MtP - 114° numero

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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SPECIALE CASO DICIOTTI

L’indagine sul caso dei migranti trattenuti sul pattugliatore della Guardia Costiera stimola una riflessione sull’immigrazione in Italia, arricchita da un rigoroso quadro giuridico ed esclusive interviste.

Il luogo d’origine della migrazione Di Jessica Prieto La notte del 26 agosto si è conclusa l’odissea dei 150 migranti trattenuti sul pattugliatore Ubaldo Diciotti (in principio si trattava di 177, tra cui 27 minori, che sono stati rilasciati mercoledì 22 agosto). I migranti erano stati tratti in salvo dalla Guardia Costiera giovedì 16 agosto, al largo di Lampedusa, per rimanere poi bloccati per altri sei giorni nel porto di Catania, senza il permesso di lasciare la nave. Secondo un resoconto stilato da Daniela Robert, delegata del Garante per le persone detenute e private della libertà, le persone a bordo della nave sono state trattenute “in condizioni estremamente difficili: la maggior parte di esse ha atteso lo sbarco sul ponte della nave, senza ricambi, senza cibo, senza docce e con soli due bagni a disposizione per la totalità dei migranti”. L’odissea di queste persone, tuttavia, non è iniziata quel 26 agosto, bensì prima, quando hanno deciso di intraprendere uno degli ormai famosi “viaggi della speranza”. Secondo i dati riportati dalla maggioranza dei quotidiani internazionali, dei 150 migranti presenti a bordo, 130 sarebbero originari dell’Eritrea, due della Siria, sei del Bangladesh, uno dell’Egitto, uno della Somalia e 10 delle isole Comore (Africa orientale). Ad eccezione di coloro che provengono dalla Siria, che l’opinione pubblica sembra accettare come “rifugiati aventi diritto di asilo”, gli altri, provenienti da Paesi africani ed orientali meno noti, sembrano essere considerate persone scomode “che dovrebbero tornare nei propri Paesi”.

La realtà è molto diversa. Prendendo in considerazione l’Eritrea, si tratta di una nazione sottoposta ad una dittatura militare iniziata nel 1993 e retta da Isaia Afwerki. Su una popolazione di 6 milioni di abitanti, si conta che ogni mese fuggano 5.000 persone, in particolari giovani. Quest’ultimi lasciano un servizio militare obbligatorio e illimitato nel tempo, una totale mancanza di libertà di espressione e culto, esecuzioni illegali delle forze armate. Inoltre, tentare la fuga dall’Eritrea è un’impresa estremamente pericolosa: uscire dal Paese è dichiarato illegale e chi viene intercettato ai confini rischia il carcere a vita o, nel peggiore dei casi, di essere giustiziato.

ha diritto di asilo nel territorio della Repubblica”. Ciò significa che nonostante si voglia far credere all’opinione pubblica che siano gli immigrati ad essere illegali, in realtà l’illegalità della vicenda risiede nel non riconoscere asilo politico a chi ne avrebbe diritto; ricordando che l’asilo politico deve essere garantito a tutti coloro che fuggono da persecuzioni fondate su ragioni di razza, religione, nazionalità, di appartenenza a un particolare gruppo sociale o di opinioni politiche.

Secondo gli ultimi dati ISTAT, gli Eritrei presenti in Italia sono 9.343 sui 5.144.440 stranieri presenti sul territorio nazionale. Ad essi, e soprattutto a coloro che si presentano come “obiettori di coscienza al servizio militare”, l’art. 10, co. 3 della nostra Costituzione riconosce il diritto di asilo: “lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana,

Secondo i dati ISTAT, mentre tra il 2014 e il 2017 sono sbarcati sulle coste italiane più di 100.000 migranti, nel 2018 il numero si è ridotto a 13.000. Sono aumentate, invece, sia le persone che chiedono una forma di protezione internazionale sia quelle che la ottengono. Guardando ai dati dell’anno passato, le persone che hanno ottenuto una forma di protezione internazionale sono state circa 147.000, mentre quelle ancora in attesa

Nonostante l’allarmismo creato dai principali mezzi di comunicazione, è importante ricordare che esiste un’incongruenza tra la percezione degli italiani riguardo i flussi migratori e la realtà.

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e ospitate nelle strutture di accoglienza sono circa 180.000. A questi si aggiungono i circa 600.000 stranieri che vivono irregolarmente sul territorio italiano: persone cui è scaduto il permesso di soggiorno, o a cui è stata respinta la richiesta di asilo, e che continuano a vivere nel Bel Paese. Questi numeri vanno però considerati relativamente al totale della popolazione italiana, circa 60,5 milioni di abitanti. Gli stranieri regolari sono poco più di 5 milioni (l’8%), calcolando solo coloro nati al di fuori dell’Europa il numero si abbassa a circa 4 milioni (6,7% della popolazione totale). Sono cifre molto più contenute rispetto alla media dell’Europa occidentale: gli stranieri di origine extraeuropea sono il 9,9% della popolazione austriaca, l’8,5% di quella francese e l’11,6% di quella svedese.

Le fonti giuridiche Di Chiara Montano Nel complesso sistema normativo nazionale ed europeo, la questione migratoria è al centro di diverse norme nazionali e comunitarie. Il sistema nazionale di accoglienza dei migranti è regolato dal d.lgs. n. 142/2015, con il quale sono state attuate le Direttive europee n. 2013/32/UE e n. 2013/33/UE. Il d.lgs. n. 142/2015 è stato modificato, dapprima con il d.l. n. 13/2017, che ha previsto una serie di interventi urgenti in materia di immigrazione, e successivamente dalla l.n. 47/2017, sui minori stranieri non accompagnati e, infine, dal d.lgs. n. 220/2017. 4 • MSOI the Post

Le operazioni di soccorso e prima assistenza ai migranti, insieme con quelle di identificazione, vengono svolte nei Centri di prima accoglienza (CPA) o Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), che sono stati allestiti per fare fronte all’emergenza sbarchi in Puglia, nel 1995, ai sensi della cosiddetta “legge Puglia”, la l. n. 563/1995. La normativa prevede che l’accoglienza dei richiedenti asilo si articoli in due fasi: la fase di prima accoglienza e la fase di seconda accoglienza e integrazione. La fase di prima accoglienza per il completamento delle operazioni di identificazione del richiedente e per la presentazione della domanda di asilo è affidata ai nuovi centri governativi, previsti dal d.lgs. n. 142/2015, in sostituzione dei preesistenti Centri di accoglienza per i richiedenti asilo (CARA) e Centri di accoglienza (CDA). L’invio dei richiedenti in queste strutture è disposto dal Prefetto, previa consultazione con il Ministero dell’Interno. In caso di forte affluenza migratoria, quando i posti nei centri governativi sono esauriti, la funzione di prima accoglienza può essere svolta anche dai Centri di accoglienza straordinaria (CAS), strutture temporanee, individuate dalle Prefetture e dall’ente locale nel cui territorio sono collocate. I richiedenti asilo ritenuti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica sono trattenuti in apposite sezione dei Centri di permanenza per i rimpatri (ex CIE). La gestione della fase di seconda accoglienza e integrazione, invece, è affidata, a livello territoriale, ai centri del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR). Per poter accedere alle strutture dello SPRAR, sono necessarie due condizioni: il richiedente asilo deve già aver inoltrato la richiesta di riconoscimento della protezione internazionale e deve altresì risultare “privo dei mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari”; tale ultimo requisito è sottoposto alla valutazione della Prefettura. A partire dalla fine del 2015, nel sistema

di accoglienza nazionale sono stati introdotti i cosiddetti hotspot o punti di crisi, collocati nei luoghi di sbarco, dove viene effettuata la registrazione e l’identificazione dei migranti, per mezzo di rilievi dattilografici. In data 28 settembre 2015, il Governo italiano ha presentato una roadmap, indicante sei punti in cui si è impegnato ad istituire altrettanti hotspot, in attuazione degli impegni assunti dallo Stato italiano con la Commissione europea, alla presentazione dell’Agenda europea sulla migrazione, in data 13 maggio 2015. Gli hotspot sono previsti dall’ordinamento italiano, all’art. 17 del d.l. n. 13/2017, che ha introdotto nel TU sull’immigrazione una nuova disposizione, per la quale “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi (…)”. La Commissione d’inchiesta sul sistema di accoglienza, istituita presso la Camera, ha rilevato numerose criticità compresa nell’approccio hotspot, l’insufficiente capacità di accoglienza degli attuali centri rispetto ai flussi migratori. Inoltre, stando ai dati del Rapporto sui centri di permanenza per il rimpatrio in Italia, della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato, a dicembre 2017 soltanto quattro dei sei hotspot previsti risultavano attivi, cioè quelli di Lampedusa, Taranto, Trapani e Pozzallo. Lo scorso 30 agosto, a Vienna, si è tenuto il vertice dei Ministri della Difesa europei. I punti al centro della discussione sono stati la gestione condivisa dei porti, le regole di sbarco e la redistribuzione dei migranti fra gli Stati. Inoltre, è stata ancora una volta sottolineata la necessità di riscrivere gli Accordi e i Trattati in materia di immigrazione, che non sono evidentemente adeguati a fare fronte allo stato di emergenza attuale. Anche l’operazione Sophia, della quale il Governo italiano auspica la modifica,


è stata oggetto di discussione durante il vertice. Si tratta di un’operazione militare dell’Unione europea, avviata dal Consiglio affari esteri Ue, nel giugno del 2015 e prorogata due volte, fino all’attuale scadenza, prevista per il 31 dicembre 2018. Il fine primario della missione è di contrastare il traffico di esseri umani, ma in occasione delle proroghe sono stati aggiunti alcuni obiettivi ulteriori, tra cui la formazione della Guardia costiera e della Marina libiche, nonché il compito di potenziare lo scambio di informazioni sulla tratta di esseri umani con le agenzie di contrasto degli Stati membri, Frontex ed Europol. In occasione del vertice di Vienna, inoltre, il ministro Trinca ha avanzato una proposta relativa alla rotazione dei porti, che ha riguardato l’istituzione di un’unità di coordinamento, a Bruxelles o in un altro luogo, con il compito di assegnare, di volta in volta, il porto responsabile dell’accoglienza dei migranti al Paese competente. Tuttavia, su tale proposta non è ancora stato raggiunto un accordo.

Intervista al professor Francesco Costamagna, docente di diritto dell’Unione Europea presso l’Università degli Studi di Torino A cura di Andrea Mitti Ruà I concetti riportati non integrano totalmente la disciplina relativa al caso Diciotti. Per questo abbiamo chiesto chiarimenti al professor Francesco Costamagna, docente di diritto

dell’Unione Europea presso l’Università degli Studi di Torino e membro della S.I.O.I. In particolare, il Professore ha chiarito il precedente che si è venuto a creare con il caso della Diciotti e le violazioni che possono configurarsi sia a livello nazionale sia a livello europeo. Cosa prevede e in che casi si applica la norma che regola la procedura dei rimpatri? La distribuzione dei migranti nei diversi Paesi dell’UE è prevista nei Trattati? Il Trattato non stabilisce un meccanismo di ripartizione dei migranti: l’art. 80 TFUE prevede, però, che la politica comune di immigrazione sia governata “dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario”. Nel 2015, poi, erano state adottate due decisioni per la ricollocazione di una quota di richiedenti asilo (quindi solo di una categoria di migranti) presenti in Grecia e Italia. Il programma prevedeva la ricollocazione di 140.000 persone e riguardava solo richiedenti aventi una nazionalità il cui tasso di riconoscimento della protezione internazionale fosse pari o superiore al 75% dei casi (Siria ed Eritrea, ad esempio). Il programma si è rivelato un fallimento a causa del rifiuto di molti Stati (e soprattutto di quelli appartenenti al cd. Gruppo di Visegrad) di accogliere la loro quota di richiedenti. Le frontiere italiane sono anche frontiere dell’UE. È compito quindi dell’Italia o dell’Unione gestirle? In che modo? L’art. 77 TFUE prevede la creazione di un sistema integrato di gestione delle frontiere esterne. Si parla di “gestione” e non “controllo”, quasi ad indicare che il secondo sia un potere che resti in capo agli Stati, anche se è oggettivamente difficile distinguere i due momenti. Nel 2016 è stata creata l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, la quale sostituisce Frontex con compiti più ampi che vanno nel senso di contribuire alla gestione integrata e alla preservazione del sistema Schengen. La nave Diciotti è stata a lungo bloccata in porto senza possibilità di far sbarcare i migranti. È legittimo che ciò avvenga? Il fermo della nave e dei suoi passeggeri costituisce una illegittima restrizione della libertà delle persone coinvolte. A

