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all’autunno, che mai si è degnato di attendermi.
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prologo.. ah! s’era novembre. gli occhi si rivolgevano al cielo come se fosse il passato stesso, le orecchie si orientavano per cogliere la caduta immotivata delle foglie, le mani si nascondevano nelle tasche di una calda ed imbottita giacca di velluto beige e le sigarette si spegnevano: novembre si vive a rovescio, al passato. pensai. manca un giorno al prossimo novembre, ma è finito. quasi tutto. questo mese è un ambasciatore e porta con se la pena del penultimo. e la vive male. novembre vive di capelli bianchi e di denti scaduti, di numerosi starnuti ma non di raffreddore, è acqua bollente prima che mi bruci, è il decadere, ma non la botta forte ed intensa. amaramente c’è chi si assoggetta ad alcune nuvole che dal grigio danno al neraccio e prega di restar asciutto, prega, immobile, senza ombrelli, sciocchi, continuai a pensare; c’è chi corre via coprendosi, indolore, poche gocce e se ne allontana; c’è chi guardandole fisse, si ferma sotto di esse e ride; c’è chi le ignora, ma ha l’ombrello. qualcosa sta per finire, ancora, lentamente si sta coricando e corpi e anime allontanandosi dalla sua pioggia accettano il suo andarsene. pensai. sono arrivato penultimo. zuppo, fradicio, ridendo. ah! s’era novembre. delamarne. 3
primo
quando poi ritornammo tutto ebbe più chiara luce,
si assestava.
la cravatta venne semplicemente allentata, i primi due bottoni della camicia resi alla libertà. le pareti davano l’impressione di voler ricordare, la pioggia poi.. bhe.. la pioggia lo fa. allungammo il braccio nello stesso istante verso la caraffa, il vino cedette e si buttò nel suo calice: -ne vuoi?- erano le sue parole preferite. -non bevo- gli dissi versandomi da bere.
* bevendone con Dio. la Sua cortesia ed il mio libero arbitrio. 4
secondo
il tetto ha sempre avuto un aspetto “tragicomico” nell’arco della mia concezione fanciullesca di notte stelle ecc. ecc. immeritate. e questo dovrebbe bastare. comunque: tutta l’alba sembrava un tramonto messo a rovescio la spiaggia ingaggiava i suoi più esperti granelli e li mascherava con i primissimi raggi e a volerli vedere bene facevano bruciore agli occhi; i pensieri si spengono facilmente quando il mare ha le onde piccolissime, il bagnasciuga (da non crederci..) è un posto molto comodo, la cosiddetta prima fila, ne notai delle impronte, due cerchi. più in là c’era un sorriso. ne riconobbi le sfumature, gli zigomi con le mani alzate pronti a toccare gli occhi, 5
il profumo del rosa, la pelle, il concetto “spettinato” adagiato con cura vana ad un taglio di capelli, la giacca sulla spalla, la voglia di non dir nulla come di chi ne ha compreso l’utilità, la barba incustodita di chi, porca miseria, ride di gusto. c’era davvero. magro che ne ha visti di giorni mangiando unghie, magro che ride che lo sa che vuol dire “mangerò”. e le ginocchia sporche di sabbia. due cerchi di sabbia sui pantaloni grigi, altezza ginocchio. -cosa ne sai del tetto?- io faccio sempre domande inappropriate. -so che l’alba è un si, visto un po’ da lontano, ma è pur sempre un si.in tutta risposta.
* non solo le stelle cadenti ti giurano i sogni. 6
terzo
la via era piena zeppa ed io li ingannavo dall’alto affacciato alla finestra: -arrivo. adesso scendo.bugiardo. intanto mi rigiravo e mi chiudevo, avevo la mia poltrona, ai tempi, ed una pipa: era di mio padre. io scrivevo lettere a tutti gli scrittori; pagavo donne per minacciarle; bevevo solo per contraddirmi. tutti si tenevano per mano io non mi sono mai pettinato
-si. si, scendo fra un attimo.-
io non ho mai neanche parlato
-mi state bussando?-
-buongiorno.- lo dissi facendo gli scongiuri, -buongiorno a lei, volevamo invitarla qua giù, come vede stiamo organizzandoci alla meglio per star bene tutti, noi abbiamo pensato molto anche a lei; guardi, le faccio vedere. abbiamo preso il tempo e suddiviso, provi a contare i suoi respiri, arrivi a sessanta ed avrà quel che noi intendiamo per minuto, abbiamo l’esempio del respiro perché sa di vita. poi ovviamente si faccia i suoi calcoli: sessanta respiri un minuto, 7
sessanta minuti insieme noi la chiamiamo Ora, la sua unicità si ripete per ventiquattro volte sulla terra da alba ad alba, ha ventiquattro modi di essere e ventiquattro modi di fare, e via dicendo. allora che vuol fare, scende?non sono mai stato neanche uno che sbatte la porta, in egual modo lo feci. Ora, nah.. la sua unicità è fasulla io la chiamo Trascinata. non cambiava molto. grassi, sporchi, melmosi, abitanti. sono sceso per spedire lettere a tutti gli scrittori, sono sceso per sparare, la mia pistola sa molto di me, come non apprezzarla? cinque colpi per chiunque e con un altro mi ingentilisco e vi accompagno. poi tutto è buio per tre giorni, ed io non parlo non mangio non bevo. divento irrimediabilmente più nervoso ed il mio coraggio è più che altro 8
sopravvivenza scontata e non-necessaria, non lo ammetterò mai. quando scavalcai di nuovo il mondo la mia arma premeva forte sulla mia rivincita, corsi veloce fino al più brutto,
lo disgustai.
sparai tre colpi senza vedere, era inguardabile grasso sporco melmoso un qualsiasi abitante iniquo e terreno ma corsi. nessuno capiva naturalmente. io vi libero. scappai sotto le urla di quanti non comprendevano. un paio di colpi ancora. a casaccio. inutili, voi e le vostre ventiquattro cazzo di ore che portate in tasca nome e cognome. io vi libero. voi non capite. è di nuovo tutto buio, le pareti strette, un lavabo, un cesso, l’odore umano, le loro voci, Sartre, 9
la porta tra me e loro, il mio ultimo proiettile, e le mie labbra. le allargo, bacio la canna, le urla dei civili si fermano. le mie mani si liberano. mi alzo ed esco.
