Il Rosario richiamo al mistero della maternitĂ di Maria e della Chiesa
Proseguiamo la lettura del libro Il rosario tra devozione e riflessione, che abbiamo presentato nel numero precedente di Rosarium, proponendovi l’articolo di: ERIO CASTELLUCCI docente alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, Scuola di Anagogia. Il volume è in vendita presso l’ESD: via dell’Osservanza 72, 40136 Bologna tel. 051582034 e-mail:acquisti@esd-domenicani.it Scrive Giovanni Paolo II: «Nel Rosario noi ci affidiamo in particolare all’azione materna della vergine santa. Colei che di Cristo è la genitrice, mentre è essa stessa appartenente alla Chiesa quale “membro eccelso e del tutto eccezionale” (LG 53), è al tempo stesso la “Madre della Chiesa”. Come tale continuamente “genera” figli al corpo mistico del Figlio. Lo fa mediante l’intercessione, implorando per essi l’effusione inesauribile dello Spirito. Ella è l’icona perfetta della maternità della Chiesa». In questo passaggio del suo documento sul Rosario, il papa condensa una serie di categorie teologiche di grande interesse, relative alla maternità di Maria e della Chiesa. Vorrei semplicemente raccogliere alcune suggestioni, riflettendo su come la pratica del Rosario possa costituire un richiamo a questa duplice maternità, intensificandone l’esperienza nel credente. Il mistero della maternità di Maria e della Chiesa Dalla maternità divina alla maternità ecclesiale di Maria Dopo le note ed aspre controversie tra Cirillo e Nestorio, il Concilio di Efeso nel 431 proclamò Maria Theotokos, Madre di Dio. Sappiamo bene che l’interesse di questa definizione dogmatica non era direttamente mariologico, bensì cristologico: il Concilio intese cioè affermare l’unità radicale, nella persona di Gesù Cristo, della sua umanità con la sua divinità; il pericolo a cui Efeso reagì – seguendo da vicino la dottrina di Cirillo che identificava a ragione o a torto tale errore in Nestorio – era infatti quello di separare la natura divina da quella umana in Cristo: riconducendo la prima a Dio Padre e la seconda a Maria, e facendo dunque della Vergine la madre del solo Gesù uomo, i nestoriani sembravano appoggiare non una vera e propria “unione ipostatica” ma semplicemente una sorta di “unione morale”, un mero accostamento tra l’umano e il divino in Gesù. Per arrivare a una formale – benché non dogmatica – proclamazione di Maria come “Madre della Chiesa” bisognerà aspettare più di quindici secoli: è infatti nel giorno di chiusura del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965, che Paolo VI, accogliendo un desiderio espresso da molti vescovi, proclamò Maria Madre della Chiesa: a gloria della Vergine e a nostro conforto, Noi proclamiamo Maria Santissima “Madre della Chiesa”, cioè di tutto il popolo di Dio, tanto dei fedeli come dei Pastori, che la chiamano Madre amorosissima; e vogliamo che con tale titolo soavissimo d’ora innanzi la Vergine venga ancor più onorata ed invocata da tutto il popolo cristiano. Era stato lo stesso papa Montini, durante i lavori conciliari e di fronte ad un’assemblea su questo
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punto divisa a metà, a decidere che la trattazione su Maria venisse collocata nel documento sulla Chiesa Lumen Gentium, del quale costituisce attualmente l’VIII capitolo, e non se ne facesse un documento a parte. Le parole di Paolo VI a conclusione della seconda sessione conciliare spiegano il motivo di questa scelta: la realtà della Chiesa non si esaurisce nella sua struttura gerarchica, nella sua liturgia, nei suoi sacramenti, nei suoi ordinamenti giuridici. La sua intima essenza, la sorgente prima della sua efficacia santificatrice sono da ricercarsi nella mistica unione con Cristo; unione che non possiamo pensare disgiunta da Colei che è la Madre del Verbo incarnato, e che Gesù Cristo stesso ha voluto tanto intimamente a Sé unita per la nostra salvezza. Cosicché è nella visione della Chiesa che deve inquadrarsi la contemplazione amorosa delle meraviglie che Dio ha operato nella sua santa Madre. E la conoscenza della vera dottrina cattolica su Maria costituirà sempre una chiave per la esatta comprensione del mistero di Cristo e della Chiesa. Giovanni 19,25-27 Se la proclamazione della maternità ecclesiale di