MSOI thePost Numero 98

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Luca Bolzanin, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 27 marzo. Il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato che, a partire dall’anno scolastico 2019, “l’età della scuola dell’obbligo si abbasserà dai 6 ai 3 anni”. Tale misura, secondo Macron, darebbe risalto al valore della scuola materna, comparto che, secondo le stime OCSE, vede la Francia al primo posto in quanto a frequenza, con quasi il 100% dei bambini di 3 anni “scolarizzati” (media OCSE intorno al 70).

GRECIA 26 marzo. L’ex ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, entra sulla scena politica greca con il nuovo partito politico Grecia Mera25. Il partito, declinazione ateniese di Diem25, punta con forza alle elezioni europee del 2019. Secondo Varoufakis, “la Grecia sta affrontando la peggiore crisi della sua storia dalla guerra civile”, avendo cosi come obiettivo la rottura con l’attuale governo continentale. ITALIA 28 marzo. Un’azione congiunta delle forze dell’ordine in diverse città italiane ha portato alla luce una fitta rete terroristica alla cui sommità si troverebbe Elmahdi Halili, giovane di 23

ARRIVA LA “WEB TAX”

Presentata in Commissione una tassa uniforme sul 3% dei fatturati delle big techs

Di Edoardo Schiesari Il 21 marzo scorso, il commissario degli Affari Internazionali Pierre Moscovici ha presentato alla Commissione Europea la proposta di introdurre la “web tax”: un’imposta del 3% sul fatturato delle grandi aziende di internet (Google, Amazon, Facebook, Apple), che dovrebbe generare 5 miliardi di euro di entrate aggiuntive. Una soluzione concreta al problema dell’elusione fiscale dei colossi digitali. La tassa andrebbe a colpire quelle aziende che vantano un fatturato complessivo superiore ai 750 milioni di euro e un fatturato nell’Unione Europea pari a 50 milioni di euro. 125 big companies diffuse soprattutto nella Silicon Valley statunitense, ma anche in Europa e in Asia. Come spiegato nel documento della Commissione, verrebbe quindi colpito chi “è in una posizione di mercato forte”, lasciando invece totalmente indenni startup emergenti e piccole aziende. Ciò rappresenterebbe una misura temporanea, in attesa di una soluzione definitiva che colmi il vuoto legislativo e imponga alle grandi aziende del digitale di pagare le tasse nei Paesi dove i profitti sono effettivamente generati e non nei Paesi terzi, i quali vengono appositamente scelti a seconda del livello di imposizione

fiscale. Attualmente, si stima, le aziende digitali versano imposte oscillanti tra l’8 e il 10% sui profitti, contro il 20-22% versato dalle company tradizionali. Il prelievo verrebbe fatto sui ricavi dalla vendita di spazi pubblicitari, dalla cessione dei dati, e dai ricavi ottenuti dalla vendita dei servizi digitali. La grande novità della web tax è appunto la capacità di superare il concetto di “stabile organizzazione”. Superando infatti il concetto di presenza fisica dell’azienda, si passa finalmente al concetto di presenza digitale che si fonda su tre criteri: la tassa si applica se l’impresa supera i 7 milioni di ricavi in uno Stato, i 100 milioni di utenti in un esercizio, e se, nello stesso esercizio, stipula 3.000 contratti per servizi digitali. Moscovici ha poi specificato, in previsione del G20, come questa proposta non sia pensata come un contrattacco all’amministrazione Trump, che ultimamente sta minacciando di imporre dei dazi commerciali su acciaio e alluminio, ma che sia invece una tassazione equa. Inoltre, questa proposta tende a scongiurare la tentazione da parte dei singoli Stati membri di agire unilateralmente, mettendo in pericolo l’omogeneità del mercato unico, col rischio di creare un sistema fiscale frammentario. MSOI the Post • 3


EUROPA anni, residente nell’area del Canavese. Secondo gli inquirenti, Halili, proveniente da una famiglia ormai radicata da decenni in Italia, sarebbe stato impegnato in una campagna di proselitismo e sarebbe, inoltre, a lui imputabile la traduzione del manuale islamico redatto dal sedicente Stato Islamico.

MOLDAVIA 26 marzo. Decine di migliaia di persone si sono riversate nelle strade di Chișinău per manifestare a favore della riunificazione della Moldavia con la Romania. Le manifestazioni, secondo quanto riportato dalla stampa nazionale, sarebbero “il frutto delle tensioni interne in vista delle elezioni” del prossimo novembre, in un Paese “scosso da una povertà tale da renderlo il fanalino di coda a livello continentale”. SPAGNA 25 marzo. Sale la tensione a Barcellona dopo l’arresto, al confine fra Germania e Danimarca, dell’ex presidente dell’autonomia catalana, Carles Puigdemont. Appresa la notizia, infatti, migliaia di persone hanno affollato le strade della città per protestare contro questa “privazione volontaria della libertà” messa in atto da Madrid; oltre 50, i feriti negli scontri con i Mossos d’Esquadra, mentre la Catalogna si prepara all’ennesimo sciopero generale. A cura di Simone Massarenti 4 • MSOI the Post

CATALOGNA, ARRESTATI PUIGDEMONT E TURULL Il ritorno alle urne è sempre più concreto

Di Alessio Vernetti La Catalogna continua a non avere un Presidente, sebbene le elezioni dello scorso 21 dicembre abbiano delineato una maggioranza indipendentista (70 seggi su 135) al Parlamento catalano. Uno dopo l’altro, infatti, i tre candidati secessionisti sono stati arrestati. Il primo, Carles Puigdemont, fu proposto dal neo-eletto presidente del Parlamento catalano Torrent come candidato Presidente della Generalitat. Tuttavia, il Parlament ritardò la sua investitura dopo che il Tribunal Constitucional sancì che non avrebbe potuto assumere la presidenza dal Belgio, dove era scappato per sfuggire all’arresto. L’ex presidente catalano annunciò allora, il 1° marzo, di rinunciare alla propria candidatura per consentire all’indipendentista detenuto Jordi Sànchez, leader del partito alleato Junts per Catalunya, di diventare Presidente. Tuttavia, poiché il Tribunal Constitucional non permise la scarcerazione di Sánchez, quest’ultimo il 21 marzo rinunciò a sua volta alla possibilità di guidare l’esecutivo a favore dell’ex portavoce del Governo catalano Jordi Turull. Al primo scrutinio, tenutosi il 22 marzo, Turull ha ottenuto 64 voti favorevoli e 65 contrari. Il giorno seguente e a meno di 24 ore dal secondo scrutinio, in cui

per l’investitura sarebbe bastata la maggioranza semplice e non più quella assoluta, il Tribunal Constitucional accusò diversi indipendentisti, tra cui Turull stesso, di aver contribuito alla dichiarazione unilaterale di indipendenza della Catalogna, mettendoli in custodia cautelare. Di conseguenza, Torrent ha annullato il secondo scrutinio per l’investitura di Turull. Intanto, però, è stato avviato il countdown previsto dall’Articolo 67.3 dell’Estatuto catalano, per il quale “se dopo due mesi dalla prima votazione di investitura nessun candidato sarà stato eletto, il Parlamento sarà automaticamente sciolto”. Nuove elezioni “avranno luogo entro un termine che va dai 40 ai 60 giorni”. Se entro il 22 maggio non si sarà trovato un Presidente, i catalani torneranno alle urne a luglio. Contemporaneamente, Puigdemont, raggiunto da un mandato di arresto europeo mentre tornava in Belgio dalla Finlandia, il 25 marzo è stato fermato in Germania, subito dopo aver attraversato il confine danese, e rischia ora l’estradizione. Diversi manifestanti sono scesi in piazza a Barcellona per chiederne la scarcerazione; nel frattempo, la Commissione diritti umani dell’ONU ha dichiarato ammissibile il ricorso di Puigdemont.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

U.S. AMBASSADOR TO ISRAEL VILIFIED BY PALESTINIAN PRESIDENT Mahmoud Abbass politically challenges Israel and the U.S.A.

By Kevin Ferri STATI UNITI 27 marzo. Secondo un sondaggio condotto da Huffpost e YouGov solo 1 americano su 3 ritiene che la tortura non dovrebbe essere usata in nessun caso durante gli interrogatori. Il sondaggio in questione ha particolare importanza perché condotto durante i giorni della conferma, davanti al Senato, di Gina Haspel, scelta da Trump per guidare la CIA e che in passato ha gestito un black site dell’Agenzia.

