostri archivi. Oggi sono accessibili e tradotti in molte lingue i testi a cui per prima ho avuto accesso con enorme fatica, superando gli ostacoli del segreto di Stato e della censura. Non vedo dunque la necessità di impoverire la narrazione continuando a seguire il principio della prima pubblicazione, e ritengo possibile, anzi necessario, utilizzare anche documenti già diffusi in precedenza o utilizzati già da me. I documenti, soprattutto a distanza di anni, svolgono un’azione particolare all’interno della narrazione: la loro dirompenza può inghiottirti e spingerti ad accordare a essi una fiducia assoluta. Ma sbaglia chi si affida a tale inganno, chi tende ad assolutizzarli, a considerare alla stessa stregua il documento e il fatto: non tutti i documenti sono un fatto, e anche un fatto non costituisce sempre tutta la verità. È il contesto a essere importante. I dati entrano in contrasto tra loro, si contraddicono a vicenda, cozzano. In queste relazioni vive e conflittuali tra i documenti io facevo a volte da arbitro, poiché conoscevo molte delle cose rimaste fuori.



CAPITOLO PRIMO Mosca 1941. Verso l’ignoto

Quando ci si accinge a scrivere di cose che si sono vissute, costringiamo spesso la memoria a una certa coerenza. Ma questa non è una sua caratteristica. La memoria vive di punti, di associazioni, di odori, di rimandi, di dolore…

Quaderno dal fronte Un freddo crepuscolo autunnale, vento gelido, cielo nero, qualche bagliore più chiaro annuncia il giorno seguente. Una strada fangosa, impraticabile. Una lunga colonna di soldati si trascina verso la prima linea. Silenzio. Nessun richiamo, nessun ordine, nessun suono di voce. La luce di un razzo che si accende sopra la prima linea tedesca illumina per un attimo volti non più giovani, indistinti. Evidentemente si tratta di una compagnia di linea composta da soldati curati alla meglio nelle infermerie da campo e negli ospedali. Cammino sul ciglio della strada, sto tornando allo Stato Maggiore. Nel silenzio si avverte un suono sordo, quasi una eco delle cannonate che si sono andate placando nel corso della giornata. – Sorella! – grida un tipo che esce dalla fila. – Hai da fumare? – No! E lui continua a camminare come niente fosse, questo indimenticabile soldato attempato.


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Nascosti dal cielo nero, illuminati di tanto in tanto da un accecante razzo nemico, i soldati si trascinano nell’umida notte inospitale incontro alla battaglia mattutina. Non so spiegarmi perché questo grido mi abbia turbato tutti questi anni, e ancora oggi mi turbi, fino a farmi tremare, fino a farmi piangere. – Sorella! Hai da fumare? *** Viene condotto via un prigioniero da spremere, strappato fuori dalla trincea di un avamposto. È intirizzito. Imbacuccato in uno scialle in lana da contadina, la bustina da aviere ficcata sopra. Ai piedi, Dio solo sa cosa: stivali leggeri di cuoio infilati su una specie di gambali di paglia intrecciata. L’esploratore che l’ha catturato lo spinge da dietro con la canna del fucile, perché vada più in fretta. Lui, con i suoi gambali di paglia riesce a stento a camminare sulla strada resa scivolosa dal passaggio dei veicoli. Per la strada si accodano due o tre soldati e altrettanti contadini del luogo, per vedere cosa succederà. Si fermano davanti allo Stato Maggiore. L’esploratore lo consegna ad alcuni soldati che sono lì, poi entra nell’izba a fare rapporto. Hanno attorniato il tedesco. Un silenzio carico di una oscura tensione. Tra l’autunno e dicembre i contadini avevano già visto i tedeschi, ma abbigliati in modo completamente diverso e, imbarazzati, guardano di sottecchi. – Ecco un crucco che ha finito di fare la guerra – dice un veterano. – Tu te la caverai, canaglia. Gli occhi del tedesco, dentro cavità orlate di ciglia gelate, fissano immobili e opachi come quelli di uno spirito delle acque. È a disagio. E gli altri intorno a lui pure. Ma un giovane soldato, che vedeva un tedesco per la prima volta, a un tratto non


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resiste e scoppia a ridere. Il tedesco ha i ghiaccioli che gli spuntano dal naso, e pure dalla bocca, come una barba, sullo scialle congelato. Non puoi infierire su uno conciato in quel modo, è troppo buffo. E comunque è un bel sollievo vedere un nemico ridotto in quello stato. – Ma guarda un po’ te che razza di spaventapasseri – dice il veterano e gli dà una pacca sulla spalla, con aria protettiva. Il giovane lo imita, per ridere cerca di tirare via un ghiacciolo, ma questo non si stacca, e pure lui gli batte sulla spalla col guanto. Il tedesco capisce di essere ridicolo, tutto coperto di ghiaccioli, e che questo forse gli salverà la vita. Allora dalle lunghe maniche del pastrano tira fuori le mani infilate alla meglio in grossi calzettoni e le protende davanti a sé, e quelli attorno a lui ridono compiaciuti. L’esploratore ritorna e lo porta dentro. Nell’ingresso il tedesco si affretta a sfilarsi i calzettoni dalle mani e se li ficca nelle tasche del pastrano, sfila gli stivali da quei gambali di paglia, varca la soglia, batte i tacchi, si mette sull’attenti e rimane senza fiato per il calore. Nell’izba il caldo è soffocante. Si accorge che il comandante lo guarda trattenendo a stento un sorriso: nome, unità, grado? Il soldato tedesco mezzo assiderato scosta il fazzoletto dalla bocca irrigidita e risponde, senza udire la propria voce, inghiottendo avidamente il calore, a sorsate. E all’improvviso, spaventato, si porta le mani al viso. Si riprende, mette le braccia lungo i fianchi. Sul viso, sullo scialle, sul pastrano scivolano i ghiaccioli, che si spezzano e cadono rumorosamente in terra. ***


