MSOI thePost Numero 100

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore Editoriale MSOI thePost 2 • MSOI the Post

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni , Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Lucky Dalena, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Elena Amici, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolino, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Daniele Carli, Debora Cavallo, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria di Donato,Tommaso Ellena, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Lara Amelie Isai-Kopp, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Nina, Pierre Clement Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Barbara Polin, Jessica Prieto, Luca Rebolino, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Federica Sanna, Martina Santi, Martina Scarnato, Edoardo Schiesari, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


LIBERTÀ DI STAMPA E DEMOCRAZIA, UNA RELAZIONE BIUNIVOCA Una riflessione con il prof. Edoardo Greppi

Edoardo Greppi, Presidente della SIOI sezione Piemonte e Valle d’Aosta, è professore ordinario di Diritto internazionale e professore di Diritto internazionale umanitario e tutela dei diritti umani nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo “Codice di diritto internazionale umanitario”, scritto con Gabriella Venturini ed edito da Giappicchelli, e “I crimini dell’individuo nel diritto internazionale”, pubblicato da UTET. La perdita di fiducia nei media tradizionali e la loro delegittimazione a scopi polemici e politici ha determinato rilevanti cambiamenti in diverse parti del mondo, riflettendosi spesso anche nella legislazione. Persino negli Stati Uniti, tradizionali paladini della libertà di espressione, il presidente statunitense Donald Trump, nell’ottobre scorso, è giunto ad auspicare che la Commissione Federale per le Comunicazioni rivedesse la sua procedura di rilascio delle licenze nei confronti delle principali reti di notizie, accusate di diffondere informazioni false e di essere “nemiche del popolo statunitense”. Siamo di fronte a una vera e propria crisi della democrazia e dei suoi valori fondamentali? Io non penso che siano in crisi la democrazia e i suoi valori fondamentali, o almeno mi auguro che non sia così. Ritengo che il rapporto tra informazione, intesa anche come libertà di stampa, e democrazia sia biunivoco e molto delicato. Noi spesso lamentiamo, anche nel nostro democraticissimo Paese, la carenza di un’informazione corretta. Credo che, in questa delicatissima materia, libertà debba essere coniugata con responsabilità. La democrazia richiede equilibrio, moderazione, rispetto. E una responsabilità molto rilevante grava sui media. In questi anni abbiamo assistito a profondi cambiamenti nel mondo dell’informazione, determinati dalla rete e dall’accesso diretto alle fonti. Determinati da questo mare magnum di informa-

zioni spesso incontrollate e incontrollabili. Chiunque può scrivere e fare affermazioni mettendole in rete e queste hanno una diffusione planetaria del tutto priva di controlli. È chiaro che introdurre controlli determinerebbe serie e gravi limitazioni a diritti fondamentali. Per altro verso, vi sono situazioni nelle quali l’esercizio di questa delicata libertà determina conseguenze non da poco. Riflettevo su una notizia recente: un giudice costituzionale comparso su tutti gli organi di informazione perché l’automobile di servizio era stata utilizzata dalla moglie. In seguito, è stata aperta un’inchiesta giudiziaria, ma si è anche verificato il classico meccanismo dello “Sbatti il mostro in prima pagina”. Qualche settimana dopo è uscito un trafiletto, laddove la notizia principale aveva occupato quattro colonne, in cui si rendeva noto il non luogo a procedere, perché era stato riscontrato che il magistrato fosse in buona fede. Gli era stato detto che il fatto che il veicolo fosse a sua disposizione significava poterlo utilizzare anche in ambito privato. Ed è una prassi che io so essere comune anche in altri ambiti. L’archiviazione del processo è stata relegata ad un trafiletto che nessuno probabilmente ha letto. I danni che un simile modo di trattare l’informazione possono determinare sono gravi. Il fatto in sé può avere una portata limitata, ma le ripercussioni possono essere gravi. Quindi l’informazione è un diritto, ma anche un compito delicato, affidato a sensibilità non sempre presenti. Ho qui davanti un articolo che riporta un dibattito che ha avuto luogo a Torino, di cui è stato protagonista, insieme al magistrato Vladimiro Zagrebelsky, anche il procuratore della Repubblica Armando Spataro. Questi dice che un giornalista dovrebbe pubblicare le notizie che sono di interesse pubblico, non solo quelle che ne soddisfano la curiosità. E qui entriamo in un campo molto delicato: l’informazione non deve avere finalità pedagogiche, ma non può essere svincolata da qualunque freno moraMSOI the Post • 3


le. Non tutte le notizie che pervengono debbono necessariamente tradursi in un servizio televisivo o in un articolo. La misura è forse il senso di responsabilità. Che ruolo può avere la libertà di stampa in società non democratiche? Esiste una via di mezzo tra propaganda e informazione? È possibile lottare per la libertà di stampa laddove non sono ancora presenti democrazia, la garanzia dei diritti civili e individuali? È la libertà di stampa che può far pressione per la democrazia e la garanzia delle libertà e dei diritti dell›uomo o è la democrazia e la presenza di governi non dittatoriali e trasparenti che portano al raggiungimento della libertà di stampa? Quello che dicevo all’inizio penso sia applicabile anche a questo tipo di argomenti. La relazione tra democrazia e libertà di stampa è biunivoca: non possiamo avere una democrazia genuina senza libertà di stampa, e ovviamente la libertà di stampa non esiste senza democrazia. Certo è che i regimi non democratici abbiano una forte inclinazione a usare l’informazione come arma di propaganda. La lettura, l’interpretazione, la diffusione o il blocco di una notizia divengono strumenti straordinari. Non dimentichiamo che questo valeva anche in passato, ma un tempo l’informazione era esclusivamente affidata alla carta stampata, che aveva una ridotta circolazione. Inoltre, gran parte della popolazione del Pianeta era illetterata. Quindi l’impatto della notizia, anche in contesti di relativa democrazia, era limitato. Oggi invece è planetario, hanno incominciato la radio e la televisione a diffondere l’informazione in maniera globale, adesso continua Internet. In questi mesi abbiamo visto accendersi ovunque il dibattuto sulla gestione dei dati e delle informazioni da parte dei social media e del mondo dell’informazione globale. Pubblicare una notizia in rete è facilissimo, eliminarla è impossibile. Resta scritta nella pietra per i secoli. Non si è trovata ancora una soluzione. Censurarla come accade nella Repubblica Popolare Cinese? È una via scelta da alcuni regimi, non certo la soluzione che auspichiamo. Le fake news sono realmente un problema. Chiunque di noi conosca una certa materia, e cerchi online notizie inerenti ad essa, non sa se piangere o ridere per lo sconforto. Si accorge immediatamente di quanta immondizia ci sia online. Leggevo che di recente un grande esperto ha scritto un libro sulla questione dei vaccini e un fantasioso parlamentare gli ha chiesto di confrontarsi in un dibattito pubblico su questi temi. Questo signore molto garbatamente ha risposto: “Certo, sono a disposizione. Prenda una laurea in medi4 • MSOI the Post

cina e un dottorato di ricerca in immunologia e poi sarò pienamente disponibile ad un confronto”. Che cosa vuol dire? Significa che l’informazione non è far prendere aria alle tonsille, la libertà di dire ciò che si vuole è una grossa responsabilità. Chi interviene in un dibattito pubblico deve avere cognizione di causa. Noi dell’Università di Torino abbiamo intitolato il nuovo Campus a Luigi Einaudi, grandissimo statista e uomo di pensiero. Abbiamo voluto mettere all’ingresso del Campus uno dei suoi pensieri più penetranti: “Conoscere per deliberare”. Nella Serenissima Repubblica di Venezia si diceva “Prima de parlar tase”. Questo ritengo debba essere il compito, oserei dire la missione, dell’università: invitare i giovani a pensare con la propria testa e ragionare. A studiare e conoscere. Per poi essere liberi di prendere decisioni grazie a questi strumenti. Questo vale anche per l’informazione e per il rapporto con il grande pubblico. Postare una notizia online è una responsabilità grave e gravosa: lo possono fare anche i pazzi e gli ignoranti. Abbeverarci ad una fonte la cui acqua non ha una provenienza sicura e verificabile… Va altresì riconosciuto che i regimi, di qualunque natura, facciano sconfinare l’informazione nella propaganda e utilizzino la notizia di informazione come strumento di azione politica. Ecco perché noi siamo ancora il Paese, e ritengo sia un problema serio dopo un quarto di secolo, che non ha risolto il problema del conflitto di interessi. Questo mette in rotta di collisione la democrazia, nella sua accezione più genuina e corretta, con la proprietà dei mezzi di informazione. Oggi il dibattito è tutto incentrato su Internet, ma non è il solo problema. È stato rilevato, anche nelle più recenti elezioni, che la stragrande maggioranza dell’elettorato prenda le notizie dalla televisione. E anche questa è una caratteristica del nostro mondo di cui non possiamo ignorare gli impatti. Qual è la responsabilità del giornalista che si occupa di società e nazioni distanti e diverse dalla sua? È sempre possibile raccontare la realtà in modo obiettivo? È giusto farlo? Sulla correttezza sarei orientato a dire di sì. Sul fatto che sia sempre possibile, voglio ancora fermamente illudermi che lo sia. Spesso ho la sensazione, davanti a certi articoli o servizi televisivi, che vi sia sempre in agguato il rischio dell’idea preconcetta, della costruzione a priori. Le domande stesse sono formulate in modo tale da condizionare la risposta. E questo vizia l’approccio all’informazione. “È vero che oggi piove?” è un modo per formulare una domanda. Un altro è “Che tempo fa oggi?”. La seconda formulazione lascia massima discrezione all’interlocutore. La prima contiene già diverse premesse.


