Tajate - Monumento ai cavatufi

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Monumento ai Cavatufi Territorio di Acquarica del Capo

a cura di Mario Ricchiuto


Le riprese fotografiche, relative alle tajate, sono state fatte nel 2007-’08 in località Calìe, territorio di Acquarica del Capo, (Lecce).

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Li zzoccaturi, lu sabatu a menzitia tutti prisciati, la duminaca a crepa panza, lu lunidĂŹa, pane a cridenzia.

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Fotografia: Mario Ricchiuto Progetto Grafico: Carlo Ricchiuto

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Presentazione di Francesca Ruppi «Il Signore, per dar forma all’anima salentina, scelse la pietra. Dalla roccia veniamo e vi torniamo». Ed ancora: «Pietra siamo, pietra viva che resiste all’acciaio, ma, quando l’hai segnata, conserva eterna l’impronta della tua passione. Se la percuoti, sprizza scintille, si scheggia, taglia; arsa, si fa calce candida, impasta, lega. E côte che ti logora, e t’affina.» Così il Corvaglia, nel romanzo Finibusterrae (1936), descriveva la pietra, caratterizzata da una particolare “umanità”. Un materiale dalla personalità forte e dominante, capace, soprattutto, di adattarsi alle diverse manipolazioni e di presentarsi in forme sempre diverse. In “lei” sono confluiti bisogni individuali e collettivi, modalità di vita ed attività produttive. Le aree rurali sono prepotentemente segnate dalla sua presenza e sono state modellate nel corso dei secoli secondo una fisionomia unica ed irripetibile: piccoli o maestosi “abituri campestri” a secco, intricati labirinti di muri di recinzione, pietra che affiora o si eleva nelle modeste rugosità delle Serre. Qua e là, percorrendo sentieri silenziosi, si rivelano all’improvviso le ampie “voragini” delle cave, simbolo dell’antica o dell’attuale attività estrattiva, con i giganteschi piloni di pietra residua che, come le pareti, sono solcati dal ritmo regolare dei tagli. Sembra di essere in uno spazio irreale, circondato da una sorta di “partitura della memoria”, in cui sono stati incisi per sempre il sudore, la fatica, il dramma di una vita molto difficile, come quella dei cavatufi. E ci si accorge, addentrandosi in questi veri e propri canyon, che la pietra non è solo l’essenza del paesaggio ma è anche stata un valore di vita, che oggi merita di essere perpetuato. Questo lavoro, curato da Mario Ricchiuto, uno dei pittori salentini più apprezzati, costituisce, ancora una volta, un atto d’amore appassionato per il suo territorio. Nella sua vita professionale, artistica e privata, la pietra ha sempre giocato un ruolo importante: infatti, vivere ed operare in una masseria di Ugento, la Moresano, ubicata sui modesti rilievi delle Serre salentine, è già di per sé una scelta ben precisa. Qui la pietra si riscontra dappertutto; delinea gli spazi, li caratterizza, li segna, immersa fra irreali riposi campestri ed immensi verdi oliveti. L’artista non poteva trascurare un elemento così significativo e caratterizzante dell’agro acquaricese, quello dell’attività estrattiva, che ha segnato per lunghi decenni la produzione e la vita della comunità. Le cave di contrada Calìe, sulla Acquarica-Taurisano, rappresentano uno dei luoghi più interessanti dal punto di vista storico, economico e culturale, riecheggiate anche dal piccolo “monumento ai cavatufi”, collocato nelle immediate vicinanze e in prossimità dell’accesso al centro abitato. Il “monumento” del Ricchiuto vuole essere un omaggio agli “operai della pietra” e alle Tajate, in cui ambiente ed attività umana hanno espresso un dialogo profondo, secolare, concretizzandosi in un’area dalle valenze estetiche indiscutibili. Ma la bellezza va oltre e porta con sé i valori storici ed umani di un’intera comunità.