On December 6th, 2017 U.S. President Donald J. Trump performed one of the most strategic moves in his MiddleEast foreign policy. He recognized Jerusalem as the capital of Israel. “I have determined that it is time to officially recognize Jerusalem as the capital of Israel”, Trump said: “While previous presidents have made this a major campaign promise, they failed to deliver. Today, I am delivering.”

28 marzo. 9 Senatori democratici hanno cofirmato una lettera indirizzata ad alcuni dirigenti del Dipartimento di Giustizia. Con la nota in questione gli si è stato richiesto di rendere una dichiarazione pubblica circa l’impegno a non interferire nelle indagini di Robert Mueller e rifiutando ogni eventuale richiesta da parte della Casa Bianca e del suo staff.

He sure did deliver. However, the International Community did not forgive him. In fact, the United Nations General Assembly Resolution ES10/L.22 declared the status of Jerusalem as Israel’s capital as “null and void” with margins of 128 in favor to 9 against. Seemingly careless, the Trump administration still decided to move the U.S. Embassy in Israel from Tel Aviv to Jerusalem and to appoint David Friedman – Trump’s former personal lawyer – as Ambassador. Freidman strongly supported settlement building in the occupied West Bank, which is considered illegal under International Law. However, it is axiomatic that this ‘power game’ is mainly about restoring the U.S. vis-àvis future diplomacy regarding the city.

28 marzo. Donald Trump ha dichiarato, nella giornata di mercoledì, si essere “ottimista per l’eventuale futuro incontro con il suo omologo nordcoreano Kim Jong-Un”. Dopo aver ricevuto un messaggio dal presidente cinese Xi Jinping, il quale ha dichiarato l’esito positivo del proprio incontro con Kim, il Presidente statunitense ha, infatti, twittato che il leader di Pyongyang “farà ciò che è giusto per il suo popolo e per l’umanità”.

While for Israel the absence

of any U.S. representation in Jerusalem is common knowledge, it is less well known that the United States does maintain a diplomatic facility in Jerusalem to represent Washington to another claimant: the Palestinian Authority. This results in Washington lacking of any formal presence in the capital of its main democratic ally in the Middle East, while having a diplomatic presence in that ally’s capital for another political entity that claims territory within that city. This is quite a controversial ‘proPalestine’ U.S. policy that we must reflect upon. However, on Monday, at a Palestinian leadership gathering, Mahmoud Abbas yelled: “The son of dog says they build on their land? He is a settler, and his family are settlers, and he is the U.S. ambassador in Tel Aviv. What should we expect from him?” Friedman responded during a speech at a conference on fighting global anti-Semitism, saying: “His response was to refer to me as son of a dog. AntiSemitism or political discourse? Not for me to judge, I leave that all up to you.” Independently and far from the yelling and Middle-Eastern political populism, the U.S. are low-key working to ensure a preponderance of power in the region that will be fundamental in addressing many other security and intelligence issues in the future.

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NORD AMERICA 29 marzo. Il presidente Trump sta considerando le misure adottabili nei confronti del gigante dell’e-commerce Amazon. Le sue mosse potrebbero comprendere azioni legali o una modifica dei vantaggi fiscali di cui la compagnia gode attualmente. Trump ritiene, infatti, che l’azienda di Jeff Bezos stia danneggiando i piccoli commercianti. In seguito alla notizia il titolo ha perso, nella sola giornata di ieri, il 5% in borsa. CANADA 25 marzo. L’Istituto di Statistica Canadese ha rilasciato

gli ultimi dati relativi a vendite e inflazione. Nell’ultimo trimestre le vendite al dettaglio sono aumentate dello 0,9% mentre, nell’ultimo mese di febbraio, soltanto l’inflazione ha segnato un aumento dello 0,6%. 26 marzo. Il Ministero della Difesa canadese ha annunciato in una nota che invierà truppe ed elicotteri in Mali entro l’autunno. Gli uomini ed i mezzi saranno impegnati con il contingente a disposizione della missione delle Nazioni Unite nel Paese africano, la MINUSMA. 26 marzo. Anche il Canada si è unito al gruppo di Paesi che ha deciso di espellere diplomatici russi quale ritorsione diplomatica a seguito del caso che ha coinvolto l’ex spia russa Sergei Skripal, residente nel Regno Unito. 4 diplomatici sono stati, infatti, allontanati dal Paese dal governo Trudeau. A cura di Alessandro Dalpasso 6 • MSOI the Post

GIRO DI WALZER

Il nuovo avvicendamento nell’amministrazione Trump segna un cambio di passo in politica estera

Di Leonardo Veneziani Questa settimana un nuovo cambio della guardia ha visto come protagonista, ancora una volta, l’amministrazione di Donald Trump. Il generale McMaster, uno degli uomini più fidati di Trump, proveniente dalla carriera militare della United States Army, sarà sostituito da John Robert Bolton a partire dal prossimo 9 aprile. Lo scorso 22 marzo, il generale aveva rassegnato le proprie dimissioni, senza annunciarle pubblicamente, dal ruolo di National Security Advisor, figura che svolge il ruolo di consulente del Presidente su questioni di sicurezza nazionale. Le sue dimissioni, e il suo successivo rimpiazzo, sono stati annunciati esplicitamente dallo stesso Presidente Trump tramite un tweet sul suo profilo ufficiale. Secondo alcune indiscrezioni, le divergenze fra McMaster e Trump, riguardanti diverse tematiche di politica internazionale, erano insanabili ormai da tempo: dalla politica nei confronti dell’Iran, all’atteggiamento statunitense sulla questione nord coreana, fino all’approccio del Presidente stesso, ritenuto dal generale troppo accomodante, verso la Federazione Russa. Le dimissioni di McMaster non sono comunque un caso isolato: si inseriscono, difatti, in una scia che ha coinvolto, fra

gli altri, Gary Cohn (consigliere economico), Hope Hicks (direttrice delle comunicazioni), Rex Tillerson (Segretario di Stato) e, precedentemente, Steve Bannon, Michael Flynn, e altri. La nomina del suo successore John R. Bolton, che non deve affrontare il voto congressuale, è però sintomo di un cambio nella politica estera del Presidente. Ex Ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, John Bolton è considerato un ‘falco’, ossia un promotore di un ruolo più incisivo e unilateralista degli Stati Uniti sullo scenario mondiale. Il nuovo Consigliere si è, infatti, più volte espresso su questioni come quella iraniana – Bolton, fiero oppositore dell’Iran Deal, sostiene che gli Stati Uniti debbano bombardare preventivamente le installazioni utilizzate per le produzioni nucleari – e relativamente a Corea del Nord e, soprattutto, Russia, con la quale sostiene che gli Stati Uniti dovrebbero adottare il polso duro. L’avvicendamento di Bolton, in ogni caso, non potrà che implicare un significativo e deciso cambiamento della politica estera del Presidente, specialmente considerando che, a breve, Donald Trump incontrerà in un summit Kim Jong-un per discutere della situazione della penisola coreana.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

EGITTO 27 marzo. I Fratelli Musulmani sono stati banditi dalla politica, accusati di essere un’organizzazione terroristica. La fazione politica, principale rappresentanza dell’Islam sunnita e parte della scena politica del Paese da oltre 90 anni, era già stata ufficialmente interdetta nel 1954, con l’arresto di numerosi membri e l’esecuzione di uno dei leader.

28 marzo. Si chiudono le votazioni per le elezioni presidenziali, con il leader uscente, Abdel Fattah AlSisi, come vincitore favorito, a seguito di una campagna elettorale che ha incoraggiato grande affluenza degli egiziani alle urne. IRAQ 27 marzo. Il premier iracheno, Haider Al-Abadi, ha rassicurato la Turchia affermando che «l’esercito iracheno impedirà alle forze curde di attaccare il confine». Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha ribadito che, in caso di fallimento delle operazioni irachene contro i curdi in Sinjar, «la Turchia sarà pronta a intervenire». Nel frattempo, la KCK (Kurdistan Communities Union) ha annunciato il ritiro dei guerriglieri del PKK dal Sinjar, dichiarando che le «comunità minoritarie di yazidi non sono più a rischio di sicurezza». ISRAELE 24 marzo. Oltre 20.000 persone sono scese in piazza a Tel Aviv per manifestare contro il piano

LE CARCERI-ORFANOTROFIO DI ISRAELE

Sono sempre più numerosi i minori arrestati e obbligati crescere in “territorio nemico”