* antologia dell’essere umano. (la favola di Erostrato) 1
quarto
fandonie, solamente tristi e miserevoli fandonie, si fa un gran parlare in modo pubblico, mediatico e televisivo, ma vaffanculo. ho all’attivo mille blocknotes con le pagine tutte scritte; su tutte c’è una sola parola, cianuro. ingoiarli mi restituirebbe una costituzione fisica entusiasta e mi allontanerebbe dalla condizione politico-maggiordomo intellettualoide di inizio millennio. “mi porti caffè italiano e il giornale del governo.” nah! nella mia colazione non ci sono le vitamine, io mangio malissimo. io, ho i miei gusti.
andrea. * da leggere con nervosismo. 1
quinto
-“in fondo era il sabato, vigliacco, pigro, senza costruzioni, indolente, vigliacco e pigro. sabato, come vede il sabato è il mio alibi più attendibile. dovrà perdonarmi.”-“l’ascolto, continui..”-“pigro.”-“la perdonerò.”-“dovere Suo padre, cercherò di cambiarle il favore, prima o poi.”-“adesso reciti mille padre nostro per la grazia, figliolo.”-“non mancherò, padre.”mentii.
* la mia onestà cattolica. 1
sesto
c’era qualcosa di meno, pesava; i lampioni lasciavano cerchi sulle pozzanghere anonime di temporali finiti, quel bimbo suonava a stento, lo vedevo di spalle lo sentivo per istinto; l’ombra era paesaggistica e le dita minorenni imploravano in chiavi di sol casuali. lui era un re, suonava male. il marciapiede non era nient’altro che sezionato, bianco avorio, poi gruppi di tre e di due neri, be molle. passeggiavo ondulando melodie da sbronzo e funerale, io avevo del whisky a metà e calcolai: 1
ubriaco io, più mezza bottiglia uguale bottiglia vuota, ed io a metà. non sbaglio di una virgola. “NON HO LA PELLE IMPERMEABILE.” mi risultò facile come affermazione, le guance salate le ossa fradice il fegato in esilio. avevo un amico del cuore che solitudine ne era il nome, il bimbo suonava male ed IO, gli davo le spalle. mi bussarono un giorno, io non rispondo mai. soffro. … -salve… signora regina…- balbettai e mi brillò lo sguardo, parlandole. -salve mio buon re.- disse lei.
* panta rei. 1
settimo
nietzsche. nietzsche era un buffone, non gli ho mai creduto. ho affrontato anni di illuminismo convincendomene, ma lo stronzo era Prometeo. hanno figliato una parola , l’hanno tirata su con un etimo particolare: Ragione, che razza di nome per una puttana! ho compreso in separata sede che alla nascita l’hanno lasciata orfana, aveva una madre,
la signora Puntodivista.
aveva un padre,
il signor Nonèdetto.
è cresciuta con gli zii aventi grossi problemi di invidia del pene che se la masticavano, passeggiandola, la mostravano agli amici… impadronendosene. vi era una sorta di incondizionato senso del: io ho capito tutto! urlato forte pure vicino a chi
detto tra noi
non è che ci facesse molto 1
con tale informazione.. che capire poi.. bhe.. io preferisco le sorprese. e questi parenti improvvisati educatori zitti dovevano nascere per averla in toto
invece troppe le parole e ancor di più
i loro nomi, e mai ho voluto averne a che fare ma se mi capitasse socrate tra le mani… …o fichte…
…o quel coglione di hegel…
A schiaffi consiglierei: SMETTETELA! (urlato forte).
* da non farci caso. 1
ottavo
le immagini scolorite slavate, non sapevano piĂš di nulla, percorrevo col fiato alle caviglie,
l’odore di andarmene.
poi avvenne che la corsa si accorciava, il suo guardare prendeva la forma del cercarmi, come nascondermi? avevo pochi vestiti con me e fin troppe cravatte, quello mi riconosce. arditamente con tutto il mio volere ero dietro la mia schiena, accovacciato, senza baffi, i capelli messi insieme con lo sporco, la camicia per un po’ fuori dai calzoni, gli occhiali di una diottria piÚ grande. sfuocami! immediatamente. non una delle mie mani acconsentiva ad accarezzarmi e mi lasciavo tormentare, e avevo paura, una fottuta paura di non essere un corridore. io fuggo. 1
ho delle diatribe inoccasionali di cui non me ne frega un cazzo. io non fuggo. e non sono per un cazzo permaloso! fin quando le sue dita non mi prendono.. ha le dita sulla mia schiena, sul mio collo,
mi sfiora inorridito.
mi sussurra nelle orecchie oscenità che mi piacciono. io non fuggirò. mi alza la manica della camicia fin sopra il gomito, mi fa vedere, ho delle labbra lungo tutto l’avambraccio che mi chiamano Disgraziato, ma non ne ho paura. le bacio.
* autoritratto suggestivo. e i miei fratelli. 1
nono
masticai con calma e provai a non ripetere. come non occuparmi personalmente del pavimento? dovetti lasciare tutti i miei abiti preferiti, indossare lettere maiuscole, pulire a terra, e tutto dovette diventare compito mio. era martedĂŹ quando me ne accorsi. il jazz in fondo alla strada era suonato per abitudine, il blues non si suona mai, il blues deve abbracciarti; avevo di che lamentarmi, una zucca come macchina da scrivere, amici a contratto ed orario stabilito, fotografie ingrandite in paragrafi lasciate nei libri non venduti, ma miei. mi soggiogavo alle tenerezze materne del mercato libero. io al ballo non volevo andarci 1
e non dimenticai nulla: sorellastre/secondini ed una buona madre,
-LAVA! “INUTILE.”-
aveva per me la dolcezza e dei nomignoli. specchio specchio delle mie brame, un colpo solo, salta in aria l’intero reame. specchio specchio delle loro brame, vomitami nero, copriamo il reame. rallentai mentre lasciai alle mie spalle, prima di ballare, il nome di andrea, ero scalzo già da anni oramai: onde evitare disguidi, chiesi scusa da subito.
* alle 23 e 48. 2
decimo
di qui le ore stanno andandosene, mio buon Sancho, devi credermi.
* in un secondo. (concetto tempo-spazio e amicizia) 2
undicesimo
respiravo tanta aria e un altro giorno fu lei a baciarmi. scesi al piano di sotto quasi come se il caffè lenisse uno stato antropologico quale la sua assenza, il freddo non è mai una caratteristica particolare ma è assai influente; così rifeci quella passeggiata in cucina cercando di ricordare i suoi passi sul mio pavimento, ballavamo insieme e lei non c’era, riconobbi la mia tazzina ed il suo fondo,
riconobbi il trillo del telefono,
la sua voce telefonica,
il suo sorridere
(non sono mai riuscito a farla ridere, dice lei) -sono lì da te.lo era veramente.