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“Tajate”: un paesaggio ignorato

di Mario Ricchiuto

Uscendo da Acquarica del Capo, in direzione Taurisano, possiamo notare un paesaggio misterioso e malinconico. Misterioso, perché ci ricorda le rovine di un’antica e sconosciuta città archeologica; malinconico, perché sembra che nessuno lo abbia preso in seria considerazione per quello che è e che rappresenta. Stiamo parlando delle cave, ovvero delle tajate: un importante monumento culturale ricco di valore storico, estetico, morale e paesaggistico.

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Le tajate sono grandi estensioni di terreno roccioso, tagliato e scavato dall’uomo (i cavatufi), sin dai tempi antichissimi, per estrarre conci di pietra tufacea. Tali conci, che noi del luogo chiamiamo piezzi, da sempre sono utilizzati per costruire le case. Li piezzi, proprio perché sono di pietra, hanno imposto l’utilizzo di archi e volte, creando così, di conseguenza, composizioni architettoniche di semplice e pura armonia. La melodia e la bellezza, quindi, sono già contenute nella materia stessa della pietra, nella natura stessa de li piezzi.

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I diversi strumenti e tecniche usati per estrarre i conci di pietra tufacea hanno dato luogo a due categorie di cave che, al primo sguardo, si differenziano per la diversa profondità, ampiezza e colore della roccia. Quelle più profonde ed estese, dal colore più chiaro, sono le cave più giovani, dove la roccia viene tagliata con i dischi dentati delle macchine elettriche. Questi lasciano sulle pareti tagli orizzontali e verticali, come fossero segni impressi su gigantesche sculture astratte.

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Le cave meno profonde, più piccole e dalla roccia più scura, sono le più antiche; là i conci venivano tagliati, fino agli anni 50, con un attrezzo a mano, lu zzoccu, ossia il piccone. Coloro che lavoravano cu lu zzoccu venivano chiamati zzoccaturi. I luoghi dove si tagliava la pietra li chiamavano tajate. Lavorare cu lu zzoccu è come zappare; solo che invece della terra si “zappava” la roccia. Con la sua punta stretta (lu panneddhu) si tagliava il concio aprendo solchi profondi (le carasse) poco più di 20 cm. Poi, con la punta più larga (la ucca) si colpiva lateralmente fino a che non si staccava definitivamente lu piezzu dal piano roccioso. Era questa la fatica che si ripeteva per l’intera giornata e per l’intera vita, fino a che la schiena riusciva a reggere. Nonostante che fosse un lavoro duro, molti lo preferivano anziché zappare nelle campagne. Dopo una pioggia abbondante, difatti, i contadini erano costretti a perdere giornate di lavoro per aspettare che si asciugasse la terra. Lu zoccature invece, appena finito di piovere, poteva riprendere subito lu zzoccu. Ed è proprio l’uso di questo attrezzo a mano che, attraverso i suoi segni, ha animato la tajata di tanto calore umano, e noi di così tanto sentimento e interesse per essa.

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La punta del piccone ha lasciato così sulle antiche pareti delle tajate due forme distinte di segni: quelli che, come righe di un quaderno, ci mostrano i diversi strati di roccia sbancati nel corso degli anni, e quelli dai tratti inclinati, lasciati ad opera delle continue e ripetute picconate. Possiamo inoltre vedere, attraverso la diversa inclinazione di questi ultimi segni, l’esatta posizione che aveva lu cavatufi in quel punto della parete e la direzione in cui avanzava il suo lavoro. La tajata assume così proprio l’aspetto di una scrittura incisa sulla roccia che vuole esprimere la bellezza di quelle superfici, la dura fatica di quel lavoro, la vita stessa di quei lavoratori che hanno costruito, senza volerlo, un documento importante della loro vita e della nostra storia.

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In prossimità dell’angolo formato dall’incrocio di due pareti si notano anche le scale, velocemente scolpite, i cui gradini non sono altro che grossolane incavature, profonde tanto quanto basta per poggiare un piede. La roccia, là dove si presentava più dura, veniva tralasciata, e il lavoro proseguiva dove la forza umana lo consentiva, dove la punta del piccone non rimbalzava, ma si conficcava, scheggiava e tagliava. E’ per questo che si sono venute a creare quelle strane sculture di muraglie, nervature di pietra durissima (li cavaddhi), che hanno così fortemente trasformato quel territorio naturale in un suggestivo paesaggio astratto e misterioso.

