MSOI thePost - 113° numero

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni , Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Lucky Dalena, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Elena Amici, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolino, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Daniele Carli, Debora Cavallo, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria di Donato,Tommaso Ellena, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Lara Amelie Isai-Kopp, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Nina, Pierre Clement Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Barbara Polin, Jessica Prieto, Luca Rebolino, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Federica Sanna, Martina Santi, Martina Scarnato, Edoardo Schiesari, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA BILATERALE GERMANIA-RUSSIA A MESEBERG Incontro interlocutorio sulle attuali sfide globali

A cura di Giuliana Cristauro Vladimir Putin e Angela Merkel si sono incontrati al castello di Meseberg, in Austria, per discutere in modo dettagliato di alcune questioni cruciali. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha riferito che si è trattato di un incontro interlocutorio e non risolutivo durato tre ore, il cui scopo era la messa a punto di una simmetria tra Berlino e Mosca rispetto alle sfide globali attuali. Uno dei temi salienti del summit è stato il progetto di costruzione di un’aggiunta al gasdotto Nord Stream che da qualche anno collega già in maniera diretta la Russia con il territorio tedesco attraverso il Mar Baltico. Il Nord Stream 2 raddoppierebbe la già esistente struttura e la quantità di gas naturale russo trasportato verso il mercato europeo. Entrambi i leader riconoscono un grande valore al Nord Stream 2, contrariamente ad altri – tra i quali Trump - che lo considerano un progetto esclusivamente economico e non geopolitico. Essendo però competitivo, è necessario prendere misure che lo proteggano da possibili attacchi non competitivi e illegali provenienti da terze parti. Il Nord Stream 2 comporta

anche il transito del gas russo attraverso l’Ucraina e dunque tocca un punto altamente sensibile. Prima del bilaterale, la Cancelliera aveva sottolineato che l’Ucraina deve continuare a giocare un ruolo importante nel passaggio del gas verso l’Europa, anche quando il Nord Stream 2 sarà in funzione. Putin l’ha parzialmente assecondata affermando che “l’importante è che questo transito risponda ad esigenze economiche” dato che, per il Presidente, il Nord Stream 2 è un progetto soltanto economico. Infatti rispetto alla proposta tedesca di avviare una missione Onu di peacekeeping, il capo del Cremlino è rimasto piuttosto freddo. Tanto Putin che subisce sanzioni dall’Ue per la questione Ucraina - quanto la Merkel sul punto non riescono ad andare avanti. Il Presidente russo ha poi chiesto ai Paesi europei di partecipare finanziariamente alla ricostruzione della Siria e agli aiuti umanitari per facilitare il ritorno dei rifugiati nelle loro regioni. Putin ha spiegato che si tratterebbe di “un onere potenzialmente enorme per l’Europa” dato che si parla di un milione di siriani in Giordania, altrettanti in Libano e di 3 milioni in Turchia. Peraltro quella dei

rifugiati è una questione sulla quale la Germania e in generale l’Europa à sono in difficolt . La Merkel ha risposto che l’interesse della Germania è quello di evitare una crisi umanitaria, tuttavia al momento non ci sono le condizioni per un ritorno dei rifugiati, come ha poi spiegato un portavoce della cancelliera. Entrambi i leader hanno poi ribadito il loro sostegno per l’accordo nucleare con l’Iran. Infine, in riferimento alla guerra dei dazi scatenata dagli Stati Uniti, i due leader si sono detti “preoccupati”, anche se è da evidenziare che Juncker e Trump hanno recentemente avviato una nuova fase di collaborazione che ha tra gli obiettivi proprio la riduzione dei dazi, al fine di limitare il rischio di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea. Su alcune questioni i due leader sono d’accordo, ma allo stesso tempo vi sono evidenti difficoltà di interazione rispetto a dossier cruciali come l’Ucraina e la Siria. La convergenza di visioni è difficile, alcuni definiscono la pressione sulle attuali debolezze dell’Europa come una strategia da parte del leader russo a vantaggio dell’interesse nazionale. MSOI the Post • 3


EUROPA CROLLO DEL PONTE MORANDI: POLEMICA GOVERNO-BRUXELLES La Commissione respinge al mittente le accuse di Salvini

Di Alessio Vernetti L’immane tragedia che ha colpito Genova lo scorso 14 agosto non può che far sorgere alcuni interrogativi. Il ponte Morandi, nel crollare parzialmente sulla val Polcevera per cause ancora da accertare, ha causato 43 vittime e decine di feriti. Suddetto ponte era stato inaugurato nel 1967 e costituiva uno snodo cruciale per tutto il nord Italia, essendo l’imbocco dell’autostrada A10. Anche se il mondo politico ha espresso unanimemente il suo cordoglio, le polemiche non si sono fatte attendere. Gli esponenti pentastellati del Governo, in particolare il Vicepremier Di Maio e il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Toninelli, hanno preso di mira Autostrade per l’Italia, sostenendo con forza la revoca della concessione. Il Segretario del Consiglio dei Ministri, il leghista Giorgetti, ha però scartato tale ipotesi, dal momento che la statalizzazione della società costerebbe oltre 20 miliardi di euro. L’affondo verso Bruxelles, invece, è stato portato avanti dall’altro Vicepremier, Salvini: “L’Italia deve poter spendere i soldi ne4 • MSOI the Post

cessari per mettere in sicurezza fiumi, scuole, autostrade e ospedali, senza che ci siano folli vincoli europei ad impedirlo”, ha twittato il leader della Lega. La questione però è molto più complicata di così: i vincoli di bilancio dell’UE esistono, ma è stato il Governo italiano a stabilire dove tagliare, con l’imposizione di pesanti tagli al bilancio agli enti locali, e soprattutto ad aver negoziato in passato la controversa concessione con Autostrade, oggi Atlantia, la cui maggioranza del pacchetto azionario è in mano a Benetton. Per giunta, nel 2008 la Lega – Salvini compreso – votò compatta in Parlamento a favore del cosiddetto “salva-Benetton”. Come se non bastasse, Di Maio ha dichiarato che Atlantia paga le tasse in Lussemburgo, notizia del tutto falsa dal momento che la sede centrale della società è a Roma, ed è il leader del partito che più si è espresso contro il progetto della cosiddetta “Gronda”, una bretella autostradale intorno a Genova che avrebbe alleggerito il traffico sul ponte crollato. In ogni caso, la risposta di Bruxelles a Salvini non è tardata: il portavoce della Commissione Spahr ha infatti dichiarato che “gli Stati membri sono liberi di

stabilire priorità politiche specifiche, ad esempio lo sviluppo e la manutenzione delle infrastrutture, e anzi l’UE ha incoraggiato gli investimenti per le infrastrutture in Italia”. L’Italia – ha poi precisato il Commissario europeo al bilancio Oettinger – ha ricevuto 2,5 miliardi di euro da fondi europei per strade e ferrovie, come previsto dal bilancio UE 2014-2020, aggiungendo che Bruxelles ha anche recentemente approvato un piano di investimenti di 8,5 miliardi di euro per le autostrade italiane. Come se non bastasse, a maggio un rapporto dell’UE sull’Italia ha esortato il Governo a spendere di più in diversi settori, infrastrutture comprese, anche perché, secondo l’OCSE, la spesa per costruzione e mantenimento di strade, in Italia, è diminuita del 62% tra il 2007 e il 2015. Ciò che è certo è che il supporto dell’Unione Europea alla ricostruzione di un nuovo viadotto per l’A10 a Genova non mancherà, per il mero fatto che la New EU Infrastructure Policy, inaugurata nel 2013, affida un ruolo di primo piano agli snodi autostradali del nord Italia all’interno delle reti di trasporto trans-europee.