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Strade. I motori gemono sul punto di cedere, le ruote si impantanano in solchi profondi. Avanzano carri armati, camion. Cavalli trainano cannoni. Una colonna di fanteria. Uno zaino su una schiena, con appesa – ballonzolante – una gavetta annerita dal fumo. Un viso giovane o anziano, stretto tra i paraorecchi del berretto, ben annodati sotto il mento. Un cavallo sobbalza per lo sforzo. A un tratto nella foschia nevosa appare un’abitazione. Una contadina, da sotto il fazzoletto tirato giù fino agli occhi, ci accompagna col suo sguardo fisso, profondo. Con tutti loro, con ogni cosa io provavo allora una tale profonda e dolorosa comunione che a quel tempo mi sarebbe stato impossibile, strano e sgradevole esprimere a parole. Un incrocio. Una ragazza delle parti di El’nja, spersa in un pellicciotto troppo grande per lei, il fucile in spalla. Agita la bandierina – nell’altra mano regge una lampada a cherosene – e ferma i veicoli, controlla meticolosamente i documenti, il carico. Fa salire un ferito diretto all’infermeria. C’è chi scherza con lei, chi la copre di improperi, e si va oltre. Nevica. La nebbia ricopre i campi e la strada. Si sentono degli spari, vicino. Il fronte si è allungato, impossibile difenderlo tutto. Si temono infiltrazioni tedesche. La ragazza fa la guardia a un posto di controllo. Tutta la crudezza, il valore, le speranze, gli eroismi e l’angoscia della guerra le sfilano dinnanzi.

“Soldati! Davanti a voi c’è Mosca!” Dal diario di Kurt Grumann, sottotenente del 185° reggimento di fanteria, 87a divisione: La mattina del 22 giugno il reggimento si è disposto lun-


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go la prima linea. Alle 3,05 le nostre prime granate sono volate al di là del confine. Dopo i primi combattimenti che mi hanno portato fino a Belostok, ho ricevuto la Croce di ferro di seconda classe. All’epoca non eravamo contenti di trovarci nelle retrovie. Adesso ci si ricorda con rimpianto dei giorni spensierati trascorsi negli ex territori polacchi, dei piatti insoliti della cucina da campo polacca. In quel periodo ricevetti la notizia sconvolgente dell’eroica morte di mio fratello Hans. Mentre riordinavo il mio archivio di guerra mi sono imbattuta in questo diario9*; lì per lì non sono riuscita a capire come mai l’avessi conservato, dal momento che mi ero liberata di molti dei materiali, escluse solo le cose più importanti. Sfogliandolo però vi trovai menzionata Ržev, e capii. Il sottotenente della Wehrmacht inizia il suo diario quando l’esercito tedesco è già nei pressi di Mosca. Il destino di Mosca assediata è strettamente legato a questa lunga lotta crudele, drammatica e piena di abnegazione dei suoi difensori lungo le sue vie d’accesso: la testa di ponte di Ržev. E Ržev fa parte anche del mio destino10. Eravamo alla fine di cinque mesi sanguinosi. Il maresciallo Žukov riteneva il novembre del ’41 il mese più critico, più pericoloso per Mosca, che decideva lì il suo destino. Il diario include anche il corso successivo degli avvenimenti, quando l’Armata Rossa, in apparenza stremata, a dicembre passa all’offensiva nei dintorni di Mosca. Per la prima volta i tedeschi subiscono una disastrosa sconfitta. L’autore del diario descrive il disordine, il materiale bellico abbandonato, lo scompiglio: cose che prima aveva visto solo durante la ritirata delle truppe francesi. Sono pagine sincere, un’occasione rara di vedere con gli occhi del nemico la situazione nei giorni in cui la vittoria


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sembrava ai tedeschi ormai a portata di mano, e vennero travolti dalla valanga della ritirata. 17 novembre 1941. Desidero riandare col pensiero al tempo a me più caro, il fertile periodo degli studi, le bellezze del paesaggio di Versailles. È un tale piacere per me ripensare alle serate nella sala del circolo con le sue comode poltrone, in mano un bicchiere di scintillante assenzio o una bottiglia delle marche più rinomate: Martell, Hennessy o Monmousseau. Con la nomina a ufficiale si era realizzato il sogno della mia giovinezza. L’altro evento eccezionale fu l’arrivo in una Parigi rinata a nuova vita, che vidi nel suo inebriante splendore. Poi il fragore e il rombo dei treni. Ed ecco che io stesso mi sono ritrovato su un treno che portava a est noi ufficiali della compagnia motorizzata che si andava formando. Dovevamo andare di nuovo a combattere. Dopo un lungo viaggio in ferrovia raggiungemmo Smolensk. Ricorderò sempre i violentissimi combattimenti che causarono terribili perdite da entrambe le parti. Il mio comandante il 18 ottobre mi ha insignito della Croce di ferro di prima classe. Poi ci è toccato affrontare una stagione di fanghiglia da impantanarcisi dentro, è stato allora che ho imparato ad andare a cavallo. Davvero indimenticabile lo stadio di Choščevka immerso nel fango. Abbiamo attraversato il campo di Borodino, dove combatté Napoleone, come ricordano ancora i numerosi obelischi militari. Abbiamo guadato il fiume Moscova e iniziato la marcia verso Višenki, respinto gli attacchi del nemico e per la prima volta sperimentato sulla nostra pelle le divisioni siberiane. Era iniziato l’attacco a Mosca.


