Msoi thePost Numero 111

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino).

Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale.

M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite.

Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto.

M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva.

Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli.

La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità.

Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi.

La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto.

Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione.

Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

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N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni , Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Lucky Dalena, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Elena Amici, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolino, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Daniele Carli, Debora Cavallo, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria di Donato,Tommaso Ellena, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Lara Amelie Isai-Kopp, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Nina, Pierre Clement Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Barbara Polin, Jessica Prieto, Luca Rebolino, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Federica Sanna, Martina Santi, Martina Scarnato, Edoardo Schiesari, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner.

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EUROPA L’AFFAIRE BENALLA

Lo scandalo del bodyguard di Macron fa tremare l’Eliseo

Di Simone Massarenti La Francia è scossa da un nuovo scandalo politico.

Dopo i violenti scontri di Parigi in occasione della festa dei lavoratori del 1 maggio scorso, un video, pubblicato da HuffPost, ha confermato una serie di indiscrezioni già trascritte dal quotidiano Le Monde: uno dei collaboratori del Presidente Emmanuel Macron, la guardia del corpo Alexandre Benalla, è stato ripreso mentre malmena violentemente un ragazzo e una ragazza, rei di essere partecipanti al corteo.

Le immagini mostrano Benalla, con un casco antisommossa, che percuote e picchia violentemente un manifestante e, successivamente, una ragazza, addirittura messa spalle al muro dal bodyguard. Tutto ciò ha spinto l’Eliseo a comunicare celermente il licenziamento del collaboratore, ma l’eco della vicenda sembra ad oggi non essersi ancora placato.

Dalle successive indagini giornalistiche, portate avanti dalle testate nazionali, è emerso che il Ministro degli Interni francese, il Generale Gérard Collomb, era a conoscenza dei fatti. Nonostante la pronta smentita da parte del Ministro, la commissione d’inchiesta dell’Assemblea Nazionale ha

voluto comunque interrogare il Generale sui fatti.

A dispetto dell’acclarata innocenza del Ministro, secondo il quotidiano Le Monde i membri dello staff ministeriale erano a conoscenza dello stretto rapporto fra Benalla e il Presidente Macron, soprattutto dopo il grande sostegno alla campagna presidenziale dello scorso anno. Unitamente a ciò, risulta evidente come l’identità della guardia del corpo non potesse essere completamente sconosciuta, data l’insistenza per il porto d’armi da parte di Benalla, confermata anche dal ministro Collomb.

La cosa più grave risulta però essere l’omertà del Ministro di fronte alla commissione: secondo quanto riportato dal quotidiano francese, il Ministro ha evitato di rispondere a molte domande specifiche affermando che “la responsabilità di agire era sia a carico del gabinetto del Presidente, sia della prefettura, destinatari delle informazioni e dei video”. Nonostante questa linea di difesa, appare però chiaro come la polizia non sia intervenuta nel fermare l’azione criminosa di Benalla, lasciando nell’occhio del ciclone la gestione del dicastero.

Tutto ciò ha avuto ripercussioni sulla stabilità dell’esecutivo

del presidente Emmanuel Macron, essendo direttamente coinvolto uno dei suoi consiglieri. Secondo quanto riportato dal quotidiano inglese The Guardian, Macron avrebbe ordinato un rimescolamento dell’ufficio di presidenza per fronteggiare lo scandalo, decisione maturata dopo un incontro con alcuni membri del suo governo nella giornata di domenica. Il Presidente francese ha riconosciuto l’esistenza di malfunzionamenti all’Eliseo, chiedendo al segretario generale Alexis Kohler di avanzare proposte per la riorganizzazione interna.

Durissime le critiche da parte dell’opposizione, con la leader del Front National Marine Le Pen che ha affermato che “se Macron non spiegherà il suo rapporto con Benalla, da Benalla Affaire si passerà ad un Macron Affaire”.

Intanto in questi giorni è maturata la prima vera ripercussione politica dello scandalo. La discussione della riforma costituzionale, caposaldo della politica di En Marche durante la campagna elettorale, è stata rinviata a dopo l’estate in quanto il Parlamento è al momento monopolizzato dalla vicenda Benalla.

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EUROPA LA COMMISSIONE RIMPROVERA L’ITALIA E ABOLISCE L’IRBA Abolita la tassa regionale sulla benzina, ma l’UE muove critiche anche sull’Iva e sulla sicurezza stradale

Di Edoardo Schiesari L’Unione Europea ha invitato l’Italia ad abolire l’IRBA, la tassa regionale sulla benzina per autotrazione, “in quanto priva di finalità specifiche al di fuori dell’esigenza di fare cassa” e perciò contraria alla disciplina europea sul regime delle accise.

L’IRBA è entrata in vigore soltanto nel 2012 e corrisponde a una tassa di 2 centesimi per ogni litro di carburante erogato. Il decreto legislativo 398 del 1990 stabilisce che “le Regioni a statuto ordinario hanno facoltà di istituire con proprie leggi un’imposta regionale sulla benzina per autotrazione”.

Successivamente, sono stati modificati i poteri delle Regioni a seguito della riforma del titolo V della Costituzione o della legge Calderoli del 2009. Perfino il governo Monti nel 2012 fece ricorso contro la legge regionale del Lazio che sanciva regole in materia di IRBA. Venne chiesto allora di “dichiarare costituzionalmente illegittimi e conseguentemente annullare” articoli specifici della legge, quella stessa legge che Bruxelles oggi vuole abolire completamente.

Il prezzo della benzina in Italia continua a crescere di 4 • MSOI the Post

anno in anno, tanto che soltanto nei primi sei mesi del 2018 la spesa si è attestata a 28,4 miliardi di euro: 1,6 in più rispetto allo scorso anno.

All’interno dell’Unione Europea, solo in Grecia e nei Paesi Bassi il costo della benzina è più alto.

Questo perché al consumatore, ogni volta che fa rifornimento, vengono imputati non solo il costo del carburante, l’Iva (al 22%), ma anche un numero altissimo di accise (le quote dovute allo Stato come imposte sulla fabbricazione e sulla vendita dei prodotti destinati al consumo): ben 17. Alcune, anche se molto basse, sono tuttora ricollegate al finanziamento della crisi di Suez del 1956, o addirittura alla guerra d’Etiopia del 1935.

Una riduzione dei costi eccessivi di trasporto e carburante è stato oggetto anche dell’ultima campagna elettorale. La Lega, rappresentata dall’allora candidato Premier Matteo Salvini, aveva promesso un taglio drastico delle accise “già alla prima seduta del Consiglio dei Ministri”, se avesse ottenuto i voti necessari per governare.

La Commissione contesta all’Italia anche irregolarità per quanto riguarda l’Iva: è stata avviata una procedura di richiamo per le condizioni aggiuntive

che l’Italia applica in modo da rendere esenti da Iva i servizi riguardanti l’importazione dei beni. Per la legge italiana devono essere assoggettati a Iva in dogana, azione però contraria alla direttiva europea sull’Iva varata nel 2006.

Ci sono altre tre procedure avviate contro l’Italia: una riguarda i ritardi nella realizzazione delle reti di smaltimento delle acque di scarico, un’altra invece è stata avviata per “non aver garantito serbatoi idonei per lo stoccaggio di gas Gpl portati sul mercato o in servizio” (a causa dei continui dissidi tra enti locali che litigano tra di loro per evitare di accaparrarsi l’onere di ospitare i siti di stoccaggio). L’Italia viene inoltre accusata di aver consentito a vecchi serbatoi di stoccaggio, destinati originariamente ad essere usati in superficie, di essere modificati per essere usati come serbatoi ad uso sotterraneo.

L’ultima procedura di richiamo, in ottemperanza delle nuove norme appena varate col “Third mobility package”, è stata invece richiesta per “non aver assolto l’obbligo di dare agli utenti informazioni minime affidabili e valide per tuttisulla viabilità connesse alla sicurezza stradale”.

NORD AMERICA TRUMP PERSEGUE LA LOGICA FALLACE DEL PROTEZIONISMO La nuova politica commerciale deteriora i rapporti con l’estero

Di Martina Santi Da alcuni mesi, il presidente Donald Trump ha posto al centro di molti dei suoi discorsi l’avvio di una politica protezionista, con l’introduzione di alcuni dazi sulle importazioni.