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Le tajate, soprattutto quelle antiche, appaiono oggi luoghi profondamente umanizzati dalle tracce di quelle mani che cosÏ tanto e duramente hanno lavorato. Ovunque si voglia posare lo sguardo si avvertono le schiene piegate dei cavatufi, si sente ancora l’eco dell’urto di quei ferri appuntiti che scarniscono la roccia con colpi precisi e costanti. Si percepisce la fame di tante famiglie che veniva placata con quella dura fatica.

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Le tajate oggi sono architetture scolpite, spazi vuoti sorti per sottrazione di mattoni, utilizzati poi per costruire gli spazi pieni delle case, del paesaggio urbano che vediamo lÏ di fronte, sulla linea dell’orizzonte. Qui si sente ancora con forza l’urgenza di quegli estremi bisogni umani rimasti impressi sulle muraglie di quelle tajate: rocce che vivono e vibrano di luce propria, e quasi ci implorano, con un grido disperato, di tenere nel loro riguardo un minimo di considerazione e di rispetto.

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Le cave degli anni recenti, a differenza di quelle antiche, hanno dimensioni impressionanti. Si avverte subito l’immensità dei vuoti, l’enorme massa di roccia mancante, l’infinità numerica dei conci tagliati e trasportati, ed il rumore stridente del ferro dentato delle macchine che con voracità affonda nella roccia per affettarla. E fino a che punto si arriva a sbancare! Basta vedere quelle isole rocciose, ritagliate giusto per sorreggere quelle piccole dimore rurali (le pajare), oppure i faraonici piloni, sui quali sono conficcati i pali di cemento dell’alta tensione.

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E’ grande l’emozione che si avverte scendendo nel labirinto della tajata. Là sotto, ci si sente protetti. Sembra quasi di trovarsi nel grembo materno della terra. Laggiù i profili delle muraglie sembrano ritagliati sullo sfondo dell’azzurro. Non esiste linea di orizzonte che separi la terra dal cielo. Le rocce entrano nel cielo ed il cielo entra nelle rocce. E la terra è più terra ed il cielo è più cielo. Il paesaggio è essenziale: uomo, terra, cielo. Ma tutto appare irrimediabilmente diverso quando si sale, e lo sguardo scopre di nuovo l’orizzonte maculato di rifiuti e fumo nero che gettano un’ombra di oblio sul meraviglioso pianeta delle tajate.

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Coperture con volta a botte e a stella con l’utilizzo dei conci di tufo

L’industria delle “tajate”

di Carmine Ciullo

Nel Medioevo, chi aveva la possibilità di costruirsi una casa, si procurava la materia prima (piezzi o tufi) dallo scavo delle fondamenta zzuccannu (picconando) il sottosuolo per ricavare la cantina, la cisterna, (“la sterna”) e la fossa biologica (“lu cessu”). Spesso li piezzi, dopo averli adoperati per costruire le pareti, erano insufficienti per la copertura, e allora, come diceva un detto popolare, e mò la giramo a irmici (embrici, tegole): il tetto veniva fatto di legno con le tegole. Queste erano le case dei meno ricchi. Al contrario, quelle dei signori, avevano la copertura a volta. Con l’aumentare della popolazione accrebbe anche la richiesta di case, e quindi di piezzi; si scelsero delle zone adatte per estrarli. Nacquero così le cave (le tajate).