quanto si sa, il trattenimento è avvenuto senza l’adozione di alcun provvedimento da parte dell’autorità e si è protratto per molti giorni, costringendo le persone a sopravvivere in condizioni igieniche e sanitarie molto difficili. Così come sostenuto da più parti, la situazione parrebbe integrare una violazione dell’art. 5 della CEDU, oltre che dell’art. 13 della nostra Costituzione. I migranti che non vengono rimpatriati sono tutti rifugiati politici? Non è detto, occorre una valutazione caso per caso. Il riferimento alla nazionalità dei migranti quale indice per valutare la concedibilità dello status di rifugiato è utile, ma può essere fuorviante in questo senso. Come dovrebbe agire l’UE per una migliore gestione della questione migratoria? E’ ovviamente impossibile rispondere in maniera esaustiva a questa domanda. Mi limito ad un riferimento ad un’azione concreta che potrebbe contribuire a migliorare la situazione. Mi riferisco, in particolare, alla politica sul rilascio dei visti da parte dei Paesi europei. Credo che l’adozione di politiche meno restrittive in tal senso potrebbe ridurre il numero di migranti costretti ad affrontare lunghe traversate, consentendo, al contempo, ai Paesi europei di meglio gestire il fenomeno attraverso le loro ambasciate nei Paesi di partenza. Si tratta, ovviamente, di una piccola proposta, e non della misura in grado di risolvere il problema. Forse perchè quello dell’immigrazione non è un problema e, come tale, non ha soluzione. L’unica cosa a cui si può aspirare è una miglior gestione di una situazione strutturale.

La prospettiva europea Di Giuliana Cristauro La posizione dell’Unione è diversa da quella italiana, nonostante al tempo stesso essa la integri. L’Unione Europea, in materia di immigrazione, si è posta come obiettivo l’instaurazione di un

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approccio equilibrato per la gestione della migrazione legale ed il contrasto all’immigrazione clandestina. Per queste ragioni sono state avviate delle operazioni navali finalizzate a garantire la sicurezza delle frontiere dell’UE, salvare le vite dei migranti in mare e combattere i trafficanti di migranti. La base giuridica della politica migratoria europea è costituita dagli articoli 79 e 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

La corretta gestione dei flussi migratori comporta principalmente il rafforzamento delle misure di lotta all’immigrazione clandestina, compresi la tratta ed il traffico, e la promozione di una cooperazione più stretta con i Paesi terzi in tutti i settori. Le politiche d’immigrazione, in base al Trattato di Lisbona, sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario (art. 80 TFUE). L’Unione, inoltre, ha adottato atti normativi importanti per contrastare la migrazione irregolare. Nello specifico il “pacchetto sui favoreggiatori” comprende la direttiva 2002/90/CE del Consiglio volta a stabilire una definizione comune del reato di favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali e la decisione quadro 2002/946/ GAI, che stabilisce sanzioni penali per tale condotta. La questione della tratta si trova nella direttiva 2011/36/UE relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime. L’Unione ha adottato anche diverse norme comuni per il ricollocamento di migliaia di richiedenti asilo dalla Grecia e dall’Italia e per il rimpatrio di migranti illegali. Il sistema Comune 6 • MSOI the Post

europeo di asilo (CEAS) prevede delle norme minime per il trattamento di tutti i richiedenti asilo, tuttavia la crisi migratoria ha evidenziato la necessità di riformare le regole di asilo dell’UE. Secondo le norme vigenti, infatti, i richiedenti asilo non sono trattati in modo uniforme in tutta l’UE e anche la percentuale di decisioni positive in materia di asilo varia notevolmente. Di conseguenza, i richiedenti asilo viaggiano in Europa e fanno richiesta di asilo nei Paesi in cui credono di avere una maggiore possibilità di ricevere protezione internazionale. Per tale motivo il Consiglio sta esaminando delle proposte legislative volte a riformare il sistema. La riforma renderebbe il sistema più efficiente e più resistente alla pressione migratoria eliminando i fattori di trazione e i movimenti secondari, combattendo gli abusi e sostenendo meglio gli Stati membri più colpiti. In base alle norme attuali, i Paesi dell’UE di primo arrivo dei migranti sono tenuti a trattare le domande di asilo. Ciò ha comportato un onere significativo per la Grecia e l’Italia, che hanno registrato flussi di migranti senza precedenti durante la crisi migratoria del 2015. Nel giugno 2015 i leader dell’UE hanno convenuto di ricollocare 40.000 richiedenti asilo dalla Grecia e dall’Italia nei due anni successivi. La registrazione dei migranti è una tappa fondamentale per la legislazione dell’UE ed è necessaria per individuare chi è ammissibile alla ricollocazione. Nel giugno 2015 il Consiglio europeo ha convenuto di creare “punti di crisi”, i cosiddetti hotspot negli Stati membri in prima linea per registrare i migranti in modo sistematico. Al momento sono aperti 5 hotspot in Grecia e altri 4 in Italia. I migranti che arrivano in Grecia e in Italia vi sono sottoposti a registrazione e rilevamento delle impronte digitali. La politica di gestione delle frontiere ha registrato nel tempo la creazione di strumenti e di agenzie, quali il sistema d’informazione Schengen, il sistema d’informazione visti e recentemente l’Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera (Frontex). La base giuridica della politica di gestione delle frontiere è costituita dagli articoli 67 e 77 del TFUE. L’Unione ha stabilito norme comuni

per i controlli alle sue frontiere esterne anche perché il ritmo dei cambiamenti è velocemente aumentato a seguito delle numerose perdite di vite umane nel Mediterraneo negli ultimi anni, associate all’enorme afflusso di profughi e migranti fin dal settembre del 2015. L’articolo 14, paragrafo 2, del codice frontiere di Schengen, prevede che “il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise”. La crisi relativa alla gestione dei flussi irregolari è stata oggetto di recenti incontri bilaterali e multilaterali tra Stati membri, soprattutto a seguito dello stallo che si è verificato in sede di negoziato del Consiglio dell’UE sulla riforma del regolamento di Dublino e delle decisioni assunte dal Governo italiano in materia di sorveglianza delle frontiere marittime. Dopo gli incontri bilaterali Francia – Italia del 15 giugno 2018 e GermaniaFrancia del 19 giugno 2018, il 24 giugno 2018 si è svolto a Bruxelles un vertice informale a 16 al quale hanno partecipato il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e i leader di Italia, Austria, Belgio, Bulgaria, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Slovenia, Spagna e Svezia. Nel corso di tale vertice l’Italia ha presentato un piano articolato in dieci punti volto a superare la crisi migratoria, secondo un approccio integrato multilivello che ha posto quale obiettivo prioritario la regolazione dei flussi primari in Europa. L’Italia ha proposto di intensificare accordi e rapporti tra UE e Paesi Terzi da cui partono o transitano i migranti, prevedendo la realizzazione di centri di protezione internazionale nei Paesi di transito (in cooperazione con UNHCR e OIM), per valutare richieste di asilo e offrire assistenza giuridica ai migranti, anche al fine di rimpatri volontari. Inoltre è stato previsto anche il rafforzamento delle frontiere esterne, sia potenziando le missioni UE sia sostenendo la Guardia costiera libica. Diversi punti del piano inoltre prevedono il superamento del regolamento Dublino ed in particolare il criterio dello Stato di primo approdo sulla base del


principio della responsabilità comune tra Stati membri sui naufraghi in mare. In particolare l’Italia ha chiesto il superamento del concetto di “attraversamento illegale” per le persone soccorse in mare e portate a terra a seguito di operazioni di ricerca e soccorso (SAR) nonché la scissione tra concetto di porto sicuro di sbarco e quello di Stato competente ad esaminare richieste di asilo. Altra proposta italiana è stata quella di realizzare centri di accoglienza in più Paesi europei per salvaguardare i diritti di chi arriva ed evitare problemi di sovraffollamento. La revisione del regolamento Dublino importa principalmente l’individuazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di asilo. La disciplina proposta dalla Commissione si ispira al bilanciamento dei principi di solidarietà e responsabilità. L’obiettivo è quello di circoscrivere la portata del principio vigente dello Stato di primo approdo, predisponendo un meccanismo automatico di redistribuzione per quote obbligatorie delle domande dei richiedenti asilo che gravano su sistemi nazioni in situazioni di particolare crisi. Il meccanismo di solidarietà per quote obbligatorie di richiedenti asilo è stato criticato dall’Italia e da altri Paesi del Mediterraneo. Il sostegno finanziario dell’UE stanziato finora per l’Italia a titolo di assistenza d’emergenza ammonta a circa 190 milioni di euro, che si aggiungono ai fondi del bilancio UE che superano i 650 milioni di euro. Per quanto concerne il sostegno operativo nel controllo delle frontiere esterne e nel contrasto all’attività di traffico di migranti è importante ricordare l’operazione navale Eunavfor Med Sophia, avviata nel 2015, volta a contrastare il fenomeno delle imbarcazioni utilizzate dai trafficanti di migranti nel Mediterraneo. E’ inoltre in corso l’operazione congiunta Themis, volta a sostenere l’Italia nella lotta all’immigrazione irregolare nel Mediterraneo centrale, nel salvataggio di vite umane in mare e nella prevenzione e rilevamento della criminalità transfrontaliera. Recentemente è stato istituito un nuovo corpo permanente di guardie di frontiera di circa 10.000 elementi.

Secondo l’UNHCR dall’inizio del 2018 ad oggi sono sbarcate sulle coste meridionali dell’UE circa 43.000 migranti. Al 25 giugno 2018 la rotta del Mediterraneo centrale (dalla Libia/ Tunisia verso l’Italia) ha registrato 16.300 sbarchi; la rotta del Mediterraneo orientale (dalla Turchia alla Grecia) circa 13.000 sbarchi e quella del Mediterraneo occidentale ( dal Marocco alla Spagna) 13.500.

Intervista a Sergio Vittorio Scuderi, responsabile Gruppo Universitario Amnesty International - Catania A cura di Giuliana Cristauro Il caso Diciotti ha scatenato una grande mobilitazione della società civile. Il Direttore generale di Amnesty International, Gianni Rufini, ha dichiarato che “migliaia di persone, compresi tantissimi attivisti di Amnesty International, hanno chiesto che le persone soccorse in mare dalla Guardia Costiera fossero fatte scendere e potessero chiedere protezione internazionale”. Tra gli attivisti presenti al Porto di Catania anche Sergio Vittorio Scuderi, Responsabile Gruppo Universitario di Amnesty International Catania, al quale abbiamo posto delle domande sulle ragioni della mobilitazione e su come si è svolto il presidio. Il presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi ha dichiarato che “lo sbarco dei migranti della “Diciotti” è stato l’epilogo di una prova di forza tanto inutile quanto crudele”. Cosa diresti al riguardo alla luce delle proteste al Porto di Catania da parte di

Amnesty International Catania? Amnesty International crede che questa situazione deplorevole si potesse e si dovesse evitare. Il braccio di ferro portato avanti dall’attuale Governo italiano per attirare l’attenzione dell’Unione Europea sulla questione è avvenuto non solo al di fuori di qualsiasi norma in materia ma è stato, come prevedibile, del tutto inutile: che i migranti a bordo di una nave della Guardia Costiera italiana, già giunta sul

territorio nazionale, dovessero sbarcare era una conclusione inevitabile. A ciò si aggiunga che tale prova di forza non sia servita a niente, considerando che il Governo non ha ottenuto alcuna risposta positiva e che la ricollocazione dei migranti avverrà in maggior parte sullo stesso suolo italiano, atteso che la C.E.I. è un organo che ha sede e opera a tutti gli effetti in Italia. Per non parlare, poi, della distribuzione di venti migranti in Albania, Paese extra UE e come tale al di fuori della cornice legale del Regolamento di Dublino. Insomma, l’unico effetto che il caso Diciotti ha sortito è stato quello di perpetuare le sofferenze di persone già fortemente provate da terribili esperienze pregresse e proprio in ciò risiede la crudeltà della vicenda. La vicenda della nave “Diciotti” ha comportato la mobilitazione inaspettata di migliaia di persone, compresi tantissimi attivisti di Amnesty International, che hanno chiesto che le persone soccorse in mare dalla Guardia Costiera fossero fatte scendere e potessero chiedere protezione internazionale. Quali ragioni, sul piano umanitario, hanno determinato un’enorme mobilitazione della società civile?