Personalismo, America First e unipolarismo sono ormai la chiave di lettura di questa amministrazione, che pare essersi dimenticata del concetto di partnership internazionale.

In nome dell’unilateralismo trumpiano, Washington non solo ha ritirato gli Stati Uniti dal tavolo di importanti Organizzazioni Internazionali, guastando i rapporti diplomatici tra il Paese e il resto del mondo, ma ha inoltre annunciato il perseguimento di una nuova politica economica contro l’interscambio commerciale.

Le giustificazioni di una strategia protezionista risiedono nella lotta alla disoccupazione nazionale – in parte dovuta alla più conveniente manodopera straniera – e nella tutela del mercato interno. In effetti, favorendo la sostituzione delle importazioni con un incremento della produzione locale, il protezionismo sostiene l’occupazione e l’economia domestica.

Tali risultati vanno, tuttavia, let-

ti alla luce dei costi che, logicamente, graveranno su altri Paesi.

La premessa di una politica protezionista è, infatti, quella per cui tutti i vantaggi a essa legati possono essere ottenuti nella consapevolezza che altri Paesi ne dovranno assorbire i costi. In altre parole, il Presidente Trump avrebbe innescato una politica del beggar-thy-neighbour (letteralmente, ‘ruba al tuo vicino’).

Il rischio maggiore derivante dal perseguimento di una simile politica è che, in tempi brevi, i Paesi che registreranno un peggioramento nella propria bilancia dei pagamenti a causa della chiusura commerciale degli Stati Uniti adotteranno a loro volta atteggiamenti ritorsivi nei confronti di Washington. È questa la ‘falla nel sistema’ che spinge la maggior parte degli Stati a operare secondo le leggi del liberalismo economico, il quale permette di registrare grandi vantaggi dallo scambio.

Il protezionismo, al contrario, compromettendo le relazioni economico-commerciali tra i Paesi, rischia di portare a quella che oggi molti descrivono come una vera e propria‘guerra commerciale’.

Attualmente, la linea dura del presidente Trump sta colpendo

sia prodotti minori e marginali, sia importanti risorse come l’acciaio e l’alluminio, con forti ripercussioni sullo stesso tessuto imprenditoriale statunitense, specie su quelle aziende che dipendono dalle forniture di questi materiali.

Dopo che gli Stati Uniti hanno imposto dazi del 25% e del 10% rispettivamente su acciaio e alluminio canadesi, Ottawa, a sua volta, ha annunciato restrizioni ad alcuni prodotti tipici statunitensi. L’esportazione di questi metalli frutta oltre 6 miliardi al Canada, che ora rischia di veder deteriorata la propria economia nel giro di pochi anni.

Un’analisi condotta da Scotiabank ha, infatti, documentato che il perseguimento di una strategia protezionista da parte degli Stati Uniti avrà esisti negativi sulla crescita economica dei partner NAFTA. Una notizia che appare ancora più allarmante se letta alla luce della storica alleanza commerciale tra i due Paesi.

La politica del beggar-thy-neighbour sta, infine, mostrando già i primi frutti: la Cina – la nazione più colpita dai dazi statunitensi, allo scopo di frenarne la sovrapproduzione – ha reso noto che risponderà alle restrizioni statunitensi nella stessa misura.

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NORD AMERICA SUMMIT NATO TRA TENSIONI E RIAVVICINAMENTI

Trump fa pressione sugli alleati per aumentare gli investimenti nella difesa comune

Di Jennifer Sguazzin In occasione del 29° Summit NATO svoltosi l’11 e il 12 luglio scorso, i capi di Stato e di governo dei 29 Paesi membri si sono incontrati a Bruxelles.

Il Vertice è stato contraddistinto dai tweet di Donald Trump, il quale ha espresso, ancor prima dell’inizio, la propria insoddisfazione circa l’esiguità delle spese destinate alla difesa da parte degli alleati. Dichiarazioni accompagnate dalla dura critica nei confronti degli accordi commerciali sulla fornitura di gas conclusi tra la Germania e la Russia.

L’incontro si è concluso con una Dichiarazione congiunta degli Alleati, la quale affronta temi ‘tradizionali’ come l’impegno in Afghanistan, che rimane in agenda fino al 2024, il rafforzamento della partnership con l’UE e la relazione con la Russia.

Quest’ultimo punto è senza dubbio uno dei più delicati visti i numerosi momenti di tensione, dalle vicende ucraine alla recente espulsione di diplomatici russi in seguito al caso Skripal.

La NATO, nell’ottica del dualtrack approach, ha deciso di mantenere un approccio duro di deterrenza e difesa associato al dialogo politico e diplomatico al fine di prevenire ulteriori crisi. Il Segretario Generale NATO 6 • MSOI the Post

Stoltenberg non si è mostrato preoccupato per il meeting tra Putin e Trump, ritenendo la vicinanza di Trump alla Russia in linea con la politica NATO. Grande attenzione è stata prestata alla lotta al terrorismo, in particolare ai cyberattacchi e alla stabilizzazione dei confini, con una preferenza per missioni in loco. Il primo ministro canadese Justin Trudeau ha annunciato il lancio di una nuova missione di addestramento in Iraq a guida canadese: “Siamo orgogliosi di dirigere la missione in Iraq e di lavorare al fianco dei nostri Alleati e del governo iracheno per aiutare questo Paese nella transizione verso la pace e la stabilità”.

In seguito alle pressioni statunitensi, il burden sharing (l’equa ripartizione degli oneri) è stato senza dubbio l’oggetto di maggior discussione durante il summit. “Gli Stati Uniti spendono molto più di ogni altro Paese per proteggerli. Non è giusto per i nostri contribuenti. E poi perdiamo 151 miliardi di dollari nel commercio con l’UE”. Queste le parole di Trump, che ha ribadito che Washington non potrà farsi nuovamente carico dei costi della difesa se gli alleati non aumenteranno la spesa militare.

Dopo aver chiesto un aumento

al 4% del PIL, Trump è tornato su un più realistico 2% entro il 2024, già previsto nel precedente Summit. I Paesi europei che hanno già raggiunto tale quota sono la Grecia (2,4%), il Regno Unito (2,1%) e l’Estonia (2,1%), a fronte del contributo statunitense pari al 3,6% del PIL. Berlino, accusata da Trump di essere prigioniera della Russia per i suoi fabbisogni energetici e per l’acquisto di gas mentre “gli Stati Uniti pagano per la sua difesa”, elargisce l’1,2% del PIL, sebbene figuri quale secondo contribuente per quanto riguarda il budget civile e militare.

Il Vertice NATO è stato, dunque, teatro delle divergenze che stanno emergendo nel rapporto tra Stati Uniti ed Europa.

Trump, con i toni duri che lo contraddistinguono, è riuscito a focalizzare tutta l’attenzione sul tema che aveva più a cuore. Il mutato atteggiamento americano nei confronti dei suoi alleati storici sta, però, destando grande preoccupazione non solo in Europa, ma anche oltreoceano.

L’Europa deve prendere una decisione: rimanere in balia di Trump o approfittare del cambiamento geopolitico in corso per avere un ruolo più da protagonista.

MEDIO ORIENTE LA SVOLTA DEL QATAR

La sentenza provvisoria della Corte de L’Aia che potrebbe cambiare le sorti dei qatarioti

Di Andrea Daidone Lo scorso 15 giugno, il Qatar ha presentato un ricorso presso l’Alta Corte delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia, per denunciare quella che Doha ritiene essere un’intollerabile violazione dei diritti dei qatarioti da parte degli Emirati Arabi. Questi, infatti, nel giugno 2017, hanno imposto un embargo di terra, mare e aria ai danni del Qatar.

L’isolamento della piccola penisola ha inevitabilmente avuto pesanti conseguenze per i suoi cittadini, che si sono visti espulsi dai Paesi del Golfo in cui risiedevano, privati delle loro proprietà, dei loro diritti e, sopratutto, di qualsiasi forma di tutela legale.

Sebbene questi comportamenti vìolino le disposizioni della CERD (Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione Razziale), tra gli Stati che hanno partecipato all’embargo solo gli Emirati Arabi hanno sottoscritto l’adesione a quel documento, quindi è solo verso di loro che possono indirizzarsi le rivendicazioni di Doha.