Nel mondo dell’informazione questo tipo di atteggiamento è sempre in agguato: preconcetti, idee già consolidate, tesi di cui si chiede solo conferma, sono sempre un rischio. E producono una stortura. Alcuni avvenimenti recenti – partendo dal “caso Marò” sino a giungere ai “fatti di Bardonecchia” – hanno dimostrato, ancora una volta, quanto l’informazione giornalistica possa influenzare le relazioni – e a volte le crisi – internazionali. Può esistere, o è auspicabile che esista, un giornalismo “giuridicamente” informato? Questi casi di cronaca mostrano effettivamente quanto sia importante il requisito della correttezza nel mondo dell’informazione, lo si diceva già in precedenza. L’informazione deve essere la più

completa e corretta possibile. Il giornalismo conosce anche altri strumenti, come gli editoriali, ma il dato su cui si fonda una notizia deve essere corretto. Diversamente si produce una stortura. Lei ha citato il caso recente di Bardonecchia. È stato un episodio nel quale casualmente mi sono trovato coinvolto. Mi trovavo a sciare nei dintorni la vigilia di Pasqua, mi telefonò la Rai per farmi un’intervista, chiedendomi di raggiungerli alla stazione di Bardonecchia. Non c’era solo la troupe della Rai, c’erano anche altre reti televisive, nonché diversi giornalisti della carta stampata. Il risultato che ne è scaturito ha connotazioni comiche, persino simpatiche. Uno dei giornali che mi ha intervistato ha riportato che io indossassi la tuta da sci – e questa è un’informazione corretta

– aggiungendo, però, che io fossi giunto alla stazione di Bardonecchia “Per vedere la situazione”. Come chi, notando un incidente sulla strada, si ferma a vedere se ci sono morti e feriti. E questa non è un’informazione corretta, perché io non sono sceso a “vedere la situazione”. È un dettaglio sciocco ma rivelatore. Che cosa titilla, per dirla con le parole del procuratore Spataro, la curiosità della gente? Che cosa facesse lì un professore di diritto internazionale. Troppo banale dire che era un giorno di festa e che stava sciando. Ben più piccante raccontare che fosse andato a vedere se c’era stata una violenza. In quella sede ho dato le mie risposte cercando che fossero il più possibile chiare e corrette. Da una parte, rispondendo alla precisa domanda “C’è stata una violazione?” con “Sì, senz’altro”, allo stesso tempo evidenziando che la faccenda avesse profili diversi da quelli messi in luce. Ad esempio, se violazione c’è stata, e c’è stata, non era sicuramente un atto di guerra. Perché rispondere così? Perché mi ero reso conto, andando lì e parlando con i protagonisti della vicenda, che l’informazione non era passata in maniera totalmente corretta. Dire “agenti armati fanno irruzione” fa sì che chi legge o ascolta pensi a dei cowboy. Gli agenti erano armati ma, come mostrano le fotografie, le armi erano nella fondina e non sono mai state tirate fuori. Voglio dire che è la stessa violazione che la polizia francese (o la Gendarmerie Nationale) commette quando arriva a Bardonecchia per motivi di servizio e si ferma a bere un caffè. I poliziotti entrano nel bar armati, ma qualcuno dà notizia di un’irruzione? L’informazione, apparentemente corretta, non era tale, non in pieno. Erano armati, ma non era quello il dato rilevante. Fossero stati disarmati o in borghese la violazione ci sarebbe stata ugualmente. La stessa ONG che dice “i presidi sanitari godono di protezione persino in tempo di guerra” usa toni che forse andrebbero abbassati. Anche perché l’irruzione non è avvenuta nel presidio sanitario, i medici erano nella sala accanto, come ha dichiarato uno di loro in un’intervista al Corriere della Sera. Di nuovo, si fa del giornalismo a tesi, l’informazione cerca di trasmettere la sua visione dei fatti. E come è stata cucinata la mia risposta? C’è chi ha evidenziato il mio riconoscimento della violazione, c’è chi ha enfatizzato come io sostenessi che la violazione era stata di entità modesta. In effetti, non erano le truppe corazzate del generale Heinz Guderian che il 1° settembre del 1939 entravano in Polonia. Provare a mantenere un atteggiamento corretto ed equilibrato rispetto alla notizia non è piaciuto. Chi voleva far passare che la violazione ci fosse stata ha utilizzato il mio intervento a sostegno, chi voleva sminuire i fatti ha evidenziato come io sostenessi la necesMSOI the Post • 5


sità di abbassare i toni. Mi riferivo, ad esempio, a boutade come la dichiarazione di quel politico italiano, aspirante al ruolo di Presidente del Consiglio, che in televisione aveva proposto di “cacciare i diplomatici francesi”, fomentando reazioni inopportune. Evitare simili fenomeni è la responsabilità delicatissima di chi appartiene al mondo dell’informazione. Soprattutto con l’aria che tira nel nostro Paese, e non solo. Quell’aria è riconducibile a movimenti che si dichiarano sovranisti, termine elegante per richiamare gli spettri più terribili del nazionalismo del secolo scorso. È una grande responsabilità stimolare tali sentimenti, dato che questi ultimi mascherano un atteggiamento intollerante, razzista e xenofobo. Mettere l’accento sulla dimensione della violazione (e ripeto che c’è stata una violazione) significa superare una soglia che l’informazione non doveva oltrepassare: gettare benzina sul fuoco del nazionalismo, del razzismo, dell’intolleranza, della xenofobia. Gettare benzina sul fuoco della contrapposizione tra due Paesi che non solo sono confinanti, ma sono membri dell’Unione Europea e hanno accettato di condividere porzioni non irrilevanti della loro sovranità. Tanto che i poliziotti francesi vengono a Bardonecchia e le forze dell’ordine italiane fanno lo stesso quotidianamente. E se avvengono screzi o episodi poco eleganti sono risolti da chi ha la responsabilità di quegli uomini, in sede locale e senza che il fatto rimbalzi sino a Roma. La Farnesina ha opportunamente scelto di elevare una protesta, ma allo stesso tempo il prefetto di Torino, persona competente e responsabile, grande conoscitore dei questi problemi, interagiva con i suoi colleghi d’oltralpe, per conoscer esattamente le modalità in cui tutto era avvenuto e produrre soluzioni affinché scenari simili non si ripetessero. Potremmo allargare questo discorso all’infinito, ma, in sintesi, l’informazione deve essere corretta, pacata e responsabile, chi ha in mano una penna, un microfono o una tastiera ha un potere smisurato. Non è più come chi scriveva un editoriale sul Corriere della Sera cento anni fa. Nel 1918 il quotidiano di via Solferino veniva letto da poche migliaia di persone a fronte di una popolazione di decine di milioni. Oggi l’informazione ha una diffusione decisamente maggiore, persino l’articolo della carta stampa rimbalza sul sito del giornale, moltiplicandone i lettori. Negli ultimi decenni si sta verificando con sempre maggiore frequenza l’acquisto di testate giornalistiche, reti televisive e altri mezzi di comunicazione da parte di grandi conglomerati. Gli argomenti a favore della concentrazione dei mezzi di comunicazione ruotano attorno alla maggiore profittabilità, al minor controllo dei governi e alla possi6 • MSOI the Post