NORD AMERICA LA CHIESA CATTOLICA NUOVAMENTE AL CENTRO DI SCANDALI SESSUALI

Scoperta una serie decennale di abusi verso centinaia di giovani in Pennsylvania

Di Luca Rebolino Un nuovo scandalo investe la Chiesa cattolica statunitense, questa volta in Pennsylvania. È stato rilasciato infatti un rapporto di un Gran Jury che svela 70 anni di abusi sessuali, perpetuati da sacerdoti nei confronti di centinaia di bambini e giovani. L’accusa si basa su 18 mesi di indagini che hanno avuto luogo in quasi tutte le diocesi dello Stato. I preti coinvolti sono più di 300 e negli anni le loro azioni sono state coperte dai vertici della gerarchia ecclesiastica locale. Le vittime certe delle molestie sono state tutte identificate, ma secondo il rapporto potrebbero essere ben di più. Le autorità credono infatti che “il numero reale di bambini, su cui le informazioni sono andate perdute, o che hanno avuto troppa paura di fare un passo avanti, sia in realtà di migliaia”. Molti bambini, infatti, una volta subite le molestie, hanno avuto paura anche solo a raccontarlo ai propri genitori. Ma anche tante tra le stesse famiglie probabilmente hanno rinunciato a denunciare i fatti. Inoltre, gli stessi documenti testimonianti i fatti, che sono custoditi negli archivi segreti delle diocesi, sono andati in molti casi perduti.

Il cuore dell’indagine è proprio questo, far chiarezza sulla maniera in cui i vertici della Chiesa locale siano riusciti a coprire le ripetute molestie. Ciò che è emerso dal rapporto del procuratore generale Josh Shapiro è un sistema articolato volto prima di tutto ad evitare lo scandalo. Infatti, la priorità non è mai stata la salvaguardia delle vittime, ma insabbiare i fatti, con la colpevole complicità dei vescovi. Spesso, il linguaggio nei documenti episcopali è volutamente vago, invece che di “stupri”, si parla di “comportamento non appropriato” In molti casi, inoltre, sono state condotte indagini superficiali da personale “non adeguatamente formato”. Oppure, per placare le comunità locali, i preti colpevoli sono stati mandati in cliniche psichiatriche per un’adeguata “valutazione”, se non proprio allontanati definitivamente per essere trasferiti in un’altra diocesi. Dalla lettura del rapporto emergono dettagli raccapriccianti sugli abusi messi in atto dai sacerdoti nei confronti di numerosi giovani, sia maschi sia femmine. Le molestie perpetrate vanno da rapporti sessuali forzati, a pratiche sadomasochiste, oltre che violenze meramente

psicologiche. Ma, purtroppo, ci sono anche casi particolari di vero e proprio sadismo. Come il caso di un ragazzo fotografato mentre era costretto a posare nudo, come il Cristo morto, sul letto di una canonica. Papa Francesco ha commentato lo scandalo il 20 agosto, rilasciando un messaggio a “tutto il popolo di Dio”. Ha rivolto una profonda critica a tutta la struttura ecclesiastica: “Il clericalismo favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo”. Risulta evidente, quindi, come non possa bastare l’intraprendente opera riformatrice dell’attuale pontefice per uscire da questa crisi profonda che coinvolge da anni l’intera Chiesa cattolica. Questo scandalo - come i molti altri avvenuti recentemente in tutto il mondo cattolico, dall’Australia al Sud America mostra come il problema sia riconducibile prima di tutto a una certa mentalità diffusa in gran parte della struttura ecclesiastica. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA TRUMP E TRUDEAU: ALLEATI QUANTO MAI DISTANTI I due leader si pongono agli antipodi su molte questioni sensibili

Di Martina Santi Ai lati opposti di un sistema politico democratico, fondato sullo Stato di diritto, si trovano il Canada e gli Stati Uniti, due nazioni che mai come oggi sono guidate da leader tanto diversi. Donald Trump, ex imprenditore miliardario e star mediatica, incarna l’immagine della grandezza statunitense, che con la sua potenza bellica e la fiorente economia, si erge a potenza indiscussa del sistema internazionale. Con lo slogan ‘Make America Great Again’, Trump ha rivendicato un posto nella corrente più rigida e intransigente dell’unilateralismo politico che intende i propri alleati come meri satelliti. Justin Trudeau, invece, è un giovane uomo politico, brillante, cordiale e dal grande carisma. Dopo aver conseguito una laurea in Scienze dell’Educazione, e una in Lingue, il premier canadese ha intrapreso la carriera politica, ripercorrendo la strada del padre - ex Primo Ministro del Canada -dimostrando di possedere uno spirito internazionalista e una vocazione per lo strumento diplomatico. In tema di immigrazione, Trump 6 • MSOI the Post

ha intrapreso una politica anti-immigrati: proclamando la costruzione di un muro al confine con il Messico, emanando il controverso Muslim Ban, minacciando le leggi a tutela dei dreamers, fino alla più recente politica di separazione dei figli. Trudeau, all’opposto, ha replicato alla linea politica di Trump aprendo i confini canadesi ai rifugiati che scappano dalle guerre e dalle persecuzioni, fino anche ad attirarsi le critiche dall’ala conservatrice per aver trasformato il Paese “in un centro di accoglienza”. Trudeau non è solo un sostenitore del multiculturalismo, ma anche del multilateralismo. Il Primo Ministro ha, infatti, dimostrato di apprezzare l’incontro diplomatico, come strumento di dialogo e di costruzione di legami strategici con gli altri leader, da cui partire per affrontare le sfide internazionali. The Donald non sembra invece apprezzare l’ombrello della diplomazia, che fa ombra alla politica estera statunitense. Il Presidente ha, piuttosto, una concezione alquanto dilatata della sovranità, non condividendo che organismi sovranazionali comunitari possano, in qualche modo, ostacolare l’azione di Washington.

Riguardo ai diritti delle donne, il Presidente statunitense si è proclamato difensore della vita, chiarendo dunque la propria contrarietà al diritto di aborto. Non a caso, ha cercato di ostacolarlo con l’emanazione di un decreto che blocca i finanziamenti statali agli istituti che lo praticano. Per quel che riguarda la considerazione che egli ha dell’altro sesso, è ormai noto quale essa sia: un’immagine stereotipata, volgare e sessista della donna, intesa nella sua sola dimensione fisica. Justin Trudeau, al contrario, è un vero femminista: difensore della libera scelta, ha tenuto discorsi incoraggianti in favore dell’uguaglianza fra i sessi, riconoscendo come le capacità femminili siano una risorsa per la comunità che deve essere promossa; anche rimuovendo quelle unità maschili che occupano il proprio posto nella società immeritatamente. Insomma, nonostante la vicinanza geografica e quella politico-economica, i leader che governano questi due Paesi sembrano divergere su numerosi temi. Canada e Stati Uniti, tuttavia, non possono che superare i mutui dissensi e garantire il supporto reciproco, rispettando in questo modo la Storia, che da sempre li ha visti alleati interconnessi.


MEDIO ORIENTE LA “GUERRA ECONOMICA” DELLA TURCHIA DI ERDOGAN

2018 annus horribilis per la lira turca: senza misure efficaci il rischio recessione è alle porte

Di Lorenzo Gilardetti Il tweet di Trump del 10 agosto che annuncia un raddoppio dei dazi per acciaio e alluminio provenienti dalla Turchia è la goccia che fa traboccare un vaso già colmo. Da gennaio, infatti, la lira turca, che il 5 aprile scorso aveva toccato il minimo storico, ha perso complessivamente tra il 30% e il 40% del suo valore rispetto al dollaro (circa il 20% dopo l’annuncio del presidente USA, il 10% in 24 ore), registrando una striscia di ribasso che si presenta come la peggiore per il Paese dal novembre 1999 e tra le peggiori dell’ultimo decennio per i Paesi G20 (inclusa la crisi economica del 2008/2009). Quello di Trump è un provvedimento figlio di una crisi diplomatica che si protrae da diverso tempo, ma che ha probabilmente inizio circa due anni fa, quando viene arrestato in Turchia il predicatore evangelico statunitense Andrew Brunson con l’accusa di terrorismo e spionaggio, dopo le già pesanti accuse rivolte al predicatore Fetullah Gulen (che vive negli USA in esilio autoimposto), individuato come mente e responsabile principale del colpo di stato del 2016. Brunson è stato rilasciato e sottoposto nuovamente agli

arresti domiciliari per decisione del tribunale che ha respinto l’intervento dei diplomatici USA: sei senatori statunitensi hanno allora presentato una proposta di legge volta a penalizzare economia e commerci della Turchia, che ha portato tra le altre cose alla sospensione della vendita di F-35 ad Ankara e poi all’annuncio del 10 agosto. Poiché la situazione economica turca era critica già da tempo, poco prima del tweet del presidente statunitense il governo annunciava un piano a sostegno della lira. Se però la Banca centrale “haridotto i coefficienti di riserva obbligatoria degli istituti di credito sia in lira sia in valuta estera”, rendendo immediatamente disponibili 10 miliardi di lire turche e 6 miliardi di dollari, il ministro delle Finanze e del Tesoro Berat Albayrak, genero di Erdogan, scongiurando altre misure drastiche per diminuire l’inflazione, non ha previsto quegli aumenti del tasso di interesse prospettati dagli economisti internazionali e auspicati dagli investitori. Erdogan intanto, in uno dei momenti più difficili da quando è a capo del Paese, forte del consenso interno fa demagogicamente leva sull’orgoglio del po-