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All’inizio di ottobre io mi trovavo ancora a Mosca. Davanti alle mie finestre che davano sulla strada, ora Leningradskij prospekt, passavano colonne di volontari diretti al fronte sotto Mosca: studenti, lavoratori, scienziati; passò l’intero conservatorio, i nostri famosi musicisti. Tutti a difendere Mosca. E in direzione opposta il filobus n. 12 (anche oggi fa lo stesso percorso) trasportava i feriti. Dalla prima linea li portavano al capolinea del filobus, sulla strada per Volokolamsk – tanto vicino era il fronte. Soltanto da tre stazioni partivano treni per l’interno del paese, le altre non servivano che la regione di Mosca. Vicino a casa mia, accanto alla stazione Bielorussia, palizzate anticarro e cavalli di Frisia. Sul Sadovoe kol’co, l’anello dei giardini, barricate. Le vetrine erano state murate con dei mattoni e munite di feritoie. Mosca si preparava a combattere strada per strada. È tempo di guerra, difendi la tua casa. A me è capitato di montare la guardia sul tetto di un alto edificio, di spegnere bombe incendiarie. C’è della sabbia, non so però ancora cosa farci, come utilizzarla. Ma sono sola qui sopra la città, nel mondo della guerra. Un boato: poco lontano è stata sganciata una bomba. Dal tetto vicino spara un cannone della contraerea, rivelando la nostra presenza. La città è oscurata, tutto è avvolto dalle tenebre, solo serpentine di proiettili traccianti. Tutto è di una bellezza straordinaria, infinita, miracolosa, da toglierti il fiato. Nel primo periodo, quando la mobilitazione era più intensa e gli uffici di reclutamento intasati, per una ragazza non soggetta a obblighi di leva e per di più senza specifiche competenze farsi arruolare era impossibile. Io e la mia amica Vika Mal’t fummo spedite alla Seconda fabbrica moscovita di orologi, nell’officina che, in base al piano di mobilitazione, aveva subito cominciato a produrre bossoli per


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cartucce. Ma io e Vika non avevamo nessuna intenzione di piantare le radici in quella fabbrica e “senza interrompere la produzione” ci iscrivemmo ai corsi serali accelerati per diventare infermiere. Questi corsi non si tenevano a un indirizzo fisso, peregrinavamo lungo la Malaja Bronnaja vuota di gente, e insieme a noi vagabondava l’ingombrante materiale didattico: un enorme scheletro dalle costole scricchiolanti, le gambe solide e il numero d’inventario 4417 attaccato all’osso pubico. Veniva con noi nello stanzone deserto di un supermercato alimentare, nella palestra di una scuola, al Teatro ebraico sulla Malaja Bronnaja, proprio sul palcoscenico, dietro il cartello “Silenzio, prove in corso!”. Il teatro si preparava a inaugurare la nuova stagione. Una volta ricevuto l’attestato del corso accelerato da infermiere ci rendemmo conto che nessuno aveva la benché minima intenzione di inviarci al fronte. Si mettevano su ospedali a est. Ma noi, invece, non pensavamo che al fronte. Ebbi un’intuizione: si cercavano urgentemente candidati ai corsi per interpreti militari. La richiesta di interpreti era altissima. Non eravamo più ai tempi della Prima guerra patriottica, quella contro Napoleone, quando gli stessi ufficiali russi parlavano correntemente la lingua del nemico. La Seconda guerra mondiale era tutta un’altra cosa. Allora non esistevano scuole specializzate nello studio delle lingue straniere. In quasi tutte le scuole si insegnava il tedesco. Ma come noi consideravamo questa materia è ben espresso da una quartina all’epoca molto popolare nelle scuole: C’è il tedesco da studiare? E io non lo voglio fare. Perché mai in terra sovietica devo imparare la lingua germanica?


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Al fronte però c’era enorme bisogno di interpreti. Risultò chiaro che senza interpreti non si poteva condurre la guerra in modo efficace. Si corse ai ripari: per ordine dello Stato Maggiore Generale vennero organizzati corsi per interpreti militari presso la facoltà di lingue occidentali dell’Accademia militare. L’esame d’ammissione fu in linea con le nostre conoscenze: assolutamente ridicolo. Alcuni di noi, e fra questi anche io, avevano studiato il tedesco da bambini. Il mio nome figurava tra coloro che avevano superato l’esame, ma con riserva. Furono ammessi a seguire le lezioni solo i ragazzi, correva voce che preparassero gli interpreti per le truppe aviotrasportate. Passarono i giorni. Si combatteva sulle vie d’accesso a Kalinin. Orel fu presa. Infine il 9 ottobre andai a chiedere quando sarebbe stato possibile iniziare i corsi. – Ma lei non ha ancora prestato giuramento, – mi disse il maggiore – per cui decida lei. Lo vede in che situazione siamo. Però, se non ci ha ripensato… E mi disse l’ora e il luogo dove avrei dovuto presentarmi l’indomani. I miei preparativi non furono lunghi. Il giorno prima avevo fatto il bucato, le lenzuola e le federe non fecero in tempo ad asciugarsi nell’appartamento gelato e rimasero lì, appesi ai fili tesi in cucina. Misi in valigia una vecchia coperta che utilizzavo da sempre per stirarci sopra, con le bruciature rossicce del ferro: non me ne separai per tutta la guerra. Mica potevo portarmi appresso l’imbottita… Non ricordo cos’altro presi con me, dimenticai di portarmi appresso un asciugamano. Ero sicura che, in quanto volontari, ci avrebbero spedito nel punto più vicino del fronte, nei pressi di Mosca, e che l’esercito ci avrebbe fornito di tutto. Andò diversamente. Ci aspettava una motonave ormeggiata. Navigammo lungo