Di Maria Francesca Bottura Ahed Tamimi ha 17 anni e rimarrà in carcere per i prossimi otto mesi. Questo è solo un esempio tra le tante storie di minori arrestati e condannati dai tribunali israeliani. In Israele se lanci un sasso vieni condannato ad un massimo di 20 anni di reclusione, anche se sei solo un bambino. A volte, i giudici concedono una pena più lieve stabilendo un indennizzo in shekel, spesso però troppo elevato per le famiglie palestinesi sfollate. Il numero degli arrestati nel periodo 2017-2018 con un’età compresa tra i 12 e i 17 anni varia tra i 500 e i 700. A riportarlo è la sezione palestinese dell’associazione Defense for Children International (DCI), ente che negli anni si è occupato di offrire assistenza legale ai bambini e di registrare il numero degli arresti e delle relative condanne. Altri dati sono stati invece registrati dall’Israeli Information Center for Human Rights for the Occupied Territories, che nelle sue statistiche ha contato ben 356 detenuti sotto i 18 anni solo a febbraio 2018. Il Pubblic Commitee Against Torture in Israel (PCATI), attivo in questo ambito dal

1990, denuncia che il 74% dei bambini arrestati (dal 2000 si stima siano stati circa 10.000) sperimenti violenza fisica durante gli interrogatori. Questi, d’altronde, non avvengono in presenza di avvocati o insieme alle famiglie dei minori, e non esiste alcuna registrazione video. Molti bambini parlano della stanza numero 4 del Russian Compoud di Gerusalemme, nel quale i minori verrebbero picchiati e violentati dai loro carcerieri. Il Comitato delle Nazioni Unite sui Diritti dei Bambini (CRC), in una relazione del 2013, denunciò le forze dell’ordine israeliane, scoperte a usare i bambini come scudi durante le guerriglie. E questa è solo una delle tante denunce riportate nel corso degli anni dalle organizzazioni internazionali. La maggior parte dei bambini sono fuggiti con le loro famiglie da Gaza City. A causa della loro condizione sociale di “nemici”, molto spesso vengono accusati di reati che hanno come inevitabile conseguenza il carcere. Come è successo ad Ahed, divenuta un simbolo del movimento di resistenza palestinese, accusata di aggressione e istigazione alla violenza per aver schiaffeggiato un soldato e condannata a 8 mesi di reclusione. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE dell’amministrazione Netanyahu di deportare oltre 40.000 rifugiati africani provenienti da Eritrea e Sudan. La politica di ricollocamento forzato, definita dai media una «misura razzista», ha, inoltre, attirato le critiche della comunità internazionale. Si attendono maggiori dettagli sul piano, richiesti dalla Corte suprema per valutare la proposta. Nel frattempo, le deportazioni sono state sospese.

27 marzo. A pochi giorni dal Venerdì Santo, i cristiani palestinesi di Gaza non hanno ancora ricevuto i permessi per entrare a Gerusalemme, in occasione della festività religiosa. Le autorità militari israeliane hanno difeso le proprie politiche di sicurezza e dichiarato che «i permessi saranno rilasciati solo per i credenti oltre i 55 anni di età». SIRIA 27 marzo. Prosegue l’evacuazione dall’area di Ghouta orientale con circa 7.000 persone che hanno lasciato le loro case nei territori controllati dai gruppi ribelli dal 2013. Il sobborgo di Damasco, sotto assedio e originariamente abitato da 400.000 persone, è stato ripetutamente colpito da una serie di attacchi da parte delle forze governative siriane nonostante i tentativi della comunità internazionale di stabilire una tregua. Insufficiente, inoltre, l ’ accesso agli aiuti umanitari. A cura di Clarissa Rossetti 8 • MSOI the Post

MEDIO ORIENTE 1798-2017 Analisi di un castello di carte

Di Martina Terraglia Nel saggio del 1993, Samuel Huntington ipotizzava che nel mondo post-Guerra Fredda alla base degli scontri internazionali vi sarebbero state l’identità e la religione. Il pensiero vola immediatamente a quanto sta accadendo in tutto il Medio Oriente. Eppure, sembra una spiegazione troppo semplice. La storia delle relazioni moderne tra Occidente e Medio Oriente inizia molto prima della Guerra Fredda: se dovessimo indicare una data, potremmo probabilmente scegliere il 1798. Un giovane Napoleone si lancia nella Campagna d’Egitto, passata alla storia per la spedizione scientifica correlata, che vede 150 studiosi visitare l’Egitto. La Campagna d’Egitto in qualche modo esemplifica relazioni tra Occidente e Medio Oriente. È sufficiente leggerne i resoconti: sul piano strategico, il Medio Oriente costituiva per Napoleone un campo di battaglia per attaccare l’Inghilterra. Sul piano umano e sociale, possiamo prendere ad esempio il resoconto di Charles Norry del 1800: accanto a termini come barbari o sciacalli, spicca la frase “quanto magnificamente queste produzioni [agricole] si accrescerebbero nelle mani di colonialisti attivi”. Questa retorica ricorda quella delle spedizioni europee nel

Nuovo Continente, quando le popolazioni locali venivano descritte come omuncoli privi d’anima, ma anche quella di esponenti contemporanei di movimenti di estrema destra e conservatori. Dopo la succitata Campagna, e ancor più con il declino dell’Impero Ottomano, la percezione del Medio Oriente da parte dai governi occidentali non è cambiata molto: non la terra di persone vive, con sogni, ideali, storia e cultura, ma qualcosa di estraneo, in cui interventi imposti da lontano erano leciti. Lo dimostrano Sykes-Picot, la dichiarazione di Balfour, l’operazione Ajax, l’intervento in Iraq nel 2003: perché “questi Arabi sono diversi”. Dobbiamo intervenire e salvarli, anche a costo di ignorarne la specificità: in quest’ottica i movimenti di re-islamizzazione radicale e collettiva possono essere letti come uno strumento per riaffermare la propria identità versus aspettative e ingerenze esterne. Che cosa facciamo adesso? Lasciamo tutto ai locals? Ormai è tardi: il castello è talmente alto e fragile che, se eliminassimo anche solo l’angolino di una delle carte, tutte verrebbero giù. ONG, missioni diplomatiche, accordi e trattati sono solo altre carte: non si può che continuare costruire, sperando che non crolli tutto.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole AZERBAIGIAN 28 marzo. Il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, e il presidente dell’Iran, Hassan Rouhani, hanno firmato, a Baku, una serie di accordi che prevedono lo sviluppo dei rapporti bilaterali in ambito petrolifero ed economico. L’Azerbaigian stanzierà 500 mln di dollari all’Iran per la costruzione della ferrovia che unirà Astara (Azerbaigian) con Rasht (Iran). KOSOVO 26 marzo. Il direttore dell’Ufficio per il Kosovo del governoserbo,MarkoĐurić,èstato arrestato dalla polizia, dopo essere entrato in territorio kosovaro senza autorizzazione. L’arresto ha scatenato la reazione di Belgrado e una serie di reciproche accuse con Pristina. L’Alto rappresentante dell’UE, Federica Mogherini, recatasi in Serbia, ha detto che “l’Unione non tollererà più eventi simili”. MONTENEGRO 26 marzo. Dopo essersi ritirato dalla politica nel 2016, Milo Đukanović ha dichiarato che parteciperà alle elezioni presidenziali del 15 aprile. Đukanović, divenuto per la prima volta primo ministro montenegrino a 27 anni e prima della disgregazione della Jugoslavia, è famoso per il distanziamento dalle politiche di Milošević, quando boicottò le elezioni federali nel 2000. RUSSIA 25 marzo. Nel centro commerciale Zimnyaya Vishnya, nella città di Kemerovo, ha avuto luogo un enorme incendio che ha causato la morte di 64 persone, tra le quali molti

NUOVA ROTTA BALCANICA

La chiusura dei confini e i muri di filo spinato non fermano i flussi migratori attraverso l’Europa