polo turco che – afferma -: «non perderà la guerra economica» contro gli USA, poiché «se loro hanno i dollari, noi abbiamo dalla nostra la gente, la giustizia e Dio». Il presidente stesso ha inoltre invitato i cittadini a boicottare i prodotti tecnologici di provenienza statunitense in favore di quelli asiatici. La perdita di un terzo del valore della lira turca non ha lasciato indifferenti i mercati europei e asiatici (in forte calo soprattutto moneta indiana e indonesiana): il quadro che è venuto a delinearsi ha quindi portato a piani di finanziamento firmati da Qatar (15 miliardi) e Cina (3,8 miliardi) e a un possibile aiuto da parte di Mosca. Da tempo la Turchia si stava avvicinando alla Russia a discapito degli stessi USA (con acquisto di missili russi e un coinvolgimento nel piano bancario di aggiramento delle sanzioni a favore dell’Iran), additati poi da Erdogan come principali responsabili della crisi: «Siamo assieme nella NATO e poi cercate di accoltellare il vostro partner strategico alle spalle. Può una cosa del genere essere accettata?» MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE LA SCHIAVITÙ MODERNA IN ARABIA SAUDITA Le rivendicazioni delle domestiche bangladesi dopo anni di abusi

Di Anna Nesladek Lo schiavismo è un fenomeno ancora largamente diffuso. In questa triste estate, mentre in Italia si è tornato a parlare dello sfruttamento dei lavoratori migranti in seguito alla sparatoria che è costata la vita al giovane Soumayla Sacko, le lavoratrici domestiche bangladesi hanno alzato la voce in un coro di protesta contro il trattamento riservato loro dai datori di lavoro sauditi. Solo negli ultimi tre anni, migliaia di donne (alcune stime parlano addirittura di 5.000 persone) sono tornate in Bangladesh a causa delle violenze a cui venivano sottoposte, mentre centinaia ancora aspettano di essere rimpatriate. Sono soprattutto le ONG ad aiutare le donne bangladesi a uscire dal proprio incubo e a ritornare a casa. E proprio un gruppo di ONG per i diritti dei migranti in Bangladesh, assieme a collettivi di donne che hanno subito abusi in passato, ha chiesto a gran voce al governo di Dacca una protezione efficace per le lavoratrici domestiche emigrate in Arabia Saudita. Spesso, infatti, le denunce non vengono ascoltate o credute e il governo bangladese si è limitato a inasprire il processo di selezio8 • MSOI the Post

ne delle lavoratrici, introducendo un sistema che prevede un colloquio dopo un mese di prova. Secondo le ONG, tuttavia, questa misura è insufficiente, in quanto non tutela le donne prima dell’inizio dell’impiego. Le organizzazioni per i diritti umani sono inoltre impegnate in una lotta contro il sistema della Kafala, il quale fa sì che il datore di lavoro sia anche lo “sponsor” locale del lavoratore migrante, responsabile del suo status giuridico oltre che del visto, e che spesso anticipa le spese per il permesso di lavoro. Per le domestiche bangladesi l’incubo comincia con la promessa di una vita migliore. Una volta preso servizio nelle case saudite, le lavoratrici si ritrovano spesso a soffrire ogni sorta di abusi e privazioni; secondo diverse testimonianze, le violenze hanno inizio non appena vengono rivendicati i diritti di base, quali ad esempio i salari, i quali non vengono pagati. I vantaggi per gli intermediari che reclutano le donne in Bangladesh, invece, sono cospicui: essi possono infatti arrivare a guadagnare fino a 120 dollari, una cifra consistente in un Paese il cui PIL per capita è estremamente basso. Prima di poter fare rientro nel loro Paese, le donne devono aspettare mesi, se non anni, al-

loggiate in case sicure gestite dall’Ambasciata del Bangladesh in Arabia Saudita. Una volta rimpatriate, rischiano l’emarginazione sociale a causa delle violenze sessuali che in molti casi hanno subito, non solo da parte dei datori di lavoro sauditi, ma spesso anche nelle agenzie di reclutamento. Il tutto accade mentre le relazioni tra l’Arabia Saudita e il Bangladesh si fanno sempre più strette in materia di commercio e investimenti. Quest’anno il Bangladesh è uscito dalla lista dei Paesi meno sviluppati, sia secondo le Nazioni Unite che per quanto riguarda le classifiche della Banca Mondiale: è proprio in un’ottica di espansione economica che le relazioni con l’Arabia Saudita non possono essere compromesse. Al contrario di ciò che accade in altri Stati, come ad esempio in Indonesia o in Pakistan, in cui sono stati introdotti divieti che impediscono alle lavoratrici di recarsi in alcune zone del Golfo in seguito a ripetuti casi di abusi, il governo bangladese continua a promuovere l’emigrazione di lavoratrici domestiche poiché gli introiti derivati dalle rimesse costituiscono una fonte di entrate irrinunciabile.


RUSSIA E BALCANI 10 ANNI DALLA SECONDA GUERRA IN OSSEZIA DEL SUD La guerra che riaprì le ambizioni russe da superpotenza dell’area

Di Amedeo Amoretti Nella notte tra il 7 e l’8 agosto si ricorda lo scoppio della seconda guerra in Ossezia del Sud del 2008, conflitto che risollevò il ruolo di attore di superpotenza della Russia. La prima guerra in Ossezia del Sud, provincia separatista filo-russa della Georgia, risale al 1991-1992 e si concluse con la firma di un cessate il fuoco e l’istituzione di una operazione di peacekeeping composta da militari georgiani e russi, sotto l’egida ONU. La risoluzione 1808 nell’aprile 2008 rimarcava “l’impegno di tutti gli Stati Membri alla sovranità, indipendenza e integrità territoriale della Georgia all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti”. Eppure da una parte la Georgia, preoccupata dai legami che si andavano a formare tra la Russia e l’Ossezia del Sud, e dall’altra la Russia, desiderosa di bloccare qualsiasi tentativo georgiano di entrare nella NATO e in UE, non riuscirono ad evitare lo scoppio della seconda guerra in Ossezia del Sud. L’esercito georgiano intervenne nella regione separatista bombardando Tskhinvali, capoluogo della stessa. Il giorno successivo, il presidente russo Medvedev

autorizzò l’intervento militare in sostegno alla popolazione sudosseta. Mentre la comunità internazionale invocava la pace e l’avvio di negoziazioni, la guerra si estese anche in Abkhazia, un’altra regione georgiana con mire separatiste. L’Unione Europea, ergendosi come mediatore tra le parti in conflitto, dal momento che gli Stati Uniti erano politicamente in appoggio al governo georgiano, promossero il cessate il fuoco e un processo di pacificazione sotto la guida della Presidenza francese di Nicolas Sarkozy del Consiglio dell’Unione Europea. L’accordo, che portò alla deposizione delle armi, si costruiva su 6 principi cardine che dovevano essere rispettati da tutte le Parti coinvolte: la rinuncia all’uso della forza, l’immediata cessazione delle ostilità, il ritiro delle truppe georgiane e russe dai territori occupati nel conflitto, accesso libero all’aiuto umanitario e la convocazione di negoziazioni internazionali per stabilire lo status finale delle due province separatiste. La Russia, però, annunciò il riconoscimento delle dichiarazioni di indipendenza delle due regioni, atto che fu condannato da gran parte della comunità internazionale, in

primis dall’Unione Europea. A 10 anni dal conflitto le posizioni di Russia e Georgia non si sono modificate, arrivando persino a peggiorare in seguito alla stipulazione di accordi di integrazione delle due regioni separatiste con la Russia. Secondo i trattati, la sfera militare ed economica delle due regioni sarà incorporata alla Russia, e allo stesso tempo, sarà più facile ottenere la cittadinanza russa per i sudosseti e per gli abcasi. Nonostante ciò, sembra alquanto improbabile la ripresa delle armi in quanto né la Georgia, né la Russia sarebbero interessate a un’escalation militare. La seconda guerra in Ossezia del Sud risollevò la Russia dall’abisso in cui era caduta in seguito alla dissoluzione dell’URSS negli anni novanta, e, allo stesso tempo, la reazione occidentale fu molto limitata, concedendo alla Russia un grande spazio di azione. Alcuni esperti, tra cui Max Fras, ritengono che se l’Occidente fosse intervenuto più duramente nella questione, forse la Russia non avrebbe avuto nemmeno i presupposti per tentare l’annessione della Crimea. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI QUELL’INVITO A NOZZE PER PUTIN