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il canale Mosca – Volga, allontanandoci dalla città. E intanto la battaglia infuriava sulle vie d’accesso a Mosca. Era il 10 ottobre. Navigammo a lungo, lentamente. Stanchezza, ansia, ma anche curiosità: cosa sarebbe successo? Intanto eravamo affamati, inquieti. Dove stiamo andando? Segreto militare. Infine attraccammo: eravamo nella cittadina di Stavropol’ sulla Volga. Più tardi, quando ero ormai al fronte nei pressi di Ržev, tradussi un documento preso al nemico, datato ottobre 1941: “Ai soldati tedeschi. Appello. Soldati! Davanti a voi c’è Mosca! In due anni di guerra tutte le capitali del continente si sono piegate dinanzi a voi e voi avete marciato per le strade delle più belle città. Non resta ormai che Mosca. Costringetela a piegarsi, mostratele la forza delle vostre bocche di fuoco, attraversate le sue piazze. Mosca rappresenta la fine della guerra! Il Comando supremo della Wehrmacht.” Dal diario del sottotenente tedesco Kurt Grumann: 18 novembre 1941. Si è fatto giorno. Dobbiamo partecipare all’accerchiamento di Mosca. Il 3° battaglione spazza via rapidamente la resistenza nemica ai margini del bosco. Si prosegue in direzione di Petrovo. Secondo le testimonianze dei prigionieri, le fortificazioni campali devono essere là. A causa della neve il battaglione che ci sta di fianco ha sbagliato direzione nell’attraversare il bosco. Le carte sono talmente imprecise da essere quasi inutilizzabili. 20 novembre. Si intensifica l’attività del lanciarazzi che il linguaggio dei soldati ha soprannominato l’“organo di


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Stalin”. Noi non ci siamo trovati ancora sotto il suo fuoco. Si dice che l’effetto demoralizzante di questi razzi esplosivi sia persino peggiore della loro forza distruttiva. 21 novembre. I proiettili esplodono in mezzo al villaggio. Tutti si buttano a terra. Per strada le grida e i gemiti dei feriti gravi. …I cannoni anticarro sono impotenti contro i grossi cingolati, chiediamo che ci venga assegnata una batteria antiaerea. 22 novembre. Il nemico attacca il 173° reggimento. Un attacco impetuoso e il nemico è sconfitto. I russi lasciano sul campo 60 morti. 100 sono fatti prigionieri. L’offensiva è uno spettacolo entusiasmante. L’intero reggimento va all’attacco, allo scoperto dal bosco al villaggio. All’improvviso un carro T34 sbuca da dietro le case, si gira cominciando a vomitare fuoco. Cannoni anticarro di ogni calibro e batterie antiaeree aprono il fuoco contro di lui. La torretta del mostro si è probabilmente inceppata. In ogni caso, spara solo con la mitragliatrice. Un proiettile centra il tubo di scappamento. All’esterno divampa il fuoco. Dal motore esce fumo. Ma il carro armato prosegue a gran velocità la sua corsa. Alla fine salta un cingolo del meccanismo di trazione. Il carro armato prende a ruotare su sé stesso. Il colpo successivo spezza l’altro cingolo. Il T34 finalmente si arresta. Al fronte toccava a me, all’interprete, chiedere al prigioniero, se era un ufficiale, quali fossero dal punto di vista dei tedeschi le eccellenze del nostro esercito. Rispondevano: il T34, il valore dei soldati, il maresciallo Žukov. Lo dissi al maresciallo nel corso del nostro incontro.


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25-29 novembre 1941. Non siamo stati in grado di spezzare la resistenza del nemico. Le unità delle SS e i carri armati hanno occupato Istra e avanzano verso est. Sono questi che ci privano per il momento della gloria di arrivare a Mosca per primi. Seppelliamo i caduti del nostro reggimento nei pressi di Surmino. La nostra speranza si fonda sui carri armati di Guderian che avanzano da sudovest verso Mosca. 5 dicembre 1941. Non sappiamo quando ci daranno il cambio. Pian piano iniziamo a calcolare quand’è che non ci sarà più nessuno in grado di tenere un’arma in mano. Sono così pochi gli uomini in grado di far funzionare le mitragliatrici a terra e i mortai pesanti, che in caso di ulteriori perdite queste armi non potranno più essere impiegate. Una parte l’abbiamo già abbandonata quando siamo entrati a Ruza, per mancanza di personale specializzato. 7 dicembre 1941. È impossibile tenere più a lungo la linea di difesa. Insieme al comandante abbiamo studiato il terreno per scegliere una nuova posizione. Approntiamo un posto di medicazione in un orfanatrofio. Ci hanno trasportato 80 persone, di cui 40 con congelamenti di II e III grado. Cosa accadrà? Perché ci tocca tutto questo? 11 dicembre 1941. In esecuzione degli ordini, le unità logistiche si ritirano e danno fuoco ai villaggi. Le fiamme dell’incendio illuminano il cielo notturno. Alle 15 ascoltiamo attenti il discorso del Führer al Reichstag, apprendiamo con soddisfazione che abbiamo dichiarato guerra agli Stati Uniti. Le nostre forze navali sapranno rispondere alla sfrontata sfida di Roosevelt. 14 dicembre 1941. Il nemico si è incuneato nelle nostre retrovie. Non siamo riusciti ad annientarlo… Pericolo di ri-