* ricordi miei. 2
dodicesimo
avevo un “dovevo star zitto” che pretendeva somiglianze silenziose imperative con il più vero dei “le parole restano inutili”. svogliato mi rivestivo di una barba che per un motivo o per l’altro mi teneva lontano, i miei pantaloni volevano appartenermi per più tempo quasi a rappresentarmi, la parola “nascosto” mi copriva interamente a mo di nome e cognome. avevo di che farlo. dicevi di chiamarti Teresa ed io l’ho creduto per ogni lettera, l’ho infine collegato a tutto il tuo muoverti. di un muoverti che, se non solo nella danza, l’ho visto delinearsi in punta di piedi nella parola femminile. mi sorprendevo di un mutismo alla Stendal 2
che di sindrome mi proponeva inviti, solo che allo svenimento voleva portarmi, ed io non volevo andarci: togliermi il gusto di farmi vedere, nudo, tutti i miei cappotti innocui si rivelano ai tuoi occhi, sapevo di già che vi era da confessarti il mio nome, quello vero, la tua era un’indiscussa capacità di lettura del mio più sporco dna. lo fai costantemente. immediatamente avevo di che dirti ma una cosa sola ti invito ad ascoltare e periodicamente ti nego di sapere. e te la dirò, ma lo farà da sola. mi svegliai che nel letto sorridevi e dormivi, io senza neanche l’idea di barba, mi svegliai che sentivo il sapore di un bacio necessario come il più felice dei caffè mattutini. buongiorno Teresa.
* grazie. 2
tredicesimo
è così che a dirla tutta prestai poca attenzione alla mia vista; la finestra al di là della strada
non c’era.
almeno, io non la guardavo. i rami non salutavano né me, né i paesani proprietari che traducevano i saluti mancati e li chiamavano giorni senza vento; per me c’era vento, e fece giusto due gocce,
c’era pure il sole, un po’ di nebbia, fino a quando non nevicò.
e comunque la finestra non c’era, e me ne andai. non ricordo neanche quel Leonardo, a proposito. quando non mi guardarono lasciai scritto due righe su di un tovagliolo, qualcosa che colpisse, scenico, di impatto. scrissi:
muoio domani. poi scappammo tutti, ma io non sono mai stato uno veloce. beh.. ognuno ha le sue croci. * dopo il caffè dell’ultima cena. 2
quattordicesimo
mi lasciai prendere, strinsi le mani e ci respirai dentro ma non mi curò da quel che novembre era con intensità: freddo nelle ossa. presi a guardarmi intorno sbirciando dalla mia sciarpa, ma non si vedeva molto per via della nebbia e per via delle 03e44, mi tenni in silenzio,
ne avevo tutto il diritto.
una ciocca dei miei capelli si liberò, mi scese sulla fronte per salutare il mio naso, o a riscaldarlo, comunque non mi dette fastidio, e poi le mani le ebbi dietro la schiena, non ci soffiavo neanche più su, erano fredde, come gli occhi di quel cucciolo di Dio che mi aveva afferrato, mi restituiva al gregge. le sono grato mite pastorello. la sua voce non aveva tono, forse neanche suono, ma tremava, come me, ma io per il freddo. notai ciò che c’è di più bello nelle strade come questa, 2
lampioni, alti, indifferenti, terribilmente di compagnia, la mia schiena aveva la forma di uno di quei cosi, sono solito bere, sotto la luce con intorno la notte, ed urlare. -mi dia i suoi documenti.-credo di averli persi giovanotto.lo guardai ancora, ma forse lo mettevo a disagio, alla fine ero sporco e il mio impermeabile lo era di più, e vomitavo mentre mi regalava bracciali, avevo la bocca piena di ricordi, le scarpe bagnate fradice e a lui non andava giù. gli dissi:
-amico, sai cosa vuol dire libertà?-
non mi rispose, io ero il suo margine, la sua libertà era non essere come me, la mia.. bhe.. io non la volevo più.
* solitudine. 2
quindicesimo
scrissi velocemente, e neanche avevo una rincorsa adeguata, ma scrissi tutto, sotto i limoni. per lei, e il cadere del suo vedermi, mosca. lo scrissi, pregavo ad ogni gradino che gli occhi non esistessero, cieca la volevo perchĂŠ le parole non devono farsi vedere, da lei, dovevo dirle
tutto.
le parole scritte sono per laureati in poesia e lei, io, non la leggevo. con amore.
* Montale attraverso me. 2
sedicesimo
l’acqua scese lavando via tutto nella tarda mattina in cui io non dovevo svegliarmi affatto. aprì gli occhi. io ho maledetto newton quando piansi e la gravità volle portar sale alle labbra, l’ho maledetto quando lui ignorò che io potessi cadere da fermo, senza toccare terra.
* legge di gravità emotiva. 2
diciassettesimo
le tende erano aperte perchÊ io ho sempre gradito la luce del giorno. la caffettiera era pronta, di classe esattamente come la sognavo, aroma, amaro, lungo, sorsate copiose. scritturai i miei vestiti piÚ signorili solo per quell’occasione qualsiasi, decisi che avevo carattere e mi alzai in punta di piedi e mi guardai allo specchio. ero decisamente pronto.
* 24 marzo 1983. 3
diciottesimo
la dipingevo tutte le notti. ogni notte i miei quadri morivano nel fuoco. quando il sole cominciava ad immolarsi nel tramonto io prendevo i miei pennelli, trattavo di colori, le davo un bacio, e lei prendeva gli sguardi più dolci, li indossava per la tela, mi sorrideva di un sorriso in equivoco mi diceva che eravamo fuoco, che il “sempre” è la roba falsa dei poeti e che i miei quadri dovevano bruciare. io dipingevo non solo lei. ma l’amore stesso. erano iconografia. ad ogni tela conclusa mi indicava il suo corpo come giaciglio, ed io l’avevo
per il sempre di una notte alla volta. 3
avevo costruito un letto ed un modo per portarla a volare (come era giusto per le sue ali), mi parlava non dicendo che affanni, mi trascinava ad amarla, chiudevo gli occhi e la sentivo senza qualità di udito: era la mia pelle e poi pregavo la Notte: resta una vita, per favore. quando il sole riconosceva di poter rinascere mi trovavo fra lenzuoli, il letto troppo grande per me solo, l’odore di bruciato, poi le sue parole. -tutto finisce.piangevo mentre l’amavo di giorno stringendo quella cenere che era noi, fino al tramonto. senza vedere. quella notte lasciai che il suo sorriso di malizia si sdraiasse nei colori dei miei pennelli, poi lo osservai perché era lei, mi spostavo nella stanza e i suoi occhi tinti mi seguivano più di lei reale, dissi che era la più bella e le porsi del vino 3
e non glielo dissi che vi nascosi sonnifero, ne dormÏ. abbracciai il quadro, presi carta e penna e scrissi, (chi lo sa se lesse mai!) le poggiai i miei versi sul cuscino e piansi mentre andai via. il quadro lo diedi a chi sapeva del cuore e poteva tenerlo in vita e continuai ad amarla senza vederla con l’anima in pace di chi crede alla poesia e all’eterno sempre.