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Durante la settimana del presidio abbiamo assistito a una partecipazione che probabilmente nessuno di noi si attendeva. Quotidianamente, dalla mattina alla sera, c’era sempre qualcuno fisso al porto di Catania per manifestare la propria solidarietà alle persone trattenute sulla Diciotti, per dimostrare il proprio dissenso nei confronti delle prese di posizione estremisitche e illegittime da parte del Governo. Tuttavia, il momento più pregnante è stato sicuramente sabato pomeriggio, quando migliaia di persone provenienti da tutta la Sicilia e persino da più lontano si sono unite in un’unica voce al grido “Libertà!”. Credo che tutte queste persone, indignate per la situazione, abbiano avvertito l’esigenza e l’importanza di affermare espressamente che questo non è il modo giusto per affrontare la questione migratoria, che non si possono tenere in ostaggio delle vittime – in condizioni precarie tra l’altro - solo per un mero gioco politico e che c’è un’ampia fetta di italiani ed italiane che contrastano questo clima d’odio e di xenofobia che pare si stia diffondendo sempre più nel nostro Paese. Cosa ha provocato, nello specifico, la mobilitazione di Amnesty International per la vicenda della nave “Diciotti”? La presenza di un’organizzazione importante nell’ambito dei diritti umani 8 • MSOI the Post

quale è Amnesty International ha di sicuro apportato un significativo contributo alle ragioni della mobilitazione. Contributo che non si è fermato al presidio di Catania, ma che ha trovato un’ulteriore conferma della nostra posizione nella successiva manifestazione tenutasi a Milano in occasione dell’incontro tra il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini e il primo ministro dell’Ungheria Viktor Orbán. Più ad ampio spettro, ciò ha provocato un rafforzamento della strategia sulla tutela dei migranti in Italia e in generale a livello internazionale, alimentando la relativa campagna lanciata da Amnesty dal nome “IWelcome”. Quanti erano i migranti a bordo della “Diciotti” e da dove provenivano? In principio erano 177, di cui 27 minori. Questi ultimi sono stati fatti sbarcare prima di tutti gli altri - mercoledì notte - grazie a un tempestivo intervento della Procura presso il Tribunale dei minori di Catania che ha intimato al Governo di farli scendere, in quanto la normativa prevede che ai minori non accompagnati deve essere riconosciuto senza condizioni il diritto di asilo e deve essere loro garantito l’immediato inserimento in strutture idonee. Nei giorni seguenti si è assistito allo sbarco di circa una quindicina di adulti per questioni sanitarie. La maggior parte dei migranti proveniva

dall’Eritrea, Paese dove i minorenni sono obbligati ad arruolarsi nell’esercito a tempo indeterminato e dove detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate sono all’ordine del giorno. La restante minoranza fuggiva da diversi Paesi africani e asiatici: Bangladesh, Siria, Egitto, Somalia e Isole Comore. In quali condizioni hanno trascorso i giorni in cui la nave è stata bloccata al Porto di Catania? Dalla relazione fatta dal Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, abbiamo appreso che la nave non era, com’è ovvio, attrezzata per ospitare un numero tanto elevato di persone per tempi prolungati. Nonostante l’encomiabile impegno profuso dal comandante e dall’equipaggio per rendere più tollerabile la permanenza a bordo dei migranti, diverse erano le criticità, tra le quali: presenza di solo due bagni fruibili, mancanza di acqua corrente per potersi lavare (i migranti hanno potuto fare solo una doccia a testa in una settimana, usando un tubo installato sul ponte), totale inadeguatezza dei giacigli per il riposo notturno e attrezzature non idonee per ripararsi dalle forti e costanti piogge che hanno interessato la zona durante quei giorni. In più va evidenziata l’assoluta mancanza di informazioni sulle motivazioni in forza delle quali non era loro consentito


scendere a terra.

Vi sono state emergenze sanitarie? Sì. Come dicevo prima, nella giornata di sabato sono state fatte sbarcare 16 persone per ordine dell’Ufficio di Sanità marittima a seguito dell’ispezione da parte di personale medico inviato dal Ministero della Salute che ha rilevato delle emergenze sanitarie a bordo; in particolare alcuni soggetti erano sospettati di essere affetti da patologie gravi, come scabbia e tubercolosi. Parte di questi casi sospetti sono stati poi confermati. Come si è svolto il presidio al Porto di Catania? Grazie all’unione di numerose associazioni e organizzazioni, insieme

a singoli cittadini, si è riusciti a creare una rete di protesta che ha assicurato la presenza costante di manifestanti al porto. Amnesty ha potuto garantire il suo sostegno quotidiano alla causa grazie alla partecipazione di più gruppi operanti nella parte orientale della Sicilia: eravamo presenti noi del gruppo universitario, il gruppo 72 di Catania, il 113 di Acireale e l’85 di Siracusa. E’ stata una manifestazione pacifica? Ci sono stati dei momenti di tensione? Amnesty ha partecipato esclusivamente alle attività regolarmente autorizzate, che si sono svolte in assoluta tranquillità e nel rispetto di tutti i presenti. Sappiamo però che al termine della grande manifestazione di sabato pomeriggio si sono verificati scontri tra alcuni manifestanti e le forze dell’ordine, come appreso dai mezzi d’informazione. La nostra rappresentanza era già andata via e in ogni caso ci dissociamo da qualsiasi atto del genere. In conclusione come potresti descrivere questa vicenda? È stato un momento molto intenso, di condivisione e di forza collettiva che ha unito persone di tutti i generi e di tutte le età. Personalmente non mi aspettavo una tale adesione, soprattutto in una

città come Catania, dove molto spesso l’indifferenza vige indisturbata. Diciamo che, in mezzo a quella massa informe di invettive razziste e xenofobe e di discorsi d’odio da cui siamo tempestati giornalmente, è stato rassicurante vedere che non tutti la pensano così ma che, anzi, siamo in moltissimi a difendere i diritti umani e a dire a gran voce che prima di tutto vengono le persone e la loro dignità: abbiamo dato un senso pregnante all’espressione “Restiamo umani”. Parlando di questi temi e considerando che la Vostra rivista ha sede a Torino, ne approfitto per dire che il Gruppo Italia 009 di Amnesty International Torino è molto attivo su questo fronte e che organizza annualmente una serie di incontri in ambito universitario dal titolo “I lunedì dei diritti”, che avranno luogo la prossima primavera. Per questo autunno è previsto invece un incontro dal titolo “Odio on-line sulla discriminazione e sul razzismo”, inquadrato nella cornice più ampia della campagna #iorispetto e che tratterà, per l’appunto, anche della questione della nave Diciotti.

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EUROPA CHI SONO I COLPEVOLI?

Due volontari dell’Emergency Response Centre International arrestati in Grecia

Di Simone Massarenti Il 31 agosto scorso due volontari della ONG “Emergency Response Centre International” sono stati arrestati in Grecia con l’accusa di traffico di esseri umani e spionaggio. Stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa Euronews i due, il cittadino tedesco Sean Binder e l’atleta siriana Sarah Mardini, sarebbero stati riarrestati dalla polizia greca dopo un già precedente fermo del febbraio scorso. Secondo la polizia greca i volontari sarebbero complici, nonché parte attiva, di una fitta rete di traffici illegali di migranti, entrando a far parte di una “organizzazione criminale coinvolta in azioni di spionaggio, riciclaggio di denaro e traffico di esseri umani, andando contro al Codice sulle Immigrazioni, nonché alla legislazione sulle telecomunicazioni”. Un ex volontario ERCI, vicino alla ONG, ha affermato come i detenuti siano solamente “due giovani ragazzi che sentono il 10 • MSOI the Post

dovere di aiutare le persone che ne abbiano bisogno”. Stando infatti al profilo tracciato dai media internazionali, il tedesco Binder e la siriana Mardini appaiono come due personalità volte a tali attività di supporto umanitario, rendendo naturalmente rovente il clima attorno alla questione. Ad avvalorare tale tesi si sono aggiunte le parole dell’allenatore della nuotatrice, Sven Spannekrebs, il quale ha dichiarato come “Sarah odi gli scafisti”, non riuscendo a credere ad una possibile collaborazione fra la ragazza e gli stessi. Appare difatti impossibile come una ragazza, scappata dalla guerra per inseguire un sogno realizzatosi con le olimpiadi di Rio del 2016, possa essere implicata in una questione così amara. I due imputati, dal carcere di massima sicurezza di Atene nel quale sono detenuti, hanno negato ogni tipo di coinvolgimento, e nel caso della Mardini sono le parole

del suo avvocato Haris Petsikos a delineare la linea difensiva, affermando come “non ci sia uno stralcio di prova contro di lei”. Il tedesco Binder, cresciuto in realtà in terra irlandese, è stato invece supportato dalle parole dei suoi familiari, i quali hanno confermato la sua propensione e all’aiuto umanitario reputato impossibile un suo coinvolgimento in una tanto annosa questione. Nonostante la professata innocenza dei due, però, al momento la posizione della polizia greca appare inamovibile, e secondo quanto riportato dal quotidiano USA New York Times, la condanna potrebbe arrivare a 18 mesi di carcere. La situazione, stando anche a quanto in possesso delle autorità (un binocolo e una ricetrasmittente capace di captare le frequenze radio delle autorità costiere) sembra ormai delineata, ma le ONG e gli organi diplomatici di appartenenza dei due imputati sono al lavoro per cercare di sbloccare una situazione di apparente non ritorno.


EUROPA INCONTRO SALVINI – ORBAN A MILANO

Si delineano possibili coalizioni in vista delle elezioni del PE

Di Rosalia Mazza Il 28 agosto 2018 il leader della Lega, Matteo Salvini, e il leader ungherese di Fidesz, Viktor Orban, si sono incontrati a Milano per discutere la questione dei migranti. Sebbene i due leader abbiano idee divergenti su argomenti quali le quote di distribuzione dei migranti all’interno dell’Unione Europea e la riforma del diritto d’asilo, entrambi ritengono che gli immigrati costituiscano un problema la cui risoluzione dovrebbe essere di primaria importanza per gli Stati dell’UE. Nonostante le divergenze, il messaggio diffuso, attraverso un’intervista, dal ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, lascia intendere che possano esistere delle basi sulle quali costruire un’alleanza tra i due Stati, volta a contrastare l’immigrazione: “La difesa dei confini dell’Europa consiste nella gestione dell’immigrazione. L’Ungheria ha già dimostrato che i confini di terra ferma possono essere difesi. L’Australia e l’Italia hanno dimostrato che anche i confini marittimi possono esserlo”. La città di Milano ha reagito all’appuntamento con una manifestazione organizzata da

coloro che nell’incontro hanno visto una svolta decisiva per le sorti dei migranti e per le relazioni tra il governo italiano e Bruxelles, che ha delineato il meeting come un altro segnale negativo a seguito del caso Diciotti. L’incontro ha avuto risonanza internazionale. Quasi immediata è stata la replica del presidente francese Emmanuel Macron, citato più volte dal Premier ungherese e dal Vicepremier italiano durante la riunione: Macron ha infatti risposto di essere nemico dei governi populisti e nazionalisti, e che tenterà di creare un fronte progressista all’interno dell’UE.

granti, mentre le divergenze si impongono soprattutto a causa del rifiuto del Cancelliere Kurz di finanziare ulteriormente tali politiche. Ma dello stesso PPE fanno parte, da un lato, il CDU di Angela Merkel e, dall’altro, il suo vice presidente Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, che durante un incontro con il Cancelliere austriaco – volto a discutere le politiche migratorie (giugno 2018) – ha appreso il rifiuto del Cancelliere di contribuire al bilancio UE con più dell’1% del PIL austriaco per finanziare progetti nei Paesi di maggior provenienza dei flussi migratori.

