“Perché le voci sono buone solo quando le accompagnano silenzi, quando dietro il colloquio delle corde rumori restano come di sangue; e angosciosi e insensati sono i tempi quando dietro il loro affannarsi vano non regna una sostanza che riposa.” RAINER MARIA RILKE, Il figlio1
1.
È in piedi in cucina e prepara, mescola qualcosa. Non è la nostra cucina, non è una di quelle che erano state nostre; è solo sua, mi è estranea. Cucina per me. È una novità anche questa. Lei è là e ripete ciò che voglio, quello che io desidero. Lei non esiste più, io ancora sì. E ho una volontà. Lei però va e viene anche quando non lo voglio: entra nella mia testa, mi rivolge la parola o rimane in silenzio, è contenta o soffre, mi pensa o mi guarda, mi telefona, mi domanda, mi scrive, fa tutto come se fosse viva. Sono insaziabile: mi interessa anche la sua vita privata, quella al di fuori, prima, dopo e senza di me; provo a ricostruirla con le minuscole tessere raccolte, ma ultimamente qualsiasi cosa lei faccia sembra che la faccia, o meglio, che l’abbia fatta, solo e sempre a me, per me, a causa mia, per mio tramite, con me o con il mio aiuto. In questo istante la voglio in piedi in quella sua cucina a mestare qualcosa in una pentola. Magari una delle sue specialità imparate all’estero come la salsa ai capperi che accompagna la bistecca alla griglia. Le faccio ripetere anche molto altro: ad esempio in questi ultimi tempi mi piace guardarla di nascosto dal mio letto mentre si strucca seduta al suo antico tavolino da trucco, sotto l’immenso specchio veneziano dalla cornice dorata, e si osserva attentamente nell’altro specchio antico dalla cornice d’argento montato su piedi, dopodiché esegue piccoli, metodici, precisi e invariati movimenti rotatori con batuffoli di cotone imbevuti di crema, quando è necessario fa smorfie o gonfia metà del viso, strofina la pelle, e alla fine la unge anche
18
MIKLÓS VAJDA
con un liquido che chiama “misto da scuotere”, che si rapprende immediatamente e le trasforma il volto in quello bianco di un pagliaccio. Poi lo deterge e io mi riaddormento. La stanza è tutta a specchi, anche i sei sportelli dell’armadio a muro sono rivestiti di specchi fino a terra. Il mio letto sta qui, nella sua camera da letto; nella stanza dei bambini dorme la mia Fräulein tedesca. A volte mi sveglio in piena notte quando arriva dal bagno silenziosa nella sua vestaglia di seta gialla e dopo l’applicazione di altre creme, stavolta per la notte, la sento coricarsi, girarsi di continuo, trovare la posizione nel letto, raschiarsi la gola, emettere un sospiro appagato per poi addormentarsi di gusto, respirare a bocca spalancata, rumorosamente, soddisfatta, proprio come di recente anch’io mi sono scoperto fare. Oppure la guardo salire in macchina verso le undici del mattino, truccata, con indosso un completo, cappello, guanti e scarpe con il tacco alto; solleva dal viso il velo alla moda dalla trama ariosa, fa retromarcia per uscire dal garage e prende la corsia di sinistra – si teneva ancora la sinistra – per scendere via Sashegyi, poi via Hegyalja, diretta al centro per sbrigare delle commissioni, per poi incontrare al bar Mignon, inaugurato di recente e primo nel suo genere in Ungheria, le amiche, ed eventualmente anche mio padre, che a volte la raggiunge dall’ufficio facendo due passi per concordare il programma della serata e del giorno dopo, e per parlare di ciò che in quel momento gli interessa. Da lì tornano a casa per pranzare insieme. Oppure quando al termine del colloquio mensile a Márianosztra, e in seguito a Kalocsa, viene portata via da una guardia armata, mentre nella sala divisa in due da una fitta rete metallica, fra le guardie e le detenute spinte fuori sotto i grandi ritratti di Stalin e Rákosi, attraverso una porta di ferro a due ante, all’improvviso si apre un piccolo varco nella mia direzione, che lei forse avverte, perché si arresta per un istante,
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
19
si sporge verso di me sopra la spalla intuendomi ancora là a guardarla. Il berretto piatto della guardia già nasconde il suo viso per metà, ma i suoi occhi appena contratti, la testa reclinata, il lieve sorriso e i lucciconi negli occhi mi raccontano molto più di quello che nei quindici minuti trascorsi in presenza di una guardia fosse riuscita a comunicarmi. Non l’avevo mai vista piangere. Non pianse quando morì mio padre né quando morì sua sorella maggiore. Non sapeva, non aveva mai saputo, non aveva mai voluto, non era mai stata abituata e non era mai stata incline a esprimere i suoi sentimenti più impetuosi direttamente, a parole, meno che mai con vivaci manifestazioni esteriori. Quando uno di noi doveva partire mi abbracciava, mi stampava un lieve bacio sul viso, seguito da leggere pacche di incoraggiamento sulla schiena, e con il pollice mi disegnava una croce sulla fronte. Fu questo il nostro congedo anche alla fine di dicembre del 1956 alla Stazione Sud: entrambi a pezzi nel nostro intimo, come le rovine della città, piangevamo senza lacrime e in silenzio, perché sapevamo che non ci saremmo visti per molti anni o forse mai più. Non l’avevo mai