* l’unica copia della gioconda. 3
diciannovesimo
bussare è di buona educazione, ma aprire e non avere ospiti, pesa fra capo e collo. il terreno ha un gran bell’essere, piangevi? dovevamo riscoprirci trecentoventimila a darci pacche sulle spalle, quanti di noi dovrebbero salutarsi? ma non esitiamo ad andarcene. anzi, scappiamo. ..ed io vidi e vedo più strade per arrivarne fuori e più che mai gente di spalle; hanno comprato tutti i miei ricordi, i tuoi. quando in quella foto correvamo vicini, liberi in mutande, e la riva stessa del lago ci chiedeva di farlo, era il ’56 o il ‘57 ma più che mai era il mio piacere di nascondermi all’italia. era il ’56, forse quando voglio. bevemmo vino in un bosco 3
che nessuno vuol vedere, avevamo ventun’ anni tutti e due, figurati che eravamo tutti e due nei pensieri dell’altro. casa nostra. dicono che i bei ricordi: “ah! come se fosse ieri..” io li ho inventati per tutte le tue foto e dentro mi ci sono infilato con pretese da migliore amico, mi sento a mio agio in bianco e nero, credo mi doni o faccia risaltare il mio sguardo o qualcos’altro del genere, ma sono dovuto andarmene. per un po’.. l’aria si stava rarefacendo tutto sapeva di stantio, di rancido, di andato..
per sempre.
ero afono, stordito, ero il presentatore di un bel niente porca troia. è strano volere intervenire, non mi lasciavano parlare, tutti si stanno parlando addosso nel tuo ventre, 3
e i piedi di troppi volevano teste come marciapiede, ma sono dovuto andarmene. -………….tornerò all’abbraccio come nell’impressione che mi tocchi essere te e non di viverci. statalmente. ..ma tornerò.
* il mio molise preferito. 3
ventesimo
feci per entrare. la porta in legno cigolò (gli infissi mai furono decenti nel ‘600) la stanza si estese buia,
particolarmente,
tant’è che nulla ci vidi dentro. -ehilà!abituarsi al buio è un procedimento lento per gli occhi e glielo lasciai fare. un colpo di tosse. -ti vedo.- dissi poi. lo vidi sul serio. seduto a terra appoggiato alla parete opposta alla fessura alla quale il concetto di finestra diviene élite razziale, gomiti sulle ginocchia 3
mani sulle guance occhi chiusi, un grosso sorriso. -posso?- dissi indicando lo spazio a terra fra me e lui. -se non causa la tua morte.scoppiò a ridere. paradossale. la libertà sta in un cosciente morire, dicevo io; non mi volle mai credere, disse che no, non si muore. -sono vincolato a starti vicino, facciano pure quel che vogliono, tanto non mi vedono.- dissi scherzando sulla nostra complementare (atemporale) schizofrenia. ci abbracciammo. -a Nola, cioè.. lo hai detto?-lo sapranno.abituarsi al non-più-essere è un procedimento per la mente che non sapemmo 3
fare. ci provammo.. rimanemmo l’uno accanto all’altro. fino all’alba. -ha fatto un altro giro, vedi?ci guardammo solo quando sentimmo le guardie. accennammo entrambi il soffio di un sorriso. il lato beffardo. lo tirarono in piedi. nessuno fece caso a me e lo seguì senza una parola perché “dire” in taluni casi diviene un di più a cui difficilmente necessitavamo l’abitudine. eravamo mano nella mano. nel campo dei fiori nessun petalo si prese la briga di svegliarsi. di sbocciare. le sue mani libere non lo erano più, abete, legate ad un palo d’abete, o chissà che legno, 3
poggiava i piedi su altre travi, sempre legno, gli stavo di fronte e lui guardava solo me. -la preghiamo di rinnegare se stesso e di piegarsi a quel che noi decidiamo per lei. rinneghi. la smetta. si rifiuti, si rinneghi. lei è menzogna. o brucerà.brindammo con sangue brulé quella sera, io e lui.
decidemmo di essere noi.
di non smettere. sorprenderebbe quanto una fiamma possa essere abituata a coinvolgere quello che trova. io quell’alba bruciai guardando. spente che furono quelle fiamme stupide e innocue (non ci fermarono mica!), camminammo di nuovo insieme, ognuno nella schizofrenia dell’altro. oggi sono io a vedere lui. * quando io e g. bruno. atteggiamenti passivi/aggressivi totalmente nostri. 4
Ventunesimo
niente, ci si rincorre ma una piattaforma di svariati cm quadrati è visibilmente ridicola se correlata alla grandezza ipotetica di un passo inequivocabilmente mio. e non mi pare di muovermi. respiro. mi trascuro con dell’aria alle spalle, mi giro poco come individuo e reagisco piuttosto male come collettività, ma come fedele lascio parecchio a desiderare. …
effettivamente.