La sentenza dei Supremi Giudici de L’Aia è arrivata lo scorso lunedì, decretando che le rivendicazioni di Doha debbono trovare

accoglimento e che le decisioni prese degli Emirati sono configurabili come atti di discriminazione sulla base della nazionalità e, pertanto, contrari alle disposizioni CERD, cui Abu Dhabi è legata.

Nello specifico, la sentenza impone la riunificazione delle famiglie che erano state separate, la garanzia del diritto a terminare gli studi per tutti gli studenti qatarioti che avevano iniziato un percorso formativo negli Emirati, così come il loro diritto a mantenere i propri voti, per poter completare i loro studi altrove. Abu Dhabi deve inoltre permettere a tutti i qatarioti espulsi e privati delle loro proprietà di poter ritornare in possesso delle medesime e di poter accedere ai servizi di tutela legale, nonché il diritto a ricorrere presso un giudice emiratènse.

La Corte ha inoltre tenuto a precisare che il procedimento contro Abu Dhabi non è ancora esaurito: questa, infatti, rappresenta solo una sentenza provvisoria per far fronte ad una situazione di violazione del diritto internazionale che “potrebbe produrre effetti a lungo termine e [che] sta provocando sofferenza psicologica alle persone”.

Si stima, infatti, che il numero di persone colpite dall’embargo sia di 13.000 e che, dal giugno

2017, ci siano stati 4105 casi di violazione dei diritti umani e 646 casi di violazione dell’unità famigliare, secondo i dati del Qatar’s National Human Rights Committee.

La notizia è stata accolta con giubilo dal governo della piccola penisola persica. Per dirla con le parole di Lulwa alKhater, portavoce del Ministro degli Esteri: “Questo è solo il primo passo lungo la strada per difendere i nostri diritti, ma allo stesso tempo questo manda un primo forte segnale che non ci sarà tolleranza per quei paesi che prendono misure arbitrarie contro i qatarioti ».

Il vento della speranza soffia poderoso fra i grattacieli di Doha.

Ma andrà davvero tutto come stabilito?

Attualmente è ancora troppo presto per dire se Abu Dhabi protesterà contro la decisione della Corte. Tuttavia, ci sono tre indiscutibili certezze.

La prima è che, essendo in vigore la CERD, gli Emirati sono legalmente obbligati a rispettarne le disposizioni.

La seconda è che il procedimento è ancora in corso e la sentenza definitiva è ancora lungi dal giungere.

La terza (e più importante) è che le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia sono imperative, vincolanti in tutti i loro punti ed insindacabili.

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MEDIO ORIENTE “UN MOMENTO CRUCIALE PER LO STATO DI ISRAELE” Knesset approva la legge sullo Stato-nazione degli ebrei: addio all’utopia di uno Stato bi-nazionale

Di Lorenzo Gilardetti Il 19 luglio scorso la Knesset ha approvato una legge controversa, che ha fatto discutere dentro e fuori i confini nazionali. La ribattezzata “Legge sullo Statonazione degli ebrei” segna, come ha detto Netanyahu, “un momento cruciale” per la politica israeliana.

Le intenzioni sembrano chiare già a partire dall’incipit del testo: “La terra d’Israele è la patria storica del popolo ebraico, nella quale è stato fondato lo Stato d’Israele. Lo Stato d’Israele è la casa nazionale del popolo ebraico, nella quale esso soddisfa il proprio diritto naturale, culturale, religioso e storico di autodeterminazione. Il diritto di esercitarlo nello Stato d’Israele è unicamente riconosciuto al popolo ebraico”.

La lunga gestazione (8 sono state infatti le ore di discussione) ha decretato l’approvazione con 62 voti favorevoli, 55 contrari e 2 astenuti, nonostante non siano mancate esternazioni di disapprovazione non solo dalla minoranza (Lista araba unita, che ha parlato di “apartheid”, e Partito comunista su tutti), ma anche da importanti esponenti della destra come Benny Begin (di Likud, partito di maggioranza), che si è astenuto, e il presidente dello 8 • MSOI the Post

Stato d’Israele Reuven Rivlin (corrente liberale di Likud).

Questa legge fondamentale (cioè che si differenzia da una legge normale perché ha valore costituzionale), infatti, è strutturata per sancire di fatto che il Paese ha una maggioranza ebraica e una minoranza araba. In questo senso, sono due in particolare i commi che hanno fatto discutere: quello che declassa la lingua araba dallo statuto di co-ufficialità (comma 4), e quello riguardante gli insediamenti (comma 8).

In un Paese come quello israeliano, comprendente il 20% di popolazione araba (prevalentemente di religione musulmana, con minoranze cristiane), la lingua di più di un milione e mezzo di persone sarà considerata di minoranza, con status speciale regolato da una legge normale.

Nonostante il testo rispecchi la tendenza dell’uso burocratico e amministrativo a preferire la lingua ebraica rispetto a quella araba, la conseguenza sarà un mancato insegnamento nelle scuole e un’emarginazione di una parte non colta di popolazione araba.

Forte anche della decisione del presidente statunitense Trump di spostare l’ambasciata USA

in Israele a Gerusalemme, la legge dichiara l’intera città (per il 36% di popolazione araba) capitale del Paese, affiancando ufficialmente il calendario ebraico a quello gregoriano.

Modificata invece la parte di testo che inizialmente prevedeva l’istituzione di comunità residenziali sulla base dell’identità religiosa o nazionale: le critiche ferventi interne alla Knesset hanno portato a una più mite dichiarazione di riconoscimento e difesa del valore nazionale degli insediamenti delle comunità ebraiche, che desta comunque preoccupazione per i possibili sviluppi futuri quando i riflettori si saranno spenti.

Il capo del governo Netanyahu, che negli stessi giorni ha anche ricevuto e omaggiato il premier nazionalista ungherese Orban (deferito dalla Corte di Giustizia di Bruxelles per le politiche xenofobe), ha espresso soddisfazione: “la legge mette sullo stesso piano i princìpi ebraici e i valori democratici”. È più che mai chiaro che l’utopia di uno S tato bi-nazionale privo di discriminazioni per etnie o religioni è per il momento destinata a rimanere tale.

RUSSIA E BALCANI IL SUMMIT DI HELSINKI AVVIA LA NUOVA DISTENSIONE?

L’incontro tra Putin e Trump ha riavvicinato i due Paesi, ma non ha generato grandi conseguenze

Di Amedeo Amoretti Il 16 luglio scorso, Vladimir Putin e Donald Trump si sono incontrati a Helsinki in quello che ormai è diventato un summit storico. L’incontro non ha prodotto nessun accordo scritto, ma la dichiarazione del Presidente USA, durante la conferenza ufficiale, è eloquente: “le nostre relazioni non sono mai state peggiori di quello che sono adesso, tuttavia ciò è cambiato circa 4 ore fa”.

Nonostante il contesto e l’epoca storica differente, il clima che si respira sembra rispecchiare quello prodotto dagli accordi di Helsinki del 1975 che aveva avviato una temporanea distensione tra i due Paesi.

Dal summit si è potuto notare che la sicurezza rimane il tema principale nei rapporti USA-Russia, principalmente sulle questioni nucleari e sulla lotta al terrorismo che permane un punto di incontro necessario per la cooperazione. Putin ha voluto sottolineare la questione dei trattati sugli armamenti nucleari, primi fra tutti il Trattato INF del 1987 e il Trattato New Start che terminerà nel 2021.

A proposito di quest’ultimo, il Presidente russo ha espresso la sua volontà a prolungarlo, ma solamente in seguito a debite

negoziazioni e accordi sulle limitazioni delle testate nucleari e dei missili ICBM e SLBM e dopo aver valutato la conformità delle azioni intraprese dagli USA nel passato per adeguarsi al trattato stesso.

Per quanto concerne la denuclearizzazione della Corea del Nord, Putin si è complimentato con gli sforzi protratti da Trump e si è dichiarato disponibile nel totale raggiungimento dell’obiettivo. Lo scenario siriano, inoltre, rimane molto complesso e nessuno dei due Paesi sembra volersi ritirare. Unico punto di accordo è la necessità di applicazione di un piano di rientro dei rifugiati per cui il Ministro della Difesa russo ha recentemente inviato una proposta di intervento congiunto agli USA. Nessun accordo è stato raggiunto per quanto riguarda la Crimea, ritenuta da Trump un’annessione illegittima da parte della Federazione Russa.