sentita cantare o canticchiare. E mi torna spesso in mente l’episodio del telefono che squillava nella sua casa americana con lei che mi guardava imbarazzata come per chiedermi, senza pronunciare una parola, di rispondere, perché aveva problemi con la lingua, in particolare al telefono. Il più delle volte erano ungheresi a chiamarla, perché aveva ben pochi conoscenti di altre nazionalità. Rivedo spesso quello che potrebbe essere il filmato di quel suo sguardo implorante che per me è una punizione, una sorta di autoflagellazione. Provavo pena per lei, tuttavia un paio di volte le feci notare che in tutti quegli anni avrebbe potuto pur imparare la lingua decentemente. Mi pentivo subito e non sono mai riuscito a capire che cosa mi costringesse a educarla, a criticarla, sottolineando co-
20
MIKLÓS VAJDA
sì la mia estraneità, ovvero reiterando il mio rifiuto. Un’urgenza non limpida, da chiarire, mi portava a infierire dove era più sensibile, arrivando spesso fino in fondo. Vedevo che le dispiaceva, che la addolorava e la rattristava; ne soffriva e si chiudeva in sé ma l’accettava con saggezza e lo aggiungeva al resto. Forse capiva istintivamente quello che io non comprendevo. Questo gioco scorretto era presente anche prima dei suoi anni in prigione e lo aveva sopportato con dolore, ma l’idea che la casualità biologica le avesse assegnato un adolescente tanto difficile forse la faceva ancora sorridere. Poi, però, le bastava poco per tornare quella di sempre. Era dotata di una pazienza e di una saggia comprensione quasi infinite, che si nutrivano da una sorgente ben al di sotto della superficie. Non mostrava altro. Non c’erano mai stati abbracci inaspettati, vezzeggiamenti, baci affettuosi senza motivo o risate scherzose, giocose prese in giro, spensieratezza e buffonate. Alcune di queste forme espressive sono estranee anche a me. Possiedo invece capacità di riserbo e di discrezione, che però non sono sinonimi né di cupezza né di mancanza di colore, e nemmeno d’indifferenza, perché non escludono calore, gentilezza, attenzione e allegria, e possono vestire lo spirito di quella sottile ironia che mi piace tanto. Ero abituato a cercare in altri, istintivamente e almeno in parte, quello che in lei non potevo trovare, e sin dalla nascita lo scoprivo in splendida abbondanza in Gizi, nella mia adorata madrina, e in forma più semplice e modesta nella Fräulein di turno. In seguito lo cercai nelle ragazze e nelle donne con risultati decisamente alterni. Invano, perché in verità non è possibile ricevere altrove quello che non abbiamo avuto dalle nostre madri, e nemmeno ciò che abbiamo avuto. Di questo sono sinceramente convinto. Negli ultimi tempi, da quando lei non c’è più, la sento più vicina. Per molto tempo l’avevo considerata un’anima sempli-
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
21
ce. Un’istintiva con pregiudizi non in grado di dare forma alle impressioni e agli impulsi, salvo quando doveva esprimerli e prendere posizione. Ma ho capito di essermi sbagliato. Non solo aveva un ricco mondo interiore, strutturato, con molti sentimenti e stratificazioni, ma anche un mondo di idee e di gusti basato sulle tradizioni familiari e sulla classe di appartenenza. Rimiro le immagini di alcune sue esternazioni memorabili, le esamino, le interpreto ancora una volta e giungo sempre alla stessa conclusione. Le sue opinioni erano intelligenti, mai istintive o improvvisate ma ponderate, e all’occorrenza sapeva spiegarle in poche parole e in maniera eccellente. Aveva moralità e ottimo gusto, la sua impressione sulle persone era pressoché infallibile. Non era snob, era gentile e amichevole anche quando era una gran dama, e non si rivolgeva mai con accondiscendenza alla servitù. Leggeva molto ma non era colta. Grazie a lei già nei primi anni dell’adolescenza mi avvicinai a Balzac e a Dickens, nell’età in cui prevalgono Karl May e Jules Verne. In vecchiaia lesse le memorie di Churchill con grande piacere. Aveva fatto le superiori in una scuola femminile ad Arad ma la sua famiglia, proprietari terrieri di origine serba in seguito divenuti ungheresi, dopo l’occupazione rumena si era rifugiata a Budapest, e solo per poco nel tempo poté finanziare le sue lezioni di violino da Hubay. La foto della bellissima ragazza snella dai capelli lunghi che suona rapita il violino – se si può dare retta all’immaginazione – testimonia una musicalità appassionata. Raccontò che quando erano finiti i soldi avevano regalato il prezioso strumento a un bambino prodigio cieco e povero. Sorprendentemente non mostrò mai più interesse per la musica. Forse aveva un contenzioso con il destino? Fatto sta che non frequentava mai né concerti né l’opera. Il consumo di musica della nostra famiglia si esauriva con l’ascolto, durante il pranzo, della selezione di dischi di esecutori di pri-
22
MIKLÓS VAJDA
