Ecco come pregano i cristiani perseguitati

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Convegno del Rosario

Ecco come pregano i cristiani perseguitati

Testimonianze che dovrebbero riempire di vergogna l’Occidente, dove ci sono credenti che si definiscono “non praticanti”…

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prendo i lavori del Convegno “Vivere e pregare da cristiani in Medio Oriente”, fra Riccardo Barile o.p., Priore Provinciale dei Domenicani del Nord Italia, ha ricordato la ragione “pastorale” della preghiera, preghiera che tuttavia rispecchia ed esprime sin dall’antichità anche la “cultura” degli oranti. Il che significa, a suo giudizio, affrontare l’argomento, tornando alle radici ovvero a contesti tra i più antichi dal punto di vista della fede, benché pressoché sconosciuti al mondo occidentale, perché sostanzialmente dimenticati dai media: “La preghiera – ha affermato fra Barile, introducendo l’argomento della giornata – oltre ad essere un dono di Dio, è un insegnamento che Dio ci ha fatto ed anche un «artigianato» nostro umano, che esprime la nostra cultura. Si prega in un certo modo, perché ci troviamo in questa civiltà, con questa civiltà, con queste parole. Dove però siano compresenti più culture, quand’anche all’interno dello stesso mondo cristiano, emergono spesso le difficoltà”. Giacomo de Antonellis, giornalista Rai, ha quindi presentato una breve scheda per mettere a fuoco la situazione dei cristiani in Medio Oriente. Situazione molto confusa, ha detto senza mezzi termini. E fortemente penalizzante. In più, “il risorgere del nazionalismo islamico è stato un elemento essenziale in questa rivalsa nei confronti dei cristiani. Bisogna stare attenti – ha ammonito – mai girare la testa dall’altra parte”. Fra Guy Tardivy o.p., priore del convento “Santo Stefano” di Gerusalemme, è stato esplicito, lo ha detto a chiare lettere: la sua chiave di lettura di quanto avviene in Medio Oriente è quella dei “palestinesi, ai quali appartengono le famiglie e i giovani cristiani, che cerchiamo di avvicinare”. Da qui la sua denuncia di una “politica di giudaizzazione” in corso a Gerusalemme, dove sarebbe in corso un “continuo tentativo di intimidazione”. Rispetto a ciò, anche il muro intorno a Gerusalemme ha trovato una propria, precisa collocazione nelle parole del priore, a capo della comunità, sede della famosa scuola biblica ed archeologica, che ha prodotto – tra l’altro – la “Bibbia di Gerusalemme”. Da qui un elenco di difficoltà quotidiane, snocciolato come i grani di un Rosario dal sacerdote

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domenicano, che ha accusato la stampa internazionale di tacere tali episodi. Difficoltà, quelle evidenziate, per lo più di carattere pratico (documenti, residenza, assistenza sanitaria, disoccupazione, diritto allo studio...), oltre all’incubo del conflitto. Per questo, è stato messo a punto dall’Associazione “Totus Tuus International” un programma “umile e modesto” rivolto non solo ai giovani cristiani dei quartieri attorno al Santo Sepolcro e del Muristan, bensì a tutte le persone di buona volontà, al di là di cultura o fede, per promuovere “valori e gesti semplici nella vita quotidiana, così da cooperare alla realizzazione della pace e del bene comune in Terra Santa ed in tutti i paesi”. Programma, riassunto dal motto “Let Love be now”, cioè “L’amore sia adesso”. “Condividendo la vita quotidiana delle persone – ha affermato Padre Tardivy – ci si accorge immediatamente di queste difficoltà che senza tregua impediscono l’organizzazione di una vita normale e serena e la comunicazione con i parenti e gli amici, che abitano al di qua del muro”. Il che, tuttavia, non fa venir meno “la speranza e la fede. I giovani credono nell’avvento di un futuro migliore ed intendono impegnarsi sempre più perché una vita serena e tranquilla non sia più un sogno, ma la normalità. La loro esperienza fa loro constatare come la pace possa arrivare solamente con la giustizia”. Dalla Terra Santa all’Iraq. Dove, con Saddam, si stava meglio: lo ha detto senza mezzi termini Suor Zora Frdos, Domenicana, presente al convegno, per raccontare con una testimonianza in un italiano stentato, ma davvero sentita e commovente, le molte avversità patite nella sua Patria prima in conseguenza della guerra (senza acqua, senza luce, senza cibo…), poi in conseguenza dell’appartenenza alla comunità cristiana: “Noi siamo nati qui, ma non possiamo viverci. Siamo perseguitati”. Chiaro il suo giudizio circa l’ex-dittatore: “Ciascun Presidente fa del bene e fa del male. Ha fatto tante cose cattive, lo so. Però almeno noi vivevamo tranquilli. Potevamo pregare, andare in giro... Ora non siamo più certe, uscendo di casa, di potervi anche fare rientro. Mia mamma vive con tanta paura… Allora, quando sento qui in Occidente – dove non si vive nulla di tutto questo – alcuni dirsi cristiani non praticanti, ne soffro. Noi, proprio nelle condizioni in cui siamo costretti a vivere, siamo cristiani praticanti, perché siamo innamorati di vivere e di vivere nella nostra terra. Dobbiamo andare avanti, resistere. C’è fiducia in noi. Sappiamo che Lui, il Padre, non lascia nessuno. Non si dimentica di noi, che siamo i Suoi figli. Questo è importante per noi”. Affermazioni da calarsi in chi questo contesto lo ha vissuto – e lo vive – sulla propria pelle. In prima persona. Ciò