Putin, invece, ribadisce il fatto che non possa essere considerata un’annessione, né tantomeno illegittima, in quanto basata sul referendum del 2014 che sanciva la volontà di unirsi alla Russia. Inoltre, il Presidente russo, in un’intervista a Fox News, ha affermato di non poter accettare tentativi della NATO di am-

mettere la Georgia e l’Ucraina all’alleanza, ritenendo tale atto un’espansione occidentale verso Est. Si è discusso anche della questione energetica, dove la Federazione Russa vedrà prospettarsi una competizione da parte degli USA che ritengono l’Europa un ostaggio del North Stream, il gasdotto che collega la Russia con la Germania. Putin, tuttavia, ha voluto evidenziare l’importanza di una regolamentazione internazionale del mercato del petrolio, per evitare crisi che non solo danneggerebbero Russia e USA, ma anche gli stessi consumatori.

In conclusione si può dire che il summit sia stato un evento di notevole importanza in quanto riuniva le due superpotenze mondiali, ma, allo stesso tempo, si deve ammettere che poco sia cambiato. Igor Ivanov, presidente del Consiglio russo per gli Affari Internazionali, afferma che il solo fatto che Putin e Trump si siano incontrati deve essere considerato un passo in avanti nelle relazioni internazionali, ma non c’è da stupirsi se ci vorrà tempo per stabilizzarle, in quanto “né i leader si aspettavano che la controparte facesse concessioni unilaterali, né intendevano farne”.

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RUSSIA E BALCANI LA LIBERTÀ DI STAMPA È NEGOZIABILE? Il giornalismo: da professione nobile a temibile

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia Il 7 giugno scorso, in Montenegro, i giornalisti sono scesi in piazza per protestare contro il controllo, sempre più intenso, del governo di Duško Marković sui media. L’Associazione dei giornalisti montenegrini ha manifestato a Pogdorica contro il licenziamento della direttrice della tv di stato, RTCG, Adriana Kadija.

Kadija era stata nominata dal consiglio direttivo del 2017 e, a seguito delle numerose pressioni da parte delle autorità, è stata licenziata. Inoltre, alcuni membri del consiglio direttivo sono stati sostituiti da altri membri più vicini al partito del presidente Dukanović.

I media del Montenegro, come quelli di molti paesi dei Balcani, subiscono forti pressioni da parte delle autorità politiche. Secondo la classifica sulla libertà di stampa redatta da Reporters sans Frontières, RSF, il Montenegro occupa la 103° posizione.

Secondo l’organizzazione, nella regione dei Balcani, Croazia, Serbia e Macedonia sono i Paesi che hanno fatto più passi indietro per quanto riguarda la libertà di espressione. L’ONG denuncia il fatto che è stata “raggiunta l’era della post-verità e della propaganda, con la 10 • MSOI the Post

soppressione delle libertà fondamentali, soprattutto nelle democrazie”.

A margine di un ciclo di conferenze organizzate a Tirana dalla Commissione europea lo scorso novembre, il commissario europeo all’allargamento Johannes Hahn ha voluto ribadire più volte che “la libertà di stampa non è negoziabile” e che deve essere mantenuta integra e il più possibile priva di influenze da parte delle autorità del paese. Per affrontare il problema è necessario rendersi conto che i giornalisti possono aiutare la democrazia a superare la polarizzazione politica e a sciogliere le tensioni etniche.

sia la verità e cosa sia successo realmente a Cvetkovic.

Secondo le autorità, infatti, Cvetkovic avrebbe inscenato il proprio rapimento. L’opinione pubblica non riesce a capire quale sia la vera versione dei fatti: se quella del giornalista o quella dell’autorità. Qualche giorno dopo Vucic e il ministro degli Esteri Dacic dichiarano che informazioni false, come quella del rapimento di Cvetkovic, servono solamente a destabilizzare la Serbia che si trova in un momento delicato per via dei negoziati con la Pristina.

Tutta la vicenda potrebbe peggiorare notevolmente la situazione dei giornalisti e della libertà di stampa.

In Serbia, Stefan Cvetkovic, un giornalista indipendente di Bela Crkva, è scomparso a metà giugno per oltre quarantotto ore.

Molte persone ritengono che il suo allontanamento possa essere in qualche modo connesso alle sue indagini sul caso di Ivanovic, un politico serbo-kosovaro ritrovato morto lo scorso gennaio. Dopo pochi giorni, Cvetkovic viene ritrovato e portato nella capitale, Belgrado, dove la polizia lo sottopone alla macchina della verità perché alcuni dettagli del uso racconto non tornano.

Vi è molta confusione su quale

La libertà di stampa in Serbia è peggiorata da quando Vucic è diventato presidente nel 2014.

La giornalista di Vreme Weekly, Tamara Skrozza, ha affermato: “Se critichi Vucic e il suo governo, ti viene detto che stai lavorando contro il tuo Paese”.

Secondo la classifica di RSF del 2018 la Serbia occupa il 76° posto.

Il controllo dell’Unione Europea sul rispetto di tutte le forme di libertà, tra cui quella di stampa, è maggiore nei confronti dei paesi candidati a diventare membri piuttosto che a quelli che lo sono già.

ORIENTE UNIONE EUROPEA E GIAPPONE SCHIERATI IN DIFESA DEL LIBERO MERCATO

L’accordo di libero scambio siglato tra Bruxelles e Tokyo rappresenta un’intesa storica che sfida il protezionismo trumpiano

Di Gaia Airulo Martedì 17 luglio è stato siglato quello che il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, ha definito come “il più grande accordo commerciale bilaterale mai firmato”. Dopo cinque anni di trattative, Giappone e Unione Europea rispondono alle recenti spinte protezionistiche lanciate dalla Casa Bianca, abolendo le barriere tariffarie sui maggiori prodotti commerciati tra i due partner.

L’accordo di libero scambio JEFTA (Japan-EU Free Trade Agreement) prevede una riduzione del 99% delle barriere tariffarie sulle importazioni di prodotti giapponesi da parte dell’UE. L’intesa andrebbe a creare condizioni favorevoli per l’export giapponese, destinato a raddoppiare: tra le aziende nipponiche più apprezzate dall’UE spiccano quelle che operano nel mercato automobilistico e nella vendita di apparecchi televisivi.

Le importazioni di prodotti europei da parte del Giappone prevedono, invece, una riduzione delle tariffe del 94%. I maggiori vantaggi per l’Unione si registrerebbero nel settore agricolo e alimentare, grazie alla diminuzione delle tariffe su

formaggi e vino. Ciò permetterebbe alle compagnie europee di esportare i propri prodotti risparmiando circa €1 miliardo all’anno.

Un ulteriore messaggio a difesa del libero mercato proviene dalla creazione di un mercato comune dei dati personali, attraverso una regolamentazione condivisa sulla protezione dei 640 milioni di consumatori che compongono le due aree. Le autorità giapponesi si impegnano a modificare la legislazione nazionale acconsentendo ad allinearsi agli standard comunitari definiti dal General Data Protection Reguation (Gdpr), entrato in vigore in Europa lo scorso maggio.

2019. Riguardo la Brexit, Tokyo aveva, animatamente espresso il proprio dissenso, poiché dalla fine degli anni ’80 l’ingresso alle maggiori compagnie giapponesi in Europa era stato garantito principalmente dai rapporti bilaterali portati avanti con l’UK, per la quale il Giappone rappresentava la quarta maggior fonte di Investimenti Diretti Esteri.

L’uscita dall’Euro del Regno Unito costringerebbe, quindi, molte aziende giapponesi a lasciare il paese.

