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Pellegrina del Rosario a Lourdes

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ra il giugno del 1992. Io ero ritornata alla fede tre anni prima, dopo vent’anni di lontananza. Decisi di fare un pellegrinaggio, per curiosità e folclore. Mi intrigava la figura del pellegrino, che avevo studiato in letteratura, e mi incuriosiva l’idea del ritiro spirituale. Volevo immedesimarmi nel ruolo di chi parte per dedicarsi a un viaggio dedicato esclusivamente alla fede e alla preghiera. Il mio insomma era turismo spirituale, serio ma senza aspettative trascendentali. Con questo intendimento mi iscrissi, tutta sola, al “Pellegrinaggio del Rosario” a Lourdes, organizzato dai domenicani. Partenza in treno alla sera, dalla stazione di Bologna, assieme a gente semplice e sconosciuta che recita il rosario, una pratica che per me, allora quarantenne, era un lontanissimo ricordo d’infanzia. Si arriva il pomeriggio del giorno dopo, dopo diciassette ore di viaggio, compresa una lunghissima sosta notturna a Voghera. Il ritardo, dicono, è cosa normale, i treni dei pellegrini vengono sempre trattati così, fatti passare per ultimi. Scendiamo finalmente a Lourdes, e mentre gli altri vanno dritti a cena in albergo, io vado dritta a cercare la grotta. Da sola, al crepuscolo, entro nello spazio della grotta dove non ero mai stata. In quel momento non c’è nessuno e mi trovo direttamente sotto alla statua della Madonna. Non mi aspetto nulla, ma da un momento all’altro provo una nettissima sensazione di calma, come fossi entrata in una zona isolata e insonorizzata. Il coinvolgimen-

to sensoriale è vicino allo zero, ma la percezione di calma è totale, una decisa differenza fra un “dentro” e un “fuori” delimitati in modo invisibile, come passare attraverso il vetro di un contenitore d’acqua trasparente e impalpabile. Penso, contenta, che sia quello che provano tutti. Ringrazio con letizia la Madonnina e Santa Bernardetta, e mi affretto a unirmi agli altri in albergo. Quando li raggiungo la cena è quasi finita e salgo in camera, insieme a una sconosciuta che la condividerà con me. Poi nel sonno, nella notte, non saprei dire a che ora, scivolo dentro a una luce immensa e bianchissima. Sono come inebriata, avvolta da una sensazione di una dolcezza incredibile. La luce bianchissima mi impregna di felicità: una sensazione straordinaria. Sono io, so di essere io, sono presente a me stessa, eppure sono sprofondata in questo fulgido biancore. Non ho mai preso sostanze stupefacenti, ma immagino sia questo il tipo di effetto a cui si riferisce l’espressione “paradiso artificiale”. Per un tempo indefinibile sono felicissima, di una felicità indicibile che vorrei non finisse mai. Purtroppo il mattino arriva, il risveglio mi strappa inesorabile a questa dimensione di travolgente e totale dolcezza, di cui mi rimane nettissimo il ricordo. È a quel punto che mi accorgo di un’altra cosa. La mia spalla sinistra, che avrei dovuto far operare perché soggetta a dolorose lussazioni, è salda. È una cosa che non c’entrava niente con il pellegrinaggio, al quale avevo partecipato per i motivi che ho detto, e non certo per cercare guarigioni! Oltretutto, quando sei a Lourdes hai sempre vicino qualche menomato o malato grave, e se per caso ti viene in mente un tuo problema fisico il pensiero ti passa subito, perché al confronto lo vedi nella sua reale portata: di piccolo inconveniente con cui puoi convivere benissimo. Con la mia spalla difettosa convivevo da quando, a sedici anni, ero stata coinvolta in un incidente d’auto, un salto di corsia sull’autostrada fra Bologna e Firenze in cui morì mia madre, uccisa sul colpo. All’ospedale mi lasciarono per tre giorni con l’omero sporgente dalla scapola pri-