bilità di garantire un’offerta più varia e innovativa riducendo i rischi degli investimenti. All’opposto, la minor concorrenza ridurrebbe le possibilità di espressione delle minoranze (politiche, religiose, etniche, ecc.), si baserebbe sui profitti derivanti dalla pubblicità e non favorirebbe l’interesse pubblico. Complessivamente, ritiene che la concentrazione dei mezzi di comunicazione possa apportare maggiori benefici per i ‘consumatori di notizie’ rispetto ai potenziali danni? Confesso che è una materia che conosco poco. Le posso dare la sensazione dell’uomo della strada. La concentrazione ha essenzialmente ragioni economico-finanziare, viene perseguita con finalità che sono essenzialmente di tale natura. Ritengo che non tutti i casi di concentrazione avessero come fine il miglioramento del servizio di informazione. Allo stesso tempo, nel mondo contemporaneo sono spesso decisioni ineluttabili; ma da cittadino elettore, il monopolio dell’informazione in grossi gruppi non può che spaventarmi, dato che l’elettorato, come si diceva prima, è ancora molto influenzato dal mondo dell’informazione nelle sue scelte. Lo dicevo già 25 anni fa quando il proprietario di molti e molto estesi mezzi di informazione prese il governo del Paese. All’epoca si disse che bisognava regolamentare il conflitto di interessi. A distanza di un quarto di secolo, non è stato regolamentato. E questo credo che sia un problema tuttora. Mi diceva un amico, grande conoscitore ed esperto del mondo della comunicazione, quanto in quel periodo la pubblicità si spostasse da spazi Rai a spazi delle reti appartenenti a questa figura del mondo politico - e viceversa -, che controllava entrambi i gruppi. A tutto questo si aggiunge tutto quel mondo “unpredictable” che è il mondo della rete, nel quale tutto funziona con modalità differenti. La rete e i social media possono spostare i voti di centinaia di migliaia di elettori con notizie pilotate o false. Questa, indubbiamente, è la sfida che attende chi aspira a lavorare nel mondo dell’informazione. Io sono tendenzialmente un’ottimista e credo, spero, che la maggior parte degli operatori del mondo mediale sia costituito da persone serie, che sapranno trovare il modo di fare un’informazione accurata, corretta e, soprattutto, responsabile. Questa credo sia l’unica ricetta che si possa identificare. A cura di Giusto Amedeo Boccheni, Jacopo Folco e Davide Tedesco Con la collaborazione di Lorenzo Aprà, Luca Bolzanin, Pilar D’Alò, Luca Imperatore, Pierre Clément Mingozzi, Daniele Pennavaria, Chiara Zaghi


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole

AUSTRIA 9 aprile. La decisione di Vienna relativa alla limitazione della circolazione dei mezzi pesanti attraverso il Brennero ha provocato l’unanime opposizione degli eurodeputati italiani. Tale provvedimento determinerebbe un ingente danno economico per l’Italia. BELGIO 8 aprile. La Commissione Libertà civili del Parlamento europeo ha posticipato la data prevista per la votazione relativa al progetto di riformare la comune procedura prevista per la protezione internazionale. La proposta, redatta da Laura Ferrara del M5S, introdurrebbe un tempo limite di 6 mesi per giungere ad una decisione sulle domande d’asilo.

FRANCIA 12 aprile. Macron ha accusato Assad di aver utilizzato armi chimiche durante l’attacco avvenuto presso la città di Douma, nei pressi di Damasco e causa di 70 morti e 1000 feriti. Le intenzioni francesi sarebbero quelle di “rimuovere la capacità del regime di Assad di sferrare

LIBERTÀ CONDIZIONATA PER PUIGDEMONT Una grande vittoria e una grande sconfitta

Di Giuliana Cristauro Il tribunale regionale superiore dello Shleswig-Holstein ha deciso di concedere, dietro cauzione, la libertà condizionata per il leader indipendentista catalano Carles Puigdemont. L’accusa principale di “ribellione allo Stato”, contenuta nella richiesta di estradizione avanzata da Madrid, è stata respinta. Resta in piedi, invece, l’accusa di malversazione di fondi governativi per il finanziamento del referendum indipendentista. Il leader separatista dovrà restare in Germania in attesa che la giustizia tedesca si pronunci in via definitiva sull’estradizione. Puigdemont è stato arrestato il 25 marzo scorso nella Germania settentrionale e poi trasferito nella prigione di Neumünster. Ivi l’ufficio del procuratore ha chiesto alla Corte superiore regionale un mandato di estradizione contro l’ex presidente catalano per “ribellione” e “malversazione ai danni dello Stato”, i due reati contenuti nell’ordine di arresto europeo diffuso dalla Spagna. Il tribunale tedesco ha ritenuto il grado di violenza raggiunto e non sufficient per configurare il reato di “alto tradimento” previsto dall’articolo 81 del codice penale tedesco e pertanto ha dichiarato inammissibile la richiesta di estradizione. Per

i giudici tedeschi non è sufficiente che il crimine compiuto sia “fondamentalmente comparabile” nel diritto tedesco, ma è necessario che “l’intero caso sia analizzato come se il reato sia avvenuto in Germania, come se il convenuto sia un cittadino tedesco e come se le istituzioni coinvolte siano tedesche”. La liberazione di Puigdemont rappresenta una grande vittoria per gli indipendentisti e una grande sconfitta per la giustizia spagnola e per il governo Rajoy. La decisione potrebbe aver compromesso il principio del riconoscimento reciproco, il cui scopo è proprio quello di armonizzare le decisioni giudiziarie penali provenienti da sistemi giuridici e facilitare l’arresto e la consegna di persone tra autorità giudiziarie diverse attraverso una fase di cooperazione politica, tipica dei processi di estradizione. Il ministro della giustizia spagnolo Rafael Catalá ha dichiarato che “Madrid rispetta la decisione dei giudici tedeschi”. Il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, ha ribadito che il conflitto “deve essere risolto con la Costituzione e l’ordinamento giuridico spagnolo”. Intanto, la giustizia belga ha lasciato in libertà senza cauzione fino alla fine della procedura tre ministri catalani per i quali la Spagna richiede l’estradizione.

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EUROPA attacchi chimici, riservandosi la possibilità di rispondere con un intervento militare diretto contro Damasco”. ITALIA 10 aprile. L’Italia non ha aderito alla European Blockchain Partnership, sottoscritta da 22 Paesi. La scelta è apparsa discutibile alla luce della centralità internazionale assunta del tema della tutela dei dati personali.

UNGHERIA 12 aprile. I gruppi dei Socialisti e democratici (S&D), ALDE e Sinistra unitaria (GUE) insistono per giungere alla sospensione del diritto di voto ungherese in seno al Consiglio europeo. La posizione assunta avrebbe lo scopo di scongiurare la minaccia allo Stato di diritto messa in atto dal leader ungherese Viktor Orban. A cura di Edoardo Schiesari

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UNGHERIA, PLEBISCITO PER ORBÁN L’OSCE tuttavia denuncia: “scelta pilotata”

Di Alessio Vernetti Domenica 8 aprile l’Ungheria è tornata alle urne per le elezioni dell’Assemblea Nazionale, il Parlamento monocamerale del Paese. La coalizione di centro-destra guidata dal premier uscente Viktor Orbán, composta da Fidesz e dal Partito Popolare Cristiano Democratico, ha ottenuto 134 seggi su 199, superando la maggioranza dei due terzi con cui è possibile modificare la Costituzione. Orbán, primo ministro dal 1998 al 2002 e poi dal 2010, si avvia così a guidare il suo quarto Governo. L’affluenza alle urne ha superato il 68%. Il partito di estrema destra Jobbik è giunto secondo con 25 seggi; seguono la coalizione socialista ferma a quota 20, quella democratica con 9 seggi e i verdi con 8. Visti i risultati deludenti, i leader di questi partiti di opposizione, con l’eccezione di quello della coalizione democratica, si sono dimessi. La discrepanza di quasi 20 punti percentuali tra voti (49%) e seggi (67%) ottenuti dalla coalizione vincitrice è dovuta al sistema elettorale, introdotto nel 2011 da Orbán, che assegna 106 seggi in collegi uninominali a turno unico e 93 seggi su base proporzionale: la quota maggioritaria ha permesso a Orbán di conquistare 85 degli 88 collegi

fuori Budapest, mentre i partiti di sinistra hanno vinto in 12 dei 18 collegi della capitale. La campagna di Orbán è stata incentrata sullo stop all’immigrazione: “se i migranti entrano nel Paese, non c’è modo di tornare indietro”, aveva detto nell’ultimo discorso prima del silenzio elettorale. D’altronde, già nel 2015, Orbán aveva fatto costruire una barriera metallica lungo i confini con Serbia e Croazia per scoraggiare l’immigrazione clandestina, ed è di pochi mesi fa la legge ribattezzata “Stop Soros”, volta ad effettuare un giro di vite nei confronti dei finanziamenti che arrivano a tutte quelle ONG che si occupano di accoglienza ai migranti. L’OSCE, tuttavia, ha rilevato “una pervasiva sovrapposizione tra lo Stato e le risorse del partito di Governo”, che ha minato “la capacità dei contendenti di competere ad armi pari”. Inoltre, nonostante l’ampia gamma di opzioni politiche, “la retorica intimidatrice e xenofoba, i media faziosi ed un finanziamento opaco della campagna hanno ristretto lo spazio per un dibattito politico sincero”. La Commissione Europea ha inoltre ammonito l’Ungheria, ribadendo che la difesa dei valori democratici dell’UE è “un dovere comune di tutti i Paesi membri, senza eccezione”.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