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manere isolati. Ci dobbiamo ritirare immediatamente. Si creano i primi intasamenti fra reggimenti che si ritirano. Ma a Lichovo, il villaggio vicino, ci attende la confusione più totale: vi sono affluite le unità di numerose divisioni che stanno indietreggiando. 15 dicembre. Per la strada dovunque casse abbandonate di munizioni, proiettili; più avanti, se ne vedono ormai montagne. Tutto bloccato. Né avanti né indietro. 16 dicembre 1941. Penso che si era visto qualcosa di simile a Occidente solo quando l’esercito francese si era ritirato. Attraverso Ruza, abbandonata, quasi deserta. Da qualche parte alcune case di legno bruciano. Le loro fiaccole illuminano la città. C’è un chiarore come se fosse giorno. Di notte giunge l’ordine: prepararsi alla difesa. Finalmente la parola imperiosa del Führer: vietato indietreggiare. Mantenere fino allo stremo la linea di difesa di Ruza. La città di Ruza deve diventare una testa di ponte. Il feldmaresciallo Brauchitsch, comandante delle truppe di terra che aveva perso la Blitzkrieg, considerò la ritirata alle porte di Mosca una catastrofe e la guerra ormai perduta e, insieme ai suoi generali, insistette perché l’esercito ripiegasse fino ai confini del Reich. Fu quindi destituito da Hitler che, già comandante in capo, assunse da quel momento anche il comando supremo delle truppe di terra. La guerra continuava. Il Comando tedesco al fronte richiese all’Intendenza indumenti pesanti per i soldati: non ne era stata prevista la necessità, dal momento che la “guerra lampo” avrebbe dovuto esaurirsi già nei mesi estivi. Il piano “Barbarossa” prevedeva di attaccare l’Unione Sovietica il 15 maggio del 1941. A quel punto i tedeschi avrebbero avuto a disposizione un mese in più prima dell’arrivo dell’in-


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verno, un indubbio vantaggio. Ma la Grecia scombinò i loro piani. Lavorando in archivio sui diari di Goebbels ho letto la trascrizione di un lungo colloquio con Hitler alla vigilia dell’entrata in guerra. Tracciando i piani della Blitzkrieg e della fulminea disfatta della Russia, il Führer spiega: “La campagna di Grecia ci ha molto indebolito, per questo motivo la faccenda durerà un po’ di più. Per fortuna il tempo è brutto, e in Ucraina non è ancora l’epoca della mietitura (16 giugno 1941)11*.” Nella primavera del 1941 Hitler aveva dichiarato guerra alla Grecia, che aveva respinto l’ultimatum degli italiani. Iniziò una impari lotta fra la piccola Grecia e la Germania nazista nel pieno della sua espansione militare, che aveva già sottomesso quasi l’intera Europa continentale. Questa lotta eroica, accanita, la cui conclusione era già scritta, costrinse l’esercito tedesco a un lungo conflitto nei Balcani. Negli anni ’80 del secolo scorso sono stata in Grecia nel Giorno del No (Το óχι.), la festa nazionale del 28 ottobre istituita in ricordo del No detto dal popolo all’ultimatum del nemico. Al corteo festivo partecipavano anche i più piccoli, toccanti nelle loro camicette bianche, ognuno con in mano la sua bandierina con i colori nazionali. Mi sono commossa al pensiero del legame che unisce noi russi ai greci e al loro No che aveva influenzato il corso della guerra. 21 dicembre. All’inizio potevamo rifornirci nei territori occupati, quando eravamo abbandonati a noi stessi. Adesso continuiamo a stare fermi nello stesso posto. Mi verrebbe da dire che non abbiamo quasi nulla da prendere, né dove prenderlo. 28 dicembre 1941. Gli insetti tormentano in modo inverosimile gli uomini. Purtroppo, siamo obbligati a ridurre la razione di pane.


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Ormai da diversi mesi gli uomini non hanno la possibilità di cambiarsi, la biancheria intima sporca è negli zaini da quest’estate. Non bastano il sapone e l’acqua, è necessaria la certezza di avere tempo sufficiente per far asciugare le proprie cose. Inoltre nelle condizioni attuali i malati rimangono all’interno dei ranghi. 29 dicembre 1941. E poi la mancanza di indumenti invernali! In autunno ci si poteva magari preparare meglio all’inverno. In ogni caso era chiaro che l’equipaggiamento militare sarebbe stato insufficiente per un’ulteriore avanzata, visto il ritardo dei rifornimenti. Ma il comando dei rossi può anche evitare di cullarsi nelle facili speranze di una brillante vittoria. Il suo temporaneo successo si spiega con i nostri errori. Non ci sono dubbi che in estate i bolscevichi sentiranno di nuovo la nostra potenza. In Nord Africa pare che gli inglesi siano riusciti a radunare le forze, e sono passati all’offensiva. In Libia mancano le truppe, quelle destinate a questo settore del fronte sono state trasferite per combattere a est. Tutte le nostre speranze sono riposte in Rommel. 30 dicembre 1941. L’intera popolazione che aveva abbandonato i villaggi torna indietro alla ricerca di qualsiasi cosa da mangiare. Ma noi dobbiamo essere spietati. Non possiamo sprecare le scarse risorse. Che la fame porti a compimento quello che il piombo ha lasciato in sospeso! L’ultima frase riprende quasi alla lettera le direttive di Hitler sullo sterminio degli slavi anche attraverso la fame, in questa guerra razziale, così come l’aveva chiamata Hitler. Per la prima volta nel diario vengono menzionati gli abitanti del luogo, e l’autore li vede solo per condannarli a morte.