Tra il 23 e il 26 maggio 2019 si svolgeranno le elezioni del Parlamento Europeo, e anche la stampa internazionale, nell’incontro di Milano, ha intravisto una possibile coalizione (anche se il Premier ungherese ha dichiarato che non abbandonerebbe il PPE). Il Partito Popolare Europeo potrebbe subire forze sempre più estremiste, non solo per mano del Premier Orban, ma anche a causa del cancelliere austriaco Sebastian Kurz che, riguardo l’immigrazione, è vicino ai Paesi del Gruppo di Viségrad. Anche in questo caso il punto d’incontro tra i due leader riguarda le politiche da adottare sui mi-

Dunque, anche all’interno del partito più rappresentato dell’Unione Europea, che raccoglie forze moderate e di destra, esistono spaccature e si delineano nuove possibili alleanze, soprattutto a causa del potere sempre maggiore acquisito dai partiti più conservatori. Il 1° luglio 2018 l’Austria ha assunto la presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione Europea e il prossimo 19 settembre 2018 si svolgerà, a Salisburgo, il vertice dei leader del PPE: durante tale riunione potrebbero delinearsi strategie più precise in vista delle elezioni del 2019. MSOI the Post • 11


NORD AMERICA IL DESTINO DEL NAFTA

L’aggressiva campagna di Donald Trump mette a rischio le relazioni con il Canada

Di Erica Ambroggio Il North American Free Trade Agreement (NAFTA) è entrato nella fase di revisione più importante. Nello Studio Ovale della Casa Bianca, lo scorso 27 agosto, Donald Trump ha concretizzato la sua volontà di smantellare parti dell’accordo NAFTA, dando vita ad una nuova serie di negoziati con i partner coinvolti. Stipulato nel 1994, l’accordo che per decenni ha regolato gli scambi intercorrente tra Stati Uniti, Canada e Messico continua a dare spazio all’incertezza per le note trattative sul tema. Quello che, da sempre, è stato definito da Donald Trump “a very bad deal”, sembrerebbe essere quasi giunto al capolinea da lui promesso. Sulla scia del noto slogan, America First, il Presidente statunitense ha infatti portato avanti il proprio progetto di revisione, generando ulteriori tensioni con il vicino canadese. L’intesa preliminare, raggiunta per la revisione delle parti cruciali dell’accordo, coinvolgerebbe, infatti, i soli Stati Uniti e Messico, lasciando così lo storico partner canadese alle prese con trattative dall’esito ancora incerto. In sede d’annuncio, e in diretta telefonica con Donald Trump, il presidente messicano uscente Enrique PeñaNieto si 12 • MSOI the Post

è definito speranzoso nei confronti di un coinvolgimento canadese; un’inclusione che, come ricordato dal presidente Trump, “dovrebbe avvenire molto rapidamente”. Al momento, la denominazione del testo frutto della negoziazione sarebbe United States-Mexico Trade Agreement, con l’industria automobilistica come settore cruciale delle modifiche. Secondo quanto riportato dai funzionari della Casa Bianca, l’intesa imporrebbe la provenienza statunitense o messicana del 75% dei componenti utilizzati per la produzione automobilistica (nella versione trilaterale fissata al 62,5%). In aggiunta, il 40-45% dovrebbe essere ricavato in stabilimenti che garantiscano una remunerazione minima di 16 dollari l’ora. Altri settori coinvolti dalla revisione sarebbero quelli dell’agricoltura e della risoluzione delle controversie, che sono i punti di maggiore attrito tra Canada e Stati Uniti. La ricerca di un’intesa tra Donald Trump e Justin Trudeau soggiace, dunque, a rallentamenti. Superata negativamente, lo scorso 31 agosto, la prima deadline imposta dal presidente Trump, i negoziati proseguono alimentando attrititra le due amministrazioni. Chrystia Fre-

eland, ministro degli Esteri canadese attualmente impegnata nella negoziazione, ha rimarcato la centralità canadese nelle dinamiche commerciali nordamericane; ma ha sottolineato anche la necessità di raggiungere un compromesso che “possa soddisfare tutte le parti in gioco”. Donald Trump, invece, non sembra essere incline a grandi negoziazioni e ha annunciato un termine di 30 giorni per il raggiungimento di un’intesa. Ha dichiarato: “Se non facciamo un accordo giusto per gli Stati Uniti, il Canada sarà fuori. Non c’è alcuna necessità politica di includere il Canada nella versione rinegoziata dell’accordo NAFTA”, appoggiando così l’idea di stipulare un successivo accordo bilaterale con lo Stato canadese. Nel frattempo, l’intesa raggiunta con il Messico dovrà, in ogni caso, superare la prova del Congresso. Anche questo un esito incerto e che potrebbe, in assenza del partner canadese, incontrare ostacoli difficili da superare. “Qualsiasi cosa diversa da un accordo trilaterale non vincerà l’approvazione del Congresso e perderebbe il sostegno economico”, ha dichiarato Thomas J. Donohue, presidente e CEO della Camera di Commercio degli Stati Uniti.


NORD AMERICA L’EREDITÀ POLITICA DI JOHN MCCAIN

“Al mio funerale parlino Obama e Bush, gli uomini che mi hanno sconfitto”

Di Jennifer Sguazzin Lo scorso 24 agosto si è spento, a 81 anni, il senatore Repubblicano John McCain. La sua morte arriva dopo la recente decisione di sospendere le cure contro il tumore al cervello che gli era stato diagnosticato un anno fa. Ai funerali erano presenti gli ex-presidenti degli Stati Uniti George W. Bush e Barack Obama, che durante la funzione lo hanno ricordato come un avversario stimato e un uomo dedito alla propria patria. Grande assente, secondo l’espressa volontà di McCain, Donald Trump, il quale si è limitato twittare un conciso messaggio di condoglianze alla famiglia. Proveniente da una famiglia di ammiragli, McCain si dedicò anch’egli alla vita militare. Nel 1967, durante la guerra in Vietnam, venne catturato e tenuto in prigionia per 6 anni. Definito eroe di guerra per non aver confessato nulla nonostante le torture subite, ricevette le più alte onorificenze. Fu negli anni Ottanta che scoprì la passione per la politica e si distinse fin dal principio per la sua personalità indipendente, anche all’interno del suo stesso partito, tratto che gli costò il soprannome di Maverick, “cane sciolto”.

che, ciò che lo accomunava a McCain era la “fedeltà agli ideali per cui generazioni di americani e immigrati hanno combattuto, manifestato e fatto sacrifici”. L’ex Presidente americano, infine, ha aggiunto: “Gran parte della nostra politica, della nostra vita pubblica, del nostro discorso pubblico, può sembrare piccola, meschina, incastrata in pomposità e insulti, controversie fasulle e indignazione manifesta, è una politica che pretende di essere coraggiosa ma nei fatti nasce dalla paura. John ci ha chiesto di essere meglio di questo”.

Nel 2000 si candidò alla Casa Bianca, correndo per le primarie del Partito Repubblicano, vinte poi da George W. Bush. Nel 2008 riuscì a conquistare la nomination, ma venne battuto poi da Barack Obama. Nonostante McCain e Trump appartenessero allo stesso partito, si sono scontrati più volte con parole talmente dure che hanno portato alla decisione di non volere l’attuale inquilino della Casa Bianca al proprio funerale. Il punto di rottura è avvenuto quando lo scorso anno McCain annunciò il no decisivo alla cancellazione dell’Obamacare, misura tanto voluta da Trump. Ma è il discorso della figlia di McCain, Meghan che, tra le lacrime, ha I funerali sono stati contraddistinti più di ogni altro enfatizzato l’eredida discorsi che, in modo più o meno tà politica del padre in netta conesplicito, hanno condannato le politi- trapposizione con l’attuale ammiche adottate da Donald Trump. Geor- nistrazione Trump. “John McCain ge W. Bush e Barack Obama hanno non sarà caratterizzato dal carcere, definito McCain “un uomo straordi- dalla Marina, dal Senato, dal Partito nario” che li ha resi dei “Presidenti Repubblicano o da uno solo dei fatti migliori”. Obama, inoltre, ha lanciato della sua vita assolutamente straordiun appello chiedendo che la politica naria. John McCain è stato carattestatunitense si alzi di livello, seguen- rizzato dall’amore”. Infine, evocando do l’esempio di McCain, il quale “ca- il noto slogan di Donald Trump ha dipiva che alcuni principi trascendono chiarato: “L’America di John McCain la politica e alcuni valori trascendo- non ha bisogno di tornare grande no il partito”. perché è sempre stata grande”. Di segutio, ha proseguito ricordando che, nonostante le diverse idee politi-

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MEDIO ORIENTE UNA PACE CHE SEMBRA IMPOSSIBILE

La situazione precipita a Tripoli: proclamato lo stato di emergenza

Di Anna Filippucci Se già il summit a Parigi del maggio scorso aveva fatto dubitare della stabilità istituzionale raggiungibile in Libia, gli avvenimenti degli ultimi giorni a Tripoli hanno ulteriormente confermato la precarietà degli accordi presi tra le fazioni rivali. La situazione del paese è caotica: da una parte c’è il governo di accordo nazionale, riconosciuto dall’ONU e con sede a Tripoli, guidato dal primo ministro Fayez al Sarraj; dall’altra, nella regione orientale della Libia, ha sede la fazione opposta, condotta dal generale Khalifa Haftar. Quest’ultima, di fatto, vorrebbe controllare l’intero paese e sfrutta le milizie armate ostili a Serraj per destabilizzarne il fragile governo. In sostanza, la popolazione civile resta ostaggio delle milizie, che combattono dall’uno o l’altro lato senza arrivare ad un compromesso. La confusione degli ultimi giorni a Tripoli non è altro che il risultato di questa instabilità generale. Dal 27 agosto la situazione è precipitata, tanto da spingere Sarraj a proclamare lo stato di emergenza: gli scontri tra le milizie a lui fedeli e la Settima Brigata (alleata di Haftar) hanno infatti provocato la fuga

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di 400 detenuti dal centro di detenzione Ain Zara, oltre 50 vittime, più di 200 feriti e la mobilitazione della Forza Antiterrorismo (una delle milizie più potenti, con sede a Misurata, fedele a Serraj). Una piccola precisazione per quanto riguarda la cosiddetta Settima Brigata è necessaria. Si tratta di una milizia che si è resa autonoma dal governo di accordo nazionale per opporsi alle altre truppe, considerate corrotte. Ad essa, Sarraj ha opposto unità speciali dei Ministeri dell’Interno e della Difesa: le Brigate Rivoluzionarie di Tripoli, la Forza speciale di Dissuasione (Rada), la Brigata Abu Selim e la Brigata Nawasi, che ricevono finanziamenti dall’Ue. La situazione risulta quindi ancora più complessa, data l’instabilità degli schieramenti stessi, che rende difficile qualsiasi accordo duraturo. Allargando l’analisi agli attori coinvolti a livello internazionale, l’Italia e la Francia spiccano per il loro ruolo: da una parte il governo italiano appoggia fermamente Sarraj e prona per una stabilità istituzionale, anche allo scopo di mantenere una partnership sulla gestione del flusso migratorio. Dall’altra il governo di Macron, per quanto infine allineato con la decisione europea di appoggiare il governo di Tripoli, non nasconde una

certa simpatia per la fazione di Haftar, ed è stato per questo accusato di finanziare illecitamente tale parte. Tuttavia, quella tra Italia e Francia non è solo una rivalità politica: i due paesi presentano anche interessi economici configgenti nella regione. Infatti, con l’appoggio a Sarraj, l’ENI (più importante azienda energetica italiana) è, ad oggi, l’unica società internazionale in grado di produrre e distribuire gas e petrolio in Libia. Tale posizione preferenziale dell’Italia verrebbe meno nel caso di una vittoria di Haftar e sarebbe la Francia a guadagnarci in potere e influenza. Le Nazioni Unite continuano i loro sforzi: per questo un Vertice è stato convocato il 4 settembre dall’Unsmil (missione dell’ONU in Libia) tra le varie parti interessate nel conflitto. I negoziati hanno prodotto un accordo che stabilisce una tregua tra le diverse milizie e sottolinea l’importanza del rispetto dei diritti delle popolazioni civili. L’obiettivo della mediazione è di arrivare il più pacificamente possibile alle elezioni di fine 2018, in occasione delle quali si spera in una stabilizzazione definitiva della situazione a Tripoli.