ZUCKERBERG TESTIMONIA AL CONGRESSO SULLA DIFFUSIONE DI DATI DEGLI UTENTI

Centrale la questione della protezione della privacy dei cittadini

STATI UNITI 6 aprile. Fonti del WSJ rivelano che la Casa Bianca starebbe considerando la possibilità di imporre nuovi standard ambientali, molto rigidi, sulle emissioni delle auto di importazione. Una simile iniziativa determinerebbe un aumento del prezzo delle macchine importate e un rilancio del mercato automobilistico nazionale. 8 aprile. A New York, un incendio si è propagato all’interno della Trump Tower, sede della Trump Organization, coinvolgendo il 50° piano del grattacielo. Il rogo ha causato una vittima, inizialmente estratta viva dall’edificio, ma deceduta in seguito in ospedale. Anche alcuni pompieri, intervenuti per spegnere le fiamme, sono rimasti feriti. 9 aprile. Di fronte al presunto utilizzo di armi in chimiche in Siria, contro la popolazione civile, Trump ha riferito che gli “USA non permetteranno un simile uso della forza contro inermi cittadini”. In riunione con il Gabinetto, il Presidente ha chiesto una risposta all’interrogativo circa l’autore dell’attacco chimico, contro il quale saranno presi provvedimenti immediati. 10 aprile. Mark Zuckerberg si è presentato di fronte al Congresso USA, dopo lo scoppio dello scandalo Cambridge Analytica, che ha coinvolto la sua Società. L’ac-

Di Luca Rebolino Martedì 10 aprile, Zuckerberg ha testimoniato davanti a due commissioni del Senato sul ruolo svolto da Facebook nel caso Cambridge Analytica e nelle interferenze russe durante le ultime elezioni presidenziali. Il giorno successivo, il co-fondatore del social network è stato ascoltato alla Camera. In seguito alle rivelazioni emerse negli ultimi mesi, l’opinione pubblica statunitense ha dimostrato un grande interesse, e al contempo una forte preoccupazione, sulle modalità di utilizzo dei dati degli utenti da parte di terzi. In particolare, le preoccupazioni maggiori sono emerse per quanto attiene la potenziale minaccia della privacy, oltre alla possibilità di adoperare tali informazioni per manipolazioni politiche. L’AD di Facebook ha aperto la sua testimonianza con una dichiarazione sulla posizione della società nella vicenda e in cui ha annunciato anche nuove misure per proteggere i dati dei suoi utenti. Zuckerberg, fin da subito, si è completamente assunto tutte le responsabilità per quanto accaduto. Tuttavia, le giustificazioni non sono tardate: il trentatreenne newyorkese ha dichiarato che la rapida crescita di un’azienda dai caratteri così innovativi e fondata in così giovane età l’ha colto parzialmente

impreparato ad affrontare questioni di tali inedite proporzioni. Lo spinoso problema che la società ora deve affrontare è proprio l’utilizzo dei dati personali degli utenti da parte di applicazioni di terze parti. Infatti, nella campagna presidenziale i collaboratori del comitato elettorale di Trump hanno avuto a disposizione i dati, raccolti da Cambridge Analytica, di 87 milioni di elettori per diffondere messaggi personalizzati. Zuckerberg si è difeso dicendo che ora gli utenti possono controllare quanti e quali dati condividere, assicurando che questi siano solo quelli strettamente necessari. I 44 senatori che hanno interrogato il giovane AD hanno mostrato però incertezza e poca incisività, in parte a causa dalla loro evidente scarsa familiarità con il funzionamento della piattaforma. Lo stesso Zuckerberg ha dovuto più volte chiedere di riformulare le domande perché troppo generiche o poco chiare. Al termine dell’audizione, risulta particolarmente significativa la proposta di introdurre nuove e più stringenti norme per tutelare la privacy dei cittadini statunitensi, pur senza compromettere la capacità innovativa e la competitività delle società della Silicon Valley. La legislazione statunitense in questa materia è, infatti, volutamente più permissiva rispetto ad altre, come quella dell’UE.

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NORD AMERICA quisizione di dati personali di milioni di utenti Facebook, da parte dell’azienda britannica, è stata al centro delle interrogazioni. Inoltre, alcuni senatori hanno chiesto chiarimenti circa il coinvolgimento del social network nelle elezioni presidenziali USA del 2016. Zuckerberg ha risposto esaustivamente alle domande, ammettendo i limiti della piattaforma ed assumendosi ogni responsabilità per gli errori commessi. 10 aprile. Sono sempre più compromessi i rapporti USA-Russia. Il presidente Trump ha, infatti, definito l’attuale stato delle relazioni con il Cremlino come “uno dei più critici dai tempi della guerra fredda”. Usando un linguaggio molto provocatorio, Trump ha accusato Putin di appoggiare “a Gas Killing Animal” (Assad) avvertendo Mosca che gli USA “si stanno preparando ad inviare missili in Siria”. CANADA 6 aprile. Nella provincia di Saskatchewan, un autobus che trasportava la squadra di hockey giovanile Humboldt Broncos si è scontrato con un camion. Nello schianto hanno perso la vita 14 giocatori e l’allenatore del Team, mentre altri 15 ragazzi sono rimasti feriti. 10 aprile. Il Primo Ministro canadese si è unito al Presidente americano nel condannare duramente i fatti verificatesi in Siria la scorsa settimana. Trudeau ha descritto l’attacco chimico come “a war crime”, appellandosi alla Comunità Internazionale sulla necessità di assumere una posizione comune e inamovibile di fronte simili eventi. A cura di Martina Santi

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UN DEBITO VA SEMPRE RIPAGATO

Secondo il CBO, la crescita del debito statunitense danneggerebbe l’attuale situazione fiscale

Di Leonardo Veneziani Le misure economiche del presidente Donald Trump potrebbero portare, nel 2020, il deficit annuale degli Stati Uniti alla cifra record di 1 bilione di dollari all’anno. Secondo lo studio del Congressional e Budget Offic (CBO), una agenzia federale creata nel 1974 proprio per fornire al Congresso consulenze e studi in materia economica, il piano dei tagli alle tasse varato da Trump lo scorso dicembre 2017 creerebbe un significativo aumento del deficit del Paese. Il nuovo piano fiscale porterebbe le finanze statunitensi, già in difficoltà per via dell’ingente debito, a raggiungere 2 anni prima di quanto preventivato la nuova cifra record. In questo modo, una fetta sempre maggiore delle finanze americane dovrebbe essere utilizzata per pagare il debito e gli interessi su di esso: si passerebbe così dall’attuale 1,6% al 3,1% del 2028. Il CBO, che ha da sempre fornito un parere imparziale e molto tecnico sulle manovre da adottare in materia di finanza pubblica e di bilancio alle diverse amministrazioni alla Casa Bianca, ha anche affermato che i tagli delle tasse “non si ripagheranno da soli”. Le proiezioni del CBO

ipotizzano che, nel caso in cui i futuri Congressi decidano di mantenere tale linea, il quadro del deficit e del debito peggiorerà ulteriormente. In tale scenario, il debito statunitense supererebbe la quota del 105% rispetto al PIL, soglia superata solamente una volta nella storia economica degli Stati Uniti. Se, da un lato, gli effetti benefici del taglio delle tasse risultano utili per stimolare la crescita economica, essi influenzerebbero l’andamento solamente nel breve periodo. L’espansione economica potrebbe rapidamente cominciare a perdere velocità, con una crescita che si riduce all’1,8% nel 2020. Si tratta, infatti, di una prospettiva molto meno ottimistica rispetto al bilancio più recente dell’amministrazione Trump, che prospettava una crescita dell’economia di circa il 3% l’anno per la prima metà del prossimo decennio, con una modesta decelerazione solo in seguito, grazie al nuovo piano fiscale del Presidente. Il rapporto potrebbe, fra l’altro, garantire alla Cina una posizione di maggior forza in vista di eventuali negoziati sul debito americano, in quanto essa è il creditore maggiore del debito statunitense.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

LIBIA 10 aprile. Nonostante il diniego dei suoi portavoce, sembrerebbe che il generale Haftar, il quale controlla le milizie libiche contrapposte al governo di Serraj, si trovi in coma in un ospedale giordano in seguito ad un attacco di cuore.