Il Presidente russo al matrimonio della ministra degli Esteri austriaca

Di Andrea Bertazzoni La decisione di Vladimir Putin di accettare l’invito al matrimonio della ministra degli affari esteri austriaci Karin Kneissl ha diviso l’opinione pubblica e le principali testate internazionali. Era stata proprio Kneissl, in occasione della sua prima visita ufficiale a Mosca qualche mese fa, ad invitare il Presidente russo al proprio sposalizio con l‘imprenditore Wolfgang Meilinger. Già qualche giorno prima della celebrazione del matrimonio, che si è tenuta sabato scorso, erano state mosse critiche sia nei confronti del Capo di Stato della Federazione Russa che nei confronti della politica austriaca. I principali commentatori hanno infatti definito politicamente strategica la mossa dell’ultimo zar, nonostante lo stesso Presidente abbia voluto precisare che si trattava di una visita privata e di piacere. Dare l’opportunità a Putin di presenziare ad un’occasione simile, secondo molti, significherebbe che l’Austria sta dimostrando una apertura netta nei confronti della Russia, dopo che quest’ultima non aveva visto alcun leader europeo partecipare nemmeno all’inaugurazione ufficiale dei Mondiali di calcio lo scorso giugno. La Presidente della commissione

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esteri del parlamento ucraino, dopo aver saputo del viaggio di Putin in Stiria, ha pubblicato un tweet, affermando che “d’ora in poi l’Austria non può più essere considerata un mediatore per la crisi ucraina”. Chi invece plaude alla scelta del Presidente russo, sottolinea come si tratti di un tentativo di riappacificare le posizioni dell’Unione Europea e della Federazione Russa, ormai da troppo tempo divergenti su quasi tutti i fronti. Sicuramente il fatto che un Capo di Stato, in passato restio ad accettare proposte simili, si sia recato espressamente in una piccola azienda vinicola a Gamlitz, mobilitando centinaia di uomini della scorta e offrendo in regalo alla sposa, fra le altre cose, un’esibizione di un coro cosacco espressamente recatosi al matrimonio, non può passare inosservato. Qualcuno ritiene invece che Putin si sia voluto far perdonare dopo la recente intervista, rilasciata all’emittente nazionale austriaca ORF, nella quale sono state scambiate battute al vetriolo con Armin Wolf. Significativo è inoltre anche il fatto che subito dopo la cerimonia, il Presidente della Federazione Russa si sia recato a Berlino dove era già in programma un incontro bilaterale con la cancelliera tedesca Angela Merkel, con

la quale ha dovuto affrontare diverse questioni di carattere globale. Karin Kneissl è invece invisa alla socialdemocrazia europea, in quanto è stata proposta come Ministro degli Esteri dall’FPÖ, movimento di estrema destra al governo con i conservatori, nonostante la Ministra non avesse mai avuto la tessera del partito. Pare abbastanza evidente che la decisione da parte del Presidente russo, nuovamente eletto lo scorso marzo, sia quella di compiere uno sforzo di avvicinamento nei confronti di un Paese mai troppo ostile alla Russia, con l’obiettivo di evitare che l’Unione Europea si unisca alle sanzioni nei confronti di Mosca, comminate di recente dagli Stati Uniti. Proprio il primo ministro austriaco Sebastian Kurz ha recentemente mosso critica alle decisioni del Pentagono, definendolo “sempre meno affidabil ”. e I media austriaci, nel frattempo, vociferano che non si tratti dell’unico matrimonio a cui è stato invitato Putin quest’anno: pare infatti che in autunno il Presidente russo parteciperà anche alle nozze dell’ex cancelliere tedesco Gerard Schröder, suo storico amico, che prenderà in sposa la sua quinta moglie, Soyeon Kim.


ASIA E OCEANIA PROTESTE STUDENTESCHE IN BANGLADESH I motivi scatenanti e la dura risposta del governo

Di Francesca Galletto La protesta pacifica all’inizio di agosto nella capitale Dacca, che ha visto coinvolti migliaia di studenti e che ha paralizzato per alcuni giorni la capitale, ha portato al centro del dibattito pubblico una radicata situazione di mala amministrazione del settore dei trasporti e provocato una sempre più violenta risposta da parte delle forze dell’ordine. La morte di due adolescenti investiti alla fermata da un autobus municipale il 29 luglio scorso ha provocato una spirale di rabbia, spingendo migliaia di studenti a manifestare per domandare maggiore sicurezza stradale ed una rigorosa applicazione delle norme del codice della strada. Gli incidenti stradali nel Paese sono infatti all’ordine del giorno: secondo la Bangladesh Passengers Welfare Association le vittime nel 2017 sono state più di 7000. Il tema dei trasporti pubblici e della gestione del traffico, soprattutto a Dacca, una delle città più sovrappopolate al mondo, è da sempre molto discusso. Nel 2015 il Bangladesh Passengers Welfare Association aveva organizzato una tavola rotonda intitolata “Crisi dei trasporti pubblici: la strada per porre fine alle sofferenze dei passeggeri” presso il Jatiya Press Club nella capitale. L’esperto di trasporti urbani Salahuddin Ahmed, ex direttore del Bangladesh Road Transport Corporation, aveva in quell’occasione dichiarato che lo spazio stradale e le infrastrutture di comunicazione dovevano essere aumentate per migliorare il sistema di traffico di massa. Nel

2016

sono

stati

introdotti

500 nuovi risciò, e una ventina di nuovi autobus gestiti da operatori privati,che però poco valgono di fronte alle concrete esigenze della metropoli. A causa dell’insufficiente investimento del governo nel settore dei trasporti pubblici, i cittadini fronteggiano contrattazioni continue sulla tariffa del trasporto gestita da enti privati, sovraffollamento dei mezzi per il loro scarso numero e conseguenti problemi di sicurezza, causati spesso anche da automobilisti non ufficiali e senza patente di guida che non vengono sanzionati.Lacorruzione eilmancato rispetto delle leggi sono molto diffusi: alcune compagnie private sono accusate dai manifestanti di aver corrotto la polizia affinché non indagasse su incidenti anche mortali causati dalle stesse. I manifestanti hanno fermato camion, autobus e automobili, chiedendo di vedere le licenze dei conducenti per verificare se i veicoli fossero in condizioni di conformità. La capitale è stata paralizzata, permettendo il solo passaggio dei mezzi di emergenza. Durante il blocco sono stati vandalizzati almeno 20 veicoli nell’incrocio più trafficato della città, Farmgate, e un autobus di Himachal Pari Bahan è stato incendiato. La risposta del governo è stata inizialmente cauta, basata su avvertimenti nei confronti degli studenti affinché cessassero le manifestazioni,per poi diventare più dura, con l’utilizzo della forza. Il 6 agosto il governo di Sheikh Hasina ha approvato nuove norme sulla sicurezza stradale che includono una pena detentiva di cinque anni per l’uccisione accidentale e una multa monetaria per guida

spericolata. Il giorno stesso è stata anche proposta la pena capitale per omicidio intenzionale. generale Nell’insoddisfazione dei manifestanti, che chiedevano la pena di morte per l’omicidio stradale, l’8 agosto si sono concluse le manifestazioni in seguito ad una escalation di violenze ed arresti attuati dalla polizia. Le stesse Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per la repressione e la violenza usata per porre fine alle proteste. “Le agenzie delle Nazioni Unite sono sempre più preoccupate per la sicurezza dei bambini e dei giovani coinvolti nelle recenti proteste sulla sicurezza stradale a Dacca e in altre parti del Paese. Le preoccupazioni espresse dai giovani sulla sicurezza stradale sono legittime e una soluzione è necessaria per una grande città come Dacca.” ha detto il coordinatore residente delle Nazioni Unite in Bangladesh, Mia Seppo, in una dichiarazione pubblicata su Twitter. Ad oggi sono circa 1000 i feriti e più di 100 gli studenti arrestati per incitamento alla violenza sui social media. Questi ultimi hanno avuto un ruolo chiave sia per la diffusione delle notizie iniziali sulle due giovani vittime, sia nell’organizzazione della manifestazione. Sono state fatte indagini su più di 1000 account Facebook, piattaforma social più popolare del paese, da parte della polizia di Dacca, alle quali sono seguiti numerosi arresti. Molti studenti hanno rimosso i loro post inerenti alla protesta o addirittura cambiato account per paura di essere arrestati. Human Rights Watch ha affermato che gli arresti hanno creato “un’atmosfera di paura, minando la libertà di parola”.