MEDIO ORIENTE IDLIB COME ALEPPO?

Le forze filogovernative preparano l’attacco all’ultima roccaforte dei ribelli. Temuta crisi umanitaria

Di Martina Scarnato La campagna per riprendere Idlib sembra essere cominciata: l’aviazione russa ha infatti bombardato massicciamente la provincia della città, in particolare la parte occidentale, includendo alcuni civili fra le vittime. La campagna via terra potrebbe cominciare quindi nei prossimi giorni. Ad oggi, il presidente Assad avrebbe già raccolto più di centomila uomini, mentre alcune navi russe sono state avvistate nel Mediterraneo. Lo scorso mercoledì 29 agosto, in una conferenza tenutasi a porte chiuse a Mosca, il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, aveva affermato che una buona parte della Siria poteva dirsi libera dai “terroristi”, ossia i ribelli che si oppongono al regime di Damasco, ad eccezione proprio di Idlib, specificando che è un diritto di Assad “espellere i ribelli”. Sulle stesse posizioni anche il ministro della Difesa iraniano Hatami, il quale ha espresso il suo appoggio all’offensiva durante un meeting con Assad. L’importanza di questa offensiva risiederebbe prima di tutto nel fatto che la provincia di Idlib sarebbe l’ultima enclave ancora sotto il controllo dei ribelli dalla conquista della città

nel 2015. Al momento, le forze che controllano la città e dintorni appartengono al gruppo Hay’et Tahrir al-Sham e al Fronte Nazionale per la Liberazione, nato dall’alleanza tra vari gruppi ribelli, tra cui Ahrar al-Sham. Riconquistando Idlib, dunque, Assad riprenderebbe il controllo di quasi tutto il paese per la prima volta dallo scoppio della guerra civile nel 2011. Tuttavia, queste non sono le uniche motivazioni dello scontro: la provincia di Idlib sarebbe infatti cruciale anche da un punto di vista strategico, poiché confina anche con la provincia della Latakia, roccaforte del regime di Damasco, nonché località in cui si trova la Khmeimim Air Base, un’importante base di aviazione militare russa. Durante gli scorsi anni, dunque, i ribelli hanno potuto utilizzare la provincia di Idlib come base per attaccare il regime. Gli Stati Uniti, per mezzo delle parole del segretario di Stato Mike Pompeo e del presidente Donald Trump, hanno cercato di mettere in guardia Damasco, mentre Ankara ha risposto inviando dei rinforzi nella regione di Idlib a sostegno dei ribelli. La Turchia, infatti, sarebbe contraria all’offensiva perché teme una nuova ondata

di profughi. Per questo motivo, sembrerebbe che Ankara avesse chiesto al gruppo Hay’et Tahrir al-Sham di abbandonare la regione senza combattere, ricevendo una risposta negativa. Di seguito, Ankara ha provveduto a inserire il gruppo nella lista delle organizzazioni riconosciute come terroristiche. Intanto l’inviato delle Nazioni Unite, Staffan De Mistura, che già nel 2016 si era detto preoccupato che Idlib potesse divenire “una futura Aleppo”, ha espresso preoccupazioni per quanto concerne l’ipotesi di una probabile crisi umanitaria. Attualmente, ad Idlib e dintorni è stimata la presenza di circa tre milioni di abitanti, molti dei quali sono profughi provenienti da altre regioni della Siria. La priorità, dunque, sarebbe quella di creare un corridoio umanitario per assicurare l’evacuazione dei civili. Per venerdì 7 settembre è previsto un Vertice tra i leader della Siria, Russia, Iran e Turchia, ma l’inizio dell’offensiva appare ormai inevitabile. La guerra civile siriana, in sette anni, ha già fatto registrare centinaia di migliaia di morti e sarebbero circa 12 milioni i profughi, di cui 6,6 milioni interni. MSOI the Post • 15


RUSSIA E BALCANI UNA PRIMAVERA CHE RESISTE La Primavera di Praga e i 50 anni dell’invasione sovietica

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia

Il 2018 segna il 50° anniversario della Primavera di Praga, che in circa 8 mesi segnò in modo notevole e cruento la Cecoslovacchia. La Primavera di Praga si caratterizzò come un periodo molto importante di liberalizzazione politica.

Tutto ebbe inizio il 5 gennaio 1968, quando Alexander Dubček venne eletto segretario generale del PCC. Con Dubček venne avviata una nuova strategia politica, denominata “nuovo corso”, con l’intento di introdurre alcuni elementi democratici in ogni settore, mantenendo tuttavia fedeltà all’Unione Sovietica. Sotto il potere del segretario venne avviato un intenso processo di liberalizzazione: venne abolita la censura e vi furono allentamenti delle restrizioni alla libertà di stampa e di movimento. Inoltre, Dubček ridiede spazio alla componente slovacca del Paese.

A seguito delle sue riforme di stampo liberalista e della sua decisione di decentrare il potere, Dubček perse l’appoggio dei sovietici. Il 23 marzo il segretario si recò a Dresda per un incontro con gli esponenti dell’Europa orientale. Quello che doveva essere un semplice 16 • MSOI the Post

incontro sulla cooperazione economica si trasformò in un vero e proprio processo a Dubček e alle sue proposte riformiste. Venne accusato dal Tribunale dei Cinque (Ungheria, Polonia, Bulgaria, Germania Est e Unione Sovietica) non solo di aver perso completamente il controllo sulla stampa e sul popolo, ma di essere molto vicino ad una controrivoluzione. Dubček non si fece fermare dalle opinioni degli Stati considerati suoi alleati e proseguì con la sua politica. A metà luglio, il segretario fu convocato a Varsavia dal Tribunale dei Cinque per cercare di affrontare il problema in modo diplomatico. A questo incontro Dubček non si presentò; i Cinque si riunirono con il solo scopo di condannare le riforme di Praga, inviando al governo cecoslovacco la celebre Lettera da Varsavia.

Nel frattempo a Praga la primavera era sbocciata. Nascevano le prime libere associazioni, ovunque si respirava speranza e tolleranza. Uno dei momenti simbolici di questa leggerezza fu il corteo del Primo maggio 1968. Per la prima volta nelle strade non ci fu un corteo ordinato di cittadini che marciavano in file, ma un corteo disordinato e spontaneo, uomini e donne riuniti dietro a striscioni con slogan ironici ma allo stesso tempo critici.

A inizio estate la situazione iniziò a cambiare. Le intimidazioni da parte dell’Unione Sovietica cessarono di essere solamente diplomatiche. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto, Anton Tazky, un segretario del Partito comunista cecoslovacco, vide colonne di carri armati, camion e soldati in divise straniere. Dopo poche ore ricevette l’allarme dell’invasione da parte dell’Unione Sovietica e dei quattro paesi alleati del Patto di Varsavia (Bulgaria, Polonia, Ungheria, Germania Est). L’invasione sembrò subito molto ambiziosa, ma allo stesso tempo priva di organizzazione e di un obiettivo finale ben preciso, se non quello di mostrare la forza di Mosca e di reprimere le libertà di Praga.

La primavera non lasciò il posto all’autunno. L’ironia praghese caratterizzò l’intera occupazione sovietica. Le radio clandestine, rimaste l’unico mezzo di comunicazione attivo nel Paese, si trasformarono nello strumento simbolo. Prima che i carri armati entrassero nella città, migliaia di cittadini scesero in strada con latte di vernici per cancellare le indicazioni dei cartelli stradali, con l’obiettivo di sabotare l’arrivo dei carri armati e per creare il caos. Per giorni i carri armati rimasero nelle maggiori città, circondati da scritte su muri, vetrine, slogan che li invitavano ad andarsene e di tornare a casa loro “Idite domol”.


RUSSIA E BALCANI UNA REPUBBLICA SENZA PIÙ CAPO L’uccisione di un leader separatista filo-russo si inserisce nel quadro delle tensioni della guerra in Ucraina

Di Vladimiro Labate

Il 31 agosto scorso, a Donetsk, capoluogo della regione separatista filo-russa del Donbass, è stato ucciso Alexander Zakharchenko. Il quarantaduenne capo dell’autoproclamata “Repubblica Popolare di Donetsk”, ex-ingegnere minerario, si trovava in un bar quando una bomba è esplosa, uccidendo lui e una guardia del corpo e ferendo altri presenti. Zakharchenko, che guidava la RDP dal 2014, è l’ultimo di una serie di leader filo-russi morti in circostanze violente o poco chiare. Negli ultimi tre anni circa una dozzina di combattenti di alto rango sono stati uccisi, mentre altri sono morti in seguito a malattie improvvise.

La morte di Zakharchenko ha innescato una spirale di accuse reciproche tra Russia e Ucraina. Secondo il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, si è trattato di “una provocazione dell’Ucraina per ostacolare l’implementazione degli accordi di Minsk”. Il presidente russo Vladimir Putin, nell’esprimere le proprie condoglianze alla famiglia, ha parlato di “vile assassinio”. Le autorità separatiste hanno annunciato di aver fermato gli “operativi ucraini” autori dell’attacco.

Kiev ha però respinto ogni accusa: i motivi, a suo dire, andrebbero ricercati negli scontri di potere tra i signori della guerra filo-russi oppure nelle scelte del Cremlino, che attraverso i suoi agenti si sarebbe sbarazzato del leader separatista caduto ormai fuori dalle grazie di Mosca.

La scomparsa di Zakharchenko potrebbe comportare un’intensificazione delle operazioni militari al fronte: avvisaglie si sono registrate nell’introduzione dello stato di emergenza nella sedicente “Repubblica di Donetsk”, che ha in aggiunta chiuso i propri confini, e nello spostamento di armamenti verso la prima linea. Tuttavia, si potrebbero registrare dei cambiamenti positivi dovuti alla figura del nuovo capo della RDP, il vice-primo ministro Dmitry Trapeznikov, un personaggio finora non di primo piano, che potrebbe discostarsi dai metodi di Zakharchenko, definito brutale, divisivo e insubordinato.

La tensione rimane comunque alta nelle aree di conflitto. Il 29 agosto scorso i rappresentanti dei separatisti e il Trilater Contact Group, che riunisce Russia, Ucraina e OSCE, hanno concordato un cessate il fuoco per l’inizio

dell’anno scolastico. Tuttavia, gli osservatori dell’OSCE hanno riportato diverse violazioni della tregua, e sia i ribelli filo-russi sia l’esercito ucraino hanno denunciato di aver subito diversi attacchi. Inoltre, a settembre si svolgerà “la più grande esercitazione militare in Russia dal 1981”, come annunciato a fine agosto dal ministro russo della Difesa Sergei Shoigu. Le operazioni, che prendono il nome di Vostok-2018, coinvolgeranno circa 300.000 uomini, più di 1.000 caccia e la Flotta del Nord e quella del Pacifico. Avranno luogo nella Siberia meridionale e nelle regioni orientali del Paese e vedranno la partecipazione di personale cinese e mongolo.

A inizio settembre, invece, inizierà un’esercitazione militare nella provincia di Leopoli, nell’Ucraina occidentale, a cui parteciperanno truppe di 14 Stati, tra cui, oltre all’Ucraina, gli Stati Uniti e altri 9 membri della NATO. Le operazioni coinvolgeranno solamente 2.200 uomini e si terranno fino al 15 settembre. Secondo l’ambasciatrice statunitense a Kiev, Marie Yovanovitch, “i Paesi partecipanti sono solidali con l’Ucraina e sostengono la sua sicurezza, la sua sovranità e la sua integrità territoriale”. La tensione non sembra destinata ad alleggerirsi.