PALESTINA/ISRAELE 5 aprile. In seguito agli scontri nella striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno sottolineato il rischio ambientale legato all’incendio di pneumatici messo in atto dai manifestanti palestinesi, spiegando che “ci vorranno anni prima di purificare nuovamente l’aria”. 8 aprile. Nel sabato precedente alla Pasqua ortodossa, Robert Serry, inviato speciale delle Nazioni Unite in Medio Oriente, ha dichiarato di “essere stato bloccato dall’esercito israeliano mentre si recava al Santo Sepolcro insieme ad alcuni cittadini palestinesi”. QATAR 10 aprile. L’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, ha incontrato, presso la Casa Bianca,

LA LINEA SOTTILE

Il fragile equilibrio della crisi del Golfo

Di Clarissa Rossetti Prosegue da ormai dieci mesi la crisi del Golfo, con un embargo aereo, marittimo e terrestre imposto al Qatar da Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e il Bahrain in seguito alle accuse di sostegno al terrorismo rivolte allo stato peninsulare. Sulla scia del blocco, i governi di Mauritania, Isole Comore, Maldive e Hadi, in Yemen, hanno tagliato ogni collegamento diplomatico con Doha, mentre le relazioni sono state significativamente ridotte anche da Giordania, Niger, e Djibouti. Il Qatar, storicamente noto per il suo supporto ideologico e strategico all’Islam politico e a gruppi come Hamas, i Fratelli Musulmani e vari gruppi islamisti ribelli in Siria e Libia, continua a negare fermamente le accuse. Il paese si dichiara aperto al dialogo per risolvere la crisi senza rinunciare alla sovranità e ai propri interessi, secondo quanto riferito da Al Jazeera nei giorni passati citando una portavoce del Ministro degli Esteri del Qatar. Nonostante i tentativi della comunità internazionale di mediare il conflitto, la situazione sembra stagnante, se non peggiorata, ed eventuali soluzioni non sono all’ordine del giorno nella regione: nell’invito al Qatar a partecipare al summit

della Lega Araba, che si terrà il prossimo 15 aprile a Riyadh, non era inclusa un’agenda che comprendesse la discussione della crisi attualmente in corso nella penisola del Golfo. Al contrario, la tensione ha di recente toccato l’apice con l’annuncio dell’Arabia Saudita, pochi giorni fa, di costruire una base militare a Salwa, al confine con il Qatar. Lo stabilimento, collocato tra la frontiera e un canale marittimo, è un nuovo progetto saudita che eliminerebbe l’unico confine terrestre del Qatar trasformando il territorio in un’isola. Il piano, da realizzarsi grazie a investimenti privati sauditi ed emiratini, e con l’intervento di compagnie egiziane nella realizzazione del canale, risulta problematico e difficilmente realizzabile, come riporta la fonte regionale Middle East Monitor, ma Riyadh sembra fare sul serio. Secondo alcuni esperti geopolitici, la prospettiva della costruzione di una base militare a Salwa rappresenterebbe il rischio per il Qatar di perdere la sovranità su una parte del proprio territorio, incluso nella regione di Salwa che, tramite lo stabilimento di una base militare saudita tra il nuovo canale e il confine sarebbe strategicamente controllata dal Regno Saudita. MSOI the Post • 11


MEDIO ORIENTE il presidente Trump per parlare della relazione strategica tra i due Paesi, del finanziamento al terrorismo e della crisi tra i Paesi del Golfo e il Qatar.

IL VENERDÌ DEGLI PNEUMATICI

“La Grande marcia per il ritorno” continua nonostante le violenze

11 aprile. È stata resa nota una telefonata effettuata dal presidente Trump, al leader saudita Salman, per chiedere una rapida risoluzione della crisi tra i Paesi del Golfo, capeggiati da Arabia Saudita, e il Qatar. Di Martina Scarnato Il 6 aprile scorso, per il secondo venerdì consecutivo, migliaia di palestinesi si sono nuovamente recati al confine tra la Striscia di Gaza e Israele per protestare contro l’occupazione israeliana. SIRIA 11 aprile. Dopo le accuse di un attacco chimico in uno degli ultimi forti controllati dai ribelli, Trump ha informato il presidente russo, Vladimir Putin, che “procederà al più presto ad un attacco”. Numerosi Paesi hanno sottolineato il pericolo imminente di uno scontro missilistico, circoscritto, in particolare,altraffico nello spazio aereo siriano. YEMEN 10 aprile. Dopo le parole del leader della capitale Sana’a, il quale ha minacciato “un anno di missili balistici”, alcuni video sui social media hanno mostrato le immagini di un missile che sarebbe stato lanciato dai ribelli yemeniti Houti verso Riad; secondo quanto dichiarato su twitter da una tv appartenente al gruppo ribelle. A cura di Lucky Dalena

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Il venerdì di proteste è stata ribattezzato dalla stampa internazionale “Il venerdì degli pneumatici”, poiché i palestinesi avrebbero bruciato pile di pneumatici per utilizzare il fumo come protezione contro i proiettili israeliani. Secondo l’esercito israeliano, invece, quest’ultimo sarebbe stato un escamotage per provare a oltrepassare la recinzione al confine. Alla fine della giornata, secondo il Ministero della Sanità di Gaza, il bilancio è stato di circa 9 morti e più di mille feriti. Le dimostrazioni sono parte di un movimento chiamato la “Grande marcia per il ritorno”, che è cominciato venerdì 30 marzo, nell’anniversario della confisca da parte dello Stato israeliano di circa 2.000 ettari di terra appartenente ai palestinesi. Il bilancio a fine giornata fu di circa 20 morti e 1.415 feriti. L’esercito israeliano ha affermato che avrebbe aperto il fuoco soltanto contro manifestanti, etichettati come “istigatori”, che cercavano di far breccia nella barriera di confine

lanciando bombe. Gli ufficiali israeliani hanno accusato Hamas di aver organizzato le proteste. Tuttavia, secondo quanto riportato dal giornale The Independent, sembrerebbe che l’idea di marciare verso la barriera di confine sia nata spontaneamente sui social media e che solo in un secondo tempo sarebbe stata appoggiata da Hamas. Inoltre, l’organizzazione Human Rights Watch ha pubblicato un report nel quale afferma che non è emersa alcuna immagine a sostegno della tesi che i dimostranti avessero compiuto azioni violente nei confronti dell’esercito israeliano. In seguito, il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha richiesto “un’investigazione indipendente e trasparente” sulle azioni perpetrate dall’esercito israeliano. Nonostante le violenze, la “Grande marcia del ritorno” non è destinata ad esaurirsi presto: le dimostrazioni, infatti, dovrebbero continuare fino al 15 maggio, il “giorno della Nakba”, che commemora l’espulsione di circa 750.000 palestinesi dalle loro terre nel 1948. Non è però l’unica ragione: difatti, per il 14 maggio, giorno in cui Israele festeggia il giorno dell’Indipendenza, è previsto lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole BIELORUSSIA 9 aprile. Alex Kremer, country manager per la Bielorussia della Banca Mondiale, ha dichiarato che “a partire dal 1 luglio 2018 fino al 31 luglio 2022, la Banca Mondiale investirà circa 570 mln di dollari in Bielorussia”. L’obiettivo della Banca sarebbe quello di favorire l’aumento dell’occupazione, promuovere la crescita del settore privato e l’ammodernamento dell’apparato pubblico. MOLDAVIA 6 aprile. L’Unione Europea ha ricordato alla Moldavia che i 100 milioni di investimenti, promessi nel settembre 2017, non verranno liberati finché non verrà modificato il sistema elettorale e non verranno presi dei provvedimenti per contrastare la grave situazione di corruzione del Paese. 11 aprile. Il Ministro degli Esteri bielorusso e la Banca Mondiale hanno firmato un ulteriore accordo, grazie al quale la Bielorussia riceverà 12 milioni di dollari per finanziare il proprio programma di sviluppo del patrimonio forestale.