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Zzoccaturi come Andrea Trani, Vito Longo, Alfredo Palmieri, i fratelli Carlo e Giovanni Ciullo, Angelo e Marino Stasi erano richiestissimi. Infatti il saper usare lu zzoccu, il piccone, non era da tutti. Più o meno il metodo era questo. Dopo aver spianato l’area, sul piano si misuravano e si segnavano le linee verticali ed orizzontali. Subito lu mesciu zzoccature incominciava a fare il solco (la carassa), largo 3 cm circa, con la punta stretta del piccone (chiamata lu panneddhu), picchiando sulle linee senza mai sbagliare un colpo. Quando arrivava a 20-21 cm di profondità, girava lu zzoccu dalla parte più larga (la ucca) e colpiva la base della forma incidendo lungo tutta la linea, per circa un centimetro e mezzo di scanalatura. Poi facendo leva con il piccone, batteva il fronte de lu piezzu cu lu maju (mazza di legno) fino a che non si staccava e dopo veniva rifinito. In una giornata, un esperto, riusciva a produrre al massimo 15 piezzi interi. Ma purtroppo non mancavano le giornatacce in cui quasi tutti questi finivano per rompersi.

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Con l’emigrazione, la domanda di case aumentò esageratamente. L’emigrante, dopo due anni di lavoro all’estero, comprava subito la zona per costruirsi la casa perché doveva sposarsi. Enorme fu l’esigenza de piezzi e lu zzoccu non riusciva ad esaudirla. L’era della cava moderna (inizio anni ‘50) iniziò con il tentativo fatto da Luigi Villani nel terreno della “villa”, oltre la ferrovia, dove, anni dopo, fu costruita la scuola materna. Cercò di sperimentare una macchina che doveva fare tutto il ciclo di lavoro. Non andò bene e la prova finì lì. Ritentò questa volta Gigi Valiani con più fortuna. Ma il boom della cava moderna avvenne quando si fondò la società “San Carlo” composta da cinque soci: Luigi Scarcia , Vito Palese, Giovanni Pennetta, Antonio Pedaci e Andrea Stivala. Quest’ultimo portava avanti anche la contabilità. Fecero arrivare da Ostuni delle macchine moderne elettromeccaniche. All’inizio erano alimentate da un generatore di corrente perché non c’era la rete. Per ogni cava operavano una, qualche volta anche due “ambidisco” (chiamata intestatrice) che faceva le carasse, l’altra la “scazzatrice” (chiamata anche scappatrice) tagliava lu piezzu alla base.

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Nacque così l’industria del tufo o piezzu, chiamato anche curignùlu. Industria che durò parecchi anni e servì molto allo sviluppo del basso Salento. Si formarono delle squadre di cavatori, una per ogni tajata. Tra i primi gruppi ricordiamo: quello composto da Andrea Trani, Giacomo Rosafio, Cesare Occhilupo, Andrea Mosca e Pasquale Pesolino; e quello composto da Luigi Ciullo, Rocco Ratano, suo fratello Francesco, detto “Ciccio”, Carlo Marzo e Cosimo Chiffi di Salignano, detto lu falotico.

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All’inizio la giornata lavorativa incominciava con il buio e finiva con il buio. Poi arrivò il sindacato che introdusse le otto ore. L’unità di misura era il palmo (25 cm). Lu piezzu normale (curignulu) era tre palmi (75 x 20 x 25 cm), poi c’era la “testa” un palmo, poi lu piezzottu due palmi e infine, a richiesta, altre misure tra cui quello di cinque palmi chiamato lu mmojucu, che serviva come architrave per le porte e finestre. Un palmo costava 12 lire (circa 10 centesimi di euro) di cui 7 andavano alla società e 5 al gruppo. Si arrivò a produrre dai 3000 ai 3200 palmi al giorno. Prima li piezzi venivano trasportati con i traini. Ricordiamo Luigi Sammali di Presicce che continuò da solo anche dopo l’entrata in scena del càmion. Tanti furono i cavalli che sfiancò.