m’ordine che la radio trasmetteva la domenica a mezzogiorno. Forse perché mio padre non amava affatto la musica. Io fin da piccolissimo ne ero fortemente attratto e strimpellavo sul meraviglioso pianoforte Steinway che la mia madrina aveva avuto in regalo da Horthy; ma il mio desiderio costantemente reiterato di voler imparare a suonare il pianoforte era sempre stato considerato un capriccio passeggero e infantile e, caso unico, come tale negato. Tuttora non riesco a perdonarglielo. Per lo più le chiedo di raccontare e di rispondere alle mie domande, ma le mie osservazioni prive di tatto o persino provocatorie la mettono spesso in imbarazzo; la correggo, le faccio delle lezioncine, a volte la offendo proprio, la punisco, le dimostro la mia superiorità intellettuale, le chiedo dei chiarimenti, la prendo in giro e subito dopo desidero farle sapere, con terribile, paralizzante rimorso, che so di averla offesa; tuttavia non riesco a dirglielo, né sono capace di chiedere scusa e in generale non ce la faccio a riprendere l’argomento, e di conseguenza a dirle che non volevo ferirla. Rimane tutto sospeso, lasciando dentro di me un lungo e lugubre crepitio, come un foglio di giornale impigliato in una staccionata. Anche quando lei ha già superato tutto, o per lo meno così sembra. Ancora oggi, quando nel sogno rivivo quegli episodi, il rimorso mi duole nel petto al punto da risvegliarmi. Lei però sa controbattere, non per vendetta, bensì in difesa, e sa mettermi in imbarazzo, quando ad esempio alle mie domande curiose sulla famiglia replica amaramente che un tempo me ne infischiavo dei suoi avi, che poi sono anche i miei, anzi, un tempo addirittura mi vergognavo di annoverare fra loro aristocratici e nomi storici. Non mi importava neppure del leggendario generale impiccato ad Arad. La nonna era una baronessa, non era colpa sua, qual è il problema? Oggi sulla parete della mia casa, accanto ai ritratti degli avi famosi, è appeso anche il pomposo albero genealogico del nonno.
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
23
Ora sta cucinando per me, in quella cucina, in una maniera che definirei dimostrativa: con metà del corpo è rivolta a me e chiacchiera allegra con orgoglio non celato. La sua figura alta e slanciata è un punto esclamativo nella cucina dimessa: guardi, ho imparato a cucinare! Vuole dimostrare – è sempre intenta a dimostrare qualcosa – che sa cucinare e pure bene. Prima preparava, ma solo se era costretta, qualche zuppa, il semolino al latte, la frittata, la fettina in padella, le fette di pane fritte e poco altro. Si annoda un grembiule a quadretti verdi e bianchi, sotto indossa una camicetta di seta color crema con un filo di perle (bigiotteria economica ma di buona fattura, l’originale era finita nell’Unione Sovietica) con la gonna di un completo beige a spina di pesce, e porta scarpe eleganti, strette, ma non più con i tacchi alti. Rimane così fino al momento di andare a dormire (naturalmente senza più il grembiule), vestita da ufficio, non si toglie nemmeno le scarpe, mentre per me è la prima cosa da fare non appena arrivo a casa, qui come in Ungheria. O meglio là come qui. Non capisce che fastidio possano darmi le scarpe. Le pantofole vanno indossate solo per andare a letto e per alzarsi. Di giorno è unsoarnirt, dice. Detesto questa mostruosa coniazione: un aggettivo francese con il prefisso privativo tedesco in salsa magiara, una specie di grillotalpa, che scritta fa un effetto ancora più terribile. Era un termine ricorrente già durante la mia infanzia, lo usavano le sue sorelle e anche i miei cugini, era probabilmente il lascito addomesticato delle bambinaie tedesche e francesi che si alternavano ad Arad. Ovviamente glielo faccio notare, e non è la prima volta, con tono mite ma forse con irritante o persino sprezzante superiorità; le spiego che ci sono molti altri modi per esprimere lo stesso concetto, non c’è motivo di usare un termine straniero, meno che mai uno storpiato e tanto brutto. Naturalmente si offende ma non lo dà a vedere; naturalmente me ne
24
MIKLÓS VAJDA
pento ma non lo do a vedere. Smettiamo di parlare. Le nostre conversazioni sono sovente stentate o superficiali. Non siamo persone loquaci. Non fra di noi. L’arrosto di vitello ai capperi è squisito. Non avevo mai assaggiato nulla di simile prima. A casa sono cresciute generazioni che non conoscono neppure l’esistenza dei capperi. Anch’io ero bambino quando li mangiai per l’ultima volta: tra le aringhe arrotolate i capperi verde scuro, umidi e lucidi, mi guardavano come tanti occhi di un animale marino, o per lo meno così me li ricordo. Un sapore noto, eppure completamente nuovo. Mi scruta il viso per vederne l’effetto e mi domanda se i capperi mi piacciono. Non le permetto di provare gioia, non c’è nulla di straordinario nel fatto che in America si possano comprare i capperi e molto altro che da noi non si trova. A volte anche in Ungheria vendono le banane, rispondo con la dignità di un nano, prima di Natale vendevano anche le arance. C’era da fare la fila, aggiungo per essere oggettivo. “Ma davvero?” domanda con voce delusa. Secondo me dovrebbe essere contenta, invece. Ha forse dimenticato che cosa significhi per noi un’arancia o una banana? Continuiamo a mangiare. Sento che l’arrosto di vitello con la salsa di capperi e le patate intere arrostite nella carta d’alluminio è una delle sorprese preparate per me da tempo e con cura. Un’autentica pietanza americana. Poi mi dice di saper cucinare anche molti altri piatti, e che me li farà assaggiare. Vengo a sapere che nel tempo libero a volte prepara delle torte su ordinazione di conoscenti ungheresi e di conoscenti dei conoscenti, per le loro feste, e loro gliele pagano. Sapevo già che occasionalmente fa anche la baby-sitter: quasi sempre in famiglie ungheresi ma le capitano anche famiglie americane, e racconta episodi divertenti con bambini pestiferi che non conoscono una parola d’ungherese e la chiudono nel bagno per ore. Racconta fiera dei dieci dolla-