RUSSIA 6 aprile. Esattamente un anno fa, i notiziari e i giornali di tutto il mondo riportavano la notizia dei numerosi arresti e torture, avvenuti in Cecenia, ai danni di decine di persone in quanto omosessuali o presunti tali. A distanza di

CAMBIAMENTI DI ROTTA PER L’UZBEKISTAN Dall’autoritarismo alla libertà? no guidati da Rustam Inoyatov, capo dell’intelligence dal 1995, il quale era considerato uno dei personaggi più spietati dell’area post-sovietica per la sua disumanità e crudeltà. A gennaio di quest’anno, Mirziyoyev ha licenziato Inoyatov. La versione ufficiale, però, è che Inoyatov abbia ottenuto una promozione diventando consigliere personale del presidente. Questa carica ha Di Lara Aurelie Kopp-Isaia soltanto una funzione onoraria e viene normalmente riservata Per 25 anni , dal 1991 al 2016, ai funzionari più anziani. l’Uzbekistan è stato governato Durante il discorso di fine anno, da Islam Karimov diventando Mirziyoyev ha rimproverato i uno dei paesi più autoritari e servizi segreti accusandoli di chiusi al mondo. Alla sua morte, aver utilizzato potere eccessivo è stato nominato suo successore e di non aver mai rispettato i diShavkat Mirziyoyev, che era ritti umani. Dopo il licenziamengià stato Primo Ministro a par- to di Inoyatov, il Presidente ha tire dal 2003. modificato lo statuto dell’intelligence uzbeca, aggiungendo ai L’opinione pubblica uzbeca e loro doveri quello di proteggere internazionale, riteneva che la la libertà e i diritti umani di tutti legislatura di Mirziyoyev non gli uzbechi. sarebbe stata diversa rispetto a quella di Karimov, poiché la Negli ultimi mesi non è stato carica di Primo ministro che già solo il capo dei servizi segreti aveva ricoperto per 13 anni, era ad essere licenziato, ma anche il stata fortemente voluta dal suo suo vice, Gulyamov poiché accupredecessore e non si era mai sato di traffico di armi, insieme dimostrato in disaccordo con ad una decina di alti funzionari. le direttive imposte dall’alto. È in atto una vera e propria Tuttavia, nel corso degli ultimi purga non solo nei servizi setempi, la situazione in Uzbeki- greti, ma anche nella procura stan è cambiata. generale e nel ministero degli Nei confronti degli oppositori interni. si stanno adottando politiche Mirziyoyev sta cercando di almeno rigide; inoltre, il control- lontanarsi il più possibile dalla lo del governo sull’informazione figura del dittatore Karimov e e sui media si è alleggerito. Ma non trova nessun ostacolo sulla uno dei più grandi cambiamenti sua strada. Il suo governo sta riguarda la riforma dei servizi continuando sulla strada delle segreti statali. riforme poiché il paese ne ha grande necessità: non solo riforI servizi segreti uzbechi, Milliy me istituzionali, ma anche ecoXavfsizlik Xizmati, hanno avuto nomiche, necessarie per uscire un ruolo fondamentale duran- dall’estrema povertà che perte la dittatura di Karimov. Era- severa dal periodo di Karimov. MSOI the Post • 13


RUSSIA E BALCANI un anno, gli osservatori di tutto il mondo, continuano a chiedere chiarezza sui fatti e denunciano l’indifferenza delle autorità russe. Nel weekend, in molte città di tutto il mondo, verranno organizzate manifestazioni in ricordo delle vittime e per chiedere giustizia.

NUOVE ELEZIONI, VECCHIO POTERE

Le elezioni presidenziali in Azerbaijan consolidano il potere del presidente Aliyev durante l’estate. Per Arif Hacili, capo del partito d’opposizione Musavat, “è un’operazione per prolungare il potere di Aliyev di altri 7 anni”.

Di Vladimiro Labate SERBIA 11 aprile. Ribaltando in parte la precedente decisione, i giudici dell’Aja hanno condannato l’ex leader ultranazionalista serbo Vojislav Seselj, a 10 anni di reclusione per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi nel corso del conflitto nell’ex Jugoslavia. La sentenza, tuttavia, è priva di effetti. Seselj, infatti, non andrà in carcere avendo già trascorso 11 anni di reclusione dal 2003, quando si consegnò al Tribunale Penale Internazionale, al 2014.

UCRAINA 9 aprile. Per la prima volta, il ministro degli esteri ucraino, Pavlo Klimkin, ha ricevuto l’invito a partecipare alla riunione con i colleghi dei Paesi del G7, programmata a Toronto per il prossimo 22 aprile, per discutere della questione Russia-Ucraina e arrivare ad una decisione. A cura di Davide Bonapersona 14 • MSOI the Post

Le elezioni presidenziali dell’11 aprile in Azerbaijan sono diventate una sorta di incoronazione del presidente Ilham Aliyev. Il loro esito è apparso da subito scontato: i maggiori partiti d’opposizione hanno, infatti, deciso in blocco di boicottare la tornata elettorale e gli altri candidati alla leadership del Paese caucasico non rappresentano una vera alternativa al potere in carica o addirittura lo sostengono attivamente. Queste elezioni si svolgono in un clima di tensione politica interna. Ad inizio febbraio, il presidente Aliyev le ha spostate mediante la firma di un decreto, anticipandole di sei mesi ad aprile rispetto alla data prevista di metà ottobre. Il provvedimento non è stato accompagnato da nessuna e spiegazione ufficial , soltanto dalla constatazione che esso rispettava la Costituzione e il Codice elettorale. Molte motivazioni sono state ipotizzate per spiegare questa mossa: impedire all’opposizione di organizzarsi adeguatamente per l’appuntamento elettorale; dissidi interni al governo; la preoccupazione per l’economia azera; la paura di dover affrontare proteste di massa

L’unica certezza è che queste elezioni saranno un’ulteriore tappa del consolidamento del potere di Aliyev. Eletto nel 2003 dopo essere stato designato dal padre come proprio successore, Ilham Aliyev negli anni ha costruito uno Stato a propria immagine e somiglianza. Attraverso due referendum costituzionali, di cui l’ultimo nel settembre 2016, e tre elezioni, segnate da brogli e definite “prive degli standard fondamentali di libertà” dall’OSCE, il Presidente si è imposto come figura centrale della politica azera. Questo ruolo è stato raggiunto attraverso la repressione di ogni forma di dissenso: comuni sono le incarcerazioni di leader politici dell’opposizione, di militanti e attivisti in difesa dei diritti umani, ma anche di giornalisti e di avvocati. Il Paese si colloca al 162° posto nella classifica sulla libertà di stampa di Réporters sans frontières. Inoltre, rischia di essere espulso dal Consiglio d’Europa in riferimento alla condanna a 7 anni di carcere di Ilgar Mammadov, capo del Movimento di Alternativa Repubblicana (REAL), giudicata ingiusta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nonostante questa situazione, scarse o inesistenti sono le reazioni internazionali per ciò che succede in Azerbaijan, che con le sue importanti riserve energetiche rimane per l’Europa una valida alternativa al gas russo.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole KASHMIR: L’ASIA DIMENTICATA DALLA PACE BANGLADESH 9 aprile. Migliaia di studenti hanno protestato contro il sistema di quote per accedere a cariche di governo, giudicato discriminatorio. Si tratta di una delle proteste piu accese da quando Sheikh Hasina è stata eletta primo ministro nel 2009.

Il punto della situazione sul conflitto, all’indomani dei nuovi scontri

Di Daniele Carli

CINA 10 aprile. Il presidente cinese, Xi Jinping, in occasione dell’annuale Boao Forum for Asia (BFA), ha annunciato una serie di piani per rendere il mercato cinese più accessibile agli attori esteri. Il programma, “Un’Asia aperta e innovatrice per un mondo piu prospero”, prevede un miglioramento delle possibilità di investimento in Cina, la riduzione delle tariffe sulle importazioni di alcuni prodotti e un’implementazione della legislazione riguardante la proprietà intellettuale delle imprese straniere. La RPC nega che tali misure siano conseguenti alla guerra commerciale con gli USA. 12 aprile. Secondo il rapporto annuale di Amnesty International riguardante la pena capitale, la RPC si attesta ancora come il Paese in cui viene emesso il maggior numero di condanne a morte. Per quanto le cifre siano protette dal segreto di Stato, Amnesty stima che in Cina siano state eseguite più condanne che nel resto degli altri Paesi.