Attraverso la partnership commerciale tra le due economie, che insieme costituiscono circa il 30% del PIL mondiale, l’amicizia euro-nipponica si vedrebbe rafforzata, indipendentemente La ratifica dell’accordo è pre- dalla presenza inglese. Il segnavista per marzo 2019. le più forte, comunque, è indirizPer il Giappone, recentemente zato al Nuovo Continente ed è minacciato dalla proposta di Tru- esplicitamente espresso con un mp di introdurre tariffe sull’im- tweet del Presidente della Comportazione di veicoli a motore missione UE, Juncker, che ripornegli USA, il JEFTA rappresenta ta: “Con la firma dell’accordo un’occasione per assicurare alle di partenariato economico con proprie industrie, in particolare il Giappone stiamo facendo una quelle automobilistiche, un mer- dichiarazione sul futuro del cato sicuro e prospero. L’accor- commercio libero ed equo. do arriverebbe, infatti, con un L’accordo mette equità e valori timing perfetto rispetto all’u- al centro. Non c’è protezione nel scita ufficiale del Regno Uni protezionismo e non c’è unità to dall’Unione Europea, prevista dove c’è l’unilateralismo”. anch’essa per la fine del marzo

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ORIENTE IL MAR DI TIMOR NON BASTA

Dispute territoriali e spionaggio tra Timor Est e Australia

Di Giusto Amedeo Boccheni Martedì 24 luglio, con un giorno in anticipo sulla data preventivamente fissata, il procuratore della Repubblica Australiana Sarah McNaughton ha annunciato che la prima udienza che vedrà al banco degli imputati l’ex spia conosciuta con lo pseudonimo di Testimone K ed il suo avvocato Bernard Collaery sarà posticipata al 12 settembre.

Il processo, che potrebbe tenersi in segreto per presunte ragioni di sicurezza nazionale, ha attirato l’attenzione di attivisti e organizzazioni per i diritti umani come Human Rights Watch, che spingono per procedure aperte e trasparenti, se non per l’abbandono definitivo delle accuse.

La vicenda giudiziaria, che tanti condannano come ritorsione politica, è basata sulla supposta violazione dell’Articolo 39 dell’Intelligence Security Act, che mira a impedire la diffusione di informazioni riservate da parte dei membri dei servizi segreti.

Secondo Collaery, tuttavia, le rivelazioni sarebbero avvenute con la previa approvazione da parte dell’Ispettore Generale per l’Intelligence e la Sicurezza e del capo dei Servizi Segreti Australiani (ASIS).

Le informazioni trasmesse dal Testimone K nel 2012 riguardavano il piazzamento di 12 • MSOI the Post

circa 200 cimici nella sede del governo di Dili, capitale di Timor Est, durante le negoziazioni del 2004 per lo spartimento delle risorse fossili del Mar di Timor e negli anni hanno determinato una serie di sviluppi cruciali per le relazioni internazionali australiane, causando peraltro non pochi imbarazzi a governi di diversi colori.

Prima ancora dell’invasione Indonesiana di Timor Est nel 1975, infatti, sembra che i governi australiani si siano succeduti nell’intento di arginare la capacità dei loro poveri dirimpettai di sfruttare le ingenti riserve di gas e petrolio del cosiddetto Timor Gap. Sidney, in particolare, è stato l’unico governo filooccidentale a riconoscere formalmente l’occupazione di Suharto, che ha portato a terribili violazioni dei diritti umani fino al raggiungimento dell’indipendenza di Timor Est, nel 2002, sotto l’auspicio delle Nazioni Unite.

Una serie di trattati hanno segnato l’evoluzione delle prerogative commerciali per le compagnie australiane nella regione, a partire dal Timor Gap Treaty (1989), a cui sono seguiti il Timor Sea Treaty (2002), il Sunrise UIA (2003) ed il CMATS (2006).

Quando però, nel 2012, l’ex Ministro liberale Alexander Downer ha assunto il ruolo di

consigliere per la Woodside Petroleum, il Testimone K ha deciso di rivolgersi al pubblico per dare conto dell’impiego dei servizi segreti a scopo di spionaggio industriale.

Il governo timorese ha quindi adito le corti internazionali per denunciare lo scorretto andamento nella negoziazione di precedenti accordi. Nel 2014 la Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato all’Australia di interrompere le intercettazioni illegali e nel 2016 si è svolta la prima udienza di fronte alla Corte Permanente di Arbitrato sotto la Convenzione delle Nazioni Unite per il Diritto del Mare.

Nel 2018, Timor Est ha rinunciato alla causa in segno di buona fede, in virtù di un nuovo accordo che gli garantirà l’80% dei ritorni sullo sfruttamento delle risorse. Al di là dei passati ingiustificati profitti a vantaggio dei ricchi vicini, tuttavia, resta da decidere dove si svolgerà il o raffinament dei combustibili fossili. Timor Est spinge perché avvenga sul proprio suolo, ma gli investitori obiettano che la soluzione renderebbe l’impresa diseconomica.

Il Testimone K e il suo legale, d’altro canto, restano in attesa degli sviluppi giudiziari, che potrebbero costare loro il carcere fino a due anni.

AFRICA LA LIBERTÀ PARTE DAL WEB

La denuncia dei cyberattivisti contro le censure

Di Federica De Lollis “Se volete liberare una società, dovete darle libero accesso a Internet”.

Le parole pronunciate dall’attivista egiziano Wael Ghonim, in occasione di un’intervista per la CNN del 9 febbraio 2011, sono diventate il motto della rivolta che ha costretto Hosni Mubarak alle dimissioni. Un ruolo fondamentale per la nascita e l’espansione della Primavera Araba è stato quello dei social networks, in particolare Facebook, Twitter e YouTube.

Arab Media & Society ha definito i social media “viali mediatici”, per descrivere come l’immediatezza e la diffusione capillare dei contenuti pubblicati su tali piattaforme abbiano permesso la formazione di un giornalismo spontaneo, proveniente dagli stessi utenti, che in tal modo riuscivano a restare costantemente informati sulle vicende legate alle proteste.

Solo negli ultimi anni il resto del Continente sta assistendo ad una vistosa crescita dell’attivismo politico su Internet, seppur con gravi difficoltà dovute al penetrante controllo esercitato sulla rete.

Da oltre 10 anni, infatti, molte aziende sviluppatrici di sistemi di sorveglianza testano i loro prodotti pressoché in tutta la

regione sub-sahariana, avvalendosi dell’appoggio dei governi delle “pseudo-democrazie” [Internazionale ndr], che mirano a spezzare ogni iniziativa di protesta o, semplicemente, controllare l’attività dei cittadini sulla rete.

Questi sistemi, conosciuti come DPI (Deep Packet Inspection) consentono di spiare le comunicazioni e i contenuti postati dagli utenti, nonché di tracciare una mappa delle comunità virtuali ed identificare i singoli membri delle chat.

I principali acquirenti di questi strumenti di spionaggio sono Etiopia, Gabon e Nigeria, mentre tra i venditori spiccano aziende italiane, francesi, britanniche ed israeliane.

La scelta del territorio non è frutto del caso: l’Africa sub-sahariana presenta ancora profonde lacune legali riguardo la concessione di diritti digitali, il diritto alla privacy e il trattamento dei dati personali, che rendono la rete uno spazio totalmente privo di protezioni per gli utenti e dove è tuttora possibile perpetrare violazioni dei diritti umani.

Nonostante la presenza dei sistemi di spionaggio, l’oscuramento di Internet rimane ancora l’espediente maggiormente utilizzato dai vertici. Nel 2016, l’organizzazione Accessnow ha registrato 56 oscuramenti in 26 Paesi nel mondo, 18 dei quali in

12 Stati africani.

Tra i numerosi attivisti sul web, emergono due nomi che hanno fatto luce sul problema in Africa e nel resto del mondo. L’avvocato Julie Owono, direttrice della ONG Internet sans Frontières, riporta i principali casi di oscuramento di Internet nel continente: in Etiopia, durante le proteste in Oromia, ed in Zimbabwe, Mali e Repubblica Democratica del Congo in occasioni analoghe; in Uganda, Gabon, Ciad, Congo-Brazzaville e Zambia in periodo elettorale e post-elettorale.

Cheikh Fall, programmatore e blogger senegalese noto sul web come Cypher007, ha creato la prima lega di blogger attivisti per la democrazia AfricTivistes, con l’obiettivo di proteggere i dissidenti digitali dalle persecuzioni. Il suo lavoro trova un solido appoggio nelle associazioni studentesche, che oltre a produrre un’informazione alternativa a quella fornita dai canali nazionali, sensibilizzano gli utenti ad una maggiore consapevolezza sulla realtà virtuale ancora fortemente veicolata.