Di Ilaria Di Donato Il 2015 fu l’anno dell’esodo da record lungo la rotta balcanica. La traversata dei migranti verso le porte della “fortezza Europa” aveva il suo punto di partenza nelle Isole Egee, in Grecia, e interessava principalmente Stati come la Serbia, l’Ungheria e la Croazia. Tuttavia, con un’iniziativa unilaterale di presidio dei propri confini, alcuni dei suddetti Stati hanno annunciatoufficialmentelachiusura di quel corridoio da sempre noto come rotta balcanica. Nonostante gli intenti delle autorità politiche locali, il flusso di persone non si è placato, inaugurando nuove vie per giungere nell’Europa occidentale. La principale deviazione alla marcia dei profughi interessa la Bosnia Erzegovina, che nel 2017 ha registrato un aumento di ingressi clandestini pari al 700%. Da qui il flusso prosegue verso la Croazia e si estende fino al confine sloveno. In questo lembo di terra, nonostante i disagi incontrati, il numero di migranti continua a crescere. Secondo i dati diffusi dall’UNHCR lo scorso febbraio, tra le 40 e le 50.000 persone in fuga dai propri Paesi di origine si trovano nel “limbo” della nuova rotta balcanica, in attesa di proseguire verso l’Europa ma di fatto bloccati e respinti dalle autorità locali. Le condizioni di vita cui sono

sottoposti i richiedenti asilo sono particolarmente dure, complici le temperature rigide della stagione invernale. La maggior parte dei profughi è costretta a vivere all’aperto o in tendopoli improvvisate. Ad aggravare la situazione si aggiungono gli episodi frequenti di abusi e violenze perpetrate nei confronti dei migranti che tentano di attraversare il confine. Le persone che vivono nelle località in prossimità dei confini croati non ricevono alcun documento che attesti la loro presenza, pertanto non esiste alcuna possibilità che possano essere riconosciuti come rifugiati. Poco chiara anche l’iniziativa di stilare una lista di attesa per entrare in Ungheria, che secondo gli operatori umanitari altro non è che un espediente per tenere buoni i profughi con l’illusione che potranno prima o poi proseguire il loro viaggio. La soluzione, suggerita tanto da alcune forze politiche quanto dalle organizzazioni umanitarie, auspica una riforma del sistema europeo comune di asilo, che nella sua attuale declinazione si rivela inadeguato a dare una risposta di protezione a coloro i quali ne necessitano. Le ultime proposte delle istituzioni europee, infatti, hanno incontrato le resistenze di molti degli Stati dell’Unione e l’implementazione del sopra citato sistema non ha ancora avuto luogo.

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RUSSIA E BALCANI bambini. Tra le accuse mosse nei confronti di ignoti, figura la negligenza del personale addetto alla sicurezza. Martedì, sul luogo della disgrazia, si è recato anche il presidente russo Vladimir Putin.

INFERNO NEL TUNNEL DI BEZHATUBANI «Lavorare qui è una benedizione o una maledizione?»

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia 26 marzo. Sono 13 i Paesi che si uniscono agli Stati Uniti nella decisione di espellere decine di diplomatici russi in seguito alla morte di Sergei Skripal. Secondo gli inquirenti, l’ex spia di Mosca sarebbe stato avvelenato in Inghilterra, insieme alla propria figlia, dai servizi segreti russi. Si attende la reazione di Putin. UCRAINA 23 marzo. Nadia Savchenko, una delle figure chiave del Maidan, è stata arrestata dalle autorità ucraine, in quanto sospettata di aver stretto accordi con i ribelli filorussi al fine di organizzare un atto terroristico contro il Parlamento. Savchenko ha definito l’accaduto “una ridicola provocazione di un governo corrotto”.

A cura di Andrea Bertazzon

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Nella nuova tratta che collegherà Tbilisi a Batumi, gli operai sono al lavoro nel cantiere per la costruzione del tunnel ferroviario di Bezhatubani. Il cantiere in questione fa parte di un programma per ammodernare il principale collegamento ferroviario della Georgia. Il primo ministro, Giorgi Kvirikashvili, ha dichiarato che il progetto ferroviario fa parte di un ampio programma di riforma in quattro punti, con l’obiettivo di modernizzare il Paese. Kvirikashvili ha inoltre affermato che ogni investimento è finalizzato al benessere dei propri cittadini. Nonostante la dichiarazione del Primo Ministro sugli investimenti e sul benessere, i lavoratori impiegati nel cantiere ferroviario sono quotidianamente esposti ad alti rischi. Ad esempio, quando la mattina si recano sul posto di lavoro, devono porre molta attenzione ai treni che transitano. Gli operai e i sindacati hanno da tempo lanciato l’allarme per la loro salute e le pessime condizioni lavorative. Lo scorso 19 gennaio è stato indetto uno sciopero per denunciare la loro situazione e chiedere un miglioramento delle condizioni lavorative. Dopo qualche giorno, l’azienda

datrice di lavoro, China Railway 23rd Bureau, ha promesso il pagamento dei permessi per malattia e per ferie. Tuttavia, lo stesso giorno, è stato annunciato che oltre 26 lavoratori avrebbero perso il loro posto di lavoro. Nel cantiere, molti lavoratori hanno grossi dubbi sul fatto che l’azienda si occuperà realmente a migliorare la situazione. In passato la China Railway 23rd Bureau non aveva mantenuto i patti concordati. L’azienda in questione, inoltre, non fornisce agli operai indumenti anti-infortunistici adeguati. I lavoratori sono anche costretti a bere acqua contaminata, poiché i rubinetti sono direttamente collegati con il fiume Tskhenistkali: la richiesta dei sindacati di acqua potabile è stata loro negata. Va inoltre sottolineato come l’azienda non rispetti un decreto emesso nel 2014 dal governo georgiano per la ventilazione dei tunnel, condizione che mette a rischio la salute dei lavoratori. Il guadagno medio mensile di uno degli operai di questo cantiere è di 240-320 dollari, ma il prezzo che pagano è molto più elevato: ogni giorno il rischio è quello di morire a causa della mancanza di condizioni di sicurezza minime.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

IL CREDITO SOCIALE IN CINA Il distopico sistema a punteggio che rivoluzionerà la società cinese

Di Fabrizia Candido

CINA 26 marzo. Avviate le trattative con Washington per evitare i dazi commerciali. Il Segretario del tesoro e il governo cinese sono, dunque, alla ricerca di un accordo per poter scongiurare un’eventuale guerra commerciale tra i due Paesi. I due leader dell’economia mondiale sarebbero in trattativa da quando il presidente Trump ha dato notizia dell’imminente sanzione. Gli USA, secondo la stampa americana, vorebbero ottenere maggior spazio d’azione all’interno del mercato cinese. COREA DEL NORD 26 marzo. Il presidente Kim Jong-un si è recato a Pechino e per una visita non ufficial con Xi Jinping. Dalla sua ascesa al potere, nel 2011, Kim non aveva mai compiuto alcuna visita in Stati esteri. I due leader hanno hanno discusso principalmente della questione “nucleare”. Il Presidente nordcoreano si è detto pronto ad aprire dialoghi diplomatici con gli Stati Uniti. Positiva la risposta di Washington. GIAPPONE 26 marzo. Shinzō Abe ha espresso soddisfazione per il principio di apertura dimostrato dal regime di Pyongyang con la visita affettuata presso Pechino.

‘Planning Outline for the Construction of a Social Credit System’ è il titolo del documento rilasciato il 14 giugno 2014 dal Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese. Si tratta di linee guida per l’installazione di un sistema di credito sociale con deadline fissata al 2020, quando il comportamento di ogni singolo cittadino, impresa o altra entità verrà valutato e classificato in base ad uno score. Il governo ha autorizzato otto compagnie private ad elaborare sistemi di calcolo per i punteggi: tra queste compaiono China Rapid Finance, partner di Tencent, sviluppatore della popolare app di messaggistica WeChat, e Sesame Credit, gestita da Ant Financial Services Group, affiliato di Alibaba. Sesame Credit, in particolare, ha rivelato i 5 fattori su cui baserà il proprio algoritmo: storia di credito, capacità di conseguimento, caratteristiche personali, comportamento e preferenze, relazioni interpersonali. Per ora, l’iscrizione al servizio è facoltativa, ma si ipotizza che entro il 2020 il sistema potrebbe diventare obbligatorio. Ad incentivare i cittadini a prendere parte al grande progetto c’è un sistema di ricompense e privilegi per i “degni di fiducia” (agevolazioni nella concessione di mutui e prestiti o nella ricerca di lavoro e alloggio), controbilanciato però da

sanzioni per chi dimostri una condotta inaffidabile. Il punteggio sarà decisivo nel determinare il rango sociale degli utenti: uno score alto è già uno status symbol ed è anche un nuovo ed innovativo strumento per valutare l’affidabilità dei richiedenti credito che non hanno mai preso in prestito, investito o accumulato denaro. Sesame Credit è largamente basato sul sistema statunitense FICO: introdotto nel 1989, FICO fornisce a banche e creditori scores indicativi della storia di credito e dell’affidabilità dei cittadini americani. Il progetto cinese, dunque, oltre a mirare ad una maggiore sicurezza pubblica e ad una società più “giusta e affidabile”, punterebbe ad un’espansione dell’industria del servizio di credito, proprio come accaduto negli Stati Uniti in seguito all’introduzione del FICO score. Lo scorso marzo, la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme ha inoltre annunciato che a partire da maggio sarà vietato ai cittadini con un rating basso viaggiare su treni e aerei per un periodo di dodici mesi. Il provvedimento, secondo quanto riporta Reuters, sarebbe indirizzato a coloro che sono stati sorpresi a viaggiare senza biglietto, a fumare nel bagno di un convoglio, a causare disordini sui trasporti pubblici, o che sono stati dichiarati colpevoli della diffusione di false informazioni. MSOI the Post • 11


ORIENTE Il Presidente giapponese spera che si possano avviare negoziati sulla denuclearizzazione nordcoreana 28 marzo. Il Presidente ha dichiarato di “voler incontrare Trump in occasione di un prossimo summit” per discutere la questioni dei nuovi dazi USA imposti anche al Giappone. INDIA 27 marzo. La Corte Suprema, a 70 anni dalla morte di Gandhi, ha respinto tutte le istanze che chiedevano l’apertura di una nuova inchiesta sulle cause dell’omicidio del Mahatma.