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ASIA E OCEANIA UIGURI: IL DRAMMA DELLO XINJIANG

L’ONU richiama il governo di Pechino: “zona senza diritti”

Di Tiziano Traversa È noto che la ‘questione’ degli uiguri, popolazione musulmana turcofona che abita lo Xinjiang, non è mai stata risolta in modo definitivo. Tra occasionali attentati e rappresaglie, i militanti indipendentisti e le forze del governo centrale continuano una lunga lotta che raramente suscita l’interesse del vasto pubblico. Se in questi giorni la stampa internazionale ha dedicato un po’ di spazio alla ‘Nuova Frontiera’, è perché il Comitato di esperti per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale delle NU ha deciso di accogliere le denunce contro i maltrattamenti verso il popolo uiguro perpetrati da Pechino. La risposta istituzionale non si è fatta attendere: come di consueto, il governo cinese ha negato qualunque atto repressivo verso la minoranza, smentendo l’esistenza di campi di rieducazione e di qualsiasi altro sopruso su cui le accuse sono basate. Pechino ha peró motivato la presenza sempre più intrusiva di militari nella regione come forma di prevenzione in seguito ad attacchi terroristici commessi da mano uigura, di cui il più devastante è stato quello del 1 marzo 2014 alla stazione 12 • MSOI the Post

ferroviaria di Kunming, che ha causato più di trenta vittime. Tuttavia dai rapporti presentati a Ginevra sembrerebbe che l’azione del governo sia ben più estesa e che riguardi qualunque strato della popolazione. Le modalità ricordano quelle usate per la ‘battaglia’ etnica in Tibet. La regione dello Xinjiang si trova ai remoti estremi occidentali della Cina. Il governo ne prese il controllo nel 1949 ed esattamente come in Tibet dovette fronteggiare la presenza di un’etnia maggioritaria differente. Per contrastare le volontà indipendentiste dei popoli originari, Pechino attuò quindi una sorta di colonizzazione etnica: vennero massivamente trasferiti nella regione cinesi han (etnia principale della Cina che costituisce il 92% del popolo) col fine di avviare un processo di assimilazione. L’esito è storia ben conosciuta: la popolazione tibetana è stata ridotta allo stato di shaoshu minzu, ovvero di ‘minoranza etnica’, le sono state imposte una serie di restrizioni riguardanti la pratica del culto religioso e di limitazioni rispetto i diritti civili. Gene A.Bunin sul britannico Guardian descrive la situazione come uno “Stato di polizia orwelliano”: posti di blocco

ravvicinati, obbligo per gli uiguri di favorire i documenti anche per le più semplici operazioni, difficoltà di accesso a determinati servizi e a posti di lavoro, ed infine campi di rieducazione, la cui principale finalità sarebbe quella di eradicare il senso di appartenenza alla comunità di origine e di inculcare l’amore per la nazione cinese ed il PCC. Nel reportage si fa inoltre riferimento ad esperienze di sottomissione a lavori forzati e di tortura fisica, nonché a numerosi casi di sparizione. Salvo la denuncia statunitense che avrebbe in seguito richiamato l’attenzione delle Nazioni Unite, la comunità internazionale sembrerebbe mostrare un blando interesse per quanto accade. Anche i Paesi musulmani e la Turchia, con i quali gli uiguri condividono le radici della propria lingua e verso cui molti di essi sono espatriati negli ultimi decenni, non sono intervenuti nel dibattito. La questione in ambito istituzionale viene trattata come un caso di interesse interno.Così, mentre i diritti umani restano argomento da riviste internazionali, Pechino costruisce la Cina di Xi: una grande potenza ‘armonica’ e senza dissonanze.


AFRICA IL PROGETTO DELLA SADC IN AFRICA MERIDIONALE

Il 38esimo vertice dell’organizzazione è un’occasione per soffermarsi sul suo operato

Di Barbara Polin Windhoek, Namibia. I lavori del 38esimo vertice della Southern African Development Community (SADC) si sono conclusi in data 18 agosto, dopo il dibattito multilaterale a proposito delle politiche di promozione delle infrastrutture e relative all’empowerment giovanile. Secondo Ramaphosa, Presidente del Sudafrica, la regione meridionale dell’Africa è un esempio virtuoso per il resto del continente, nonostante i focolai locali di conflitto. Al giudizio positivo dello Stato più influente della SADC, è tuttavia seguito un sentito incoraggiamento da parte dell’intera organizzazione nei confronti del Lesotho, a proposito della mancata attuazione delle riforme promesse in più settori, un ritardo che rallenta il raggiungimento degli obiettivi comuni dell’organizzazione. Gli obiettivi istituzionali della SADC sono la promozione dello sviluppo economico dell’Africa meridionale, nonché il sostegno al consolidamento di valori e istituzioni comuni in un contesto di integrazione regionale che agevoli la crescita degli Stati membri più fragili dal punto di vista economico e sociale.

Nata dalle ceneri della quasi omonima conferenza sullo sviluppo SADCC negli anni ‘80, nel corso di una decade la SADC ha assunto le fattezze di un’organizzazione intergovernativa, utile a integrare a livello regionale il Sudafrica di Mandela, che è divenuto Stato membro nel 1994. La condizione di nuovo arrivato di Pretoria, appesantita dai trascorsi eversivi ai danni degli Stati vicini, non determinò alcun handicap per l’affermazione della leadership sudafricana all’interno del processo decisionale dell’organizzazione, nè per l’impatto delle sue politiche regionali sugli Stati membri, soprattutto in virtù delle dimensioni e della solidità dell’economia nazionale, che ancora oggi costituisce un hub senza rivali non solo per la regione, ma anche per l’intero continente africano. La SADC ha dunque affidato al Sudafricalacompetenzaesclusiva sui progetti dell’organizzazione relativi a finanza, investimento e salute pubblica, sulla base del vantaggio comparato goduto da Pretoria in questi settori. Tuttavia, la preminenza economica rispetto agli altri Stati membri è stata spesso usata dal Sudafrica per ottenere delle condizioni favorevoli nella conclusione di accordi commerciali anche a dispetto

dell’obiettivo di sostenere lo sviluppo economico regionale. Al di là del rilievo interno di Pretoria, la SADC costituisce una piattaforma per il dialogo e la cooperazione politica tra gli Stati membri, nonchè un interlocutore presso il quale questi ultimi cercano legittimazione. Questo ruolo è chiaramente emerso in occasione delle polemiche seguite all’elezione di Emmerson Mnangagwa come Presidente dello Zimbabwe, giunto al potere tramite un colpo di Stato e confermato tramite consultazioni democratiche. Lo svolgimento ambiguo di queste ultime, infatti, ha spinto l’opposizione ad appellarsi alla SADC perché strategia individuasse una pacifica di allontanamento di Mnangagwa dal potere: una richiesta che ha spinto il Presidente eletto a sottolineare la correttezza delle elezioni che lo hanno visto vincitore. La SADC, per ora, non si è congratulata con Mnangagwa e ha invitato tutte le parti coinvolte alla calma e al rispetto della legge, affinché in Zimbabwe si creino condizioni favorevoli per mantenere in sicurezza la popolazione civile e, allo stesso tempo, per agevolare il dialogo internazionale. MSOI the Post • 13


AFRICA ETIOPIA: RIFIUTI CONVERTITI IN ENERGIA ELETTRICA Addis Ababa ha inaugurato lo scorso 18 agosto l’entrata in funzione del primo termovalorizzatore africano

Di Valentina Rizzo

Nei prossimi anni la gestione e lo smaltimento dei rifiuti nella capitale etiope cambieranno radicalmente. L’Etiopia ha inaugurato l’avvio del primo inceneritoretermovalorizzatore africano. La struttura, situata a 20 kilometri da Addis Ababa, avrà un ruolo decisivo nel contribuire a debellare il problema dei rifiuti dalla città. Secondo quanto riportato dall’Agenzia delle Nazioni Unite per la Tutela dell’Ambiente (UNEP), l’inceneritore, soprannominato ‘Reppie Project’, brucerà circa 1400 tonnellate di spazzatura al giorno, circa l’80 % dei rifiuti generati dalla capitale.