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Tajata in località Colomba - Acquarica del Capo - Set. 2008

Anche se il lavoro era durissimo, ci fu un solo incidente mortale, quello in cui rimase vittima Donato Duca, su cui franò addosso una parete della cava. Altri riportarono danni all’udito per aver subìto per lunghi anni, senza alcuna protezione, l’assordante rumore dei dischi dentati che tagliavano la roccia. I grandissimi disagi dei cavatufi si manifestavano nel periodo estivo per il forte caldo, perciò si spostava l’orario della mattina alle ore 4 o 4 e mezzo. Ma, se anticipando l’inizio della giornata essi riuscivano a sottrarsi alle ore più roventi, nulla poteva proteggerli dal forte vento di tramontana, che sbatteva il tufo sui loro volti sudati e appiccicosi. Quando tornavano a casa, totalmente trasfigurati dal bianco tufo che tutto copriva meno che gli occhi, le mogli vivevano momenti di sgomento vedendoli entrare nell’ombra della dimora come bianchi fantasmi.

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Da sinistra verso destra: Carlo Marzo, Luigi Ciullo, Lucio Scotti, Carmelo Aleardi - Anni ‘60 - loc. Calìe - Acquarica del Capo

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“Tajate”: scenografia di una bellezza irreale

(dal libro Oggi è il mio domani di Antonia Occhilupo, “ Icaro” editore)

“…Al mio paese l’ancestrale mondo contadino coesisteva con l’artigianato fiorente della paglia e con il difficile lavoro delle cave. Tali attività rappresentavano un volano per la prosperità del paese e rinsaldavano la salvaguardia della propria identità culturale così poliedrica rispetto ai paesi limitrofi. Attualmente molte cave abbandonate circondano il paese che pare macerato, ferito, lacerato, sventrato da aperti crateri spenti….”

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Il luogo delle cave è un non luogo. Sorveglia case senza tetti, un po’ come antiche rovine di interi quartieri scomparsi, come paesi abbandonati di corsa, vetuste cattedrali senza tempo, che si ergono svettanti verso il cielo, immensi anfiteatri assolati senza spettatori, palmenti senza mosto e frantoi senza olio a cielo aperto, elevatissime mura in rovina, dedali con pareti altissime che circondano sconfinati cortili, aie tufacee che si perdono a vista d’occhio, labirinti senza urla festanti o impaurite di bambini che giocano a nascondino… Per alcuni anni, in quel luogo magico, ormai fermo e immutabile, è stato allestito un presepe vivente. …Ancora oggi la cava è una scenografia di una bellezza stupenda, rarefatta, irreale, pur se abbandonata ma non certamente dimenticata….”

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Alle Cave

(di Carlo Stasi)

lu sule nfiamma lu celu lu sule bruscia la pelle la coppula ‘mpruvulata para l’occhi comu nna manu de stammane ‘lle quattru ttummati stannu alle cave la mmannara ‘ntra lli mani zzòccane piezzi de case zzocca osci e zzocca crai zzocca quai e zzocca ddhai sembra ca volene rrivene de l’àutra vanna de la terra lu cutursu dole, sape Ddiu la sciurnata no spiccia mai e quannu spiccia si cchiù mmortu ca bbiu ma quante case essene de ddhai la faccia le rrobbe li mani tutte chine suntu de tufu ma quanti piezzi de ddhe cave quante case de ddhi piezzi ALLE CAVE il sole infiamma il cielo / il sole brucia la pelle / la coppola impolverata / para gli occhi come una mano // da stamane alle quattro / curvi stanno alle cave / la mannaja tra le mani / tagliano pezzi di case // taglia oggi e taglia domani / taglia qua e taglia là / sembra che vogliono arrivare / dall’altra parte della terra / la schiena duole, Dio sa come / la giornata non finisce mai / e quando finisce sei più morto che vivo / ma quante case escono da lì // la faccia le vesti le mani / tutte piene sono di tufo / ma quanti mattoni da quelle cave / quante case da quei mattoni

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Li cavatufi

(di Giancarlo Colella)

S’azza la mmane all’alba e cu lu ientu e lu sule o lu friddu… …va ffatica. Se nnfaccia alli vagnoni ca roffulene nncora li lliscia li capiddhi …e se ne va. Se pia nu picca pane cu na stizza de mieru vaca ntra la spurteddha e nzigna a caminare. Lu spettene le cave! mmenzu la via se cunta le sciurnate ca manchene cu rria la quindicina poi se face lu cuntu e se ricorda de le sciurnate de la vita sua. L’ha passate cusì tutte li stesse senza cu se ricorda