Il fine ultimo dei numerosi cyberattivisti in Africa è quello di approdare ad un dialogo con le istituzioni, al fine di garantire lo sviluppo della Regione, favorito da una rete che sappia conciliare sicurezza e libertà di espressione.

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AFRICA UNA RISOLUZIONE ONU PER IL SUD SUDAN

Un embargo per fermare il traffico di armi: sarà una mossa controproducente?

Di Corrado Fulgenzi Il 13 luglio il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (UNSC) ha approvato la risoluzione proposta a maggio dagli Stati Uniti per l’embargo sulla vendita e i trasferimenti di armi al Sud Sudan, con validità fino al 31 maggio 2019. La misura è stata richiesta dalle organizzazioni della società civile del Paese africano fin dal 2013, anno in cui la guerra civile ha creato una scissione tra il governo di Salva Kiir, che ha sancito l’estensione del proprio mandato appena prima che si potesse arrivare alle elezioni, e i ribelli, guidati dall’ex deputato Riek Machar.

Gli Stati membri dell’UNSC che si sono astenuti dal voto, permettendo comunque di raggiungere il quorum di 9 voti, sono stati Russia, Cina, Etiopia, Kazakistan, Bolivia e Guinea Equatoriale.

L’ambasciatore presso l’ONU dell’Etiopia Takeda Alemu ha motivato la posizione del suo Paese dichiarando: “L’embargo comprometterebbe il processo di pace già avviato nel Sud Sudan”; infatti, già nel 2015, i due schieramenti ave14 • MSOI the Post

vano firmato un’intesa di pace, sebbene la stessa non sia mai stata messa in pratica. Di uguale opinione è l’ambasciatore del Sud Sudan, secondo il quale tale provvedimento sarebbe “uno schiaffo in faccia” per tutte quelle organizzazioni che si impegnano per portare stabilità e pace.

Di parere contrario è stato il commento del governo inglese, reso tramite il proprio portavoce, Karen Pierce, per cui l’embargo avrebbe lo scopo di proteggere la popolazione, continuando in modo parallelo le trattative per porre fine al conflitto.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti il loro timore sarebbe motivato dall’inettitudine dei due leader rivali Kiir e Machar, i quali non sono ritenuti in grado di portare avanti le trattative: un dialogo si è pur instaurato dopo l’approvazione della risoluzione ONU, ma Washington lo ha giudicato poco inclusivo. L’addetto stampa della Casa Bianca Sarah Huckabee Sanders ha affermato: “un semplice accordo tra le élites sarebbe limitativo e non risolverebbe la piaga della guerra civile”. Secondo la l’amministra-

zione Trump, inoltre, “un’intesa del genere genererebbe solo un altro ciclo di conflitti”. Gli U.S.A. quindi, mirano a imporre le proprie condizioni, aggiungendo che “non faranno da garanti ad alcun accordo e non finanzieranno – o richiederanno ulteriori risorse alle Nazioni Unite – per sostenere la transizione del governo, nel caso in cui mancasse l’impegno a raggiungere l’intesa di pace, l’inclusività richiesta, la responsabilità finanziaria ed una buona condotta politica”.

Facendo riferimento ai dati pubblicati dall’ONU sulla guerra civile fino ad oggi, sarebbero 2 milioni i rifugiati nei Paesi vicini e 1.9 milioni gli sfollati. La crisi umanitaria che si sta vivendo è una delle peggiori di sempre dopo il genocidio in Ruanda del 1994, infatti quotidianamente vengono riportati casi di violazione dei diritti umani.

Il Sud Sudan è dal 2011 il Paese più giovane al mondo, 2.6 milioni di bambini sono nati durante la guerra e stando a quanto riportano enti come l’UNICEF, 19 mila ragazzini vengono utilizzati dai gruppi armati come combattenti o aiutanti.

AMERICA LATINA AMLO AFFRONTA TRUMP CON UNA LETTERA

Il neo-Presidente messicano cerca un accordo con Trump su economia, migrazione e sicurezza

Di Francesca Chiara Lionetti Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, anche conosciuto come Amlo, ha impresso una svolta storica nel Paese, dirigendolo a sinistra.

Amlo ha proclamato, con la sua vittoria, un “profondo cambiamento” nel Paese, che porrà fine a tutti i mali che lo affliggono.

Considerato l’anti-Trump, López Obrador ha espresso più volte le sue critiche nei confronti del Presidente statunitense, mostrandosi comunque pronto a voler collaborare con gli Stati Uniti.

Il 12 di luglio Amlo ha inviato a Trump una lettera in cui manifesta il suo punto di vista sui temi cruciali riguardanti i rapporti tra i due Stati: economia, migrazione, sviluppo e sicurezza. Il contenuto della lettera rappresenta sia un importante passo avanti nei rapporti tra i due Stati ma anche una dichiarazione della linea politica del Presidente messicano.

Amlo ha assicurato che si impegnerà per rendere “l’immigrazione un’opzione e non una necessità”, puntando sugli inve-

stimenti e sullo sviluppo dell’economia del Paese. Il Presidente ha puntato l’attenzione sul fatto che l’immigrazione dovrebbe essere affrontata attraverso un piano comune e centralizzato, “che includa tutti i Paesi dell’America centrale”. A questo progetto dovrebbero partecipare Stati Uniti, Messico e i Paesi dell’America Centrale, contribuendo ognuno in base alle dimensioni della propria economia. Il 75% del denaro ricavato dovrebbe essere utilizzato per creare posti di lavoro e combattere la povertà, mentre il 25% per il controllo dei confini.

Amlo ha anche assicurato che promuoverà lo sviluppo e creerà una zona di commercio libera nelle aree al confine con gli Stati Uniti.

Il Presidente ha promesso che “eliminerà la corruzione, abolirà l’ingiustizia, agirà con austerità e allocherà tutte le risorse disponibili per finanziare lo sviluppo del Paese”. Il suo impegno si concentrerà innanzitutto sulla riduzione del fenomeno della violenza, che verrà combattuto organizzando riunioni giornaliere con le forze di sicurezza in modo tale da unificare

il loro operato. López Obrador ha garantito che non avvierà una politica di nazionalizzazione dell’economia, ma che implementerà gli investimenti pubblici e favorirà quelli privati, in modo tale da creare nuovi posti di lavoro ed abbattere la povertà.

Per quanto riguarda le politiche sociali, Amlo ha detto che raddoppierà le pensioni, aumenterà i salari dei lavoratori statali meno pagati e ridurrà fortemente il suo stesso stipendio. Sempre nella lettera ha anche manifestato la volontà di giungere il prima possibile a un accordo per quanto riguarda la rinegoziazione del NAFTA. Trump non ha ancora dato una risposta alla lettera, dichiarando semplicemente che, forse, darà la priorità a un accordo bilaterale con il Messico prima di concludere la rinegoziazione del NAFTA. È quindi ancora incerto se Trump accoglierà integralmente la proposta di Amlo, “il cui scopo è quello di dare vita a una nuova fase delle relazioni tra Messico e Stati Uniti basata sul rispetto reciproco e sull’individuazione di aree di comprensione ed interessi comuni”.

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AMERICA LATINA BOLSONARO È CANDIDATO PRESIDENTE DEL BRASILE

Durante una convention del PSL la candidatura dell’ex militare è stata ufficializzata

Di Elisa Zamuner

1985), auspicandone il ritorno.

Il Partido Social Liberal (PSL) ha designato il proprio candidato per le elezioni presidenziali brasiliane dell’autunno 2018.

La scelta è ricaduta su Jair Bolsonaro, 63 anni, ex ufficiale dell’esercito e attualmente deputato federale. La nomina è stata annunciata durante una convention del partito e non sono state date indicazioni su chi dovrebbe ricoprire il ruolo di candidato alla vicepresidenza.

Il candidato del PSL è considerato uno dei favoriti nella corsa elettorale subito dopo l’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, candidato del PT attualmente in carcere con l’accusa di corruzione. Secondo alcuni sondaggi predisposti dall’istituto Paranà Pesquisas, qualora Lula non fosse rilasciato e non gli venisse permesso di partecipare alle elezioni, la vittoria andrebbe a Bolsonaro.