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ASIA E OCEANIA CINA-ITALIA: DALLE IMPRESE AI TITOLI DI STATO

La missione della delegazione italiana guidata dal ministro Tria e dal sottosegretario Geraci

Di Fabrizia Candido Dopo la costituzione della Task Force Cina ad opera del MISE, si è svolta dal 27 agosto al 2 settembre la missione del governo italiano in Cina, guidata dal ministro dell’Economia Tria e dal sottosegretario Geraci. L’obiettivo dichiarato è stato quello di incrementare l’interscambio commerciale, gli investimenti greenfield e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, soprattutto le piccole e medie imprese, sostenendo il Made in Italy e posizionando l’Italia al centro dei grandi progetti cinesi: la Belt and Road Initiative, per cui focali sarebbero il coinvolgimento del porto di Trieste e la cooperazione sino-italiana in Africa volta, tra l’altro, a risolvere il problema dell’immigrazione, ed il Made in China 2025. In questo contesto rientrano dunque il doppio accordo di Cassa Depositi e Prestiti con Intesa Sanpaolo e con Bank of China; il memorandum siglato tra Fincantieri e China State Shipbuilding Corporation , il maggiore conglomerato cantieristico cinese, ed il memorandum tra Snam e State Grid International Development , azienda controllata al 100% da State Grid Corporation of China, la più grande utility energetica al mondo. Infi18 • MSOI the Post

ne, Bankitalia ha annunciato la costituzione di un portafoglio in renminbi, la valuta cinese, per l’acquisto di titoli di Stato cinesi. L’imminente fine del programma di quantitative easing da parte della Banca Centrale Europea ha inoltre determinato un maggiore interesse per la missione italiana in Cina. Sebbene Tria abbia smentito che l’obiettivo della trasferta italiana sia individuare compratori per il debito pubblico, il fatto che il suo primo viaggio all’estero sia stato verso Pechino e non verso Parigi o Berlino, come da tradizione, sembrerebbe implicare il contrario. Tuttavia, nulla è scontato. Nel 2015, si potrebbe ricordare, Varoufakis offrì disperatamente al colosso cinese Cosco Shipping il porto del Pireo, le ferrovie elleniche, la costituzione di un parco industriale a regime fiscale agevolato per investimenti diretti esteri e joint venture industriali, in cambio dell’acquisto cinese di 1,5 miliardi di buoni del tesoro greci e di altri 10 miliardi in obbligazioni. Il patto non andò mai in porto, a causa di una telefonata arrivata a Pechino da Berlino, con la raccomandazione di non concludere accordi con i greci prima che la UE avesse concluso il proprio. La Cina potrebbe dun-

que ritrarsi davanti al rischio di finire al centro di polemiche internazionali, con annesse accuse di interferenze indebite. C’è inoltre chi teme un eventuale trappola del debito per l’Italia, sorte toccata a Sri Lanka, Gibuti, Laos, Kirghizistan, Pakistan e Montenegro. La strategia cinese vede gli investitori passare dalla posizione giuridica di creditore garantito a quella di azionista, negoziando la conversione del proprio credito in quote di controllo delle infrastrutture e diventando così azionisti unici per garantirsi, attraverso un contratto di leasing, l’utilizzo esclusivo. La Cina, quindi, non richiede condizioni e interventi che interferiscano con la politica interna dei singoli Stati, come avveniva per il celebre Washington Consensus, ma, in assenza di qualunque aggiustamento strutturale, sul lungo periodo i Paesi indebitati vedono crescere costantemente il proprio debito e la loro dipendenza economica e politica da Pechino. Infine, resta ambigua la posizione dell’Italia con gli USA: neanche un mese fa il presidente del Consiglio Conte era alla Casa Bianca a ribadire l’alleanza con Trump, nemico commerciale di Xi Jinping.


ASIA E OCEANIA AUSTRALIA: L’AGENDA DI SCOTT MORRISON L’indirizzo politico del Nuovo Primo Ministro australiano all’alba del suo mandato

Di Daniele Carli

Lo scorso 24 agosto, Scott Morrison, politico australiano conosciuto in Italia soprattutto per essere il fautore della politica del “No way” in tema di immigrazione, ha ottenuto, con 45 voti rispetto ai 40 dell’ex ministro degli Interni Peter Dutton, la leadership del partito di governo – il Partito Liberale Australiano – dopo che esso aveva contestualmente sfiduciato il suo predecessore, Malcolm Turnbull.

Di fatto, il cambio della guardia ai vertici è giunto in seguito ad un periodo di lotte intestine all’interno del partito, le quali hanno avuto il loro epilogo nella vittoria dell’ala liberale conservatrice, rappresentata da Morrison, su quella moderata. La prima sfida del nuovo Primo Ministro sarà proprio quella di ridare stabilità al Partito e di conseguenza al governo australiano. Sarà dunque compito di Morrison contrastare l’impietoso trend che ha conosciuto la destituzione di quattro Primi Ministri negli ultimi 10 anni da parte del partito di maggioranza.

In tema di politica estera, il neoPrimo Ministro ha avuto modo

di mostrare il suo allineamento nel corso dell’incontro svoltosi il 31 agosto a Bogor con il presidente indonesiano Joko Widodo. Alla base del summit vi è stata la formalizzazione della Comprehensive Strategic Partnership, una stretta dei due Paesi sul controllo del Mar Cinese Meridionale e dei suoi territori, volta, come recita il documento “ ufficiale, a gara ntire il rispetto dei diritti di tutti gli stati appartenenti alla Association of Southeast Asian Nations”: un chiaro segnale nei confronti delle prevaricazioni della Cina nella regione. Inoltre, oggetto dell’incontro è stato l’avviamento di un’intensa partnership economica che prevede sia un’agevolazione dell’import e dell’export di prodotti ortofrutticoli, caseari e del bestiame, sia una maggiore apertura agli investitori australiani in Indonesia.

Per quanto concerne la questione immigrazione, non dovrebbero verificarsi grandi cambiamenti nella linea di governo. L’Australia da anni applica una legislazione rigidissima, basata sul criterio della Pacific Solution, per il quale chiunque abbia tentato di introdursi illegalmente in Australia senza ottenere lo status di rifugiato politico è destinato ad essere respinto o, in attesa di ulteriori valutazioni, deportato

nei centri di detenzione presso le isole di Manus della Papua Nuova Guinea o nello Stato australiano di Nauru, anche conosciuto come “Guantanamo dell’Oceania”. L’ONU ed Amnesty International hanno infatti più volte denunciato le condizioni disumane in cui versano i migranti detenuti in questi centri. Morrison, ministro per l’Immigrazione da settembre 2013 a dicembre 2014, si ritiene uno dei padri di questa linea dura, considerata, peraltro, un modello di sistema legislativo sull’immigrazione dal ministro degli Interni italiano Matteo Salvini.

Un’ulteriore sfida che attende Morrison, cristiano evangelico, sarà perseguire la politica del “No way” senza entrare in contrasto con la Chiesa cattolica australiana, da anni critica nei confronti del trattamento riservato ai migranti. Inoltre, sarà interessante capire se e quanto il suo orientamento religioso influenzerà le sorti del suo mandato. Fino ad ora, come evidenziato da Hugh White, professore di Studi Strategici alla Australian National University, Morrison ha spesso preferito il pragmatismo politico al fondamentalismo; ne è una riprova l’astensione al momento dell’approvazione della legge a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso. MSOI the Post • 19


AFRICA CINA E AFRICA: UN’AMICIZIA DA 60 MILIONI DI DI DOLLARI Xi Jinping ha incontrato decine di leader africani, un privilegio un tempo riservato alle potenze europee

Di Valentina Rizzo

La Cina continua a scommettere sul continente africano, ampliando e rafforzando il grande progetto di infrastrutture e commercio chiamato Nuova Via della Seta (One Belt One Road), attraverso un piano di finanziamento di ingenti dimensioni. Durante i prossimi tre anni, infatti, i Paesi africani riceveranno 60 milioni di dollari di investimenti, divisi tra linee di credito, prestiti a interessi zero, fondi per lo sviluppo e fondi per l’import dalla Cina.

Ad annunciarlo è stato il presidente cinese Xi Jinping lo scorso 3 settembre, durante l’inaugurazione della settima edizione del Forum on China Africa Cooperation (FOCAC). Sebbene il piano dettagliato degli investimenti sia rimasto vago, Xi ha evidenziato alcune aree che saranno interessate dal programma, come lo sviluppo dell’agricoltura, la protezione ambientale, l’emergenza alimentare e il settore scolastico; non è stato specificato però come gli investimenti verranno distribuiti tra i vari Paesi africani. Il presidente Xi ha inoltre assicurato che la Cina acquisterà 20 • MSOI the Post

più beni dall’Africa e che sosterrà la sua industrializzazione attraverso l’incoraggiamento delle imprese cinesi ad investire maggiormente nel continente nero.

Il Vertice, che quest’anno si è tenuto a Pechino ed ha riunito oltre 50 capi di Stato e di governo africani, ha visto la presenza di rilevanti figure a livello internazionale, tra cui Paul Kagame, l’attuale Presidente dell’Unione Africana (nonché Presidente del Ruanda) e Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, a riprova dell’importanza che le relazioni tra i due continenti hanno assunto a livello globale. Il FOCAC, che si tiene ogni tre anni, nacque per istituzionalizzare le relazioni sino-africane, che rappresentano oggi per il continente nero un’alternativa di cooperazione e collaborazione molto singolare rispetto all’Occidente. La Cina è infatti il primo partner del continente nero: secondo i dati del China-Africa Research Initiative, un istituto di ricerca, dal 2000 al 2016 sono stati erogati 125 miliardi di dollari in finanziamenti. Tale flusso di denaro è di gran lunga superiore a quello erogato ad esempio dall’African Development Bank o dalla Commissione europea.

L’approccio cinese al continente africano è rimasto invariato: nessuna interferenza diretta negli affari interni, costruzione di infrastrutture in cambio dell’accesso alle risorse naturali e la creazione di un mercato regionale per le proprie aziende.

Sono diversi gli analisti che però hanno criticato duramente tali flussi, definendoli come debt traps. Grant Harris, ex consulente del governo statunitense in Africa, sottolinea come gli effetti positivi degli investimenti siano marginali: il fatto che il credito cinese sia facilmente disponibile potrà portare a conseguenze negative sulla sostenibilità del debito nel lungo termine. Inoltre, a destare le maggiori critiche in materia di sostenibilità e di sovranità è il fatto che la Cina possieda rilevanti quote del debito di molti Paesi africani. Se da una parte, dunque, la collaborazione tra Cina e Africa presenta diverse incognite, dall’altra è evidente che il governo di Beijing è diventato in pochi anni un partner strategico del continente e che la loro collaborazione avrà un impatto non solo sullo sviluppo dei Paesi africani stessi, ma anche sul resto del mondo.