quando rientrai nei parametri del buon cristiano (ero con la comunione sopra la coscienza in procinto di un eventuale cresima), venni accusato di insufficienza. era tutti i mercoledì alle 19:00 ma sicuri del buon nome della gioia trasmessa e della buona fede il giorno fu spostato a giovedì. 4
ed io non lo seppi mai. privato di dimostrarmi poco cattolico-istituzionale mi incamminai tra le braccia del bere. e bevetti. e bevetti. e bevetti. quasi fino alla droga. ma poi la droga sapeva poco di me ed io a lei le nascondevo i miei soldi. mi misi seduto quel giorno perché pochi guardavano a me come un incrocio vitale di scambio culturale e/o di stampo emotivo. quell’incrocio, pensai fissando una rotonda, è fin troppo trafficato, e l’assenza di uno stop-semaforo che dir si voglia, rendeva le cose abbondantemente fluide, di copertina; io sono per il soffermarsi, infatti quel giorno mi misi seduto. ricordo che vi era dietro la mia nuca una mensola a cui sbattevo irrimediabilmente una continuazione. 4
ricordo che le mensole
prese in un senso lato
raccolgono suppellettili, per dirla alla buona: oggetti arredamenti minuscoli che abbelliscono di tanto in tanto. mi sentì addosso la responsabilità di un bernoccolo pubblico e generazionale. l’idea di nasconderlo con un bel cappello… mi sembrava di esagerare, quindi decisi semplicemente di scostarmi e di restituirmi alla forma origine di quella parete. dove il muro era vuoto. mi sentì a mio agio. mi sentì come un quadro. era la mia prima estemporanea corporea senza neanche (ahimé) un abbozzo di cornice. la cornice sa di presentazione, ed io sono uno timido, ad una presentazione sarei arrossito e da buon umano fuggo l’umiliazione, pensai. ma tra i canoni vigenti nella razza umana ci sono un paio di punti che ( non mento nell’ammettere di non essermene accorto) non… diciamo… rispettavo. 4
so solo che ho letto una petizione per togliermi, una volta per tutte, via dalle scatole (in più firmarono, ma ancora non riesco a rapportarmi alle firme dei miei cari, bho…
valli a capire). i buoni motivi c’erano, non voglio certo compromettere le idee di chi di dovere ma avrei preferito la chiarezza. ci volevano 500.000 firme. misi l’ultima.
presi il mio fagotto, l’appoggiai sulla spalla destra e mi alzai. dissi: bhe… ciao allora… gli spumanti non mi piacciono, quando li stappano penso che il sughero non meriti un trattamento del genere e quando andai via,
il rumore di tutti quei tappi mi lasciò triste.
arrivai dopo cinque passi su un gruppo di persone. 4
mi dissero guardandomi che ero uno di loro; ero titubante ma era cosÏ bello appartenere. in primo luogo. poi diventò imbarazzante la sensazione di solitudine. comunque.
* curriculum vitae. 4
Ventiduesimo
il dolore poi fu la prima cosa. mi sedetti alla finestra, il mio the giustificava la calma, la mia calma, però, non portava a molto; sembrava preludio. il freddo lo ascoltavo con la guancia parallela al vetro, i rigagnoli non erano pioggia, in casa mia non ha mai piovuto, questo lo sapevo. le mani erano giunte all’altezza della mia tazza preferita, i miei vestiti in quei momenti erano i miei migliori amici, quelli di sempre, comodi, intensi, vissuti; i pensieri non erano fermi (non lo hanno mai fatto) ma si lasciavano sedurre ed esplodevano in orgasmi che si rincorrevano e si oltrepassavano, uccidevano, ero io quella ferma, non mi davo attenzione, non la volevo. mentre il mio sguardo boccheggiava sui bordi in ceramica, goffa, mi baciai le dita, il loro sapore era cosÏ diverso, 4
non era the, presi a mordermi, leggeri piccoli graziosi morsetti sui miei polpastrelli fino allo schiudersi del pollice poi voltai per il palmo,
il mio naso
prese a corrucciarsi, inspiravo ed espiravo
me? no.
il the sulle mie labbra era liquido e non mi bastava,
mi bloccai.
il gusto, distesi le mie gambe ed erano lontanissime, mi mossi inconscia fino al tavolo, terreno neutrale, liberai le mani e ripresi a vederle e non erano libere
erano liquide.
non mi ero mai accorta della mia schiena, ma distesa si apprendono un centinaio di cose, che il pavimento è freddo, che il cielo è.. monotono, ma che io, il mio corpo, monotono.. quanto bastava. le mie braccia fremevano, urlavano, mi toccavano con ferocia 4
e non mi volevano, le bucai ancora, per eliminarle depennarle, con cattiveria, cos’hanno fatto per me? dal mio torace non ho mai avuto spiegazioni plausibili, solo ticchettii, nervosi, banchetto felice dal mio stomaco, -sono pronta all’asportazione dottore.guanti bianchi quando il lattice ne è superbo, cucchiaini: alimento fuochi adatti, tiro su col naso, bucami, non ho mai sentito freddo in tutti i miei giochi: il dottore passò all’asportazione, del mio corpo. il dolore fu solo la prima cosa.
* chirurgia estetica. quando l’anima in prima persona. 4
Ventitreesimo
sul ciglio della strada, il bimbo era sul ciglio della strada, urlava bianco magro urlava madre madre. le braccia affettuose del fanciullo domestico, l’accarezzavo, urlava madre urlava acuto urlava madre il bimbo sul ciglio abbracciava un televisore, urlava madre stringeva edipico un telecomando sistematico catodico fallico desiderava quante di piÚ immagini immagini immagini materne paterne 4
inferme inferno ed urlava madre e pregava chiedendo perdono il perdono, un’avemaria per ogni canale: tutti i canali ginocchio per ginocchio il perdono epistemico edipico complessato nel suo io adulto il bimbo domestico, catodico sul ciglio della strada urlava madre.
*
genitrici inventate. 5
Ventiquattresimo
mi riguardai. sorridevo in maniera imprestata e mi ero comodo. traversai immaginando l’ambientazione casistica di una cena arrangiata. preferivo. i miei piedi sostavano alla base scettica del mio muovermi, io seduto; ascoltavo molto. fingevo di guardare altrove mischiandomi le mani capendo che gli occhi servono a poco quando io non so dei tuoi capelli. tutti i tuoi capelli. ... le voci sono la forma di comunicazione piÚ introversa che io abbia mai sentito, mi introversavo del vino, timido, maldestro come ricordo, le mie voci parlavano di una bellezza, dicevano cose sentite su di te chissà dove. 5
ascoltavo molto. frenetico defluivo in un comizio dimostrativo dove, spettatore, respiravo quell’immagine di te che ancora non realizzavo. era a malapena un orario in cui mangiare, di sera, un sabato di quelli che la parola “qualsiasi” ha atteggiamenti da prima donna. io, nel mio egocentrismo, timido, io, posizionato al centro di io, io, accuratamente io, ero rannicchiato vicino a “qualsiasi” e con i miei atteggiamenti da gentiluomo le dicevo di andarsene. santo cielo! ché a me il generico mi soffoca come agnostico. e poi quelle voci.. parlavano, ma parlavano per dimostrarmi che già ero rovinosamente immancabilmente corrotto dal sapere di come guardi. come guardi? non lo sapevo. mi preparavo vagamente, 5
la concentrazione possiede antipatie posizionate in attacco contro il mio concentrarmi. avevo buoni motivi per distrarmi, alla fine. mi distraeva aspettare.. delle voci mi accusavano di impazienza, nel frattempo, a me! io, che di impazienza ne so veramente poco! sono troppo pigro; tutto sommato; coltivo poca pazienza per impazientirmi. così mi sorpresi di aspettarti. **** l’orologio, in se per se, è un oggetto anche utile. bello, se tenuto a modo. comodo, sul polso destro per un mancino. MA IO NON SONO MAI STATO MENO MANCINO DI QUEL MOMENTO IN CUI TU DOVEVI ENTRARE DA QUELLA DANNATA PORTA E IL TEMPO SI PRENDEVA BEFFA DI ME CHE MI INNERVOSIVO DELLA SUA LENTEZZA!! un orologio, preso in senso lato, può essere snervante. pensai.