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31 dicembre 1941. Nella stanza calda splendono per l’ultima volta le candeline dell’albero di Natale. Il cielo è di nuovo pulito, stellato, molto freddo. 11 gennaio 1942. Ržev e Kaluga sono ormai teatro di violenti combattimenti… Noi organizziamo la difesa. Il nostro 185° reggimento fucilieri non indietreggerà. Resistere o morire. 20 gennaio 1942. 40 gradi. Fossati anticarro. Reticolati di filo spinato. A che serve tutto questo? Non vogliamo lasciare il territorio a questo popolo sporco e straccione. La maggior parte dei reggimenti della nostra divisione sta ritirandosi. Altri casi di congelamento. In molti villaggi i pozzi sono già stati fatti saltare. La sera il cielo in molti punti si tinge di rosso sangue. Avvampano i villaggi incendiati. Le lingue delle fiamme divorano con avidità le sudice casupole. La guerra è spietata: o noi o loro… Il diario si interrompe qui. Nei dintorni di Mosca, nei luoghi abitati che i tedeschi avevano abbandonato, ho visto un manifesto: “Der Russe muss sterben, damit wir leben” – il russo deve morire per permettere a noi di vivere.

“La vostra arma di lotta è la lingua tedesca” In quegli stessi giorni in cui il sottotenente tedesco faceva le sue annotazioni sul diario, noi – i primi ad aver terminato il corso di interpreti di guerra – lasciavamo con i due quadratini da tenente sulle mostrine la cittadina di Stavropol’ sulla Volga,


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tranquilla cittadina di provincia, quasi un villaggio, omonima dell’altra Stavropol’ nel sud del paese. I corsi si erano tenuti qui perché si era più vicini allo Stato Maggiore Generale, spostatosi da Mosca a Kujbyšev. Stavropol’ distava da Kujbyšev più di 100 chilometri lungo la Volga. Non c’erano né ferrovie né strade. E quando la Volga ghiacciò fummo tagliati fuori dal mondo, finché non venne istituito un collegamento con le slitte sul fiume gelato. In questo luogo sperduto, con le misteriose colline al di là della Volga, le luci incerte alle finestre incrostate di ghiaccio, il sommesso stridore delle slitte soffocato dalla neve soffice, in questo sovrumano silenzio il fragore della guerra non arrivava. Ma la guerra portava anche là i suoi effetti: fuggiaschi, sfollati, scene drammatiche al mercato delle pulci: l’incontro tra la miseria e il lucrare. Alla mensa le nuove inservienti erano solo donne incinte e sfollate. Una disposizione del Soviet cittadino assicurava loro un “aiuto umanitario”: ritrovarsi nell’unico luogo di ristoro collettivo della città. Eravamo isolati da Mosca. Che succedeva laggiù? L’angoscia ci divorava. Un giorno d’inverno la città fu attraversata da una divisione, o piuttosto da quello che ne restava. I soldati dell’Armata Rossa percorsero la strada principale, venivano da lontano, dalla guerra, e passarono accanto alle finestre dell’Ufficio agrario provinciale, dove si tenevano i nostri corsi, arrancavano trascinando i piedi negli scarponi con le mollettiere, congelati, stremati. Quel giorno a lezione ripetevamo alcuni paragrafi imparati a memoria del regolamento della Wehrmacht: “Lo spirito offensivo della fanteria tedesca…” Ma alla vista dei soldati che arrivavano rimanemmo in silenzio e ci affollammo alle finestre, senza riuscire a staccare gli occhi da quel dolore opprimente.


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Una divisione sconfitta lasciava il fronte e veniva condotta a riorganizzarsi nella Russia profonda. A tratti si scorgeva qualcosa di bianco: un braccio a tracolla che si era congelato durante la marcia, orecchie fasciate sotto una bustina estiva. Qualcuno veniva trascinato su una slitta. Continuavano a camminare, stremati, congelati. Non si vedeva la fine della colonna. Calava la notte. Probabilmente avrebbero marciato per tutta la notte. Si insinuò una sensazione orribile di disfatta. Fu in quei giorni che prestammo giuramento. Il comandante dell’Accademia militare dove tenevamo i nostri corsi, il bel generale Biasi – fino a poco tempo prima attaché militare in Italia – arrivò su una slitta bassa. Avanzando con cautela nei suoi nuovi valenki12 neri, entrò nel locale dell’Ufficio agrario provinciale dove il nostro primo gruppo era allineato per giurare. Avvicinò le mani alla grossa stufa al centro della stanza per riscaldarsi e disse solo: “Il destino della nostra patria è in pericolo.” Avanzammo uno alla volta e leggemmo il testo: “Se infrangerò questo mio solenne giuramento mi colpisca il severo castigo della legge sovietica, l’odio di tutti e il disprezzo dei lavoratori.” Poi ognuno firmò. Le lezioni continuano. Argomento: “L’organizzazione dell’esercito tedesco.” A tenerle è un capitano con una scriminatura netta che gli divide i folti capelli castani, un bell’uomo sui trent’anni. Noi non prestiamo la giusta attenzione, siamo combattuti. La nostra anima è già da un’altra parte, solo il corpo è qui, in questo locale dell’Ufficio agrario con le finestre sulla strada principale, una strada bianca che porta alla Volga e prosegue, fino al fronte.