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
25
ri guadagnati di recente con una torta Sacher. Compra lei gli ingredienti e mette in conto la manodopera che il suo giro di ungheresi le riconosce come costo. Insieme alla torta, che di solito consegna a domicilio, presenta anche gli scontrini degli ingredienti. Racconta ridendo di mance ricevute da sconosciuti. Le ha accettate? Ma certo, perché no? Deglutisco. Questi guadagni, aggiunti ai gruzzoletti risparmiati con il suo stipendio di modesta impiegata, prima approdavano sotto forma di pacchi di abbigliamento scelto con gusto e senso pratico nella mia casa sul Lungodanubio Groza, e ora trasformati in giocattoli e vestiti per bambini in via Vércse. È chiaro che il mio biglietto aereo implica pannolini sporchi e torte squisite, e anche il denaro che mi regala in abbondanza per le mie spese proviene dalla stessa fonte. Dopo mille ostacoli, alla fine la Repubblica Popolare Ungherese mi ha lasciato andare, ma con soli cinque dollari in tasca per un soggiorno di tre mesi. A trentaquattro anni ricevere del denaro per le piccole spese dalla propria madre è imbarazzante. Mia madre mi sta mantenendo. Racconta che sa fare quattro o cinque torte diverse, naturalmente seguendo le ricette, e finora sono venute tutte benissimo tranne la Dobos, perché lavorare il caramello non è facile. Mangiamo. Già da bambino mi piaceva osservarla mentre compiva piccoli movimenti risoluti con il coltello e la forchetta per disporre il cibo secondo una precisa idea topografica, come un regista cinematografico che prima di accendere la telecamera allestisce la scena e dà istruzioni agli attori. Sposta la carne a destra del piatto lasciando a sinistra i contorni raggruppati, ben separati fra loro. Girare il piatto è considerato volgare, un tabù da non prendere nemmeno in considerazione. Taglia un pezzettino di carne, lo inforca, raccoglie una quantità adatta di contorno sul dorso della forchetta e porta tutto alla
26
MIKLÓS VAJDA
bocca. Non è semplice, perché i capperi cadrebbero se non facesse giochi d’equilibrio con la forchetta, se prima non li appiattisse un pochino, se il pezzettino di carne o di patata inforcato non si mettesse di traverso, e se a ogni boccone lei non si inchinasse sempre di più sopra il piatto per infilarli in bocca il prima possibile. Dispone di una strategia a parte per il contorno di piselli, poiché solo alcuni riescono a rimanere fermi sul dorso della forchetta dietro la carne; si crea un surplus di piselli che la costringe a consumarne porzioni extra. Con l’aiuto del coltello infilza sulla forchetta i piselli che a loro volta ne trattengono altri leggermente schiacciati. Avevo visto altra gente usare questa tecnica, ma se spingendo e schiacciando i piselli qua e là nel piatto alla fine li trasformavano in una poltiglia, la tecnica di mia madre risulta innegabilmente più elegante e raffinata. Mangia con abilità e grazia. Le sue porzioni di carne contorno e insalata sono calcolate sempre in modo che finiscano tutte insieme: ogni boccone di carne ha il suo contorno e viceversa. Non lascia mai nulla nel piatto. Io neppure. Lei è sopravvissuta alla carestia dovuta a due guerre mondiali, io a una. Raccoglie con la forchetta e porta alla bocca anche la salsa o il liquido eventualmente avanzati nel piatto piano. L’uso del cucchiaio non è contemplato. Reclina la testa in avanti, affonda la forchetta come fosse un cucchiaio, la gira appena un po’ verso l’esterno affinché il liquido possa colare solo per un istante e la porta alla bocca. È una tecnica spettacolare, richiede concentrazione e rapidità, costa tempo ed energia ma è efficace, e la sua inutilità non fa che nobilitarla. Da quando mangio con gli adulti adopero anch’io questa tecnica, che anche la signorina tedesca ha fatto sua di buon grado. Ma mentre per noi due è una seconda lingua, e commettiamo frequenti errori, per mia madre è la lingua materna, ci è cresciuta dentro, lei forse non ha mai visto nessuno mangiare diversamente. Mio
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
27