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mai ciuveddhi de stu poveru cristu ca se sciumma. Dopu tant’ure de fatica …spiccia. De lu nasu nu ppò chiui rafiatare se ttumma cu rriccoie la spurteddha cu lu cutursu ca se face a ddoi e poi nzigna de nou a caminare. Mentre ca torna te cridi ca mo shcoppa ma poi pensa alli fii e se ricorda de tuttu lu suduru c’ha minatu de lu sonnu c’ha persu e de li chianti… ma quannu rria a casa già se scorda nu pensa chiui allu sangu ch’ha buttatu!!!!!


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Tajate deturpate da rifiuti - loc. Calìe - Acquarica del Capo - Le - novembre 2008

“Tajate” in agonia

(di Mario Ricchiuto)

Progresso e benessere che si sono avuti a partire dagli anni ’60 - ‘70 hanno dato inizio ad una serie di comportamenti, indegni della razza umana, che hanno contaminato molte bellezze della nostra terra tra cui anche le tajate. La così detta civiltà dell’usa e getta ci ha portati a sbarazzarci di tanti materiali, come elettrodomestici, mobili di arredamento, automobili, sanitari e quant’altro, gettandoli nelle tajate e lungo le strade di campagna. Questo malcostume è perdurato fino ad oggi, per circa 50 anni, senza che mai nessuno sia stato sorpreso nel momento in cui scarica i suoi rifiuti. Talune Istituzioni Pubbliche, hanno poi ritenuto di fatto di “promuovere” le tajate come luogo più adatto per compattare la spazzatura urbana, quindi per costruire delle discariche. Queste, una volta autorizzate, non sono state mai gestite correttamente nel rispetto della tutela dell’aria, del suolo e del sottosuolo, recando danno, non solo al contribuente costretto a respirare aria malsana, ma soprattutto al territorio che è rimasto sfigurato nel suo valore paesaggistico ed offeso nel suo valore morale.

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Tajate usate per scaricare le acque di vegetazione delle ulive (santina) e rifiuti solidi urbani - Contrada Colomba - Ugento - Le - marzo 1996

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Tajate ricolme di rifiuti - Discarica “controllata” di Ugento - ATO - Le - 3 settembre 1996

Altre tajate sono state utilizzate anche per scaricare liquami di ogni genere come le acque di vegetazione delle olive (santina), le acque nere delle fogne e perfino sostanze altamente tossiche come i p o l i c l o r o b i f e n i l i. Non si sono mai presi seri provvedimenti se non di esporre tabelle di divieto di discarica, sorrette da paletti traballanti e di scarsa durata. I rifiuti urbani poi venivano spesso bruciati servendosi di copertoni perché mantenessero più a lungo la fiamma. Lo scopo era quello di ridurre il volume della spazzatura e poterne così riversarne altra ed altra ancora. Molti ricordano la discarica a cielo aperto, nelle tajate di Ugento, zona burgesi, restata impunemente in fiamme per anni ed anni ad inquinare i paesi vicini con i fumi saturi di diossina. Quella discarica era a-u-t-or-i-z-z-a-t-a dallo stesso comune di Ugento.

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Tajate usate per scaricare liquami di fogna – Contrada Cumpignano Acquarica del Capo - Le - luglio 1995

Tajata con liquami in fermentazione nella discarica “controllata” di Ugento - A.T.O. Le - 3 - maggio 1996 - loc. Burgesi

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Tajate ricolme di rifiuti - Discarica “controllata” A.T.O. Le - 3 - Ugento - Le - settembre 2006 - loc. Burgesi