Durante il processo di smaltimento verrà prodotta energia elettrica (il calore sprigionato dalla combustione farà bollire l’acqua, che, una volta trasformata in vapore, azionerà una turbina elettrica), arrivando a coprire il 30% del fabbisogno energetico locale. L’inceneritore funziona secondo i limiti di emissioni fissati dall’Unione Europea; è dotato infatti di una moderna 14 • MSOI the Post

tecnologia di trattamento dei gas di scarico, che riducono drasticamente il rilascio di metalli pesanti e diossine, prodotte dalla combustione della spazzatura.

L’impianto, costruito nel 2014, è parte di un progetto multimilionario che il governo etiope, in partnership con numerose compagnie internazionali, ha finanziato interamente, per un totale di 120 milioni di dollari. L’inceneritore si trova nell’area della mega discarica di Koshe, nella periferia della capitale, che per circa 50 anni è stata l’unico sito di smaltimento rifiuti disponibile nell’intera regione. L’area è grande quanto 36 campi da calcio e con il tempo ha finito per accumulare ogni tipo di immondizia. Solo lo scorso marzo, una frana di rifiuti ha ucciso 114 persone.

La gestione dei rifiuti è uno dei problemi ambientali maggiormente visibili e più comuni nell’Africa subsahariana, soprattutto nelle aree densamente popolate. La rapida crescita della popolazione e dell’urbanizzazione non sono

state accompagnate da un adeguato piano di raccolta e trattamento del pattume. Il 62% della popolazione sub-sahariana vive all’interno di baraccopoli, senza poter avere accesso ai servizi essenziali, tra i quali lo smaltimento della spazzatura. L’odore sprigionato da vere e proprie montagne di pattume e le relative sostanze tossiche che penetrano nel sottosuolo, minacciano gravemente la vita sia dei residenti sia dell’intero ecosistema. In assenza di un sistema di raccolta, il pattume viene bruciato o sotterrato, generando gravi conseguenze sia per la salute umana sia per la flora, la fauna e l’ambiente circostante.

Zerubabel Getachew, rappresentante permanente dell’Etiopia in seno alle Nazioni Unite, ha così commentato l’inaugurazione del termovalorizzatore: “Il progetto Reppie è solo una delle componenti di una più ampia strategia governativa che mira a lottare contro l’inquinamento ambientale e adottare le energie rinnovabili in tutti i settori dell’economia. Ci auguriamo che Reppie servirà da modello per altri Paesi della regione, e in tutto il mondo”.


AMERICA LATINA L’ONU SI SCHIERA CON LULA

A 2 mesi dalle elezioni Presidenziali in Brasile, le Nazioni Unite condannano l’interdizione dell’ex Presidente Lula

Di Elena Amici Le Nazioni Unite hanno accolto la richiesta di Lula. Secondo un pannello del Comitato per i Diritti Umani, l’ex Presidente brasiliano, attualmente in prigione, ha diritto a candidarsi alle Presidenziali del prossimo ottobre in mancanza di una condanna definitiva. Luiz Inácio Lula da Silva, detto Lula, è stato condannato nel 2016 a una sentenza di 12 anni per corruzione e riciclaggio di denaro dopo essere stato implicato nella maxi operazione anti-corruzione Lava Jato, incentrata sulla compagnia petrolifera di Stato Petrobras. Lula ha negato le accuse, sostenendo si tratti di un complotto per escluderlo da future candidature elettorali. Stando alle Nazioni Unite, tuttavia, l’interdizione è prematura: poiché il ricorso presentato dagli avvocati di Lula è ancora in attesa di giudizio, impedire la sua candidatura sarebbe una violazione dei suoi diritti politici. Il pannello si è rifatto al Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui il Brasile è parte dal 1992, chiedendo al Brasile di “prendere tutte le mi-

sure necessarie per assicurarsi che Lula possa godere dei suoi pieni diritti politiciin prigione”: non solo candidarsi, ma anche comunicare con i media e la struttura organizzativa del proprio partito. La vittoria di Lula rimane però puramente simbolica: le decisioni del Comitato per i Diritti Umani sono raccomandazioni senza valore legale che il Governo brasiliano può ignorare senza ripercussioni. È quindi improbabile che la candidatura, registrata lo scorso 15 agosto, venga accolta. Anche dalla prigione Lula si trova in testa ai sondaggi: il suo Partito dei Lavoratori raccoglie circa il 30% dei consensi, seppure circa metà dell’elettorato si dichiari ancora indeciso. Il candidato alla Vicepresidenza è l’ex sindaco di São Paulo, Fernando Haddad; se a Lula non dovesse essere consentito di candidarsi sarà quest’ultimo a prenderne il posto, nonostante la popolarità di Haddad non si avvicini a quella di Lula e la sua vittoria sia tutto fuorché certa. Al secondo posto nei sondaggi il candidato di estrema destra Jair Bolsonaro, giurista ed ex capitano dell’esercito, con il 21% dei consensi. Un altro candidato degno di nota è Geraldo Alckmin,

l’ex governatore di destra dello stato di São Paulo, che ha dalla sua il supporto dei partiti di centro e una robusta campagna mediatica. In assenza di Lula è probabile uno scenario di ballottaggio fra Bolsonaro e Alckmin nella seconda fase del 27 ottobre, ma data l’alta percentuale di indecisi è troppo presto per fare previsioni accurate. A smuovere l’elettorato contribuirà la sentenza del Tribunale Superiore Elettorale attesa nelle prossime settimane, che deciderà se respingere o meno la candidatura di Lula una volta per tutte. Il 17 settembre scadrà, inoltre, il termine ultimo per cambiare i nomi dei candidati, rendendo i tempi del verdetto essenziali quasi tanto quanto l’esito. In caso di ritardo nella comunicazione del verdetto il Partito dei Lavoratori si troverà a dover fare una scelta scomoda: optare per un candidato con minori possibilità di vincere, o rischiare che i voti ottenuti da Lula vengano invalidati in qualsiasi momento in seguito a una sentenza negativa. A soli due mesi dalle elezioni, la decisione sulla carriera politica di Lula avrà conseguenze importanti per il panorama elettorale e il futuro dell’intero Paese.

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AMERICA LATINA L’EMIGRAZIONE VENEZOLANA SFIDA L’AMERICA LATINA L’Ecuador ha dichiarato lo stato di emergenzaper il gran numerodi arrivi

Di Tommaso Ellena Il governo dell’Ecuador ha comunicato a inizio agosto che mostrerà “urgente attenzione nei confronti dei flussi migratori inusuali di cittadini venezuelani nella frontiera settentrionale, che negli ultimi giorni ha raggiunto i 4200 arrivi giornalieri”. Secondo le ultime cifre ufficiali, nel 1° semestre del 2018 ben 454.000 cittadini venezuelani hanno raggiunto l’Ecuador. La maggioranza ha proseguito il proprio viaggio raggiungendo Perù e Cile, mentre soltanto 72.000 migranti si sono stabiliti in Ecuador. Nella nota viene dichiarata la volontà di “stabilire un piano di azioni e meccanismi necessari per l’emergenza umanitaria”. Il Ministero dell’Interno ha già incrementato il personale adibito al controllo migratorio. Il Ministero della Salute si occuperà di incrementare il numero di medicinali a disposizione dei migranti. Il Ministero di Inclusione Economica e Sociale metterà a disposizione una troupe di psicologi e assistenti sociali che avranno il compito di prestare assistenza ai gruppi più vulnerabili come donne e bambi-