MYANMAR 21 marzo. Il presidente Kyaw, in carica da due anni, si è dimesso con effetto immediato. Il Presidente e il suo ufficio stampa non hanno fornito motivazioni alla decisione e le speculazioni mediatiche parlano di “problemi di salute”. Il leader lascia il Paese in un momento di delicato equilibrio per la questione, mai sanata, della “guerra” ai Rohingya. 28 marzo. Il Parlamento ha eletto il nuovo Presidente. Win Myint prende il posto di Kyaw ai vertici della politica birmana. 66 anni, un passato da avvocato e da dissidente, è un fedele sostenitore di Aung San Suu Kyi. A cura di Tiziano Traversa 12 • MSOI the Post

GLI SCONTRI PRE-ELETTORALI TRA NAJIB RAZAK E L’OPPOSIZIONE Corruzione, antiche rivalità e proteste

Di Francesca Galletto Nel mese di aprile si terranno i primi sondaggi per le elezioni generali malesi di agosto 2018. Il principale rivale di Najib Razak, attuale Capo di governo e Presidente del partito UMNO (United Malays National Organisation), è Mahathir Mohamad, già primo Ministro per 22 anni consecutivi, fino al 2003, e ora scelto dal Pakatan Harapan come candidato Premier nelle prossime elezioni generali.

Paesi e hanno visto anche l’intervento del Dipartimento di Giustizia degli stati Uniti e della Commissione anticorruzione Malese.

Il Pakatan Harapan (alleanza della speranza), seconda più grande coalizione del Parlamento della Malesia, che Mahathir ha chiamato “governo in attesa”, ha promesso diverse riforme popolari e la riapertura delle indagini riguardanti il 1Malaysia Development Berhad (1MBD), società di sviluppo strategico controllata dal governo malese.

Mercoledì 28 marzo è stata presentata al parlamento da Najib Razak una proposta sul ridisegnamento dei collegi elettorali, elaborata dalla Commissione elettorale. La mattina dello stesso giorno, si sono riuniti fuori dal parlamento centinaia di sostenitori del gruppo Berish (coalizione per elezioni pulite e giuste) per protestare contro la proposta del Primo Ministro. Il gruppo ha consegnato un rapporto ai funzionari del parlamento: “Non siamo assolutamente d’accordo con il rapporto (CE), questo è il più grande imbroglio che possa mai accadere”, ha detto Maria Chin Abdullah, ex Presidente del gruppo Bersih. Alla manifestazione si sono uniti anche Mahathir Mohamad, sua moglie e il Pakatan Harapan.

La 1MBD è stata accusata nel 2015 di aver trasferito fondi statali al primo ministro Najib e a suoi collaboratori in modo illegittimo. Lo scandalo lese, all’epoca, alla figura del Primo Ministro, ed egli viene tutt’oggi usato dall’opposizione come arma in campagna elettorale. Le indagini, seppur considerate archiviate dal governo Malese, sono ancora in corso in altri

L’accusa rivolta a Najib di voler manipolare il processo elettorale a favore della coalizione al governo e modificare le leggi al fine di ottenere una vittoria, venne singolarmente rivolta nel 2003 nei confronti dello stesso Mahathir Mohamad, che fu l’ultimo a modificare i collegi elettorali durante il suo ultimo mandato.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole ETIOPIA 26 marzo. Un gruppo di 11 oppositori politici, da poco rilasciati, sono stati nuovamente arrestati. Tra di loro figurano il giornalista Eskinder Neda e Andualem Arage, quest’ultimo, esponente politico dell’opposizione, rilasciato il 14 febbraio dopo 6 anni di prigionia. Gli 11 arrestati sono stati accusati di aver organizzato, senza il permesso dalle autorità, una manifestazione per celebrare la loro liberazione. 28 marzo. La coalizione di governo ha eletto premier Abiy Ahmed. Questi passerà alla storia per essere il Primo Ministro etiope appartenente all’etnia, esempio di distensione tra le etnie del Paese. Un grande passo quindi per un Paese che da anni vive violenti conflitti etnici.

NIGERIA 23 marzo. Il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, si è rifiutato di sottoscrivere l’accordo per la costituzione della Zone de LibreÈchange Continental (ZLEC), un mercato di libero scambio tra 44 Stati appartenenti all’Unione Africana. Le trattative, iniziate nel 2012, si sono fondate, oltre che sugli ideali di uguaglianza, giustizia e libertà, anche

GAMBIA: MORTI IN PRIGIONE

La svolta nelle indagini per la morte di Solo Sandeng porta a nuovi arresti

Di Federica De Lollis Nel 2016, il 16 aprile, è morto in circostanze misteriose Solo Sandeng, attivista politico ed oppositore del regime di Yahya Jammeh, appena due giorni dopo il suo arresto. A questa morte, nell’agosto dello stesso anno, seguì quella di Ibrima Solo Krummah, dirigente del United Democratic Party. Ciò che ha accomunato i due episodi, oltre all’appartenenza delle vittime al United Democratic Party e allo stato di detenzione al momento della loro morte, è stato il rifiuto delle autorità di fornire assistenza medica ai due attivisti. La portavoce dell’Alto commissariato per i diritti dell’uomo Cécile Pouilly ha richiesto l’apertura di un’inchiesta; Sabrina Mahtani, ricercatrice per Amnesty International West Africa, ha affermato: “La tragica morte in detenzione di Solo Sandeng non deve lasciare spazio ad impunità. Le autorità devono condurre un’indagine immediata, completa ed indipendente”. Jammeh, quando si trovava al potere, è stato spesso chiamato a rispondere del trattamento riservato ai prigionieri e delle leggi discriminatorie contro gli omosessuali dagli osservatori

internazionali, tanto che l’ex Presidente è arrivato a dichiarare Agnès Guillaud, chargé d’affaires dell’Unione Europea nel Paese, “persona non grata”. Secondo Human Rights Watch, sparizioni forzate, condanne e detenzioni arbitrarie e tortura sono all’ordine del giorno in Gambia. È stata proprio la morte di Sandeng ad aver condotto a una coalizione dei partiti di minoranza e alla formazione di un movimento politico che l’anno successivo avrebbe posto fine ai 22 anni di dittatura di Jammeh e portato all’elezione dell’attuale presidente Adama Barrow. Dopo due anni di intense indagini, sembra ora che il coinvolgimento del precedente regime non si possa più escludere. In Gambia è in corso un processo a carico di 20 membri della National Intelligence Agency (NIA), arrestati ed accusati di aver preso parte all’omicidio di Sandeng, che si aggiungono ad altri NOVE, sui quali gravano analoghe imputazioni, tra cui il precedente capo della NIA, Badjie. Si attende ora in aula la chiamata di 13 testimoni la deposizione dei quali potrà probabilmente confermare in modo definitivo la colpevolezza degli imputati. MSOI the Post • 13


AFRICA sull’importanza di una maggiore integrazione economica, in vista dei vantaggi che essa potrebbe apportare ai Paesi africani. SOMALIA 25 marzo. Un’autobomba, esplosa a circa 200 metri dal cancello principale del palazzo presidenziale, ha causato almeno 7 vittime, tra le quali, due soldati che lavoravano al check-point. L’attentato è stato rivendicato dall’organizzazione terroristica di Al-Shabaab, la quale, negli ultimi mesi, ha intensificato i suoi attacchi nel centro-sud del Paese. SUDAFRICA 26 marzo. Lunedì i siti di informazioni News24 e TimeLive hanno confermato che l’ex-presidente Zuma dovrà presentarsi in tribunale, nel mese di aprile, per rispondere alle accuse di corruzione, frode e riciclaggio di denaro in un caso implicante la vendita di armi.