padre, educato in un ambiente differente, non seguiva questo rituale. Quello che non poteva infilzare lo spazzava nell’incavo della forchetta e se lo infilava in bocca. La salsa rimasta nel piatto, se gli piaceva, la raccoglieva col cucchiaio con tutta tranquillità, in caso contrario la lasciava. Se non avevamo ospiti faceva la scarpetta, a volte con la forchetta, altre volte persino con la mano! Lui sì che poteva, ma solo lui. Vedendomi adoperare lo stile materno, alla mensa universitaria già il primo giorno mi derisero e scoprirono senza difficoltà che provenivo dalla degenere classe borghese. Anche chi non aveva fatto studi marxisti-leninisti capiva che ero un nemico di classe. Da allora mangio con stile eterodosso e vivendo da solo ho perso classe, mentre mia madre all’estero, sebbene sola anche lei, raccoglierà la salsa con la forchetta fino al suo ultimo respiro. Silenzio. Sparecchia. Prende a lavare i piatti, la guardo, rifiuta l’aiuto. I suoi capelli castani non si sono imbiancati, probabilmente per l’effetto di qualche artifizio. È molto bella, i tratti del suo viso sono delicati, lo sguardo è mite, irradia calore, e il viso è pieno di vita malgrado i suoi quasi sessant’anni. Ora capisco perché un giornale frivolo di Budapest negli anni ’30 l’aveva definita “una delle più belle donne in città”. Si svolge la liturgia dello strucco prima di andare a dormire – ora però non la guardo dal letto come un tempo ma cammino avanti e indietro alle sue spalle e conversiamo, le racconto i giri che ho fatto quel giorno per New York – il “misto da scuotere” e i gesti sono quelli di una volta, mancano solo i begli specchi antichi. Il volto ancora femminile che ricambia il mio sguardo dallo specchio a buon mercato è molto attento, sa ancora provare gioia, è ancora armata di curiosità, vuole ancora vedere. Non soffre del parassitismo e del cinismo degli emigrati declassati, i muri di solitudine che la circondano non l’hanno indurita, il gigantismo, gli spazi immensi e la frenesia di questo mondo a
28
MIKLÓS VAJDA
lei estraneo non l’hanno trasformata. Come non l’aveva trasfigurata nemmeno la cella della prigione dove condividevano in nove l’angusto spazio. È sola, l’ho appurato seguendo prudentemente alcuni segnali e sentendo in giro, eppure speravo che avesse qualcuno. Non potevo chiederlo a lei, di quest’argomento non abbiamo mai potuto parlare. L’educazione impartita da mia nonna alle tre figlie, delle quali mia madre era la più piccola, prevedeva di incollare o addirittura di tagliare via le ultime pagine ritenute sconvenienti anche del più innocuo romanzo per ragazze, quando il pretendente giovane e bello nonché impeccabile sotto ogni aspetto, nel gran finale tanto atteso, ossia nell’occasione del fidanzamento ufficiale, poteva finalmente e per la prima volta sfiorare la mano dell’adorata ragazza innocente. Mia madre ricorreva a un metodo meno radicale e per lei più comodo: l’argomento semplicemente non esisteva. La mia educazione sessuale in famiglia si limitava a un’unica frase sentita da lei all’età di quattro o cinque anni, quando ero malato di qualcosa, forse d’influenza. “È proibito giocare con il pistolino.” Tutto qui. Da mio padre nemmeno questo. In seguito alla materia in questione mi avvicinai da studente privato. Frequenta qualche parente e amica, tutti ungheresi, e con due di questi ha rapporti stretti. Sospetto, sento, vedo, perché mi arrivano segnali inconfondibili, che in verità vive per me, per lo meno ora sicuramente ed esclusivamente. Vuole mostrarmi, comprarmi, darmi tutto quello che può ottenere con l’intelletto e con il denaro in America, già che io ero rimasto a casa e non ero venuto via con lei. Si è preparata a farlo mettendo insieme anche dei risparmi. Appena sono arrivato mi ha portato in un grande magazzino non troppo caro e rispettando i miei gusti mi ha rivestito dalla testa ai piedi, come se fossi un bambino. Ha avuto suo figlio in prestito per tre mesi. Ho
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
29
dovuto buttare via alcuni miei capi d’abbigliamento, in questo è stata inflessibile. Risale ad almeno trent’anni fa la foto sulla rivista “Szinházi Élet”2 che la raffigura mentre gioca a solitario con Gizi. Gizi mette giù le carte, lei la osserva attentamente fumando una sigaretta, e con il pollice sinistro gira il suo anello con il sigillo, un suo gesto abituale. Anche ora porta quest’anello d’oro con il sigillo miracolosamente sopravvissuto sopra la fede, e non se lo sfila neppure per fare i piatti. Da bambino desideravo ardentemente averne uno uguale anch’io. Nel rubino di un rosso intenso, sotto una corona a cinque punte, è incisa la minuscola figura di un cavaliere al galoppo che vira a destra ammainando una testa con le trecce infilzata con la spada. Lei mi aveva spiegato più volte, sempre pacatamente e ragionandoci sopra, che non era possibile, non potevo averlo perché non ce l’aveva neppure mio padre. Mi addoloravo, mi arrabbiavo, non riuscivo ad accettare di non esserne degno. Come mai proprio io no? Io, che ottenevo tutto quello che volevo. Per la prima volta il mio mondo rivelò i suoi confini, e scoprirli era per me insolito e incomprensibile. Avrei dato tanto per poter girare anch’io un anello al dito conversando e rispondendo incurante a domande curiose come faceva lei. In ritardo di qualche anno e qualche epoca dopo, la rimproverai per l’anello con il sigillo. Prima della nazionalizzazione dei licei frequentavo l’istituto dei cistercensi ma leggevo avidamente Ady, Móricz, Dezso ´´Szabó, László Németh, Illyés, Zoltán Szabó, Lajos Nagy, Attila József e Bibó sulle pagine di “Válasz”3, e mi vergognavo di mia madre anche con gli altri, perché il suo anello con il sigillo, un retaggio del feudalesimo, era in discordia con i miei ideali di uguaglianza vissuti intensamente. Obbedendo alla mia richiesta ostinata, trascorreva le serate a scucire rassegnata, con faccia cupa e senza dire una parola, la corona a cinque punte ricamata sopra le