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ma di decidersi a farmi operare per “ridurre” la lussazione. Dopo questo trauma la mia spalla non era mai stata come prima, e la testa dell’omero dopo qualche anno aveva preso a uscire dalla sua sede, sempre più spesso, per cui avevo preso da tempo l’abitudine di tenerla ferma e usare quasi esclusivamente il braccio destro. Pochi mesi prima di andare a Lourdes ero andata a una visita da un chirurgo ortopedico per chiedere se si poteva risolvere il mio problema con le nuove tecniche endoscopiche di cui avevo sentito parlare, e la risposta fu negativa: dopo tanti anni di continui traumi bisognava intervenire con l’operazione “tradizionale”, aprendo per intero. Ritirai la ricetta che prescriveva una TAC di preparazione all’operazione, necessaria per vedere le condizioni effettive della spalla, e decisi... di metterla da parte per qualche anno. Quando sarò più vecchia – pensai – mi deciderò a operarmi. Nel frattempo potevo benissimo continuare ad usare solo il destro e a re-infilare l’omero sinistro al suo posto quando mi succedeva comunque di perderlo. Eccomi però a Lourdes e a quanto pare la Madonnina mi aveva voluto fare questo inatteso regalo! La spalla infortunata era salda, proprio come l’altra! Cercai di pensare a come dimostrare la mia gratitudine. Alla partenza ero stata decisissima a NON fare l’immersione nelle gelide vasche, che mi era stata descritta come un’esperienza sgradevole. Mi frenava l’idea del freddo che si patisce quando, completamente nudi, ci si trova addosso un lenzuolo bagnato, nel clima di Lourdes che anche di giugno quando è brutto tempo – cioè spessissimo – è tutt’altro che caldo. Mi frenavano anche le lunghe code che si formano in attesa del proprio turno per sottoporsi a questo freddo. Ma soprattutto mi frenava la spalla: mi avevano spiegato che nelle vasche si viene immersi dai volontari che sollevano per le braccia, e non avevo voglia di dover spiegare al volontario di turno come mai si trovava in mano il mio omero staccato dal resto di me. Adesso però, sentendo la spalla salda, decido di

fare il bagno. Voglio dimostrare la mia fede, la mia fiducia in questa guarigione, sopportando il freddo e lasciandomi sollevare per il braccio, in segno di gratitudine per la grazia ricevuta. Con questo intento mi metto pazientemente in fila per le vasche. Arrivata al dunque, però, cedo alla fifa e dico a bassa voce e in tutta fretta alla volontaria di sinistra di non sollevarmi per il braccio perché si potrebbe lussare! Appena mi escono di bocca queste parole mi pento della mia paura e, delusa di me stessa, terminato il bagno mi rimetto con determinazione nella lunga fila per rifarlo di nuovo, decisissima questa volta di fidarmi e non dire niente. Ma arrivata al punto di prima cosa faccio? Cedo di nuovo alla paura e dico a bassa voce e in tutta fretta alla volontaria di non prendermi per il braccio perché si potrebbe lussare! A questo punto la mia rabbia contro me stessa e la mia auto-delusione sono sconfortanti. Ormai è sera e la mattina dopo si parte, non c’è più niente da fare. Invece no, l’indomani mattina prestissimo vado alle piscine e non trovo alcuna fila. Mi infilo dalle vasche e lascio che le volontarie mi sollevino per le spalle come fanno con gli altri, senza dire nulla. E va tutto bene, la spalla regge, continua a essere salda, non duole nemmeno. Da allora sono passati diciotto anni. Uso entrambe le braccia, non mi sono operata, ho buttato via anche la richiesta della TAC. Fu soltanto anni dopo che capii che quella luce bianchissima di quella notte... era lei. Fu nel 2006, io e mio marito partecipammo a un pellegrinaggio diocesano a Fatima. Durante la messa incontrai un sacerdote addetto al servizio-confessioni, a cui mi venne da raccontare della guarigione della mia spalla a Lourdes. Lui mi sorrise e disse: “Lo sai come suor Lucia, la veggente di Fatima, chiamava la Madonna?” “No.” “La chiamava ‘Luz’”. “Luz?” “Sì, ‘Luz’, hai capito bene. Significa ‘Luce’”. Alessandra Nucci

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