ZIMBABWE 28 marzo. Il nome dell’ex first lady, Grace Mugabe, è comparso in alcuni documenti chiave trasmessi dall’autorità forestale che attestano un traffico illegale di avori o verso la Cina e gli Stati Uniti. La moglie dell’ex Presidente dovrà, dunque, rispondere dell’accusa di aver falsificato dei permessi di esportazione trattandosi, a suo dire di “regali”, per i leader politici, i quali, tuttavia, sono stati oggetto di dirottamento verso il mercato nero. A cura di Jessica Prieto 14 • MSOI the Post

NIGERIA: UN “CESSATE IL FUOCO” DIFFICILE DA RAGGIUNGERE Aperto un dialogo tra governo e Boko Haram

Di Francesco Tosco Domenica scorsa, dai palazzi governativi di Abuja, il ministro dell’Informazione Lai Mohammed ha parlato di un possibile cessate il fuoco che il governo della Nigeria starebbe trattando con il gruppo terroristico di Boko Haram. Negli ultimi mesi, infatti, il canale di comunicazione aperto tra governo e terroristi pare stia portando alcuni frutti. Primo tra tutti, il rilascio delle 111 ragazze rapite il 19 febbraio scorso nel villaggio di Dapachi, a Nord-est del Paese. Dopo più di un mese dal sequestro, giovedì scorso, i rapitori sono ritornati al villaggio liberando gli ostaggi. Solo 6 ragazze non sarebbero più tornate, secondo fonti locali. Il presidente Muhammadu Buhari, il mese scorso, durante la visita alla scuola da cui le ragazze sono state prelevate, aveva promesso di fare tutto il possibile per la loro liberazione, compreso instaurare un cessate il fuoco a partire dal 19 marzo per permettere ai miliziani di restituirle. Restano ancora sconosciute le ragioni del rilascio, e se sia stato pagato o meno un riscatto. La proposta del governo Nigeriano di una tregua delle armi è la prima dopo molti anni, in cui Boko Haram ha imperversato a danno della popolazione sul territorio del

Paese, oltre che sugli Stati limitrofi come Niger, Ciad, Mali e Camerun. Dal 2009, quando il gruppo terrorista si è attivato, centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita e più di 2 milioni sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. Il rapimento del 19 febbraio scorso, secondo per gravità nella storia del Paese solo al sequestro, avvenuto nel 2014, di 270 ragazze della cittadina di Chibok, ha rigettato la nazione nel terrore. Quel che il presidente della Nigeria chiede adesso è una cessazione delle ostilità permanente. Nonostante il rilascio degli ostaggi e le buone intenzioni del governo, le probabilità che si possa giungere ad un accordo sono scarse. Questo perché, dopo il 2016, Boko Haram si è diviso in due fazioni principali: la prima è presieduta da Abu Musab alBarnawi, nominato capo del gruppo jihadista dal sedicente Stato Islamico; la seconda, è rimasta fedele al leader storico Abubakar Shekau. La sfida per il governo di Buhari in questo momento è mettersi d’accordo con entrambe le fazioni affinché possa raggiungersi la reale cessazione delle ostilità. Nei prossimi giorni, tutto il Paese resterà in attesa per scoprire se sarà possibile, dopo decenni di scontri sanguinosi e continui, almeno un assaggio di pace.


AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole

LA PAZ CERCA ANCORA LO SBOCCO SUL MARE

Il contenzioso tra Cile e Bolivia si avvicina al termine

ARGENTINA 26 marzo. I familiari di 90 caduti argentini della guerra delle Falkland, i cui resti sono stati identificati solamente nelle ultime settimane, si sono recati in visita al nuovo cimitero per una cerimonia resa possibile da uno sforzo congiunto di cooperazione fra il governo argentino e quello britannico. A 36 anni dal breve conflitto, le isole rimangono territorio conteso fra i due Paesi. BRASILE 27 marzo. Discusso in Senato un nuovo decreto che decriminalizzerebbe, nella foresta amazzonica, le attività di coltivazione della canna da zucchero per produrre etanolo, incentivando la deforestazione. La proposta è stato condannata aspramente da compagnie, figure pubbliche e associazioni ecologiste, inclusa Greenpeace, il cui coordinatore, Marcio Astrini, ha definito il decreto “uno dei peggiori disastri per la foresta”. ECUADOR 28 marzo. Due giornalisti ecuadoriani e il loro autista sono stati rapiti nella provincia di Esmeraldas, al confine con la Colombia. Si sospetta il coinvolgimento di dissidenti delle FARC, delusi dall’accordo con il governo colombiano. MESSICO 29 marzo.

Sono

stati

Di Tommaso Ellena Il 22 marzo scorso sono ricominciati i colloqui tra Cile e Bolivia per risolvere una storica contesa marittima, la cui decisione finale spetta al principale organo di giustizia delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG). La disputa ha avuto inizio ad aprile 2013, quando il presidente boliviano Evo Morales chiese alla CIG di riavere uno sbocco sul mare, perso in seguito alla Guerra del Pacifico. Tale conflitto, combattuto dal 1879 al 1884 tra il Cile e uno schieramento composto da Bolivia e Perù, era terminato con la sconfitta delle due nazioni alleate e aveva avuto come conseguenza una cospicua perdita ai danni della Bolivia, a cui sono furono sottratti 120.000 chilometri quadrati di territorio e 400 chilometri di costa. I danni economici che ne derivarono non furono solo commerciali, ma anche ittici, minerari e turistici: secondo il diplomatico boliviano Veltzé, la mancanza di litorale ha generato danni economici stimabili intorno al 20% del PIL del Paese. Quando la Bolivia presentò all’Aia le argomentazioni per ottenere uno sbocco sul Pacifico,

i diplomatici cileni si limitarono a contestare la legittimità della Corte stessa. Secondo Santiago, infatti, tale disputa non rientrava nelle competenze della CIG. Il Cile pensò che questo sarebbe bastato a garantire una rapida risoluzione della controversia, ma nel 2015 l’obiezione cilena è stata respinta ed è stata accolta la domanda presentata dal presidente Evo Morales. Il governo di Santiago ha più volte argomentato come l’accesso al mare non sia mai stato negato: il trattato del 1904 firmato a seguito della Guerra del Pacifico riporta che alla Bolivia spetti il pieno controllo del porto cileno di Arica. D’altra parte, il Cile ha costruito, a proprie spese, una linea ferroviaria che mette in comunicazione Arica con la capitale boliviana La Paz. Nonostante ciò la Bolivia vuole ottenere un accesso indipendente per gestire le attività portuali in modo autonomo e non dover utilizzare porti che fanno parte del territorio di un altro Stato. Il 19 marzo del 2018 è iniziata la fase del processo dedicata alle testimonianze orali, sancendo perciò l’entrata del processo nella sua ultima tappa: al termine dei colloqui, il Tribunale di giustizia attenderà dai quattro ai sei mesi prima di redigere una sentenza definitiva. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA condannati a 25 anni di carcere i due poliziotti colpevoli dell’omicidio del giornalista Moisés Sánchez. L’omicidio è avvenuto a Veracruz, Stato tristemente famoso per l’elevato numero di crimini violenti contro membri della stampa. Il mandante dell’omicidio, l’ex-sindaco Omar Cruz Reyes, rimane fuggitivo dal 2015. PERÙ 23 marzo. Martín Vizcarra, in precedenza Ministro, Ambasciatore e Governatore, ha prestato giuramento come nuovo Presidente a seguito delle dimissioni, causate da uno scandalo di compravendita di voti, di Pedro Pablo Kuczynski. Vizcarra, eletto come primo Vice-Presidente nel 2016, rimarrà in carica fino alla fine del mandato di Kuczynski, nel 2021.