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ni. Anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite interverrà per far fronte a questa emergenza, fornendo derrate alimentari e una serie di kit per l’igiene personale. L’Ecuador non è stato l’unico Paese latinoamericano a dover gestire tali ondate migratorie. Nel febbraio scorso il Presidente del Brasile ha emanato un decreto in cui sottolineava la “situazione di vulnerabilità” nello Stato brasiliano di Roraima, confinante con il Venezuela. Per comprendere l’entità di questi arrivi è sufficiente osservare i cambiamenti avvenuti nella capitale dello Stato di Roraima, Boa Vista: su un totale di 320.000 abitanti, ben 40.000 cittadini sono migranti venezuelani. L’aumento della popolazione ha causato non pochi disagi e i servizi pubblici non hanno retto l’incremento inaspettato di abitanti. Per gestire l’emergenza il Governo brasiliano ha creato un Comitato Federale di Assistenza per le Emergenze con lo scopo di garantire alimenti, protezione e sicurezza ai migranti. Inoltre, il ministro della Difesa Raul Jungmann ha anticipato che la presenza militare lungo la frontiera sarà raf-

forzata all’unico scopo di “esercitare un maggiore controllo” e non “per impedire l’arrivo dei venezuelani”. Anche la Colombia ha dovuto intervenire per gestire gli arrivi dal Venezuela. Gli oltre 2.000 chilometri di frontiera sono stati sorvegliati da ben 700 soldati e poliziotti, allo scopo di monitorare l’arrivo di nuovi migranti e interrompere il traffico di droga e il contrabbando. Si stima che il flusso migratorio venezuelano in Colombia nel 2017 sia aumento del 110% rispetto al 2016: all’interno del Paese sono presenti più di mezzo milione di venezuelani. Secondo l’Organizzazione Internazionale delle migrazioni (OIM), tra il 2015 e il 2017, il numero di migranti venezuelani in tutta l’America Latina è passato da 89.000 a 900.000 unità, con un incremento che supera il 900%, mentre a livello mondiale la crescita è stata inferiore, passando da 700.000 a 1 milione e mezzo di persone. Secondo il portavoce della OIM Joel Millman “questi numeri rappresentano una delle più importanti crisi migratorie degli ultimi anni, la quale è ben gestita grazie alla solidarietà dei Paesi limitrofi”.


ECONOMIA IPTV: DUE MILIONI GLI UTENTI ITALIANI ILLEGALI STIMATI Il sistema è diffusissimo, ma arginarlo è quasi impossibile

Di Francesca Maria De Matteis Come la maggior parte dei più recenti business legati alle tecnologie digitali, anche quello delle IPTV nasce in modo assolutamente legale. Circa dieci anni fa, la Internet Protocol Television ha introdotto un sistema per guardare su computer, smartphone e tablet gli stessi canali disponibili sul televisore. Alta definizione e non. Pay TV, digitale e video on demand. Come ogni innovazione di successo, di pari passo con lo sviluppo e la diffusione della banda larga, la novità si è diffusa in poco tempo tra il pubblico e per molti è diventata quasi indispensabile. Così indispensabile da conquistare altrettanto velocemente la sua parte di illegalità. La linea di demarcazione tra i due mondi è sottile, ma non è difficile individuarne i confini. La principale differenza risiede nella quantità di file protetti da copyright presenti. Pochi euro, al mese o all’anno a seconda del contratto, che ovviamente di atto giuridico legale non ha nulla, permettono di accedere a centinaia di siti localizzati in tutta Europa. Danneggiando i mag-

giori distributori multimediali attivi sul mercato internazionale, vengono prodotti profitti elevatissimi, dei quali, inevitabilmente, si perdono le tracce. E così, mentre i circa 5 milioni di utenti di Sky, Mediaset Premium e simili, pagano regolarmente i canoni di abbonamento e usufruiscono del servizio in modo del tutto conforme alla legge, in Italia hanno ormai raggiunto i 2 milioni gli utilizzatori illegali. Le stime non sono ufficiali né molto accurate, ma la ragione risiede proprio nella difficoltà di tracciare le dinamiche della truffa. Le modalità per ottenere un abbonamento a basso costo sono le più varie, ma tutte seguono lo stesso schema di fondo. Che si abbia appena sostenuto un colloquio su Skype di dubbia professionalità, o che si voglia acquistare un pacchetto dall’apparenza del tutto innocua su eBay, con un procedimento assolutamente legale, si avrà comunque bisogno di un software adeguato da scaricare direttamente sul proprio dispositivo. Tramite computer, Smart TV, smartphone e tablet si trova una delle applicazioni necessarie negli cataloghi di Apple e Google, vi si inserisce un codice piuttosto complesso e in poco tempo si ottiene

l’accesso diretto a tutti i canali acquistati. Si raggiungono anche i 6.000 canali, i video non si bloccano e i suoni sono sincronizzati. Sembra che i rischi ai quali vadano incontro gli utilizzatori non siano ancora stati ben definiti. La FAPAV, Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali nata nel 1988, riporta sul proprio sito la definizione di ‘pirateria’: “qualsiasi attività di riproduzione, duplicazione e distribuzione non autorizzata di prodotti audiovisivi tutelati dal diritto d’autore”. A causa della vastità e della complessità dei fenomeni di pirateria sviluppatisi su tali piattaforme multimediali, non è stato ancora possibile sviluppare e applicare una legge univoca che punisca tali reati ed elaborare sanzioni adeguate. Al momento, è possibile incorrere in una sanzione pecuniaria di 154 euro, come riporta il sito della FAPAV stessa, accanto alla requisizione del materiale incriminato. La Guardia di Finanza, negli ultimi anni, ha provveduto a chiudere decine di siti che fornivano servizi simili, ma non è ancora stato trovato un metodo per arginarli sistematicamente. MSOI the Post • 17


ECONOMIA FRONTE RUSSO-TEDESCO Incontro ai vertici a Mesemberg, inizia il disgelo tra UE e Russia?

Di Michelangelo Inverso Il 18 agosto si è tenuto un vertice russo-tedesco di grande valore politico, ma scarsamente pubblicizzato. Le ragioni sono numerose, prima fra tutte il peggioramento dei rapporti Stati Uniti-UE e in particolare quelli tra USA e Germania. Non è infatti un mistero che la Germania e la Cina siano i nemici dichiarati dell’amministrazione Trump in ambito commerciale, dal momento che quest’ultima sta cercando di ridare slancio alla propria economia reale, attualmente penalizzata dalla concorrenza asiatica ed europea - specie nell’industria pesante, siderurgica e automobilistica – attraverso una politica protezionistica. Infatti, negli ultimi mesi sono stati annunciati ulteriori dazi contro le esportazioni europee e cinesi, manovra particolarmente invisa a tutto l’establishment europeo, Germania in testa. Sul tavolo dei nodi irrisolti anche le minacciate sanzioni statunitensi all’Iran, col pretesto della loro partecipazione alla guerra in Siria come alleato dei russi. Anche in questo caso, l’UE si ritrova compatta, in particolare con la Francia fermamente contraria a embarghi commerciali, molto penalizzanti per la propria

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industria chimica, meccanica ed energetica. Anche la Brexit potrebbe scavare ulteriormente un solco tra anglo-americani e UE a trazione tedesca, dimostratasi intransigente nei confronti di Londra, fin dall’esito del referendum. Dulcis in fundo, l’ormai dimenticato conflitto ucraino, pomo della discordia originario tra Mosca e la NATO, iniziato ormai da quattro anni. L’incontro tra Vladimir Putin e Angela Merkel assume, dunque, di per se stesso un grande valore simbolico, come totale lontananza dalla politica antirussa perseguita da Londra e Washington (nonché Parigi). Mentre mezza Europa è ostaggio di eventi dal forte impatto mediatico, ma poco chiari nella sostanza, come il caso Skrjipal, la Cancelliera tesse le trame di future alleanze incontrandosi direttamente con Putin prima a Sochi e ora a Mesemberg, in Germania. Oggetto del vertice, secondo le dichiarazioni ufficiali, sono stati in primis il rafforzamento della cooperazione commerciale ed energetica. A questo proposito, la Merkel ha consumato un nuovo strappo nei confronti di Trump, dichiarando che il progetto Northstream 2 andrà avanti, raggiungendo un raddoppio per bypassare

l’Ucraina, Stato di transito ritenuto non più affidabile. Vladimir Putin, dal canto suo, ha sottolineato come questa infrastruttura debba essere protetta dagli attacchi politici di ‘Paesi Terzi’, presagendo come l’Ucraina diverrebbe pressoché irrilevante per la NATO, senza il passaggio del gas russo. Altro tema trattato nel vertice, è stato il rimpatrio dei rifugiati siriani in patria. Ora che la guerra volge al termine, con la vittoria del fronte russoiraniano, iniziano le dispute per la ricostruzione. Un bottino di almeno 400 miliardi di dollari, a cui la Germania potrà unirsi, se lo vorrà, anche con altri Paesi europei. Nel mese di agosto si è infatti tenuto un incontro, molto riservato, tra esponenti di Bruxelles e il Ministro della Difesa russo, il quale avrebbe esposto molto chiaramente i termini di una ‘resa’ europea, che prevederebbe la luce verde alle imprese UE a patto di “cessare ogni azione direttamente o indirettamente ostile nei confronti del governo di Damasco”. Come scrive a tal proposito Giulio Sapelli su Il Sussidiario, Berlino sa molto bene che “non si possono avere due nemici, a Oriente e a Occidente insieme”: o la Russia o gli Stati Uniti.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO OGM E FOOD POLICY EUROPEA: UNA STORIA SENZA FINE

I giudici europei ribaltano l’opinione dell’Avvocato Generale, con quali conseguenze?