Lo scorso 1 aprile, l’esercito indiano, in collaborazione con polizia locale e federale, ha condotto operazioni anti-terroristiche in alcuni villaggi dei distretti di Sophian ed Anantnag, appartenenti allo Stato indiano di Jammu e Kashmir. L’azione è stata etichettata dalle organizzazioni separatiste e dal governo pakistano una violazione dei diritti umani e dei principi del diritto internazionale e si è risolta nell’uccisione di circa 20 elementi considerati sovversivi e 4 civili. Insieme ai sanguinosi scontri svoltisi a Srinagar il 6 aprile, i quali hanno coinvolto la polizia locale e gli studenti manifestanti per l’indipendenza dello Stato, le operazioni hanno riacceso un conflitto che aveva vissuto per diversi mesi una calma apparente. Ancora oggi, dopo circa 70 anni, il Kashmir continua ad essere teatro della diatriba geopolitica ed economica tra India e Pakistan; un contenzioso al quale, a partire dal 1989, si è aggiunto il fervore indipendentista e nazionalista della società civile kashmira, ben presto sfociato in vera e propria lotta armata, condotta in loco da gruppi paramilitari. L’ex primo ministro dello Jammu e Kashmir Farooq Abdullah ha recentemente dichiarato che

“l’indipendenza non è un’opzione”, auspicando che l’attuale Linea di Controllo (LoC), il confine militare che separa il Kashmir indiano da quello pakistano, venga trasformata in una “linea di pace”. Una soluzione di questo tipo, se da una parte continua ad essere osteggiata dai gruppi nazionalisti, dall’altra è stata almeno parzialmente accolta dalla dirigenza pakistana. Il 7 aprile, infatti, il delegato pakistano alle Nazioni Unite Maleeha Lodhi ha, per la prima volta, sollevato la questione di fronte al Presidente del Consiglio di Sicurezza ONU, affermando che la situazione venutasi a creare sul territorio e lungo la LoC rappresenta una seria minaccia per la pace e la sicurezza mondiale. Spesso posto all’ombra della drammatica situazione in Medio-Oriente, il conflitto del Kashmir continua ad essere la ribalta del contenzioso tra due potenze nucleari, con effetti devastanti sulla società kashmira. A tal proposito, l’intervento delle Nazioni Unite potrebbe rappresentare un evento decisivo ai fini della sua risoluzione. Finchè Nuova Delhi continuerà a considerare la questione meramente regionale, tuttavia, lo sforzo potrebbe comunque risultare vano. MSOI the Post • 15


ORIENTE COREA DEL SUD 6 aprile. L’ex-presidente del Paese, Park Geun-hye, è stata condannata a 24 anni di prigione e al pagamento di un’ammenda del valore di 18 miliardi di wons (13,8 mln di euro) per corruzione e abuso di potere nel quadro del “Choigate”. Tale scandalo, causa della sua destituzione, era venuto alla luce nell’ottobre del 2016 quando la rete televisiva JTBC aveva rivelato le interferenze di Choi Soon-sil, grande amica della Presidente, negli affari di Stato.

INDIA 8 aprile. Il primo ministro nepalese K.P. Oli, in visita ufficiale in India, ha firmato 3 accordi con la sua controparte indiana, Narendra Modi, in segno di distensione delle relazioni tra i due Paesi. Negli ultimi tempi le tensioni tra India e Nepal sono aumentate, soprattutto a causa della retorica anti-indiana perpetrata da Oli. NUOVA ZELANDA 12 aprile. Il governo neozelandese ha deciso di non concedere più alcun nuovo permesso per la ricerca di petrolio offshore come punto di partenza per una transizione verso un futuro a zero emissioni. Il primo ministro, Jacinda Ardern , si è posta come obiettivo il passaggio ad una produzione di energia elettrica proveniente al 100% da fonti rinnovabili entro il 2035. A cura di Micol Bertolini 16 • MSOI the Post

24 ANNI DI CARCERE PER L’EX PRESIDENTE SUDCOREANA Corruzione, abuso di potere e influenze dannose

Di Francesca Galletto Giunge al termine il processo durato 10 mesi di Park Guenhye, ex presidente della Corea del Sud, condannata venerdì 6 aprile in diretta televisiva dal Tribunale di Seul a 24 anni di carcere e multata per il valore di 17,5 milioni di dollari. Eletta come presidente nel 2013, con un mandato di 5 anni, sarebbe dovuta rimanere alla presidenza fino al 2018. Il 31 marzo 2017 fu però arrestata dopo che, a dicembre dell’anno precedente, era stata rimossa dalla presidenza per impeachment in seguito alla decisione dell’Assemblea Nazionale, confermata dalla Corte Costituzionale coreana. L’ex presidente si è fin dal principio dichiarata innocente considerando l’accusa di impeachment e il conseguente arresto una macchinazione politica a suo danno. Ciò nonostante, con il verdetto di venerdì scorso, al quale non era presente, è stata giudicata colpevole di 16 accuse su 18, tra corruzione, coercizione, abuso di potere e diffusione di segreti di stato. Al centro dello scandalo c’è il rapporto tra Park e Choi Soon-sil, rinominata la “Rasputin” della vicenda dai media internazionali, precedentemente condannata a 20 anni di carcere per corruzione ed intromissione

negli affari del governo coreano. L’ex presidente avrebbe infatti rivelato alla sua grande amica, una serie di segreti di stato riguardanti rapporti con altri Paesi e politiche economiche del governo; le avrebbe permesso di modificare i suoi discorsi pubblici e di intromettersi nella nomina di cariche pubbliche e governative. Le due avrebbero inoltre ricevuto diversi milioni di dollari da importanti manager di società sudcoreane che, secondo l’accusa, venivano fatte passare come donazioni per fondazioni create da Choi Soon-sil, in cambio favori politici. “L’ammontare complessivo delle mazzette che l’accusata ha ricevuto o richiesto in collaborazione con Choi è di oltre 23 miliardi di won (21,7 milioni di dollari)”, ha detto il giudice Kim Se-Yoon. Gran parte dell’opinione pubblica coreana crede che Park, fortemente influenzata dall’amica, fosse il burattino di Choi, ch gestiva il Paese attraverso di lei senza alcuna competenza governativa ufficial . e Park, fin dalle prime accuse, aveva infatti chiesto scusa ed ammesso di essere stata molto influenzata dall’amica, dichiarandosi comunque innocente. L’epilogo dello scandalo è stato però la conferma delle accuse con conseguente condanna della prima donna presidente della Corea del Sud.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

ELEZIONI INQUINATE IN NIGERIA E KENYA?

ALGERIA 11 aprile. Sono 257 i morti causati dallo schianto di un aereo militare nei pressi della base aerea di Boufarik, appena fuori la capitale Algeri. L’aereo trasportava 247 militari e 10 membri dell’equipaggio. Le cause dell’incidente non sono chiare. Il Ministero della Difesa ha aperto un’inchiesta.

Di Barbara Polin

CHAD 10 aprile. Il presidente Trump ha annunciato la revoca del travel ban, divieto di ingresso negli Stati Uniti, per i cittadini del Chad. Il Presidente ha aggiunto, inoltre, che il Paese centrafricano ha migliorato i procedimenti per la gestione delle identità e la condivisione delle informazioni. La revoca entrerà in vigore venerdì 13 aprile.

REPUBBLICA CENTRAFRICANA 10 aprile. Si sono verificati degli scontri, nel quartiere musulmano della capitale Bangui, tra gruppi armati locali e i peacekeepers delle Nazioni Unite. Il bilancio è di 22 morti, tra i quali un militare appartenente ai caschi blu. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha

Indagini in corso sul ruolo di Cambridge Analytica nelle ultime elezioni

L’ombra di Cambridge Analytica si allunga anche sulle elezioni di Nigeria e Kenya. Il flusso di rivelazioni sul ruolo inquinante della società inglese lambisce anche la regolarità delle elezioni nigeriane del 2007 e del 2015 e di quelle keniote del 2017. Secondo gli ultimi sviluppi, Cambridge Analytica sarebbe stata determinante per la politica nigeriana già nel 2007, quando la SCL, una sua affiliata locale, è stata assunta dal governo per le elezioni presidenziali. In un documento al vaglio delle autorità di Abuja, la SCL afferma di aver organizzato dei raduni anti-elettorali nei distretti fedeli all’opposizione, manifestazioni rese influenti grazie all’assunzione di leader religiosi e morali locali. I disordini e la scarsa credibilità delle elezioni del 2007 sono stati il contesto della vittoria del candidato governativo, alla morte del quale sarebbe salito al potere Goodluck Jonathan, Presidente uscente nel 2015. Il 2015 ha significato il ritorno della SCL nelle retrovie della politica nazionale. Assunta da un milionario nigeriano per sostenere la campagna presidenziale di Jonathan, la SCL ha ideato una strategia

mediatica che seminasse nei cittadini la paura nei confronti dell’allora candidato Muhammadu Buhari, musulmano. Nel 2015, infatti, la SCL ha progettato e diffuso un video in cui l’eventualità di un governo Buhari era assimilata all’imposizione della sharia islamica, un futuro le cui dinamiche deleterie e settarie erano rappresentate con immagini violente e spiegate con fake news su Buhari. Per quanto riguarda il Kenya, invece, il coinvolgimento di Cambridge Analytica riguarda le elezioni presidenziali del 2017. Cambridge Analytica avrebbe avuto accesso ai dati dei social network dei cittadini kenioti, le cui informazioni sarebbero state combinate a quelle telefoniche, in modo tale da definire e da realizzare messaggi elettorali personalizzati e efficaci. Come nel caso della Nigeria, il mandante politico della campagna di Cambridge Analytica sarebbe stato il governo in carica, il cui Presidente Kenyatta è stato riconfermato dalle elezioni in questione. L’assunzione della società inglese nel 2017 e il sostegno in termini di marketing da parte del governo sembrano fondare le proteste dell’opposizione keniota, che preme per l’avvio di una procedura penale a carico della società di data-mining e lo svolgimento di nuove elezioni. MSOI the Post • 17


AFRICA condannato l’attacco contro i peacekeepers, affermando che “quest’ultimo potrebbe costituire un crimine di guerra” e ha invitato le autorità governative ad aprire un’inchiesta.