Il Partido Social Liberal, però, si presenterà da solo a queste elezioni: il gruppo di partiti “centão” dovrebbe presto confermare la scelta di sostenere Geraldo Alckmin, ex governatore di São Paolo e candidato del Partido da Social Democracia Brasileira (PSDB). Correrà senza alleati anche Marin Silva, già Ministra sotto la presidenza Lula, in rappresentanza del partito di sinistra da lei fondato Rede Sustentabilidade (REDE).

Rimane fuori dai giochi l’attuale presidente Michel Temer, la cui popolarità è sempre più in calo dopo l’esperienza al Governo ereditato dall’impeachment di Dilma Roussef; accusato

In seguito alla notizia, Bolsonaro ha tenuto un lungo discorso, durante il quale ha dichiarato: “Non sono il salvatore della Patria; lo siamo tutti”, aggiungendo di non ambire al potere di per sé ma di considerare questo nuovo percorso politico come una missione per liberare il Paese dal Partido dos Trabalhadores (PT).

Bolsonaro in passato è stato spesso al centro di polemiche per via di alcune dichiarazioni controverse su questioni come l’aborto, l’omosessualità, la tortura e l’immigrazione; ha inoltre più volte elogiato il regime militare brasiliano (196416 • MSOI the Post

di non aver saputo dare le giuste risposte a problematiche come la disoccupazione crescente e la corruzione dilagante nel Paese.

Nel sistema elettorale brasiliano attuale le coalizioni rappresentano uno strumento molto importante per i partiti perché determinano anche il tempo concesso loro sulle televisioni e le radio nazionali; inoltre, il divieto di donazioni da parte di aziende alle campagne elettorali rende più conveniente per i partiti più piccoli unirsi a quelli più grossi.

Infatti gli unici supporti concessi di solito sono le locandine con il nome del candidato presidenziale che fa parte dell’alleanza.

Nonostante le complicazioni che il Partido Social Liberal dovrà affrontare in assenza di una coalizione, Bolsonaro può contare su un vasto numero di seguaci sui social che gli assicurano comunque una buona copertura mediatica. “Non abbiamo un grande partito, non abbiamo grandi fondi elettorali, non abbiamo tempo in televisione, ma abbiamo quello che gli altri non hanno: voi, il popolo brasiliano”.

ECONOMIA MILLENNIALS E FINANZA: APERTE LE PORTE AL NUOVO BINOMIO L’app Robinhood Markets Inc. rende miliardari i due cofondatori figli di immigrati

Di Francesca Maria De Matteis Quasi sei anni fa, nella ridente Silicon Valley, Baiju Bhatt e Vladimir Tenev, figli di immigrati in difficoltà economiche, rispettivamente indiani e bulgari, fondavano la Robinhood Markets Inc. Avevano una carriera sicura nel settore nel quale si erano specializzati e stipendi elevati da fare invidia ai colleghi impiegati altrove, ma avevano deciso di abbandonare i posti che ricoprivano negli hedge funds in cui lavoravano. Un salto nel vuoto che li ha portati in poco tempo a diventare miliardari.

I due giovani talentuosi, conosciutisi a Stanford e diventati successivamente amici, sono riusciti a sfruttare un’intuizione che li ha portati al successo: riuscire ad inserire nella turbo-finanza un broker gratuito, libero da commissioni e costi dei dati di Borsa in tempo reale.

Di porte in faccia ne hanno viste tante, ma a 26 e 28 anni non si sono fatti scoraggiare: forti delle centinaia di migliaia di aspiranti investitori interessati, e attraverso piattaforme di crowdfunding, hanno raccolto il denaro necessario per dare inizio all’attività.

“On Robinhood company pages, there are just four components: the ticker symbol, the price, a chart showing price changes over time, and a ‘Buy’ button that beckons at the bottom of the screen”. Così era stato illustrato il servizio, nel 2017, in un articolo su FastCompany, ricordando come la nuova startup avesse capito perfettamente come attirare verso le attività di mercato e investimento l’attenzione dei Millennials. È, infatti, alla nuova generazione digitale che si rivolge il servizio.

L’assenza di costi e commissioni aiuta gli aspiranti investitori ad acquisire disinvoltura ed esperienza nel mondo della finanza.

Nei primi tre anni di attività sono stati raggiunti i 2 miliardi di utenti per un totale di 57 miliardi di dollari di transazioni. L’app, dalla grafica semplice ed intuitiva, è ormai disponibile per tutti i sistemi operativi, mentre al momento del lancio, nel dicembre 2014, era stata messa a disposizione dei soli iPhone. Non sorprende, quindi, che il 78% degli utenti sia al di sotto dei 35 anni.

Quando, a gennaio di quest’anno è stato lanciato Robinhood

Crypto e le frontiere dell’app della Silicon Valley si sono allargate ai Bitcoin e alle criptovalute, con la promessa di annullare ogni tipo di commissione sulle transazioni finanziarie, la popolarità è salita alle stelle. Valutata 1,3 miliardi di dollari, la società ha ormai ampiamente superato i 4 milioni di utenti, sebbene questo settore di applicazione della start-up resti, per il momento, riservato ai residenti di soli cinque Stati degli USA (California, Massachusetts, Missouri, Montana e New Hampshire).

I due giovani imprenditori non hanno intenzione di fermarsi, e nell’ultimo round di finanziamento è accaduto ciò che solo poco tempo fa sembrava inimmaginabile: il valore della start-up è quadruplicato, raggiungendo i 6 miliardi di dollari e facendo concorrenza ai giganti del trading internazionale, e i due cofondatori sono diventati miliardari. L’applicazione ha costretto, quindi, a rimettere in discussione i modelli di business ormai accreditati presso i grandi competitor mondiali, adesso minacciati dall’innovazione spiazzante.

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ECONOMIA DIVORZIO ALL’INGLESE

Negoziati e governo britannico in crisi, Trump e Corbyn possono approfittarsene

Di Michelangelo Inverso Si fa sempre più concreta l’ipotesi di un divorzio non consensuale tra Regno Unito e UE. Nelle scorse settimane, più di una scossa ha fatto vacillare il governo britannico, mettendo a nudo tutte le difficoltà e le divergenze interne alla maggioranza conservatrice.

L’inizio dei guai, o meglio, la nuova fase delle trattative, è stato segnato dalla pubblicazione del “White Paper”, il documento con i principi e le linee guida che il governo avrebbe adottato per negoziare con Bruxelles. Tale testo, tuttavia, è stato bollato dal fronte dei conservatori più duri nei confronti dell’UE come annacquato. L’accusa è quella di essere, in sostanza, un diversivo per snaturare il voto popolare del referendum, con lo scopo di non uscire realmente dall’UE, ma solo formalmente, mantenendo invariate le politiche di scambio e le regolamentazioni comuni, tra cui la libera circolazione tra Paesi.

La May, in effetti, si è sempre posta come moderatrice tra le due anime del Partito conservatore, travolto dal referendum che volle Cameron, anche lui un tory, ma contrario alla Brexit. L’ex Primo Ministro non si aspettava un esito simile e pensava anzi di rafforzare il 18 • MSOI the Post

proprio esecutivo. La storia ha dimostrato tutt’altro, spezzando l’unità del partito, ma mantenendone la compagine politica invariata.

Il primo effetto di questa linea ‘centrista’ del governo May è stato, dunque, indurre le immediate dimissioni, dai ruoli istituzionali, tutti gli esponenti dell’Hard Brexit, tra cui il ministro degli Esteri Boris Johnson e addirittura il capo negoziatore per la Brexit David Davis, rimarcando ancora di più le crepe nell’esecutivo.

La situazione sul terreno resta quindi piuttosto confusa, sia per quanto riguarda le trattative con l’UE, sia per la tenuta del governo stesso, in maggioranza grazie ai rappresentanti Nord Irlandesi, un piccolo partito.

I principali nodi sul tavolo sono costituiti ovviamente dall’economia e dal grado di integrazione socio-economica futura con l’UE. Con una Hard Brexit è possibile che le merci e i servizi inglesi, tra cui quelli finanziari, siano soggetti a restrizioni in Europa. Uno scenario che la City non può accettare, tant’è che la città di Londra è stata tra i più convinti oppositori della Brexit nel 2016.

Anche le regolamentazioni inglesi in ambito agricolo e sanitario, finora adeguate

ai parametri UE, potrebbero cambiare, rendendo così impossibile a Londra smerciare i propri prodotti sul Continente, con grave danno per diverse sue produzioni agricole e manifatturiere.