AFRICA CIAD: TRA DIFESA DEI CONFINI ED ERRORI DI VALUTAZIONE Civili colpiti per sbaglio, vittime innocenti della superficialità

Di Francesco Tosco In Ciad, il mese di settembre si apre con una tragedia; questa volta, però, il responsabile non sarebbe uno dei molti gruppi ribelli presenti nella zona, ma lo stesso esercito, come riferito e dalle fonti ufficiali ciadian . Nel giorno di sabato 1° settembre, un errore di valutazione ha portato l’aviazione militare ciadiana a bombardare una colonna di autoveicoli che si sono rivelati essere, in un secondo momento, non dei ribelli, ma bensì di alcuni civili che si stavano recando a un matrimonio in un villaggio vicino. Le fonti locali parlano di dozzine di feriti, anche se il bilancio reale delle vittime resta ancora sconosciuto. L’attacco aereo è stato lanciato all’estremo Nord del paese, nella regione del Tibetsi, al confine sud della Libia. Nonostante si fosse trattato di un palese errore, frutto della superficialità di qualcheufficiale, ilbombardamento rientra nel quadro della missione di sicurezza dei confini lanciata dal governo già da metà agosto. L’obiettivo di assicurare un effettivo controllo del territorio per impedire lo sconfinamento di gruppi armati è reso più

arduo dalla naturale disposizione di questa regione. Come un triangolo incastonato tra Libia a nord e Niger ad ovest, grazie alla sua scarsa popolosità, e al territorio più che altro montagnoso e desertico, il Tibetsi sembra essere il luogo ideale per svariati gruppi ribelli ciadiani e non, in cui intrattenere i propri affari e traffici illeciti. L’intera missione di messa in sicurezza del confine Nord del Paese ha avuto inizio a seguito di un attacco portato al cuore della città di Kouri Bougri, l’11 agosto scorso, il giorno della festa della repubblica in Ciad. Nonostante il governo non abbia reso noto il bilancio reale delle vittime di quel giorno, si stima che questo fosse stato il secondo attacco più grave subito dal Paese dal 2009. Gli autori di questo attacco, come rivendicato via video, sono niente meno che il gruppo armato Consiglio di Comando militare per la salvezza della Repubblica (CCMSR). A comparire direttamente in video, è stato il Segretario Generale del gruppo Kingabè Ogouzeimi di Tapol, un ex-ministro in esilio dal 1990. Nel comunicato, la città di Kouri Bougri viene definita come la prima “città

liberata” dalla dittatura che regna in Ciad. Il CCMSR è stato fondato nel 2016 nel sud libico. Sebbene non sia l’unico gruppo ribelle ciadiano stanziato in questa regione, tra tutti è sicuramente il più pericoloso ed il meglio equipaggiato. Tra i suoi ranghi si possono trovare veterani di guerre passate, come i ribelli del Darfur, miliziani senza bandiera e addirittura alcuni disertori delle forze armate ciadiane. Da quando ha iniziato a operare, si stima che il gruppo abbia prestato militanti sotto forma di mercenari sia ai gruppi islamisti sia jihadisti, oltre ad aver partecipato attivamente alla crisi libica e siriana, che proprio in questi giorni si sta riaccendendo. Il governo del Ciad, nonostante abbia riconosciuto l’errore sui civili, continua, con scarsi risultati, il pattugliamento dei propri confini. L’obiettivo è non solo impedire lo sconfinamento del CCMSR, ma anche tagliare il flusso dei proventi dei traffici illeciti che lo stesso gestisce nella regione, sfuggendo alle maglie di sicurezza dell’esercito. MSOI the Post • 21


AMERICA LATINA RAGGIUNTO L’ACCORDO COMMERCIALE TRA USA E MESSICO Un nuovo accordo bilaterale tra USA e Messico potrebbe sostituire il NAFTA

Di Francesca Chiara Lionetti

Dopo un anno di negoziazioni, Stati Uniti e Messico sono giunti a un accordo preliminare che cambierà lo storico NAFTA (Accordo nordamericano per il libero scambio). Lo ha annunciato Donald Trump dal suo studio ovale, in chiamata diretta con il presidente del Messico Enrique Peña Nieto. Siglato nel 1994 dagli allora presidenti degli USA George W. Bush, del Canada Brian Mulroney e del Messico Carlos Salinas de Gortari, il NAFTA aveva lo scopo di regolare il libero scambio commerciale tra i tre Stati. Il nuovo accordo invece, denominato da Trump Accordo di scambio tra Stati Uniti e Messico, non solo è bilaterale (quindi per ora esclude il Canada), ma apporta anche dei cambiamenti al vecchio accordo.

L’accordo bilaterale raggiunto da Donald Trump e Enrique Peña Nieto ha una durata di 16 anni e verrà revisionato ogni 6. Esso apporta alcune modifiche importanti al NAFTA. Per quanto riguarda il commercio delle macchine, il nuovo accordo imporrebbe che almeno il 75% delle componenti delle autovetture vendute nel Nord America debbano essere prodotte in

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Messico o USA (mentre prima era il 62,5%). Inoltre, il 4045% delle componenti delle macchine vendute dovrebbero essere fabbricate da lavoratori pagati almeno 16$ all’ora. L’obiettivo statunitense sarebbe infatti quello di riportare le compagnie automobilistiche che si sono spostate in Messico a produrre di nuovo negli Stati Uniti.

L’accordo, inoltre, si scontra con uno dei principi della creazione del NAFTA: la facilitazione degli scambi commerciali e l’eliminazione delle barriere all’importazione tra questi tre Stati. Il NAFTA, criticato da Trump come uno dei peggiori accordi di sempre, dissuadeva gli Stati dal porre dazi sulle importazioni. Decisi a trovare un nuovo accordo, a partire da maggio, Canada, Messico e States hanno iniziato ad imporne di nuovi: prima gli Stati Uniti su alluminio e acciaio verso moltissimi Paesi (tra cui quello messicano); poi il Messico e il Canada su una varietà di beni statunitensi per un totale di 3$ miliardi per il primo e di 12,5$ miliardi per il secondo.

Se a questo accordo bilaterale si aggiungesse anche il Canada, i tre Stati darebbero vita a un

nuovo NAFTA, un nuovo accordo trilaterale probabilmente con un nuovo nome e con una nuova struttura. Il presidente messicano Peña Nieto è molto favorevole alla partecipazione del Canada all’accordo e spera che questa volta venga dato più spazio al rapporto tra questi due Stati di quanto non venisse fatto con il NAFTA. Trump, invece, pur essendo d’accordo alla partecipazione del Canada, sembra più incline a creare un nuovo accordo bilaterale, in cui il Messico quindi non sarebbe compreso. Proprio al termine della chiamata tra Trump e Nieto, il presidente americano ha affermato che avrebbe subito cominciato le negoziazioni con il presidente canadese Justin Trudeau.

Nonostante la struttura dell’accordo (pur cambiata in alcune sue parti) rimanga comunque quella del NAFTA, questo è un grande successo per la politica di Donald Trump. Questo accordo permette infatti al Presidente americano di mantenere una delle promesse fatte in campagna elettorale. Allo stesso tempo, permette di distogliere l’attenzione dai problemi che sono sorti durante il proprio Governo, tra cui quello della creazione del muro al confine tra USA e Messico, ancora motivo di attrito tra i due Stati.


AMERICA LATINA AUSTERITY ARGENTINA

Tasse e austerità: panacea per l’economia in crisi

Di Davide Mina Lunedì 3 settembre scorso gli argentini non hanno ricevuto notizie rassicuranti. Il presidente Mauricio Macrì si è rivolto direttamente ai concittadini informandoli sul futuro economico del Paese. Secondo il Presidente, per evitare che il Paese segua le orme del Venezuela “occorre imboccare una strada divergente rispetto a quella tradizionale”. L’alternativa di Macrì sta nell’aumento della pressione fiscale e il taglio degli ‘sprechi’. L’obiettivo dichiarato è contenere il deficit e recuperare al più presto la fiducia dei mercati. Più concretamente, gli esportatori si vedranno gravati da un tributo addizionale. Considerando che è stato quello stesso settore ad appoggiare l’elezione di Macrì nel 2015, una decisione del genere può stupire. La ragione è da trovarsi nel fatto che questo settore è uno tra i pochi ad aver tratto reali benefici dalla crisi, avvantaggiati nella loro attività commerciale dal crollo della valuta nazionale. Grazie ad un accordo con il Governo, lo stesso settore aveva ottenuto una diminu-

zione della pressione fiscale, guadagnando competitività grazie alla svalutazione del peso. Il Governo, a sua volta, colpirà maggiormente le esportazioni primarie (mais, soia, grano) con un’imposta di quattro pesos (poco meno di 0,10 centesimi di dollaro) per ogni dollaro esportato, e le altre, relative alla produzione industriale e di servizi, con un’imposta di tre pesos (0,08 centesimi di dollaro) per dollaro. Macrì si è impegnato anche a ridurre i costi operativi del Governo stesso riducendo i Ministeri da 23 a 10. Questa riduzione drastica verrà portata a termine fondendo le funzioni di alcuni Ministeri e declassificandone altri alla categoria di Segreteria. Nonostante il processo, non sono pochi i Ministeri che ne sono usciti rafforzati. È stato assicurato più potere al Ministero delle Finanze; il Ministero della Sicurezza Sociale assumerà le funzioni del ministero della Salute; e i Ministeri della Cultura, della Scienza e della Tecnologia saranno raccolti all’interno del Ministero dell’Educazione. Dujovne, il ministro delle Finanze, ha comunicato apertamente che l’asprezza delle riforme dise-

gnate dal Governo aggraveranno la recessione: la contrazione dell’economia, prevista all’1%, potrebbe adesso duplicarsi. Nonostante ciò, il Ministro promette che, dopo un anno, la stretta sull’economia si allenterà. La sera dopo l’annuncio, Dujovne ha viaggiato negli Stati Uniti per raggiungere la sede del Fondo Monetario Internazionale. L’obiettivo è velocizzare la consegna dei 50 milioni di dollari percui si era raggiunto l’accordo in giugno. La tesi del Governo si può riassumere nel sospetto che il colpevole di tutti i mali dell’economia argentina sia il deficit fiscale. L’Argentina spende più soldi di quel che ne ha, e la sua dipendenza dal credito esterno l’ha posta alla mercé della tempesta finanziaria che in questo periodo sta colpendo i mercati emergenti. Il Presidente argentino ha tenuto per sé la consapevolezza di avere molto da perdere con la crisi. Nell’ottobre del prossimo anno si terranno le elezioni nazionali ed è forte il timore di non riuscire ad affrontare vittoriosamente nuove elezioni. Scommessa su cui avrebbe puntato tutto fino a pochi mesi fa. MSOI the Post • 23


ECONOMIA THE AMAZON EFFECT

I colossi tecnologici sfidano la politica economica mondiale

Di Alberto Mirimin “I colossi tecnologici trasmettono realmente i propri vantaggi ai consumatori?”. Questa è stata la domanda cardine che ha animato l’incontro annuale del Grand Teton, nel Wyoming, tenutosi nei giorni scorsi fra gli esponenti della Federal Reserve e altre personalità di spicco dell’economia statunitense e non solo. Gli analisti sono convenuti sul fatto che negli ultimi anni lo sviluppo delle “superstar firms”, come Amazon, Apple, Google, abbia sempre di più concentrato il potere di mercato nelle loro mani, al punto da sopraffare persino le banche centrali e il loro operato. Infatti, la forte pressione al ribasso sui prezzi al consumo prodotta dallo sviluppo del commercio digitale è la spiegazione che molti economisti hanno dato alla non del tutto soddisfacente risposta fornita dal mercato alle politiche di stimolo economico introdotte dalle maggiori banche centrali nei mesi scorsi. Particolarmente degno di nota è stato l’intervento del professor Alberto Cavallo, della Business School di Harvard, il quale ha parlato di un vero e proprio “Amazon Effect”. In sostanza,

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secondo l’economista, gli algoritmi utilizzati da Amazon (e dagli altri rivenditori online), con i loro prezzi costantemente in grado di cambiare, “potrebbero comportare maggiori fluttuazioni dell’inflazione complessiva in caso di oscillazioni dei valori valutari o di altri shock”. La novità della questione sta proprio nel fatto che, mentre i rivenditori fisici risultavano essere fisiologicamente lenti a cambiare i prezzi, quelli online sono in grado di riflettere i prezzi in modo quasi istantaneo. Per questa ragione, secondo Cavallo, “i prezzi del carburante, le fluttuazioni dei tassi di cambio, o qualsiasi altra forza che incida sui costi che possono entrare negli algoritmi di prezzo utilizzati da queste aziende, hanno maggiori probabilità di avere un impatto più rapido e più ampio sui prezzi al dettaglio rispetto al passato”. Questo discorso assume un peso ancora maggiore in questi giorni, con il colosso di Jeff Bezos entrato a far parte del ristretto club di società con un valore superiore a mille miliardi di dollari. Infatti, negli ultimi mesi le quotazioni di Amazon sono letteralmente volate a Wall Street, fino a raggiungere e supera-

re la fatidica quota dei 2.050,27 dollari per azione e i mille miliardi di capitalizzazione di mercato. Certamente non un risultato frutto del caso, dato che il valore in Borsa della società con sede a Seattle è raddoppiato negli ultimi dodici mesi, con un aumento del valore dell’azienda pari a 435 miliardi di dollari solamente nell’ultimo semestre. Ma Bezos, già riconosciuto come l’uomo più ricco del mondo per distacco, non ha nessuna intenzione di fermarsi. Infatti, Amazon, oltre a essere alla ricerca di una seconda ‘casa’ negli Stati Uniti, si sta affermando anche nel settore della raccolta pubblicitaria online, minacciando il duopolio di Google e Facebook. Come se non bastasse, sta contemporaneamente cercando di consolidare il suo servizio Amazon Prime Video, avviando contatti con Hollywood per finanziare film in cambio di alcune esclusive, sfidando così Netflix. L’avvicinamento al ‘club dei mille miliardi’ da parte di Google e Microsoft, perciò, non preoccupa particolarmente Seattle, ma, piuttosto, dà l’idea generale di quanto, sempre di più, i giganti dell’hi-tech potranno condizionare l’intera economia politica mondiale.