Maria giunge solo alla fine del XX secolo, non si deve certo aspettare così a lungo per registrarne la percezione vissuta nel popolo cristiano; una percezione di cui la pratica del Rosario – come meglio vedremo – rappresenta un segnale eloquente. Le radici di questa percezione sono presenti già nel Vangelo, specialmente nel noto brano giovanneo in cui Gesù affida reciprocamente Maria a Giovanni come Maria e la Madre al discepolo come figlio (cf. Gv 19,25-27). Osserva giustamente l’esegeta I. De La Potterie: Diversamente dai Padri (che vedevano qui solo un gesto di pietà filiale di Gesù), i moderni, prolungando l’esegesi medievale, interpretano sempre più questa scena dell’“ora” di Gesù come il momento della nascita della Chiesa e l’inizio della maternità spirituale della madre di Gesù. Qui infatti non si tratta solo di relazioni personali; nessuna delle due persone presenti viene designata con il nome: è la loro funzione che conta, perché personificano due gruppi. Il discepolo amato rappresenta tutti i credenti. La madre di Gesù, chiamata “donna” (cf. già 2,4) è l’immagine della “figlia di Sion”. L’uso di categorie impersonali – “donna”, “figlio” – contribuisce a “universalizzare” la scena e a renderla tipica, valida cioè per la Chiesa di tutti i tempi. L’autore del Quarto vangelo codifica in questa piccola scena un’esperienza ecclesiale che già godeva di non pochi decenni di vita, se accettiamo, come sembra ragionevole, la datazione di questo vangelo alla fine del I secolo: porre Maria come “Madre” nell’atto stesso della morte di Gesù, che è per Gv l’atto di nascita della Chiesa – lo spirito emesso come ultimo respiro di Gesù e il sangue e l’acqua dal costato sono per questo evangelista i costitutivi della Chiesa, donati da Gesù nel momento supremo del suo “innalzamento” (cf. Gv 19,34) – significa riflettere un’esperienza comunitaria nella quale la maternità di Maria dovette essere avvertita come elemento coessenziale dell’esperienza ecclesiale, insieme ai sacramenti e all’azione dello
Spirito. Senza poterne qui seguire lo sviluppo lungo la storia della Chiesa, va comunque almeno segnalato che la presenza di Maria nell’esperienza ecclesiale segna profondamente il culto, la preghiera, la riflessione e la devozione dei cristiani nei secoli. Ne fanno fede le innumerevoli testimonianze letterarie ed artistiche facilmente accessibili. Maria Madre della Chiesa nell’affresco di Subiaco Tra queste testimonianze si può richiamare – una per tutte – la scena della maternità ecclesiale di Maria, dipinta nel XIV secolo nella Cappella della Madonna del Sacro Speco a Subiaco. Mentre la scena della maternità divina di Maria è antichissima – si incontra già nelle catacombe di solito in relazione all’adorazione dei Magi – quella della maternità ecclesiale della Vergine è più rara e tardiva. La scena di Subiaco, dunque, rappresenta Maria incoronata che, in piedi tra due ali di folla, formata da una dozzina di uomini alla sua destra ed altrettante donne alla sinistra, avvolge tutti con il suo manto. È indubbiamente la “Madre della Chiesa”: le dimensioni gigantesche di Maria rispetto agli altri personaggi – è alta più del doppio di loro – ne sottolinea le proporzioni teologiche; Maria, nella gloria, è “protettrice” della Chiesa in cammino, che a lei si rivolge nella preghiera e dalla quale riceve aiuto premuroso. Le due schiere, maschile e femminile, non sono infatti rappresentate in ordine sparso, ma si rivolgono verso il centro, verso Maria, con le mani giunte in segno di preghiera. Dante, all’inizio dello stesso secolo, ne offre il miglior commento teologico: «... qual vuol grazia ed a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ali». La connessione tra la maternità divina e quella ecclesiale di Maria è stata portata avanti anche attraverso la riflessione sulla Chiesa come “corpo di Cristo”: «la Madre del Capo (…) è nello stesso tempo la Madre del corpo, perché capo e corpo costituiscono l’unità dello stesso Cristo». La maternità della Chiesa: Ap 12, 1-8 La maternità ecclesiale di Maria, tuttavia, non procede solitaria nella teologia e nella devozione della Chiesa. Essa si incontra e si intreccia, già dall’inizio, con un’altra idea teologica: quella della maternità della Chiesa stessa nei confronti dei