5
ricordo benissimo, chiesi scusa alla porta che poi così dannata non era, e comunque non centrava molto era anche gentile, le parlai e lei con toni cortesi mi abbracciava come partorito, mi capiva, diceva (sorridendomi) che dovevo sedermi, fumare e concepire che anche l’attesa ha un fascino tutto suo. “l’attesa ha un legame molto intenso con il sognare”. disse la porta. mi trascino dietro anni e anni di gavetta come sognatore, le dissi, quindi va bene. per rassicurarmi disse che mi avrebbe avvisato lei quando arrivavi, con un fischio, o un trillo, non ricordo questo. fatto sta che fu di parola. tu entrasti come mai ho visto entrare nessuno, lo disse anche la porta. **** io ebbi da far finta almeno fino al caffé, guardavo, nient’altro, mi ero allungato con comodo aspetto televisivo sulla tua prima serata in diretta da una cucina. non mi rifiuterò mai a inviti a cena. 5
soprattutto quando è invitata una sconosciuta.
come te.
sono uno di quelli che mangia. e poi tu. così in silenzio quasi a dimostrarmi il contrario. a dichiararmi che nel palinsesto comparivo io come sfondo pubblicitario, ma io sono anche uno timido non lo avevo detto? - tu dipingi. ricordo quando questo venne detto dalla tua bocca. avevo un gran pensare sulle tue labbra, ma non come si usa nelle poesie, eh, infatti prima che mi dimentico, sai quel fatto che io dipingo, bhe, è più o meno una bugia. ma è che vi era qualcosa di angosciosamente gravitazionale nel tuo considerarmi che avrei continuato a mentire ancora, almeno fino a far finire la poesia e a vedercela meglio fra me e te. quella notte stessa.. e invece che cosa cazzo sei andata a fare? ti sei messa a credermi, A ME!
* almeno un paio. 5
venticinquesimo
il tavolo era un buon principio ed io pensavo solamente come e se poteva distruggersi, era massiccio. dovevo restare, stando a lui. si, sicuro. da morir dal ridere. il posto, scialbo che si presentava, mi soffocava come ruolo. bianche le pareti, i soffitti, il pavimento, e non era solo per il bianco in se e per se, che alla fine effettivamente al posto dona anche: ma è che allo sporco riconducevo un mio essere a cui mi era difficile allontanarmi. invece, solo camice pulite, bianche; come quel suo parlare delle sue idee. insopportabilmente nitide e precise, paradisiache, diceva. io, a dirla tutta, pensavo solo a quel tavolo tra me e lui. 5
distrutto. le sue parole serafiche bussavano alla mia attenzione e, la mia attenzione era sul rovere, ipotizzavo la giusta coordinazione potenza-pavimento e aspettavo. è così che inventai l’espressione “nervoso”: altra mia idea che a lui chiara non arrivava mai. come se non fossi NESSUNO! sacrificarmi ogni tempo per fare da spalla. che palle. sapevo solo questo. che palle. e dovevo restare. canticchiare, sorridere, ave maria ecc. ecc. annessi e connessi. lodi, penitenze e chiacchiere. CHE PALLE. a rendermi conto ero capace, nel senso, egocentrismo? va bene, va bene, egocentrico, pagliaccio, buffone, commediante, inopportuno in taluni casi, ma sarà colpa mia? me ne rendo conto, e l’ho pure detto. ma è quell’aria di sufficienza che mi scorticava vivo.. 5
tanto non mi ascoltava mai. MAI! fin quando non mi fece chiamare nel suo ufficio (ero il primo a entrarci), tutto quel bianco vergine mi dava prurito, il suo progetto incorniciato alla parete era l’unico tocco di colore, e capirai che colori, verde, azzurro, marrone e puntini rosa. e si mise di nuovo a parlarmi di quello. - siamo una squadra.- diceva. - questa volta vedrai che ci siamo, ho a mente tutto, nomi, regole, divieti, divisioni.. e ci ho messo pure un po’ di ambiguità così sembrerà più stuzzicante.- continuava a dire. e io? a me piace il rosso per esempio. … non saremmo mai arrivati a niente, per questo quel giorno ruppi il tavolo. risi quando mi accorsi che andò su tutte le furie, padre e figlio in qualcosa si dovranno pure assomigliare, ma lui non capì neanche questo. mi diede un pugno così forte da mandarmi fuori dal suo ufficio. e pure più lontano. e non solo: il fatto che non mi faccia più tornare indietro 5
mi sta anche bene, ma che tutti i giorni mi mandi gente inutile a casa, (“io suoi errori” dico io) è solo la prova che no, non ha mai voluto ascoltare nessuno.
* il più bello degli angeli. 5
ventiseiesimo
in fondo, io, sono una bella cittĂ .