VENEZUELA 24 marzo. È morto José Abreu, fondatore di El Sistema, fondazione venezuelana per il supporto delle orchestre giovanili con lo scopo dichiarato di diffondere la musica classica per promuovere l’avanzamento sociale fra i giovani più poveri del Paese. Dal 1976, El Sistema ha ricevuto pieno supporto da parte dello Stato e Abreu ha servito come ministro della Cultura e presidente del Consiglio Nazionale della Cultura del Venezuela. A cura di Elena Amici 16 • MSOI the Post

LE DIMISSIONI DI PEDRO PABLO KUCZYNSKI

Uno scandalo elettorale costringe alle dimissioni il Presidente del Perù

Di Daniele Pennavaria Il 21 marzo, in seguito ad uno scandalo riguardante lo scambio di voti, il presidente peruviano Pedro Pablo Kuczynski ha annunciato di voler rassegnare le proprie dimissioni. Il principale elemento di imputazione contro il Presidente sarebbe un video diffuso da esponenti del Partido Popular, la principale forza di opposizione guidata da Keiko Fujimori. Questo documento prova come Kuczynski abbia concesso l’indulto all’ex presidente Alberto Fujimori – accusato, tra le altre cose, di violazione dei diritti umani – in cambio dei voti, che hanno permesso a Kuczynski di sfuggire alla procedura di impeachment mossa contro di lui lo scorso dicembre. La sua carica, infatti, già vacillava a causa dei collegamenti tra il governo di Alejandro Toledo (di cui Kuczynski era Ministro) e l’inchiesta Lava Jato, il caso di corruzione con al centro la holding brasiliana Odebrecht. Proprio per garantire lo svolgimento di queste indagini, lo scorso 24 marzo il giudice Juan Carlos Sanchez aveva proibito al Presidente di lasciare il Paese per 18 mesi. Kuczynski ha dichiarato che si atterrà all’ordine e che collaborerà con la giustizia per confermare che non ha compiuto alcun illecito. Intanto, Martín Vizcarra,

il vice-presidente, è subentrato a Kuczynski dopo l’ufficializzazione delle dimissioni. Il neo Presidente ha dichiarato subito che si impegnerà a contrastare la corruzione e porre fine all’“odio politico”. Vizcarra ha dalla propria parte una traiettoria politica che passa lontano da Lima, avendo sempre ricoperto incarichi diplomatici, dove la distanza dal mondo degli affari e dai partiti tradizionali è ben vista da parte dei cittadini. Nonostante il suo percorso, il contesto in cui Vizcarra ha assunto la Presidenza è particolarmente delicato. Per quanto possa approfittare della distanza dai politici travolti dagli scandali e, secondo le parole del sociologo Francisco Durand, incarnare la figura del “giustiziere fortemente legato al popolo”, il clima di sfiducia verso la politica continua a peggiorare. La strategia di Vizcarra per risanare questo rapporto sarà quella di rinnovare completamente il Governo. L’attuale situazione del Paese suggerisce che si presti particolare attenzione nella scelta delle nuove cariche, specie per il ruolo che dovrà ricoprire il futuro Ministro dell’Economia, cui toccherà risanare il sistema delle esportazioni per rilanciare il Paese nel contesto internazionale e guadagnare fiducia all’interno.


ECONOMIA WORLD HAPPINESS REPORT 2018: QUANTO SIAMO FELICI? Felicità, ricchezza e immigrazione nello studio delle Nazioni Unite

Di Francesca Maria De Matteis Pubblicato poche settimane fa, il World Happiness Report 2018 è un documento la cui stesura viene ormai garantita dal 2012 dal Segretario Generale delle Nazioni Unite. Curato dal Sustainable Development Solutions Network, sotto la guida del SDSN Leadership Council, formato da leader provenienti da ogni parte del mondo impegnati nei progetti di sviluppo sostenibile del Pianeta, offre una panoramica della situazione globale, fornita da rappresentanti tanto della società civile, quanto dei settori pubblico e privato. Nello specifico, il documento stesso, disponibile online, sottolinea: “It was written by a group of independent experts acting in their personal capacities. Any views expressed in this report do not necessarily reflect the views of any organization, agency or programme of the United Nations.” Sono 156 i Paesi ordinati secondo il grado di felicità riscontrato dagli abitanti e 117 quelli considerati anche sull’aspetto dell’immigrazione. Quest’ultima classifica, infatti, si interroga sul benessere e sull’accoglienza ricevuta dai migranti in ciascuno Stato. Nonostante entrambe prendano

in considerazione diverse porzioni di popolazione, i risultati emersi dimostrano la vicinanza e la forte correlazione tra i due parametri considerati. Esempio eclatante è la Finlandia: si posiziona prima in entrambe le classifiche, registrando la popolazione nativa più felice, come anche quella degli immigranti. Sono molti, infatti, gli aspetti che rendono il Paese scandinavo un modello. Considerato il più stabile, il meno oppresso dalla corruzione e il più sicuro, vanta un armonioso sistema amministrativo che contrappone consistenti sussidi a un’elevata tassazione, tra le più alte d’Europa. In un articolo del 26 marzo scorso, il settimanale The Economist affermava in proposito: “Happy societies are those with supportive social systems and institutions that make it harder for people to fall through the cracks”. L’80% degli abitanti dichiara di avere fiducia tanto nella polizia finlandese, quanto nelle istituzioni e nel sistema sanitario. Inoltre, il divario nello stile di vita tra ricchi e poveri, come quello tra uomini e donne, è limitato. Questo a dimostrazione che non è sempre positiva la relazione

tra ricchezza del Paese e tasso di felicità riportato. Una sezione interessante risulta, infatti, essere quella che si trova in chiusura del Report. Obesità, droghe e depressione sono tre ulteriori fattori considerati altamente influenti quando si parla di felicità. Dallo studio della correlazione tra felicità e migrazione, in particolare, il rapporto di quest’anno dedica un ampio spazio soprattutto alla mobilità all’interno delle singole nazioni e tra Paesi. Assistenza e previdenza sociale, stipendi, aspettativa di vita, libertà, fiducia nelle istituzioni e generosità, le variabili chiave analizzate. Basato sui risultati dei sondaggi condotti da Gallup World Pool, considerato “the gold standard for worldwide polling”, tra i 2015 e il 2017, sono stati riscontrati segni di cambiamento come di stabilità. Se, infatti, le prime dieci posizioni della classifica sulla felicità interna sono occupate, ormai da anni, dagli stessi Paesi, negli ultimi quattro anni la prima posizione ha cambiato continuamente detentore. Il primato è infatti passato dalla Danimarca, a Svizzera e Islanda, fino alla Norvegia e, quest’anno, alla Finlandia. MSOI the Post • 17


ECONOMIA LA POLITICA ESTERA DELL’ENI

Egitto, Libia e Qatar: l’Eni muove la giostra della politica estera italiana

Di Michelangelo Inverso Nel marzo di quest’anno sono stati raggiunti due maxi-accordi tra l’italiana Eni e gli emiri del Qatar. Quest’ultimo è uno tra i Paesi con le maggiori riserve di idrocarburi al mondo e l’Eni, la cui presenza storica nella regione è ormai consolidata, ha concluso un acquisto, per 875 milioni di euro, per ottenere una quota del 5% nel giacimento di Lower Zakum e una del 10% nel campo sottomarino di Umm Shaif e Nasr. Accordo che prevede diritti di sfruttamento per 40 anni. La cifra sborsata, tuttavia, è stata immediatamente recuperata, anzi, maggiorata, dai 974 milioni incassati dalla vendita del 10% della concessione di Mubadala Petroleum, una società attraverso cui l’Eni controlla il gigantesco giacimento di Zohr. Numeri da capogiro e che premiano l’Italia. Infatti, il controllo di Zohr, di cui l’Eni possedeva inizialmente il 100%, ora sceso al 50% dopo la cessione del 30% alla russa Rosneft e il 10% all’inglese BP, si rivela strategico addirittura a livello geopolitico in quanto si tratta del più grande giacimento mediterraneo, localizzato nelle acque territoriali egiziane. 18 • MSOI the Post

Seguendo i fili della trama intrecciati dall’Eni, da sempre una delle aziende di maggior peso nella politica estera italiana in Medio Oriente, troviamo, come partner strategici nell’area, tre Paesi problematici: il Qatar, l’Egitto e la Libia. Risulta, dunque, evidente che l’Italia stia viaggiando in controtendenza rispetto agli altri principali attori mondiali. Il Qatar, infatti, sta vivendo una convulsa stagione diplomatica da quando l’Arabia Saudita, l’Egitto e gli Emirati Arabi hanno deciso di isolarla economicamente e politicamente. Questo maxi-accordo sembra un’astuta mossa diplomatica per far uscire dall’isolamento gli emiri e dirottare miliardi di euro in investimenti qatarioti nella nostra economia come contropartita, come recentemente prospettato dall’ambasciatore del Qatar a Roma. L’Egitto è il paese più popoloso del Nord Africa e il suo peso politico e militare non può essere ignorato, specialmente sul dossier libico, in cui l’Eni ha interessi storici esclusivi. Questo perché il caos libico ha colpito duramente il business italiano, di cui Eni era la massima rappresentazione. Proprio grazie alla diplomazia del petrolio il nostro Paese è riuscito a recuperare in gran parte i vantaggi di cui

godevamo ai tempi di Gheddafi, ma questo non vuol dire che la situazione sia rosea. Se in Libia, infatti, gli asset sembrano rinsaldati, la situazione precaria, a livello politico e militare, potrebbe compromettere i nostri interessi. Ed ecco come l’Egitto torna centrale nella stabilizzazione libica, ad esempio limitando gli attacchi al governo di Serraj da noi sostenuto. Tuttavia, anche con questo Paese i rapporti non sono semplici. Il caso Regeni infatti, ha trasformato notevolmente le relazioni tra Italia e Egitto. Se, come sembra, dagli elementi finora emersi, la relatrice a Cambridge di Giulio era al soldo del servizio segreto britannico, il MI6, questo significa che il tentativo fosse quello di costringere l’Italia a una forte reazione contro l’Egitto, allo scopo di distruggere le nostre relazioni economiche e/o di isolare il governo egiziano, come accaduto con il Qatar, o, peggio, con la Siria. Nonostante tutto questo, dopo questa vicenda, l’Eni è divenuta unica concessionaria del mastodontico giacimento di Zohr. È la politica dei gasdotti. Per l’Eni - e quindi per l’Italia -, gli affari vengono prima di tutto.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO TORTURA E IMMIGRAZIONE