cristiani. È un tema che ha ricevuto particolare sviluppo in epoca patristica e medievale e che è sfociato in alcuni testi importanti del Vaticano II. La Chiesa è Madre in quanto genera i figli di Dio attraverso il battesimo, li nutre con l’eucaristia e la parola, li irrobustisce con la pratica della carità. La maternità della Chiesa emerge con particolare incisività nella simbologia del fonte battesimale come grembo verginale e fecondo. Anche la maternità ecclesiale trova radici nel Nuovo Testamento, di nuovo nella teologia giovannea, che ha elaborato un’altra famosa pagina, nella quale la maternità della Chiesa è presentata in modo drammatico: è il brano di Ap 12,1-8, dove si parla della “donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”; questa donna era incinta e gridava per le doglie del parto; era insidiata da un enorme drago rosso (il diavolo, satana o il serpente antico), che voleva divorare il figlio che stava per nascere; ma il figlio, appena nato, sfuggì al drago poiché fu rapito verso Dio e il suo trono. La donna scappò nel deserto, dove fu protetta da Dio per tre anni e mezzo. È noto però che l’identificazione di questa “donna” percorre due linee interpretative: una ecclesiologica ed una mariologica. La linea ecclesiologica è corrente nel periodo dei Padri e nell’esegesi moderna; la linea mariologica prevale invece nel Medioevo e nella liturgia. Alcuni esegeti oggi propongono di integrare le due interpretazioni, identificando la donna direttamente nella Chiesa e indirettamente in Maria. La Chiesa, in primo luogo: il travaglio della partoriente e il rapimento del suo
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neonato al trono di Dio non descrivono la nascita di Gesù a Betlemme, bensì il mistero pasquale, ossia “l’ora” della passione e Risurrezione di Cristo; il “parto” è un modo figurato per rappresentare la profonda angoscia che sommerse la comunità dei discepoli di Gesù quando il maestro fu loro tolto dalla violenza del potere delle tenebre; il “rapimento” del bambino verso il trono è un’immagine plastica da riferirsi alla potenza del Padre che, liberando il Figlio dai vincoli della morte, lo fa “rinascere” alla condizione gloriosa di risorto e gli conferisce la regalità universale; il figlio di Dio è “rapito al cielo” (= glorificato) e la donna trova riparo nel deserto, dove è protetta (Dio protegge la Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno). Ma la donna dell’episodio è in secondo luogo anche Maria: non è possibile che l’autore di Ap, che se anche non è lo stesso del Quarto vangelo è però della medesima scuola teologica, non pensi anche a Maria quando scrive Ap 12, dopo che già Gv due volte aveva chiamato Maria “donna” (Gv 2,4 e 19,26). Nel momento in cui si riflette sulla maternità ecclesiale, in altre parole, non si può non pensare alla maternità mariana, poiché Maria e la Chiesa non sono due realtà separate: Maria in un certo senso “concentra” in sé tutta la Chiesa, ne rappresenta la madre ed anche il primo nucleo: è l’immagine del popolo messianico, l’immagine della Chiesa fedele. Compendiando questa tradizione, il Vaticano II inquadra Maria come “figura/typus” della Chiesa, poiché le offre «in maniera eminente e singolare l’esempio della Vergine e della Madre» (LG 63; cf. anche n. 65); contemplando e imitando Maria, la Chiesa, «per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio». Il testo conciliare, in questi densi passaggi, raccoglie una ricca eredità patristica e medievale, della quale fanno fede le numerose citazioni nelle note. È su questa tradizione che Giovanni Paolo II basa l’affermazione da cui siamo partiti: Maria come icona perfetta della maternità della Chiesa. «Per questo – nota Magrassi – nell’arte carolingia spesso la figura di Maria ai piedi della Croce è sdoppiata: accanto ad essa è posta la figura della Madre Chiesa, di cui Maria inizia e adombra la missione». Pur essendo quello della “doppia maternità” un tema ecclesiologico e mariologico di grande interesse, non possiamo qui seguirlo ulteriormente: piuttosto cerchiamo ora di mostrare come la pratica del Rosario contribuisce a fare crescere nel fedele l’esperienza di questa doppia maternità e quale contributo offre questa esperienza all’appartenenza ecclesiale.