* autocommiserazioni: l’orgoglio individualista e la sua solitudine. 6
ventisettesimo
non ti avvicinavi neanche. il pomeriggio mi teneva compagnia quando dormivo immaginando solo di ballarti, e quella volta avremmo potuto. i miei anni mi consentivano la mia bellezza, la mia bellezza mi consentiva la purezza di essere bimba tanto quanto mi ci hai visto per sempre. e come mi guardi ora, che da lontano, goffo e tenero, fingi di giocare con le ombre delle tue mani. ed io non posso guardarti chĂŠ non sarebbe educazione di questi tempi, ma le vedo le ombre e il pavimento stellato dai tuoi tocchi, e mi vedo ancora, a cercarti le carezze; con la mia di ombra. fatti piĂš vicino. fatti solo piĂš vicino. 6
mi nascondo dietro tavoli cosicché non mi scopra nessuno, e tu più impacciato di me chiedimi solo di giocare. solamente. e ciò che vogliono resterà sacro e creduto. ma non ora. vedo che inciampi con la coda degli occhi che buffo e maldestro ti neghi un rossore che rosso e pudico ti copre i vestiti. amami da adesso e non scriverlo mai. io non voglio che menti per sempre di avermi cercato, scriverai sessantasette canti di bugie per inventarti il mio arrivo, torturerai mille tue nottate per inventarmi lontana, da esserti una guida dove non vorrò esserlo. ma in questo stupido ballo siamo ancora bambini. scriverai di me per tutta la vita ed io non lo saprò mai e piangerai a sonetti la mia distanza. amami ora, da vicino, e non scriverlo mai. mi vedi. * l’amore di Beatrice. 6
ventottesimo
la cosa cominciava più o meno così, il cielo compieva quei soliti inutili perditempo anacronistici chiaro scuri di cui alla fine diviene solo bello il racconto, e ora non è il caso. la voce, di un’ intolleranza più acuta tendeva solo a ottave più basse, e io non ero in grado di darle torto, non lo ero. avrei, quanto meno, potuto reagire al tentativo, parenterale, della rovinosa drammaturgia riguardante il distruggermi, ma chi ero poi in fondo per bloccarli? assistevo solo alla personale perdita di: sguardo, vestiti, affetti, desideri, 6
(non mi credevano) moltitudine, spensieratezza, consapevolezza, e.. detto tra noi, quel giustificato senso di appellarmi ad una libertà che volevo solo inventarmi. so che non è assoluta, non sono mica scemo. volevo solo una cosa: “lasciatemi perdere”. non posso esserne sicuro, nessuno vuole testimoniare a mio favore, ma penso che quello che ho riportato fra virgolette siano state le mie prime parole, solo per un fatto di correttezza
eh!
per essere chiaro
da subito. anzi, per educazione iniziai a parlare a tre anni e mezzo circa proprio per evitare di litigare, sperando che qualcuno dicesse: -non parla molto, probabile che vuole restare per i fatti suoi.invece niente, lo dovetti dire. lasciatemi perdere. ma è assai particolare la vita se vista in senso climatico: d’accordo, propongo esempi: 6
vivo in un paese freddo, mi copro molto e sogno il caldo, vivo in un paese caldo e non chiedo nient’altro che un po’ di neve, due sci, per favore. mi stupisco spesso della similitudine clima-società. sono sempre stato basso e bruttarello fin da quando ricordo, anche povero, non saprei come spiegarlo.. ma mi va bene, perché struggermi? esasperarmi.. il gel io non credo riuscirò mai a metterlo, come potrei? il pullover, anche volendo, non mi sta su nessuna camicia, sono troppo magro,
e goffo
lo ammetto.
e poi.. no.. non guardo la televisione grazie. no perché ho dei sogni tutti miei, e dei gusti e non tutto questo tempo libero da cercarmi intrattenimenti leggeri che distolgano la mia mente da giornate stressanti, famiglia a rate, clienti che urlano, bambini naufraghi, 6
terre mondiali, inquinamenti volontari, toto calcio, canzoni di merda e la climatica voglia sociale di essere diverso. io non sono il tipo che si lamenta, nĂŠ tanto meno il tipo che chiede e continua a chiedere, mi pare tutto cosĂŹ semplice e chiaro: no, non voglio partecipare a questo inutile modo di vivere, scusatemi. ah! e neanche avere un posto fisso, penso di potermela cavare. e poi che centra? non avrei il tempo neanche per quello: ho amici da voler bene, la mia pittura, il mio scrivere, e a fianco una donna da amare piĂš bella di tutti quanti voi.
* da piccolo volevo fare l’inventore, forse per inventarmi quello che voglio. arte. 6
ventinovesimo
le spalle cedevano solamente, mi dissi nel piÚ breve tempo possibile che causa esplicativa si masturbava nel mio utilizzo costante del passato. era grossomodo scoccata quell’ora. sono le 22 e 29. la penna cedeva nel mio non chiederle niente e nella mia pessima grafia si gonfiava il mio incessante retrocedere, ero di nuovo sotto il tavolo. petulante volevo mirare a sapere delle cose di cui l’importanza nascondo in 13 mesi senza latte materno. mi conobbi dal di fuori come mai dovrebbe succedere, mi promisi una vendetta di silenzio a covare. tracciai delle linee quasi immediatamente e correvo su una strada in fuga da una casa 6
che non mi guardava negli occhi. - sono anch’io qui. non me lo fecero mai dire. venni sostituito rocambolescamente da me conto terzi. e diventai plurimestesso. le mie quattro gambe si intrecciavano sul mio discutere, il mio gesticolare era masochistico ed il mio riuscirmi a guardare in faccia pareva finto ma i miei due corpi mi convincevano spiegandomi questioni di luce e retina che parevano sincere. alto sarò stato non più di 30 cm in più del tavolo, vecchio di almeno 6 o 7 anni rispetto al mio anno zero. e ancora boccheggiavo nella coniugazione di passati remoti. ora ad esempio so che sono le 18 e 33. sfregavo le mie dita ipotizzandomi, cancellavo e ricombinavo elaborazioni di un me fuori di quel tavolo. che noia sapere di essere in grado di fingere a meraviglia, mi permisi di pensare. innanzi a me, pronta a coprirmi, la mia stessa faccia di un sorriso più spiccato, 6
cravatte, camicie e un gran talento da gonfiato buffone. dissi: (andrea balbettando) - ascoltami non io ho la possibilità e la voglia di alzarmi oggi, qui il tavolo mi abbraccia materno come nessuno, e non io ho intenzione e coraggio di espormi, qui nessuno va cercandomi, e tu devi solo vendicarmi.rispose: (l’altro me, dandomi la mano) - ho letto quasi tutto quello che scrivi e, credimi, sarebbe il caso sul serio che ci pensi io. non sei attendibile, lasciami carta bianca, mi creasti longilineo e figlio di puttana lasciami uscire da questo cazzo di tavolo ho bisogno di salirci sopra vedrai che risolvo tutto.ora ad esempio è il momento di tenere a mente che sono le 23 e 19. 6