30
MIKLÓS VAJDA
iniziali dai pezzi rimasti del suo corredo: tovaglie, tovagliolini, biancheria da letto, asciugamani, canovacci da cucina e stracci per spolverare. Dopodiché accadde l’imprevedibile: dovetti assumermi la responsabilità dell’anello con il sigillo un tempo tanto ambito e poi altrettanto disprezzato, perché la dittatura lo infilò anche al mio dito. L’anello divenne un pericolo e io mi indignai perché non era questo il mio intento. Temevo per lei e volevo convincerla a sfilarselo perché poteva metterla nei guai. Non mi dava retta. L’aveva portato in tutta la sua vita adulta, poiché non rinnegava la sua famiglia, non si vergognava delle sue origini, disse con una punta di ironia. Poco dopo, nel novembre 1949, fu arrestata con l’accusa del tutto assurda di diffusione di notizie false. “Con chi scopi, puttana aristocratica?” le domandò il primo poliziotto che la interrogò al numero 60 di via Andrássy. Nella piccola cucina c’è di che essere orgogliosi. Fra gli oggetti ammiro un arnese sconosciuto appeso alla parete accanto all’apriscatole elettrico: si tratta di una lastra di cartone di un metro quadro, dipinta di bianco e perforata, incorniciata in casa con nastro isolante rosso; nei fori appositi sono sistemati ganci a distanza appropriata, dai quali pendono utensili da cucina e attrezzi. Una semplicissima e magnifica invenzione del pragmatismo americano. L’ha vista da qualche parte, l’ha comprata, l’ha incorniciata e l’ha inchiodata con le sue mani alla parete, praticissimo, dice, fa risparmiare un sacco di spazio. Non ricordo di averla mai vista nella nostra vita precedente, nelle nostre vite precedenti, con un cacciavite o con un martello in mano. Ora possiede pinze, scalpelli, lime, chiavi inglesi, metri e nastri isolanti che tiene in una cassetta degli attrezzi da vero professionista ed elenca fiera le tante riparazioni per le quali li ha usati. Ci trasferiamo nel living room – chiama così il soggiorno con
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
31
un sorriso misto a una velata richiesta di perdono; difficilmente potrebbe chiamarlo salone e noi non usavamo il termine “soggiorno”. Questo vano è buio anche di giorno, è il più buio di tutto l’appartamento che dà sul cortile. Racconta ridacchiando e con ammiccamenti per me del tutto nuovi, particolari e birichini, abbassando anche la voce, che dalla finestra che dà sul piccolo spazio comune di servizio si può guardare dentro uno degli appartamenti del palazzo vicino, in cui la sera, a luci accese e con la finestra aperta, il portiere nero di notevole mole sdraiato sul divano – “mio caro Muksi, ehm, si immagini!” – si accarezza. E si sente persino il suo ansimare! Quindi bisogna tirare le tende anche di giorno. Alle pareti vedo alcune incisioni in cornici piuttosto rozze fatte chiaramente in casa. L’arredamento della camera è composto da due poltrone vetuste e molto diverse fra loro, che con una certa dose di buona volontà possono essere definite antiche, da due tavolini anch’essi diversi fra loro, di fattura recente ma in stile antico, e da una piccola cassettiera poggiata su sottili piedi attorcigliati, parente dei tavolini solo perché anch’essa è un’imitazione. Sono acquisti occasionali, un pezzo per volta, fatti in un thrift shop, ovvero in un negozio che vende roba dismessa dai signori, e il ricavato va in beneficenza. Sui tavolini tiene ninnoli, piccoli oggetti antichi d’argento, rame e porcellana, una foto in una cornice d’argento, un bel posacenere antico; per lo più sono pezzi ereditati dai Csernovics e dai Damjanich che su sua richiesta le ho portato io da casa. Mi ambiento subito e senza esitazione, sembro uno di ritorno a casa. Ci sono anche dei vasi sui tavolini e come in passato non mancano i fiori. Un gusto che mi è ben noto e che rispecchia quello degli avi. Fino alla fine della guerra avevo vissuto sul colle Sas fra i suoi magnifici mobili antichi. Raccoglieva in un portasigarette di metallo le piccole scaglie lucide e marroni che si staccavano, e ogni tanto
32
MIKLÓS VAJDA
veniva un bravo restauratore di mobili che le riattaccava con precisione chirurgica come fossero pezzi mancanti di un collage. Medicati, i mobili riconquistavano la loro antica dignità e tornavano a splendere maestosamente. I surrogati a buon mercato che sembrano tante quinte teatrali la aiutano a ricostruire l’atmosfera di un tempo e a sentirsi a casa. Aveva salpato l’oceano con il desiderio irrinunciabile di non doversi separare dal proprio io, dal passato, dall’anello, dai capperi in equilibrio precario sul dorso della forchetta. E io mi commuovo senza però darlo a vedere. Nel living room c’è anche un mastodontico e goffo televisore. Racconta allegra di averlo trovato in strada a qualche isolato da casa; qualcuno l’aveva lasciato sul marciapiede con un biglietto