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Quanti obici ha un reggimento d’artiglieria tedesco, quante munizioni per queste armi. Il calibro dei cannoni. I tipi di aeroplani: Henschel-126, Junkers-88, Messerschmidt-109. Non facile da tenere a mente… là, sul posto, vedremo, ma per ora non ci applichiamo al massimo. Le lezioni dell’insegnante esterno Auerbach sono più vivaci. Ci esercitiamo: “Tu sei il prigioniero, io il traduttore.” “Io il prigioniero, tu il traduttore. Parleremo dell’interrogatorio in quanto tale.” L’insegnante esterno Auerbach non somiglia agli altri insegnanti-capitani con una riga netta nei capelli. Bassino, con un completo blu di panno comprato nella capitale, è un alieno in mezzo a tutti quei giubbotti militari, quei pastrani grigi. È nato in Svizzera ma ha trascorso la maggior parte della sua esistenza in Russia e ha una dedizione assoluta nei confronti del lavoro. Si può dire che il lavoro è la sua terra natia, che lui coltiva. I nostri corsi sono appena iniziati, non esiste ancora un sistema di insegnamento codificato e dunque lui ha il suo spazio, è assolutamente libero di utilizzare un metodo tutto suo. E noi ci rimpinziamo di nozioni utili. Per acquisire il lessico militare nella lingua del nemico, traduciamo documenti appena arrivati lungo la Volga dallo Stato Maggiore Generale, datati dicembre: “Promemoria in presenza di temperature molto basse. Rimedi sussidiari per difendersi dal gelo. Nell’elmetto inserire del feltro, il fazzoletto, carta da giornale appallottolata oppure una bustina insieme al passamontagna. Utilizzare le fasce mollettiere per fare passamontagna e soprammaniche. Si possono fare soprammaniche anche utilizzando vecchi calzettoni. Meglio indossare due camicie (anche sottili) invece di


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una pesante (tra i due tessuti si forma uno strato di aria che è la migliore difesa contro il gelo). Difendere dal freddo soprattutto le parti del corpo al di sotto della cintura mettendo uno strato di carta di giornale fra la camicia e la maglia, o con bende fatte di stracci. Per gambe e ginocchia: carta di giornale fra mutande lunghe e pantaloni…” Questo ci fa sorridere. Il nemico è umiliato. Siamo al settimo cielo perché loro, le canaglie, soffrono il freddo e avvolgono con i giornali le loro cosce. Ma, più in generale, per il fatto che loro soffrano il freddo come noi c’è qualcosa di assurdo. Finché si tratta di obici, di X-126 o di Ju-88, dei paragrafi del regolamento, è tutto più o meno chiaro, coerente, impalpabile e minaccioso. Ma leggendo un promemoria del genere ti immagini le loro sofferenze: loro soffrono il freddo, loro – che siano maledetti – sono persone. La Volga imprigionata nel ghiaccio ci ha tagliato fuori dal mondo esterno. Ma a tarda sera una notizia corre per queste strade deserte e battute dalla neve: i tedeschi sono stati cacciati indietro da Mosca! Non riusciamo a starcene seduti a scuola, corriamo al dormitorio dei ragazzi, ci abbracciamo, cantiamo. Poi arriva una lettera di mio fratello, ricognitore a cavallo nel reggimento volontari di Mosca: “Qui da noi i tedeschi scappano…” Addirittura! …Ricordo. L’anno passato. C’era già la guerra. Già era stato detto: il popolo russo difenderà la patria, l’onore, la libertà. Mosca. Già le macchine con bandierine straniere erano sfrecciate per le nostre strade, a portare fuori dalle nostre sventure le famiglie delle ambasciate. Sono tra la folla muta accanto a un altoparlante, alla porta Nikitskaja. La voce annuncia: situazione


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pericolosa. Di fronte, il manifesto di un film: Quando si svegliano i morti. Ancora un ricordo del primo giorno di guerra: le tende. Distribuite a tutti. In carta spessa e resistente, mai vista in precedenza. Le fissiamo, le sistemiamo, le mettiamo alle finestre per non far passare la luce. Fino a quando la guerra non sarà finita. Ormai qualunque cosa, qualunque opera, avrà un’unica misura: la fine della guerra. Per esempio, stai stirando i pantaloni: – Ecco, ora li porti fino alla fine della guerra. Una nuova concezione del tempo. Non presente, non futuro, ma proteso in un futuro presente, anzi in un futuro evocato, la fine della guerra. Ed evocato flebilmente. Siamo ancora scossi, stupefatti, tutti presi dalla novità. Allora eccola, è questa la guerra di cui abbiamo tanto parlato. Ma siamo ancora interi, vivi, non l’abbiamo ancora provata di persona. Già Churchill ha detto “Bombarderemo Berlino giorno e notte”. Già le prime bombe sono cadute su Mosca. Già sono state introdotte le tessere annonarie. In città sparisce prima una cosa, poi un’altra. Ma la città ci apre i suoi volumi, le sue superfici nascoste. I suoi tetti dove noi, staccati dalla terra, stiamo di guardia per scorgere le bombe incendiarie. I suoi scantinati che uomini e donne, immortali al loro posto di guardia, con le maschere antigas buttate in spalla, indicano alle persone in fuga per un allarme. Dove si odono scoppi di bombe in strada, dove piangono bambini e singhiozzano donne. Dove un bimbo di sei anni, in piedi accanto alla madre seduta in terra che culla un neonato avvolto in una coperta, la mano sulla spalla della madre, le sussurra con le labbra all’infuori: – Non ci sbombardano, vedrai.


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Ma una città non l’afferri tutta in una volta, non la stringi tutta nella guerra. Una città è fatta di più strati ed è ancora legata al suo recente passato e dunque non è tutta in guerra. Ma anche gli aspetti ordinari della vita cittadina sono straordinari, adesso. Il profumo dei fiori di tabacco nel nostro cortile. Le stelle che precipitano sulla città da un cielo ora profondo. È già agosto, cadono le stelle. (Scrissi allora ad agosto sul quaderno: “Ricordarsi che tutto questo era davvero così: il tabacco, il potere sovietico, le stelle cadenti.”) La cassetta delle lettere nell’androne con una cartolina che annuncia l’inizio delle lezioni il 1° settembre, come al solito. Il tragitto dei tram e degli autobus che non è mai cambiato, dagli anni della scuola. Il piccolo ristorante sul Tverskoj boulevard, dove la pioggia ti spinge a cercare riparo, e scopri che ancora gli zingari cantano con voci rauche e strazianti. L’orologio cittadino a piazza Puškin, che la guerra non ha fermato: il faro di tutti i nostri appuntamenti. Il 1° settembre non andremo all’Istituto. Diciamo addio alla città. Partiamo senza ritorno. Perché quando torneremo sarà una città completamente diversa. Per una settimana ancora continuano le lezioni, poi qualcosa che somiglia a degli esami. Come al solito, mentre andiamo alla mensa cantiamo le ultime strofe d’addio: Eccolo il farabutto, eccolo avanzare eccolo, l’interprete militare lui qui, lui qui non ha imparato nulla. Lo segue una fanciulla… Qualcosa lo abbiamo comunque imparato. Non ci hanno inse-