ECONOMIA COCA COLA SFIDA STARBUCKS E ACQUISISCE COSTA COFFEE Con l’ingresso del gruppo nel mercato del caffè, i concorrenti non stanno a guardare

Di Giacomo Robasto

mondo è sempre più ampia.

Il colosso alimentare statunitense Coca Cola prosegue la diversificazione del proprio portafoglio prodotti, lanciata ormai già da qualche anno.

L’affare è stato approvato senza obiezioni dal Consiglio di Amministrazione di Whitbread, che ritiene sia nell’interesse di tutti gli azionisti. Anche perché la catena era stata acquistata nel 1995, per soli 19 milioni di sterline, quando aveva soltanto 39 punti vendita. Ora, Costa ha chiuso il suo bilancio più recente lo scorso 31 marzo evidenziando ricavi per 1.292 miliardi di sterline, rispetto a 1.202 miliardi dell’anno precedente, mentre il margine operativo lordo era pari a 238 milioni di sterline, in aumento di 7 milioni rispetto all’anno precedente. D’altronde, che sia un marchio globale è chiaro: oggi Costa Coffee è presente in 32 Paesi con 3.800 punti vendita.

Ovunque nel mondo, infatti, sta aumentando la domanda di prodotti più salutari della tradizionale bevanda gassata, con minore contenuto di zuccheri e quindi a un più basso indice calorico. Se già nel 2013 il gruppo aveva lanciato Coca Cola Life, bevanda simile a quella tradizionale ma prodotta con il solo utilizzo di dolcificanti naturali (stevia) e disponibile in Italia da dicembre 2017, ora la sua strategia di sviluppo sembra scostarsi dalle bibite tradizionali. Infatti, proprio la scorsa settimana, Coca Cola ha annunciato l’imminente acquisizione della catena di caffetterie britannica Costa Coffee, che mette in evidenza la portata del fenomeno del caffè del mondo. Il gruppo Whitbread, conglomerato britannico attuale proprietario del marchio Costa Coffee, cederà infatti il marchio per 3 miliardi e 900 milioni di sterline, rendendo di fatto la Coca Cola il più grande attore nel mercato britannico ed europeo del caffè, la cui popolarità nel

Come ha sottolineato Alison Brittain, amministratore delegato di Whitbread, nonostante la catena di caffetterie sia stata oggetto di interesse da parte di numerosi acquirenti, Coca Cola è stato l’unico gruppo intenzionato a cospicui investimenti di lungo periodo, che estenderanno la rete di vendita Costa non solo in Europa, ma anche nei mercati asiatici. È proprio in Asia, infatti, che è prevista nei prossimi anni la

crescita maggiore del mercato del caffè, con prospettive interessanti sia per consumatori, sia per gli investitori. Se, da una parte, si prevede che in Europa i consumi di caffè aumenteranno in media del 6% all’anno nei prossimi 10 anni, dall’altra essi registreranno una crescita media annua del 15% sui mercati asiatici, dove Starbucks Coffee è a oggi l’unico grande marchio presente in alcuni Paesi della regione, tra i quali Malesia e Singapore. Proprio in questa settimana, inoltre, Starbucks Coffee si è affacciata sul mercato italiano, con l’apertura al pubblico del suo store da oltre 2.400 metri quadri nel centro di Milano. L’ingresso in Italia di una grande catena del caffè, annunciato già l’anno scorso, rappresenta una sfida inedita nel Paese patria dell’espresso che potrà essere vinta grazie all’aiuto dei giovanissimi e dei milioni di turisti che transitano ogni anno proprio dall’Italia e che in molti casi sono già estimatori del marchio Starbucks. In Italia, invece, il marchio Costa Coffee non è ancora presente, ma non è detto che proprio grazie al sostegno della Coca Cola possa arrivare a breve. Di certo c’è solo che il caffè piace ed è sempre più di moda.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO CESSATE IL FUOCO A TRIPOLI Il bilancio è di 50 morti e 130 feriti

Di Debora Cavallo Una guerra che dura da circa sette anni, quella in Libia. Il 10 dicembre erano previste le elezioni che lasciavano intravedere un raggio di speranza, ora sono nuovamente in dubbio. Il 27 agosto scorso, infatti, sono riesplosi gli scontri tra diversi gruppi armati, che hanno rigettato il paese nel caos. Il bilancio è di 50 morti e 130 feriti in soli 8 giorni. Lo riferisce la Missione dell’Onu in Libia, Unsmil, in una nota. Le Nazioni Unite stanno provando a mediare, ma si combatte ancora a Tripoli. Nelle passate epoche storiche si è visto, spesso, come la Guerra coinvolga massicciamente la popolazione civile. A fronte di queste esperienze è stata ratificata la Quarta Convenzione di Ginevra con la ratio di elevare il livello di protezione della popolazione civile. L’8 giugno 1977, inoltre, sono stati ratificati due protocolli aggiuntivi. Il Primo Protocollo aggiuntivo, all’art. 48, intitolato “regola fondamentale”, specifica come il principio di distinzione tra la popolazione civile e i combattenti sia un dovere durante un attacco armato. Per assicurare lo scopo di protezione, viene indicata all’art. 50 la definizione di popolazio26 • MSOI the Post

ne civile. Una definizione “in negativo” in quanto stabilisce che quest’ultima è costituita da: “ogni persona che non appartiene a una delle categorie indicate dall’art.4 della Terza Convenzione di Ginevra”, aggiungendo, inoltre, un elemento importante ai fini del principio di distinzione: “in caso di dubbio detta persona, sarà considerata civile”. Il Consiglio Presidenziale del primo ministro Fayez al Sarraj ha dato ordine alla milizia Forza Anti Terrorismo di Misurata, guidata dal generale Mohammed Al Zain, di entrare nella capitale per organizzare un nuovo cessate il fuoco e far terminare le violenze nella periferia sud. Le violenze sono riprese quando una delle più potenti milizie delle oltre cento che si contendono il Paese – la cosiddetta Settima Brigata, basata a Tarhouma – ha lanciato un’offensiva contro altre milizie rivali della capitale della Libia: Tripoli. La Libia, infatti, è attualmente divisa tra due Governi rivali: uno stanziato a Tripoli e l’altro nella città orientale di Tobruk. Il Paese nordafricano è precipitato nel caos da quando il dittatore di lunga data Mohamed Gheddafi è stato rovesciato e ucciso in una rivolta nel 2011 che si è trasformata successivamen-

tein un conflitto armato. La Settima Brigata, che riunisce tribù vicine all’ex regime di Gheddafi ora legate al maresciallo Khalifa Haftar, avanza verso il centro della città. Il leader della Brigata, Abdel Rahim Al Kani, ha affermato che “continuerà a combattere fino a quando le milizie armate non lasceranno la capitale e la sicurezza sarà ripristinata”. Le milizie sono riuscite in questi giorni ad assumere il controllo di alcuni quartieri situati nella zona sud di Tripoli. La Settima Brigata ha in mano anche le strade che conducono verso l’aeroporto, chiuso da giorni a causa dei violenti scontri. Il Governo di Accordo Nazionale della Libia di alSarraj, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, è sotto assedio. Giovedì 30 agosto l’esecutivo aveva dichiarato di avere raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, ma la Settima Brigata ha negato la firma di qualsiasi intesa.“Sotto gli auspici” dell’inviato speciale dell’ONU in Libia, Ghassan Salamé, “un accordo per il cessate il fuoco è stato raggiunto e firmato oggi per porre fine a tutte le ostilità, proteggere i civili, salvaguardare la proprietà pubblica e privata e riaprire l’aeroporto di Mitiga”: lo riporta un tweet dell’Unsmil, sintetizzando l’intesa raggiunta fra le milizie.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO L’ERA DEI ROBOT

La responsabilità giuridica degli agenti artificiali

Di Stella Spatafora Abbiamo sempre meno a che fare con macchine e sempre più con agenti artificiali e robot. L’agente artificiale è un sistema dotato di intelligenza artificiale in grado di interagire, adattarsi all’ambiente e di modificarsi indipendentemente al proprio ambiente, al punto tale da riuscire a prendere decisioni in completa autonomia. Interattività, adattatività e autonomia sono i tre criteri fondamentali per identificare un agente artificiale. Dal punto di visita giuridico emerge il problema della personalità giuridica. Se da un lato, un agente artificiale non può più essere definito mero oggetto nelle mani dell’uomo, dall’altro, occorre capire se questi debbano essere considerati soggetti di diritto. Nel 2016 la questione della personalità giuridica dei robot è stata portata in auge dal Parlamento europeo, invitando la Commissione europea a porsi il problema di una electronic legal personhood. In effetti, a livello internazionale esistono già diversi casi in cui agenti artificiali abbiano raggiunto posizioni simili ai soggetti naturali di diritto. Ad esempio, nell’ottobre 2017, l’Arabia Saudita è stato il primo Stato

a riconoscere la cittadinanza all’androide Sophia, sollevando altresì questioni morali, legate al fatto che l’Arabia Saudita abbia concesso ad un agente artificiale più diritti di quelli riconosciuti generalmente alle donne. La questione della personalità giuridica dei robot chiama in causa il tema della responsabilità giuridica: nel caso in cui l’agente artificiale causi un danno sorge spontaneo chiedersi a chi debba essere riconosciuta la responsabilità. La Direttiva 85/347/CEE sul danno da prodotto difettoso non contiene risposte esaustive. L’agente artificiale è considerato qualcosa di diverso da un mero oggetto, soprattutto per via dell’autonomia con cui il robot riesce ad agire, dunque, il fatto che il comportamento di una macchina dotata di intelligenza artificiale non sia del tutto prevedibile dall’uomo crea importanti questioni di imputabilità. A fronte di ciò è opportuno precisare che, sebbene la capacità di un agente robotico di prendere decisioni sembri essere il discrimine tra oggetto e agente, l’azione operata da un robot non è causata da emozioni, desideri o da una volontà sentimentale di comportarsi in un determinato modo. Dunque, nel caso in cui un’a-

zione dannosa emerga in tale contesto, come affrontare il problema dell’imputabilità? La responsabilità del robot dovrà ricadere sulla persona che ha permesso al robot di agire in quel modo, oppure occorre considerare l’imprevedibilità del robot e quindi l’autonomia di quella specifica azione? A oggi si richiede uno sforzo normativo a livello internazionale, poiché manca ancora una Convenzione ONU per disciplinare e regolaregli agenti artificiali. Nello specifico, la robotica militare necessita di una revisione normativa sia dello ius in bello, sia dello ius ad bellum. Per ciò che riguarda la responsabilità civile extracontrattuale si è suggerito, invece, di introdurre meccanismi assicurativi, sistemi di autenticazione e forme di responsabilità limitata, quest’ultima prendendo spuntodall’antico istituto romano del peculium (la somma di denaro o la proprietà che il capofamiglia concedeva allo schiavo). Sicuramente i robot entreranno sempre più a fare parte della società, integrandosi e interagendo con l’essere umano, questo scenario rende doveroso riconsiderare la figura dell’agente artificiale, creando un quadro normativo di riferimento per regolarne efficacemente i rapporti con l’uomo.

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