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che spesso porta a guardare alla realtà con occhi diversi: “No, guardi – ribadisce – l’Iraq di prima era migliore di quello attuale”. Quattro anni fa le Suore si sono ritirate nei villaggi ed hanno lasciato la Casa Madre di Mosul, dove sono rimaste solo le più anziane, per lasciarla presidiata ed evitare di perderla definitivamente. Ma Suor Zora distingue tra i “musulmani, che non c’entrano” e gli “estremisti della jihad”. Argomenti, questi, approfonditi anche nel pomeriggio, quando – grazie anche alla testimonianza breve, ma intensa e convinta, di un giovane marocchino – si è posto l’accento maggiormente sul tema della conversione, della preghiera e della celebrazione eucaristica nelle terre tra le più antiche della Cristianità. Da qui l’“affondo” di Suor Zora nei confronti del nostro modo occidentale di partecipare alla santa Messa: “Spesso vengo disturbata dalle chiacchiere o dai telefonini dei presenti, specie quando si prolunga troppo l’omelia del sacerdote. Si è lì per pregare, non per altro. Mia mamma non sa leggere, non sa scrivere, ma – quando mio padre è morto in guerra –, da sola, con otto figli, ha pregato, affinché la Provvidenza ci donasse il cibo, che ci mancava. ‘Dio ci pensa’, ci ripeteva. Questo è stato per noi un insegnamento forte. Che da voi non vedo, mi spiace doverlo dire. Finora mia mamma pensa che l’Italia sia fatta di cattolici doc. Voglio lasciarglielo credere, ma non è così... Qui molti credono che la fede sia un fatto personale. No, non è vero, bisogna viverla con gli altri”. Ciò di fronte a cui fra Barile ha commentato: “Noi non abbiamo le loro difficoltà, probabilmente non riusciamo ad esprimere questa loro musica”. Parole come musica, quindi. Ma anche immagini come musica: particolarmente incisivo, infatti, è stato un video, mostrato in sala, dal titolo “Il mio cuore” realizzato dalle Madri Domenicane irachene della comunità di Suor Zora, che – con una consorella – ha poi offerto a Dio ed ai presenti in dono – con commozione di tutti – una splendida recita cantata del Padre Nostro in aramaico, la “lingua di Gesù” come ha precisato la Madre domenicana, con gioia. Gioia sua e gioia di tutti i partecipanti al Convegno. Mauro Faverzani se cercate ulteriori informazioni su quanto descritto da suor Zora: http://www.youtube.com/watch?v=_zNCFrBRcUE&feature=channel http://www.youtube.com/watch?v=CbhLuuK9opU&feature=channel http://www.youtube.com/watch?v=MDlJRar9p2s&feature=related http://www.youtube.com/watch?v=-LsixpV0hgs&feature=related

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