Alla fine degli anni 80 fu acquistata una tajata, situata in un angolo dell’incrocio di Cumpignano, sulla strada Acquarica-Torremozza; fu ricoperta di terra e vi piantarono alberelli di ulivo. Successivamente furono comprate molte altre tajate con la scusa di usarle, come quella, a scopi agricoli: un inganno perfetto! Dopo che si conclusero le compravendite non fu piantato un solo ulivo. Vi costruirono una mega discarica di rifiuti solidi urbani, controllata per modo di dire, preposta a ricevere tonnellate e tonnellate di rifiuti provenienti da circa 25 paesi, per un periodo di tempo indefinito. I cittadini di Gemini, Acquarica del Capo e Presicce, le cui abitazioni distano poco più di 2000 metri da quei rifiuti, non furono mai informati dell’autorizzazione di quel progetto. La discarica entrò in funzione all’incirca nel 1992. Quelle stesse Istituzioni che la approvarono, solo dopo 5 anni e su esclusiva segnalazione dei cittadini si accorsero che non rispettava le regole di tutela ambientale stabilite dalla legge. Si corse ai ripari, ma questi si rivelarono delle vere e proprie pezze per rattoppare inefficienze che si sarebbero registrate durante la realizzazione del progetto. Oggi manca poco più di un anno al 2010, e quella discarica continua ancora a sprigionare biogas: sostanza maleodorante, prodotta dalla fermentazione dei rifiuti umidi che inquina l’aria sia delle vicine aziende agricole e turistiche che di tutti i paesi limitrofi. E’proprio il caso di dire che queste sono le ragioni per cui molti cittadini occupano i territori per impedire che vi si costruiscano ulteriori discariche!

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Studenti in visita alla discarica “controllata� di Ugento (LE) - settembre 2006

Tajata riempita di rifiuti - Discarica di Ugento - A.T.O. Le 3 - maggio 1996 - loc. Burgesi

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Attualmente sono molte le tajate che, per fortuna, conservano ancora intatto il valore e la bellezza della loro originaria identità. Sarebbe auspicabile che gli Amministratori locali, oltre ad aggiungere bellezze, spesso mal riuscite, nel paesaggio urbano, recuperassero quelle già esistenti delle tajate. Queste, pregne di tanti ricordi e testimonianze, non possono più essere considerate buche da riempire di rifiuti, o zone di scarto da demolire per costruire edifici industriali. Ancor meno si potrebbero prostituire per essere ricoperte con i vetri dei pannelli fotovoltaici. E’ URGENTE, invece, onde promuovere un vero sviluppo compatibile con il territorio, recuperarle e conservarle in modo semplice e dignitoso affinché possano favorire il turismo e, al tempo stesso, tramandare alle future generazioni non soltanto quel loro valore estetico, culturale, paesaggistico e storico, ma soprattutto quello morale che tanta fatica di intere generazioni hanno loro conferito.

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Indice

Presentazione di Francesca Ruppi “Tajate” un paesaggio ignorato di Mario Ricchiuto L’industria delle “tajate” di Carmine Ciullo “Tajate”: scenografia di una bellezza irreale (dal libro Oggi è il mio domani di Antonia Occhilupo, “ Icaro” editore) Alle cave poesia di Carlo Stasi Lu cavatufi poesia di Giancarlo Colella “Tajate”: in agonia di Mario Ricchiuto

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“Il luogo delle cave è un non luogo. Sorveglia case senza tetti, un po’come antiche rovine di interi quartieri scomparsi, come paesi abbandonati di corsa, vetuste cattedrali senza tempo, che si ergono svettanti verso il cielo, immensi anfiteatri assolati senza spettatori, palmenti senza mosto e frantoi senza olio a cielo aperto, elevatissime mura in rovina, dedali con pareti altissime che circondano sconfinati cortili, aie tufacee che si perdono a vista d’occhio, labirinti senza urla festanti o impaurite di bambini che giocano a nascondino. Ancora oggi la cava è una scenografia di una bellezza stupenda, rarefatta, irreale, pur se abbandonata ma non certamente dimenticata….” (dal libro Oggi è il mio domani di Antonia Occhilupo – Icaro editore)


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