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gnato le parolacce tedesche, come ci fa notare Auerbach. Che succede se il comandante vuole insultare il prigioniero, e l’interprete non sa come fare? Panico. Il comando ordina ad Auerbach di mettere insieme immediatamente un dizionario di parolacce tedesche. Lui prese l’abitudine di venire ogni sera nella sala dove ci preparavamo agli esami alla luce delle lampade a cherosene. “Perticone è una parolaccia?” Si consultava con noi: conosceva il tedesco molto meglio del russo. Si rattristava e guardava una studentessa di lettere di cui era innamorato. “Il vostro arrivo al fronte metterà in subbuglio una divisione bavarese al completo” le diceva con galanteria. Nelle ultime lezioni ci istruì in fretta: – Vi lanciate col paracadute nelle retrovie del nemico. Toccate terra. A un tratto da dietro un cespuglio spunta un nazista… Immaginate per un attimo… Non riesco affatto a immaginarmi una scena del genere, ma annuisco. – Voi gridate ‘altolà!’, ma non basta. Per intimidirlo dovete insultarlo con forza. – E sollevandosi sulla punta dei piedi pronuncia minaccioso: – Adesso ti do una sberla da farti sbattere la testa al muro, e il tuo cervello poi lo dobbiamo raccogliere col cucchiaino. – Genosse§ Auerbach, ma insulti più pratici non ne hanno? Più tardi il dizionario delle parolacce fu spedito al fronte, ma il nostro Stato Maggiore non lo ricevette mai. E sebbene non abbia avuto bisogno di simile materiale didattico, è un vero peccato che un’edizione unica come quella non sia arrivata in mio possesso. Ma avendolo saputo una mia lettrice, e siamo ormai negli anni ’90, mi fece dono della sua copia. Fu senza dubbio un dono generoso: a giudicare dalla dedica, lei e l’au§ Compagno.


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tore erano legati da qualcosa che andava ben oltre il rapporto insegnante-studente. Sfogliando le pagine ingiallite trovai in varie combinazioni lessicali il ‘perticone’ (insieme a ‘spilungone’) prediletto da Auerbach, forse non privo di complessi per la piccola statura. Mascalzone, ladro matricolato, cannibale, macinacaffè (chiacchierone), figlio di puttana, tagliagole, bastardo, reazionario, cane hitleriano, culo…. Il dizionario consiglia di chiamare le SS lacchè di merda. Insomma, Auerbach era riuscito a far passare attraverso la censura militare alcune ‘paroline forti’ e alla fine della dedica si firma infatti come “L’autore dell’unico dizionario di parolacce al mondo, Theo Auerbach.” Mi viene da pensare che l’epoca di Stavropol’, l’epoca del dizionario, è il momento culminante dell’intera vita di Auerbach. Non so perché, mi invade la tristezza.

È iniziato il 1942 La sera dell’ultimo dell’anno è anche quella dei saluti che i dirigenti hanno organizzato in nostro onore nel sanatorio che ospitava la scuola. Il generale Biasi ci dice: “La vostra arma di battaglia è la lingua tedesca, a sparare ve lo insegneranno al fronte.” Con queste parole siamo congedati, con alcune nozioni di tedesco imparate in fretta in due mesi e mezzo: il Fronte aveva urgente bisogno di interpreti, non si poteva aspettare. – Genossen – dice Auerbach con voce solenne – questa è la nostra ultima lezione. Si interrompe e noi aspettiamo con pazienza, cerchiamo di non far rumore, di non respirare. Lui si solleva sulla punta dei piedi, e inizia a declamare:


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Kein Wesen kann zu Nichts zerfallen! Das Ew’ge regt sich fort in allen. Am Sein erhalte dich beglueckt! Niente trabocca giammai nel niente! L’Eterno, in ogni cosa, è presente: Tu tienti all’Essere, fonte d’amor!13 Per qualche istante rimaniamo confusi, non riusciamo a capire cosa succede. “L’Eterno, in ogni cosa, è presente.” Com’è detto bene in Goethe. Auerbach si interrompe e dice, con una durezza a lui inusuale: – Vi prego di non dimenticare, Genossen, che l’autore di questi versi era un tedesco. Quando noi avremo vinto e il nazismo in Germania sarà stato definitivamente sconfitto, avremo il diritto di dire a noi stessi che mai, neanche negli anni della guerra e della ferocia, mai abbiamo smesso di amare questa splendida lingua. Per quanto riguarda invece noi, il nostro rapporto con la lingua tedesca si è guastato fin dai tempi di scuola. Ora però questo non ha importanza. Siamo toccati dalla nobiltà delle parole che ci vengono rivolte. A tutti vengono distribuiti berretti con i paraorecchi. E finalmente le ragazze ricevono stivali in cuoio al posto di quelli in tela grezza. E così partiamo per davvero. Addio, Stavropol’. Siamo i primi diplomati. Non abbiamo vissuto qui quattro mesi, come è scritto sugli attestati per “corsi quadrimestrali”, né due mesi e mezzo, come è stato nella realtà, ma un’epoca intera, nel turbine lirico dell’imminente separazione.


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