il mio tavolo era placenta per la mia voglia di restare lì, ma lui, me davanti a me, pareva sicuro, mi avrebbe sostituito parzialmente fino al mio concepimento, mi misi in disparte spiegandoli tutti i ruoli e cercai prima di tutto di motivare il mio dormire. dissi: (andrea socchiudendosi) - probabilmente nessuno mi ama. mi hanno partorito con condanna solitudinale. dispari. ma io, meno coraggioso di un essenziale suicidio e più sensibile della capacità d’amore ho solo stupide poesie e un tavolo, tanto sonno e, te lo dico di cuore, una paura per lo meno violenta di non essere guardato. io sono buono. ma probabilmente nessuno mi ama.rispose: (l’altro me, guardando fuori dal tavolo) - ho capito, 7
faccio vedere io a tutti con chi cazzo hanno a che fare. fottuti figli di puttana.ricordo di averlo visto correre fuori quella volta. presi a credere immediatamente che avrei manovrato la mia invenzione di me con astuzia e ferocia, avrei pernottato nella mia resurrezione giusto il tempo di dimostrarmi. presi a concepire quasi immediatamente che il torto mi dava ragione. infatti, avevo torto. ammetto che sono le 23 e 48, lo so. passarono anni (parlavo ancora di passato remoto) e quel tavolo pareva piangere per me, lo accarezzavo e gli confidavo quello che “l’altro io� non fece mai. di giorno vedevo i suoi occhi urlare incontinenti 7
prendendo sul serio le sue vuote parole, le sue labbra sgonfiarsi per poi riesplodere in bugie su di me. lo vidi, era lo stesso che me ma più alto e robusto, sicuro ma di scavata costituzione. io sotto quel tavolo avevo dei lamenti poco intonati che giungevano lenti e fievoli alle orecchie di tutti, nessuno capiva da dove partissero ma taluni lanciavano occhiate proprio a me. vedevo al di fuori correre volti sereni che sdraiati sulle parole di quel “me sfacciato” non potevano vedermi. veramente. in tutti quegli anni venni tenuto in ostaggio sotto un tavolo, bloccato all’età dei bambini osservavo il mio rapitore in maniere differenti. l’ho amato, lo giuro, come si ama se stessi, con la finale disperazione che meritassi questo. ma io non ero questo. come so per certo che sono le 12 e 26. 7
mi sono permesso di restare piccolo e di muovermi semplice, ho cercato le parole piÚ belle per farmi capire chi sono, ci ho messo anni per finire un mese, ho delineato le mie forme per notare il mio vero guardare. ho pensato alla vita piÚ di quanto potesse interessarmi per non sembrare azzardato nella conoscenza di me. il punto fu sfuggirmi di mano. il mio carissimo io mandato in giro per salvarmi e rendermi merito, prese a ignorarmi. dovetti fermarlo un giorno, ma per farlo bevetti, bevetti e bevetti. lo presi per le gambe e lo trascinai sotto il tavolo. dissi: (andrea al pianto e whisky) -perchÊ non ti chiamano andrea?rispose: (l’altro me) - ah! è una storia lunga questa, idiota, 7
non ho tempo.fece per andarsene e io senza nessuna forza provai a fermarlo parlando. dissi: (andrea prendendo un coraggio sottilissimo) - abbiamo gli stessi occhi e un battito cardiaco ritmato e silente quella carne che ti cosparge è la mia, sei una facciata e ora non posso più farcela, fammi uscire.non rispose. mi accorgo anche ora dell’orario, le 16 e 26. ingabbiato. ingannato. lasciato di nuovo solo. io, più o meno, ero troppe persone. quasi sicuramente il di più stava in un me che avrebbe dovuto vivere di reazioni. 7
nella mia vita ebbi la possibilitĂ di morire sempre. e non me lo permisi mai. .. c' erano giorni che il mio pianto lo condizionava, lui spariva, e da sotto il tavolo vedevo gente accorgersene qualcuno addirittura chiedeva di me, mi chiamava andrea, ma correvano. per qualche minuto, c'era chi sbirciava impaurito sotto il tavolo, mi guardava negli occhi, pochi, saranno stati pochissimi, era bellissimo. sorridevo, io, senza le labbra. mi mancava il coraggio, mi sbalordiva di poter fare solo pena. preferivo che l'altro si fingesse me. era piĂš facile, piĂš sicuro. a conti fatti. 7
e ricompariva. ..e sono le 17 e32. poi, una mano, la piÚ delicata, mi si appoggiò alla spalla. sorridevo di nuovo tra le labbra
per paura,
una mano non mia, neanche per finta. -lo hai sempre fatto, andrea.mi disse, e continuò. -non ti guarda nessuno, che importa, ci vieni con me?fu un giorno, io non capivo mai molto, sempre fatto cosa? dove sono io? -sei sotto un tavolo da solo, e invece vorrei che tu venga con me.mi disse. -l'altro te, che se ne andasse in giro, il mondo è grande, ma tu vieni con me.mi disse. 7
una volta, una volta, la prima, sincero uscĂŹ dal tavolo, non lo so, ma sicuro, protetto da una voce, da degli occhi, che non sentivo
da mai,
che uno non saprebbe mai parlarne. infatti ciò che accadde furono fatti miei. una sola cosa d'inizio domandai: -perchÊ?rispose subito: -amo il tuo naso.-
* la mia ipotesi di Riemann. 7
trentesimo
* il tempo era finito; piĂš di quanto potessi. e non dissi piĂš nulla, preferĂŹ camminare. 7
fine. buonasera Signore e Signori giunti alla fine della mia opera, Vi scrivo per spiegarvi il perchè di questo quasi libro. io, delamarne, sono uno scrittore. credo di esserlo sempre stato. almeno. ma non mi sono mai cercato di imporre come tale, sapete, pubblicazioni e quant'altro ecc.ecc., non sono il tipo da pagare per pubblicare (non è una questione di principio o di danaro, è che vorrei meritarmela la pubblicazione), quindi sono il tipo da inviare copie del mio scrivere, scrivo comunque, questo è il punto. quindi torniamo al punto di cui sopra e capite perchè è un quasi libro. Non potrete comprarlo, non vorrei neanche, le poesie non sono fonte di ricchezza, ma sincero vi affermo che se ho deciso di “spargere” questo mio componimento è solo per spiegare la mia poetica, per dimostrare che si, sono uno scrittore, che io ci creda o meno. In s'era novembre ho nascosto tutto me stesso, anche ai miei occhi. ho nascosto i miei quadri, le mie rughe. il mio girarmi dall'altro lato. e il mio mentirmi. Se siete arrivati fino a qui, magari vi ho regalato un pensiero, un sovrappensiero, o non so proprio cosa, ma grazie per avermi letto. con trascinato trasporto il signor delamarne delamarne@hotmail.it www.myspace.com/volerelapaceperstupido
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