Il General Comment della Commissione ONU contro la tortura

Di Luca Imperatore Il 6 dicembre scorso, a seguito di un lungo processo di consultazione che ha coinvolto rappresentanti degli Stati parte e della società civile, il Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite (di seguito Comitato o CAT) ha adottato il General Comment numero 4. La tematica al vaglio del CAT atteneva principalmente alla necessità di implementare la Convenzione del 1984 in relazione ad una particolare garanzia in materia di migrazioni: il principio di non-refoulement, che coinvolge l’80% dei casi portati dinnanzi ai Treaty-Based Bodies dell’ONU. Primariamente, il Comitato ha focalizzato la propria attenzione sulla pratica delle rassicurazioni diplomatiche: qualora un Paese, che intenda rimpatriare dei migranti, riceva garanzie ritenute idonee da parte del Paese di rimpatrio, circa il fatto che saranno rispettati i diritti fondamentali di questi individui, può decidere di optare per un’operazione di rimpatrio. Questa è una versione fin troppo semplificata dell’intera dinamica, ma può essere utile per inquadrare il problema generale: quando delle rassicurazioni diplomatiche possono considerarsi sufficienti? Quali requisiti deve ottemperare lo Stato di rimpatrio per po-

ter considerare le sue garanzie ritti fondamentali degli inaffidabili? Ecco il dilemma – cer dividui, seppur diluito rispetto tamente non nuovo – che il Co- alla formulazione iniziale. Il lamitato ha dovuto affrontare. voro del Comitato ha visto, inoltre, ulteriori avanzamenti come Nel considerare ciò, molti Stati quelli in materia di inversione parte hanno richiamato la giu- dell’onere della prova, di mirisprudenza della Corte euro- sure cautelari, di indicatori pea dei diritti dell’uomo che, di rischio di tortura (nei quanel caso Quatada c. Regno Uni- li permane la dicitura “sexual to, ha sancito un elenco di cri- orientation and gender identiteri per la valutazione delle as- ty”, in rigetto della proposta tursicurazioni diplomatiche. Molte ca di sostituire l’espressione con sono state le contestazioni come un generale e meno comprensiquelle avanzate dalla Russia che vo “sex”). ha affermato come “posizioni anti-rassicurazioni diplomati- In materia migratoria, il CAT ha che rappresentano un’indebita anche sottolineato come il riminterferenza nelle relazioni in- patrio di persone in un’area del terstatali” che minano la neces- territorio di uno Stato, diversa saria fiducia tra i membri della da quella naturalmente desicomunità internazionale. gnata ma dove questi non corrono il rischio di torture, (c.d. La versione definitiva del Gene- Internal Flight Alternative) ral Comment numero 4 ha, dun- è da considerarsi, con le parole que, dovuto trovare un punto del Comitato, “Not reliable or di mediazione, giungendo ad effective”, riducendo drasticauna versione conclusiva chiara- mente le possibilità degli Stati mente più edulcorata rispetto membri di aggirare le garanzie alla proposta iniziale. Il lavoro previste dalla Convenzione. Il conclusivo fa salva la possibili- General Comment numero 4 ha tà di basare la legittimità di un infine toccato il tema dell’acrimpatrio (eludendo quindi gli cesso ai servizi di riabilitaobblighi derivanti dalla Con- zione, escludendo la possibilità venzione) sulle rassicurazioni di rimpatriare individui in Stati diplomatiche inviate da un altro che non siano in grado di contiStato membro, qualora queste nuare a fornire tali servizi. ultime non si dimostrino essere una “scappatoia” evidente al L’operato del Comitato può dirsi principio di non-refoulement. soddisfacente seppur rimanga Si tratta, quindi, di un legge- evidente un certo contrasto da ro passo in avanti verso una parte dei Paesi di destinaziomaggiore protezione dei di- ne dei flussi migratori.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO GUERRE, MIGRAZIONI, DIRITTI UMANI: L’ACQUA COME DIRITTO DEI POPOLI?

Il Pianeta ha sete. Oggi più che mai c’è bisogno di nuovi strumenti giuridici internazionali

Di Pierre Clément Mingozzi Il 22 marzo si è celebrato il World Water Day. Sono trascorsi 26 anni dalla sua istituzione da parte dell’ONU – cializzata per la prima volta nel 1992 nell’ambito delle direttive della cd. Agenda 21. Tuttavia, mai come prima, le cronache internazionali impongono alla comunità internazionale il dovere di una riflessione a riguardo. Recenti analisi prevedono che entro il 2030 il 47% della popolazione vivrà di fatto in aree soggette a stress idrico e che il 20% della popolazione mondiale sarà esposta al rischio di alluvioni. Situazioni queste, che si andranno ad aggiungere alle quasi 600 milioni di persone che già oggi non hanno accesso all’acqua e ai 840 milioni che non hanno ancora disponibilità di servizi igienici. E non è tutto. La Banca Mondiale ha documentato circa 500 conflitti riguardanti l’acqua, la sua conquista o gestione. Sempre più Stati entrano in conflitto per il controllo di corsi d’acqua internazionali, o per la costruzione e sfruttamento su quest’ultimi di dighe e sbarramenti: se eravamo abituati a parlare di landgrabbing e ora di parlare anche del water grabbing. La costruzioni di dighe è ogget20 • MSOI the Post

to di una moltitudine di interessi differenti e, spesso, di diritti violati. Da un alto, il loro sviluppo è il più delle volte fortemente sponsorizzato ricorrenza dal governo centrale uff i o da Stati esteri nell’ambito della Cooperazione allo Sviluppo internazionale con obbiettivi strategici quali la produzione di energia elettrica e il controllo delle acque; dall’altro, però, per le popolazioni locali si tramuta in una sottrazione di risorse idriche fondamentali e nella depauperazione e distruzione di ecosistemi naturali già messi a dura prova dai cambiamenti climatici. La costruzione del complesso di dighe Gibe sul fiume Omo in Etiopia ne è un esempio. La diga, bloccando il normale deflusso a valle del fiume, ha privato circa 500.000 persone di acqua, distruggendone l’agricoltura di sussistenza e obbligando la popolazione a migrare. In quest’ambito, il diritto internazionale è chiamato ad intervenire seguendo due livelli regolatori differenti: sia attraverso trattati internazionali generali e norme consuetudinarie, sia tramite accordi regionali o bilaterali. Equity,efficiency,participatory decision-making, sustainability, accountability: su questi pilastri si è basata la World Commission on Dams

(WCD) nel concludere i suoi lavori nel 2000. Il suo report conclusivo è ancora oggi considerato un punto imprescindibile a livello internazionale per la gestione delle grandi dighe e, inoltre, è anche espressione della volontà di un approccio differente allo sviluppo. Infatti, pur se non pienamente sistematizzato, è qui che trova espressione il “FPIC concept”, ovvero la necessità del “free, prior and informed consent” delle popolazioni indigene quando un progetto rischia di intaccare o minacciare le loro esistenze. Nel mondo si calcolano più di una trentina di bacini idrici transfrontalieri (transboundary bassins) e il loro numero è destinato ad aumentare con le relative ripercussioni geostrategiche e ambientali. Le Nazione Unite sono intervenute con due importanti Convenzioni: la UN Convention on the Law of the Non-Navigational Uses of International Watercourses (1997) e la UNECE Convention on the Protection and Use of Transboundary Watercourses and International Lakes (1992). Tuttavia, la scarsa partecipazione degli Stati (rispettivamente con 36 e 41 Stati parte agli Accordi) evidenzia che, al netto dei successi ottenuti, molta altra strada rimane ancora da percorrere.


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