Di Pierre Clément Mingozzi Tutt’altro che recente è il dibattito – o più spesso scontro – riguardo la tematica degli OGM, questione che da decenni caratterizza il diritto alimentare nazionale ed europeo. Contraddistinto da visioni dicotomiche, un antagonismo accentuato e la presa di posizioni spesso aprioristiche, quest’ultimo, soprattutto a causa delle nuove tecnologie e degli immensi sviluppi che ne sono succeduti, ha assistito ad un recente ritorno alla ribalta sulla scena internazionale. È stata la Corte di giustizia UE a tornare sul tema con sentenza del 25 luglio (Case C-528/16) in una discussione che, a livello europeo, si protrae ormai dagli inizi degli anni ’90. Il caso vedeva contrapposti la Confédération Paysanne (insieme ad altre otto associazioni di agricoltori) alla normativa francese di trasposizione della direttiva europea in materia OGM, ovvero la 2001/18/CE. Tema della discordia era l’utilizzo di varietà di sementi di colza trattate tramite mutagenesi che avrebbe comportato, secondo i ricorrenti, gravi rischi per la salute umana ed animale. Il Consiglio di Stato francese, tramite rinvio pregiudiziale, ha così investito la Corte europea della questione tramite quattro

quesiti principali, chiedendo in linea generale se tali procedure di mutagenesi fossero o meno compatibili con la direttiva OGM. Il 18 Gennaio, l’Avvocato Generale della Corte Michal Bobek, si è espresso con decisione a riguardo, evidenziando prima di tutto che, “the protective measures, notwithstanding their temporary character and even if they are preventive in nature, may be adopted only if they are based on a risk assessment which is as complete as possible in the particular circumstances of an individual case (…)”. Inoltre, la direttiva 2001/18/ CE non sarebbe applicabile al caso della mutagenesi in quanto “unlike transgenesis, mutagenesis does not, in principle, entail the insertion of foreign DNA into a living organism”. Dunque, secondo il parere dell’AG, tali tecniche di miglioramento genetico non dovrebbero ricadere nella sfera di applicazione della normativa OGM di riferimento, tramite anche l’utilizzo della c.d. “mutagenesis exemption”, come previsto dalla normativa UE. La Corte, nella sua recente pronuncia, ha tuttavia ritenuto necessario ribaltare le considerazioni finali dell’AG adottando un approccio restrittivo e ritenendo così che

“genetically modified varieties obtained by means of techniques/ methods of mutagenesis which have conventionally been used in a number of applications and have a long safety record are exempt from the obligations laid down in that provisions”. In ultima analisi, la Corte non distingue tra nuove forme di miglioramento genetico e OGM, dal momento che “article 2(2) of Directive 2001/18/EC of the European Parliament and of the Council of 12 March 2001 on the deliberate release into the environment of genetically modified organisms and repealing Council Directive 90/220/ EEC must be interpreted as meaning that organisms obtained by means of techniques/methods of mutagenesis constitute genetically modified organisms within the meaning of that provision”. Dalla decisione ne discende che la direttiva sugli OGM dovrà essere quindi applicata a tutti gli organismi ottenuti tramite procedure che si sono sviluppate successivamente all’entrata in vigore della stessa e saranno tenute, di conseguenza, a seguire tutte la procedura di autorizzazione (e i corrispondenti controlli e norme di etichettatura) che vengono prescritte dalla direttiva OGM del 2001.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO JEFTA: L’ACCORDO UE – GIAPPONE CONTRO IL PROTEZIONISMO Venticinque anni dopo la creazione del Mercato Unico, l’UE conclude il più grande trattato commerciale mai negoziato

Di Federica Sanna L’accordo di libero scambio tra l’UE e il Giappone, i cui negoziati si sono conclusi il 17 luglio scorso dopo 5 anni di meeting, non poteva essere firmato in un momento più significativo per la politica economica mondiale. La conclusione dell’accordo appare profeticamente quale una risposta al crescente protezionismo degli Stati Uniti: alla dimensione nazionale preferita dal presidente Trump, l’Unione Europea e il Giappone rispondono con l’eliminazione di gran parte dei dazi sui prodotti commerciati scambiati dalle due economie (il Giappone si impegna a cancellare il 94% dei dazi sui prodotti esportati dall’UE, e quest’ultima eliminerà il 99% delle imposte sulle merci giapponesi). Contestualmente, vengono ridotte le barriere non tariffarie, in particolare tramite la semplificazione delle procedure doganali. Se il Mercato Unico europeo ha creato in questi venticinque anni un’area di libero scambio della quale beneficiano circa 600 milioni di persone, l’accordo con il Giappone aggiungerà un’ulteriore mole di più di 100 milioni di cittadini. Risulta quindi evidente la volontà di UE e Giappone di farsi “portabandiera del libero mercato internazionale”, così come ha 20 • MSOI the Post

dichiarato il Primo Ministro giapponese Shinzo Abe. La rilevanza dell’accordo non è data soltanto dalla vastità della zona economica coinvolta, ma anche dalla presenza di alcune importanti novità. Innanzitutto, si tratta del primo trattato internazionale in cui si fa esplicito riferimento agli obblighi derivanti dall’ accordo sul clima di Parigi. Pur trattandosi di un accordo commerciale infatti, il testo pone come obiettivi di primaria importanza il perseguimento dello sviluppo sostenibile e la lotta ai cambiamenti climatici. Anche in questo caso, le politiche dei paesi coinvolti appaiono significativamente distanti rispetto alle decisioni politiche americane. A rendere il JEFTA un accordo di ampio respiro è inoltre l’attenzione posta all’apertura del mercato dei servizi: il testo fa infatti riferimento ai servizi finanziari, alle telecomunicazioni, al commercio elettronico e ai trasporti. In particolare, i negoziatori hanno previsto di agevolare la partecipazione delle imprese europee alle gare di appalto pubblico nelle maggiori città giapponesi. Quest’ultimo punto, nel contesto di un incrementato scambio di servizi tra le economie mondiali, necessiterebbe ulteriore approfon-

dimento circa la capacità dell’accordo di evitare ogni abbassamento degli standard di tutela dei lavoratori coinvolti: il Giappone, infatti, a differenza degli Stati membri dell’UE, non ha ratificato due Convenzioni dell’ILO: la Convenzione 105 del 1957 sull’abolizione del lavoro forzato e la Convenzione 111 del 1958 sulla discriminazione in materia di impiego e di occupazione. Accanto al contenuto del Trattato, risulta interessante notare un aspetto rispetto al quale i negoziatori non hanno raggiunto un accordo: il testo non contiene un capitolo dedicato agli investimenti e, di conseguenza, manca la tipica istituzione dell’ISDS, l’Investor State Dispute Settlement. Non risultando quindi essere un accordo sugli investimenti, il procedimento di ratifica necessita solamente dell’approvazione del Parlamento Europeo (oltre alla Dieta nazionale giapponese) e non della ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Si prevede che il trattato entrerà in vigore entro il 2019. In conclusione, il JEFTA rappresenta non soltanto un avvicinamento tra due economie i cui scambi sono già particolarmente intesi, ma si tratta di una più ampia convergenza di vedute circa le prospettive e il futuro dell’economia mondiale.


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