POSSIAMO CAPIRE QUALCOSA ANCHE NOI DEL GIUBILEO?
a cura di P. Paolo Maria Calaon O.P.
...ogni cosa gli appartiene In occasione dell’Anno Santo del Duemila, milioni di fedeli si metteranno in viaggio verso Roma e verso la Terra Santa, per ricevere l’indulgenza plenaria, concessa in occasione del Giubileo. Si faranno “pellegrini”, lasceranno le loro case e si dirigeranno verso i luoghi più cari alla Cristianità. In questi luoghi, lungo i secoli, i cristiani hanno testimoniato, con la vita e con il loro sangue, la loro fede. Da questi luoghi, ancora oggi, milioni di pellegrini chiederanno a Dio il dono proprio dell’anno giubilare: il perdono. Sin dai primi secoli della Chiesa chi voleva chiedere perdono era spesso invitato ad intraprendere un pellegrinaggio penitenziale, per supplicare da Dio il perdono delle colpe e la conversione del cuore. In questo spirito, l’Anno Santo del Duemila sarà l’occasione di diventare dei veri “pellegrini”. Ma chi è un pellegrino? Il termine latino da cui proviene (per eger) significa: “valicare i confini”. Un pellegrino non è soltanto colui che si mette in cammino, ma colui che “varca i confini” della sua patria, per andare verso un altro paese. Uno dei pellegrini più significativi, nella Bibbia, è Abramo. Aveva la sua casa, i suoi poderi, le sue ricchezze che lungo gli anni si era costruito con rettitudine e giustizia. Un giorno Dio gli si presenta e gli fa una proposta inattesa dicendogli: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Gn 12, 1). Ed Abramo lascia tutto, lascia la regione di Ur dei Caldei, varcando i confini da lui conosciuti, per andare verso questo luogo dove “scorre latte e miele”. Ma se è dolce il pensiero di questo sconosciuto paese, non è altrettanto il ricordo lacerante della sua terra natia, dove viveva tranquillo e sicuro. Lì stava bene, aveva le sue proprietà e tutti lo onoravano. Nell’intraprendere questo viaggio sapeva che metteva in gioco tutte le sue tranquillità, tutte quelle piccole o grandi sicurezze a cui si aggrappava. L’unica realtà a cui poteva aggrapparsi era la parola di Dio e solo su quella. Dio non gli dava garanzie, e gli chiedeva di fidarsi sulla sua parola. È proprio “sulla sua parola” che Abramo è partito, come più tardi anche Pietro, per la parola di Gesù getterà le reti in mare, per poi lasciare tutto e seguirLo... La storia del popolo di Israele, è stata, in fondo, la storia di un lungo pellegrinaggio, per raggiungere o ritornare nella Terra Promessa. Come anche la storia della Chiesa “è il diario vivente - dice il Papa - di un pellegrinaggio mai terminato. In cammino verso la città dei santi
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Pietro e Paolo, verso la Terra santa, o verso gli antichi e nuovi santuari dedicati alla Vergine Maria e ai Santi: ecco la meta di tanti fedeli che alimentano così la loro pietà” (Incarnationis mysterium, 7). Nella Chiesa l’istituzione giubilare del pellegrinaggio “evoca il cammino personale del credente sulle orme del Redentore” (idem). Chi intraprende un pellegrinaggio è perciò qualcuno che desidera veramente “varcare i confini” del suo paese. Non solo varcare i confini geografici, ma soprattutto essere pronto a lasciare le sue sicurezze, i luoghi a cui si aggrappava, le idee di cui si faceva forte. In una parola un pellegrino è qualcuno che “consegna i bagagli alla partenza”, senza sapere che cosa accadrà. Essere un pellegrino significa “vivere senza fare provviste per il futuro”, senza attaccarsi alle ricchezze che si possiedono, perché appesantiscono il cammino. Un pellegrino è qualcuno che non “ha dove posare il capo”, perché è sempre “di passaggio”, non fa tempo ad abituarsi ad un posto che subito deve ripartire. Lasciando la sua patria, in fondo, il pellegrino dimentica se stesso, non si appartiene più, ma dipende da Colui che lo attira alla meta, così come una calamita attrae il pezzo di ferro che gli si avvicina. Non possedendosi più, è il più ricco di tutti, ed ogni cosa gli appartiene. Due pellegrini che si dirigevano a Kiev lo confermano: “Ogni giorno in mezzo ai campi pregavamo Dio, ogni giorno parlavamo di Dio e del Regno dei Cieli. Il nostro cuore era leggero. Ci sentivamo signori, re della terra. Tutta la natura pareva esultare con noi. Io mi sentivo particolarmente felice quando dovevamo attraversare dei campi e dei boschi. Le allodole, gli usignoli, i tordi, i cardellini, le gru, tutti li uccelli, gli animali, gli alberi, le erbe, e di notte le stelle del cielo tenevano desta la nostra anima ...” (Le mie missioni in Siberia, p. 27). Il “cuore leggero” di cui parlano questi due pellegrini, è il dono che Dio concede a coloro che intraprendono, nella loro anima, un pellegrinaggio “invisibile”. Questi sono i veri pellegrini che desiderano “varcare i confini” creati dalle mura di durezza e di ribellione, e che costituiscono un “muro di divisione” tra l’anima e Dio. È’ la “riforma del cuore”, come si esprime Giovanni Paolo II (Incarnationis mysterium, 7). Ogni pellegrino dovrà, con S. Agostino, invocare dal Signore un cuore capace di amare: “dammi un cuore anelante, un cuore ardente che si senta pellegrino e assetato in questo deserto, un cuore che sospiri la fonte della patria eterna”.
Dio onnipotente e misericordioso, tu provvedi a chi ti ama e sempre e dovunque sei vicino a chi ti cerca con cuore sincero; assisti i tuoi figli nel pellegrinaggio e guida i loro passi nella tua volontà, perchè protetti dalla tua ombra nel giorno ed illuminati dalla tua luce nella notte, possano giungere alla meta desiderata (da “Sulle vie del Signore”)
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