che diceva che l’apparecchio funzionava. Faceva fatica anche solo a spostarlo, ma due giovani volenterosi si offrirono di trasportarlo in spalla a turno, rischiando di crollare sotto il suo peso. Lo deposero affannati ma ridenti in ascensore senza accettare nulla, nemmeno un caffè. In seguito un vicino di casa, un attore disoccupato, riuscì persino a metterlo in funzione. Così è l’America, questa storia ne è la palese conferma. Nessuno è lasciato solo. L’antenna è un cavo lungo almeno quindici metri, che secondo la stazione a cui si vuole sintonizzare va sistemato in punti sempre diversi dell’appartamento. I ripetitori trasmettono dai tetti di alcuni grattacieli di Manhattan che si schermano fra loro, e noi siamo solo a un quarto piano. Servirebbe un’antenna vera e propria, ma non se la può permettere. Il cavo arriva nella camera da letto dove fa un giro completo; capita però di doverlo portare in bagno, da lì fargli attraversare la camera degli ospiti e – dopo avergli fatto compiere un semicerchio – portarlo in cucina. I risultati cambiano a seconda se il rigido e distorto cavo di rame è sistemato sul pavimento, o all’altezza dei mobili, o se è appeso alla maniglia della finestra.
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
33
Se non si fa attenzione si può facilmente inciampare, quindi prima di andare a dormire bisogna raccoglierlo, e la sera dopo si ricomincia da capo. Lei dice ridendo che a volte deve correre su e giù durante i programmi più interessanti e spostare il cavo di qualche centimetro, perché dal bagno o dalla cucina lo schermo non si vede. Come per compensare il loro pallore, le immagini in bianco e nero sono spesso multiple e sovrapposte, ma chi è dotato di una certa curiosità e fantasia ci passa sopra. Lei ci ha fatto l’abitudine. La tivù americana trasmette anche ottimi programmi, potrò accertarmene con i miei occhi. A casa, in Ungheria, non abbiamo ancora il televisore, solo la portinaia ne ha uno. Mia madre ammira tutto quello che questo nuovo mondo offre; sorride, ride, si lamenta di rado, non vuole vedere i lati negativi. L’America per lei deve rappresentare una storia di completo successo, il paese dove ha trovato la libertà, la sicurezza, la possibilità di guadagnarsi da vivere, la tranquillità e un certo comfort. Una volta mi scrisse: “Qui ho tutto quello che ho desiderato in prigione: una casa calda, un bagno, un buon caffè e una vita senza paura. Mi manca solo lei, mio caro Muksi.” Ci sono tante persone gentili, gli ungheresi godono di un trattamento di favore, sono bene accolti, l’America è interessantissima, gioiosa ed è piena di sorprese fantastiche. Lei racconta meravigliata e il suo entusiasmo è contagioso. Presto ci sarà un rubinetto alla cui estremità verrà applicato un congegno che grazie alla scissione dell’atomo produrrà costantemente acqua calda, senza bisogno di una caldaia. Funzionerà anche come riscaldamento. I giornali, le radio, le televisioni anticipano il numero degli incidenti stradali previsti per il fine settimana, sanno quanti centimetri di neve cadranno e dove, e le previsioni si verificano quasi sempre. Esiste una trasmissione dal vivo alla radio da chiamare in caso di
34
MIKLÓS VAJDA
problemi, e l’aiuto arriva sempre. Sa che nella madrepatria questo non esiste nemmeno nei sogni. Parla dei tre scippi che ha subìto per strada tornando a casa al buio – malgrado fosse un buon quartiere – come di una curiosità locale, cercando di discolpare l’America. L’inglese ha addirittura un verbo per questo tipo di rapina, dice, come se questo potesse legittimarne l’esistenza. Tutto si svolse in pochi istanti. Le strapparono la borsa di mano e quando lei si riprese e avrebbe avuto il tempo per spaventarsi, non c’era più nessuno. In due occasioni fortunatamente aveva le chiavi nella tasca del cappotto ma la terza volta no; solo con grande difficoltà riuscì a entrare in casa e il giorno dopo dovette far sostituire la serratura. In tutti e tre i casi fu scippata da ragazzotti di colore, ciononostante prova pena per la gente di colore, la sostiene e da quando ha diritto al voto vota democratico. Da noi non ci sono rapine in strada, dico con voce che suona come se mi vantassi. Finalmente qualcosa che funziona meglio da noi. I vantaggi dello Stato di polizia, aggiungo con una risatina per evitare malintesi. In due occasioni, dopo qualche giorno, la polizia le ha riportato la borsa con i documenti ritrovata in una cassetta della posta, mancava solo il denaro. Per fortuna in America la gente gira con poco denaro contante perché paga quasi sempre con l’assegno. A casa, se dovesse capitare e se ritrovassero la borsa, dico io, arriverebbe una rozza convocazione alla stazione di polizia, piena di errori ortografici, dove dopo una lunga attesa mi rimprovererebbero con durezza di non essere stato abbastanza attento. È sollevata, non perché in Ungheria si stia peggio ma perché finalmente ho voluto ammettere qualcosa. Da noi il ladro sicuramente non userebbe la gentilezza di abbandonare la borsa depredata nella cassetta delle lettere, aggiungo per farla contenta. Per giunta non potrebbe neppure se volesse. Ridiamo.
RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA
35
Deve dimostrare continuamente, a sé stessa e anche a me, ora e sempre, che ha fatto bene a lasciare l’Ungheria malgrado il terribile rimorso per l’abbandono del figlio venticinquenne, diventato finalmente adulto. Il compito non è difficile, risulta ovvio che uscita di prigione per la seconda volta, ma sempre solo grazie alla sospensione della pena che avrebbe permesso ai suoi carcerieri di rinchiuderla di nuovo, volesse scappare, senza contare che anch’io insistevo con lei perché andasse via. Inizialmente feci finta di volerla accompagnare, quando però il viaggio – non privo di pericoli e molto costoso – fu organizzato, e per lei sarebbe stato molto difficile tornare indietro anche dal punto di vista psicologico, comunicai la mia intenzione di rimanere. Io invece devo dimostrare a lei e a me stesso che per me rimanere è stata la scelta giusta. Allora, non esente da pathos, credetti giusto non lasciare al suo destino la mia patria calpestata: cosa ne sarebbe stato se l’avessero abbandonata tutti? Covavo vaghi progetti letterari, ero innamorato della letteratura ungherese e anche di una bionda conturbante. Mia madre capiva questo secondo amore, il primo molto meno. Diceva che volendo avrei potuto scrivere anche all’estero. Nove anni dopo qui, in America, faccio sempre più fatica a dare credibilità alla mia scelta. Inoltre lo stimolo di dimostrare la correttezza delle nostre scelte lavora incessantemente in entrambi, ci stuzzica, produce tensione, passione, ci costringe a moderarci, provoca estraniazione al punto che a volte mi stupisco di me stesso ascoltandomi. E fluttua fra noi il suo desiderio a lungo non pronunciato ma tanto più avvertibile di farmi restare. So che questo suo desiderio non è dettato dall’egoismo, non solo dall’egoismo, ma dalla preoccupazione per il mio futuro e per la mia sicurezza personale. Verso la fine del mio soggiorno in un momento più comunicativo lo esprime chiaramente aggiun-
36
MIKLÓS VAJDA
gendo che mia moglie potrebbe raggiungermi in seguito, tuttavia il tono della voce è rassegnato, come se le parole le fossero solo sfuggite di bocca. Tramite un professore universitario americano incontrato in Ungheria ho ricevuto l’invito a tenere una conferenza in un’università di prim’ordine e dopo la conferenza mi è arrivata una proposta di lavoro molto intrigante. Ne è fiera, l’ho sentita mentre lo raccontava più volte al telefono. Posto di nuovo davanti a una scelta, cerco di orientarmi fra i due mondi seduto a cavalcioni in cima a un’alta staccionata, stavolta però con una certezza che insieme mi alletta e mi spaventa. Inoltre ormai ho una visione più chiara dell’America e delle prospettive che mi aspettano. Ma questa staccionata è una cortina di filo spinato che ferisce. Forse per questo ferisco sempre anch’io. Mi devo difendere dall’America, da mia madre. E anche da me stesso. Non torno mica in una giungla. Ma più si avvicina la partenza più si fa chiaro che in verità mia madre e io abbiamo avuto l’ennesimo colloquio fra detenuto e parente in visita. Un tempo avevamo soltanto quindici minuti al mese, ora ci vediamo ogni due anni ma più a lungo, eppure la situazione non cambia. Fra un incontro e l’altro possiamo comunicare anche per posta e telefono ma siamo censurati come prima, e probabilmente anche qui, in America. La differenza è che ora sarò io a essere riaccompagnato da soldati armati dietro le sbarre. Saranno loro a ricevermi già all’aeroporto. * La polizia è un tema molto importante. Per qualche tempo le si chiudeva lo stomaco anche qui alla vista di un poliziotto. In un’altra occasione mi raccontò che teneva una lametta in borsa nell’eventualità di essere arrestata di nuovo. Era determina-