Inoltre, resta sul piatto la questione irlandese, in quanto l’Irlanda è membro dell’UE, ma il Nord Irlanda fa parte del Regno Unito. Pertanto, si pone un problema di circolazione di beni e persone, innestato peraltro su di una situazione che solo da un decennio può dirsi uscita da una conflittualità armata.

Per ultimo, a rimarcare ancor più l’incertezza di tutta questa spinosa vicenda, c’è Donald Trump. Il presidente statunitense avrebbe infatti consigliato alla May, secondo quanto dichiarato da lei stessa, di percorrere la strada dell’Hard Brexit, da un lato, per indebolire l’UE, se necessario facendole causa, per mezzo di tribunali e organismi internazionali. Dall’altro, per evitare che il governo si spacchi e si torni alle elezioni, in cui con ogni probabilità vincerebbe il socialista Jeremy Corbyn, nemico giurato delle lobby e dei grandi proprietari nazionali e stranieri.

Una prospettiva che non può che allarmare i conservatori d’Oltremanica e d’Oltreoceano.

DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO MALI: 6 ANNI DI STRAGE TRA I CIVILI Assente la protezione tra la popolazione civile

Di Debora Cavallo

1 milione di altre bisognose di assistenza alimentare di Il 12 Agosto 1949 è emergenza. stata emanata la Quarta Da giugno 2018, sono oltremodo Convenzione di Ginevra​ aumentati anche gli scontri , relativa alla protezione delle tra i gruppi terroristici, come persone civili ​in tempo di guerra. Al-Qaeda, e la task force La ratio di questa Convenzione internazionale antiterrorismo nasce a fronte dell’esperienza nota con il nome di ​G5 Sahel​ della Grande Guerra, nella quale . L’iniziativa mira a sconfiggere la maggior parte delle vittime le milizie armate attive nell’area furono prevalentemente civili. La​ africana nord-occidentale guerra è diventata un fenomeno e a contrastare la crescita che coinvolge massicciamente dell’estremismo. Il corpo della la popolazione civile, di qui la missione è composto da 5.000 conseguenza dell’evoluzione ufficiali, tra cui soldati, poliziotti normativa di cercare di alzare il e agenti speciali originari di Mali, livello di protezione. Normativa Mauritania, Niger, Burkina Faso che rimane inascoltata nella e Ciad. Questa è un’​operazione regione del Mali. di peacekeeping ​annoverata tra le più pericolose dell’ONU. In ​Mali​, circa ​100 civili Le Nazioni Unite hanno appartenenti alle comunità confermato il coinvolgimento di Tuareg e Fulani sono morti​ militari maliani nell’uccisione , tra aprile e maggio 2018, per di dodici civili a Boulkessy, sospetti attacchi di jihadisti e nella regione di Mopti, in Mali scontri tra gruppi armati locali. centrale. Sono almeno 289 i Il 27 aprile, militanti islamisti civili uccisi nel Paese nel 2018 hanno sferrato un agguato nella secondo l’Ufficio per i diritti regione di Menaka, provocando umani delle Nazioni Unite. la ​morte di 40 Tuareg​. Più recentemente, il 26 maggio, ​20 Al fine di evitare simili stragi, è tuareg sono morti in un’offensiva presente la Quarta Convenzione di un gruppo di jihadisti nel nord- di Ginevra, poi integrata da un​ est del Paese. Da quanto rilevato primo Protocollo - 8 Giugno da un rapporto delle Nazioni 1977 - intitolato “protezione Unite, la violenza ha generato delle persone e dei beni”​. Il un’emergenza umanitaria preambolo riprende l’art. 2 par. che, si prevede, lascerà circa​ 4 della Carta dell’ONU, ormai 4,3 milioni di persone afflitte da norma di ius cogens e dunque grave mancanza di cibo e almeno imperativa e inderogabile. Il

preambolo menziona il dovere di ogni Stato, in conformità con la Carta dell’ONU, di astenersi dal ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza. La logica di protezione prevale e deve prevalere sempre.

Una protezione ulteriormente ribadita dal Titolo IV del presente Protocollo intitolato “Popolazione civile”, dove all’​art. 48 ​viene disciplinata la ​“regola fondamentale” ritenuta architrave della logica del sistema di protezione: il​ “principio di distinzione”​ . Tale disciplina: “ha lo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le parti in conflitto dovranno fare, in ogni momento, distinzione tra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e, di conseguenza, dirigere le operazioni militari soltanto contro obiettivi militari”.

Il ​29 luglio 2018​, i cittadini del Mali dovranno recarsi alle urne per votare il nuovo Presidente.​ Le elezioni alimentano nel Paese la speranza di una via d’uscita dopo circa 6 anni di disordini politici e violenze di gruppi jihadisti.

Tuttavia, la situazione resta instabile e le tensioni non accennano a diminuire.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO I DIRITTI DEI PASSEGGERI

L’overbooking come inadempimento contrattuale

Di Chiara Montano Le norme a tutela dei diritti dei passeggeri sono molteplici. Fra i più importanti e recenti interventi normativi, a livello europeo, possiamo annoverare il Regolamento (CE) n.

261/2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione ed assistenza dei passeggeri, in caso di negato imbarco, cancellazione del volo o ritardo prolungato, ma anche il Regolamento (CE) 2006/2004, che riguarda la cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori. L’Italia ha attuato la Direttiva 2013/11/UE con il Decreto legislativo 6 agosto 2015, n. 130, che è l’intervento più recente a livello nazionale.

Le norme succitate perseguono la finalità di rimuovere fattori di discriminazione del trattamento riservato ai passeggeri, fondate sul luogo di residenza o di nazionalità di chi acquista.

Alle compagnie, infatti, è vietato applicare costi diversificati su tali basi. Le leggi UE sono volte anche a garantire particolare attenzione ai viaggiatori con mobilità ridotta, ai quali è attribuito il diritto a usufruire di servizi di assistenza gratuita.

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In particolare, in materia di trasporto aereo, l’ENAC (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) ha riassunto le informazioni utili per chi viaggia in aereo, nella Carta dei Diritti del Passeggero.

Dal 2014, è in discussione al Consiglio dell’Unione Europea il nuovo regolamento, finalizzato a potenziare i diritti dei passeggeri.

Un classico esempio di inadempimento contrattuale a cui il turista, ma anche chi viaggia per lavoro, può andare incontro è costituito dal fenomeno dell’overbooking. Per il diritto italiano, il rifiuto di imbarcare il passeggero in possesso del regolare biglietto costituisce un vero e proprio inadempimento contrattuale del vettore, a norma dell’art. 1218 del codice civile. Di conseguenza, il vettore deve risarcire il danno subito dal viaggiatore. Mentre non ci sono dubbi sulla possibilità di risarcire il danno emergente, costituito dal prezzo del biglietto, è più difficile individuare il lucro cessante.

La normativa europea prevede che, in caso di overbooking, il passeggero abbia diritto di ottenere, a sua scelta, il rimborso senza penali del prezzo del biglietto del viaggio non effettuato, oppure un volo alternativo in

una data successiva.

Inoltre, indipendentemente dalla scelta effettuata dal viaggiatore, gli viene anche riconosciuto il diritto ad un pagamento immediato da parte del vettore di una compensazione pecuniaria. I passeggeri hanno diritto fino a 600 euro di risarcimento nel caso in cui venga loro negato l’imbarco. Quando il volo viene cancellato o posticipato, il risarcimento è calcolato in base alla distanza coperta dal volo.

Vengono applicate alcune restrizioni, nelle ipotesi in cui le compagnie offrano un’alternativa conveniente, oppure se il ritardo o la cancellazione sono dovuti a cause di forza maggiore. Il rimborso forfetario previsto non può essere considerato esaustivo, nell’ipotesi in cui il viaggiatore riesca a provare di aver subito un danno ulteriore, derivante, ad esempio, dalla giornata di vacanza non usufruita o dal mancato rientro al lavoro.

In questi casi, la prova dovrebbe essere fornita piuttosto facilmente: presentando il contratto di soggiorno nel luogo di destinazione oppure il prospetto degli emolumenti percepiti, al fine di dedurne il valore patrimoniale attribuito alle giornate di lavoro perse dal viaggiatore, a causa dell’inadempimento del vettore.

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