NIGER: VIA AL FLINTLOCK 2018 Tra esercitazioni militari ed operazioni strategiche ai bordi del Sahara

Di Francesco Tosco

SOMALIA 9 aprile. Le autorità somale hanno sequestrato, all’aeroporto di Mogadiscio, quasi 10 milioni di dollari, contenuti in tre sacchi posti all’interno di un aereo privato proveniente da Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti. Mentre il Ministero degli Interni somalo ha dichiarato di aver aperto un’indagine sulla provenienza del denaro, l’Agenzia di stampa statale degli Emirati arabi ha dichiarato che la somma “era destinata a sostenere l’esercito somalo”. UGANDA 11 aprile. Il governo ugandese ha firmato un contratto di 4 miliardi di dollari con il consorzio Albertine Graben Refinery, guidato dalla multinazionale statunitense General Electric, per la costruzione di una raffineria di petrolio. L’accordo si è concluso dopo oltre 1 anno di negoziati. La raffineria sarà costruita attraverso una partnership pubblico-privata, con una partecipazione del 60% per il consorzio e una del 40% per il governo ugandese. A cura di Valentina Rizzo

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L’operazione militare congiunta Flintlock 2018 è iniziata. Come ogni anno dal 2005, si tratta di un’esercitazione militare internazionale affidata al controllo di Africom, il comando degli Stati Uniti per l’Africa. L’iniziativa si prefigge l’obiettivo di rafforzare le capacità operative e di coordinamento militare congiunto nell’area del Sahel, per la lotta contro i gruppi jihadisti che infestano da anni la regione. Quest’anno, lo scenario prescelto per le esercitazioni è il Niger. Si svolgeranno fino al 20 aprile, in particolare nell’area di Agadez e in parte marginale anche in Burkina Faso e in Senegal. Vi parteciperanno circa 1900 uomini, provenienti da 20 paesi africani ed europei, tra cui anche l’Italia. Le esercitazioni, rispetto all’anno scorso, saranno più concrete, come ha fatto sapere il comandante per le operazioni speciali degli Stati Uniti in Africa (Socom), il generale Marcus Hicks. Inoltre, gli Stati Uniti hanno tenuto a sottolineare che, nonostante i paesi del G5 Sahel (Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad) partecipino all’esercitazione, Flintlock 2018 resta un operazione a sé, rispetto alle altre nella regione. Dal punto di vista del supporto militare futuro, l’Amministrazione americana continuerà a coope-

rare con i Paesi dell’area saheliana nella guerra contro il terrorismo, ma lo farà solamente attraverso rapporti bilaterali e flessibili con ciascuno di loro, come è sempre stato. Del resto, il presidente Trump, da giugno 2017, si è sempre mostrato contrario alla mozione domandata da Emmanuel Macron al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per permettere a questi Paesi di dotarsi di un’armata congiunta. Questo progetto è fortemente incoraggiato dalla Francia che vede la cooperazione politica e militare tra gli appartenenti al G5 Sahel come uno dei risvolti politici ed economici dell’operazione lanciata nel 2014, denominata Barkane. Nonostante i dissensi, un accordo tra USA e Francia a giugno 2014 ha portato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ad una risoluzione: da un lato, l’intesa ha permesso ai Paesi dell’area saheliana di dotarsi di un armata congiunta; dall’altro, i fondi per tale esercito devono ancora essere trovati. Su 423 milioni di euro necessari, quasi la metà è stata raggiunta, ma la strada è in salita. Resta il fatto che oltre agli eserciti nazionali, la presenza di militari francesi, americani ed europei fanno della regione del Sahel, una tra le più militarizzate dell’intero continente africano.


AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole

NUOVE TENSIONI FRA MESSICO E STATI UNITI

La reazione di Trump alla ‘carovana dei migranti’ provoca la censura del governo messicano

ARGENTINA 10 aprile. Il presidente argentino Mauricio Macri ha ricevuto, a Buenos Aires, il primo ministro spagnolo Rajoy e una delegazione di imprenditori spagnoli. La visita ufficiale, supportata dai rappresentanti di 70 importanti aziende iberiche, si svolge nel contesto del convegno imprenditoriale “Spagna-Argentina”, tenutosi in questi giorni, sempre nella capitale. BRASILE 9 aprile. Le manifestazioni dei sostenitori dell’ex presidente Lula e dei suoi detrattori si diffondono in tutto il Paese in seguito alla sua incarcerazione. Nello stato di Pernambuco è stato assassinato un cugino dell’ex Presidente. Escluso, per ora, dalla polizia il movente politico.

CILE 9 aprile. Il presidente Sebastián Piñera ha firmato un progetto di legge per la regolamentazione dei flussi migratori, commentandolo come “un tentativo di introdurre una nuova legislazione che permetta di garantire una migrazione sicura”. Il progetto ha, tuttavia, ricevuto una forte critica dal presidente della Bolivia, Evo Morales, il quale ha dichiarato che, in questo modo, “il governo cileno non garantisce pace né amicizia con

to un discorso lapidario filmato e postato su Facebook, comunicando all’amministrazione Trump che “Niente e nessuno è al di sopra della dignità del Messico”.

Di Elena Amici Il Messico ha dichiarato di voler riconsiderare “tutte le forme di cooperazione” con gli Stati Uniti, una condanna a tutti gli effetti dell’atteggiamento del presidente USA Donald Trump. La dichiarazione del presidente messicano Enrique Peña Nieto è arrivata la scorsa domenica, al termine di una settimana di rinnovate tensioni tra i due Paesi sul tema dell’immigrazione illegale dal Messico verso gli Stati Uniti. A far scoppiare la scintilla è stata la cosiddetta ‘carovana dei migranti’: una colonna di qualche centinaia di migranti provenienti da tutta l’America Latina, dall’Honduras ed El Salvador, diretti verso il Messico. Alcuni si fermeranno lì, mentre altri, forse la maggioranza, sono intenzionati a proseguire attraverso il confine statunitense alla ricerca di una nuova vita. Tramite il suo account Twitter, Trump ha condannato aspramente la carovana e ha minacciato l’uscita USA dall’accordo NAFTA se quest’ultimo non dovesse impegnarsi per ridurre il flusso di migranti clandestini. La risposta di Peña Nieto è sta-

Come reazione, Trump ha annunciato la propria intenzione di voler inviare la Guardia Nazionale al confine fra USA e Messico: fra le 2000 e le 4000 unità stazionate per salvaguardare la sicurezza delle aree di confine fino alla costruzione del muro. Il Segretario della Sicurezza Nazionale, Kirstjen Nielsen, ha promesso al Governo messicano che le nuove truppe fungeranno solo come supporto alla guardia di confine e non porteranno armi ne eseguiranno mansioni doganali o arresti, ma la tensione rimane elevata. Da lunedì 9 aprile sono arrivati le prime truppe: 1600 membri della Guardia inviati dai governatori del Texas, Arizona e New Mexico. Solo l’amministrazione della California, tradizionalmente Democratica, ha esitato a inviare uomini. È a seguito di questi eventi che il governo di Peña Nieto ha deciso di “rivedere” i rapporti fra Messico e USA: non sarà solamente la collaborazione fra Messico e polizia di confine USA a essere a rischio, ma anche le relazioni di scambio commerciale e gli sforzi cooperativi contro i cartelli della droga. Secondo il Segretario per gli Affari Esteri Luis Videgaray fra i due Paesi sono sorte divergenze “palesi e estremamente pubbliche”, ed è ora necessario che il Messico imponga agli USA “conseguenze pratiche”. MSOI the Post • 19


AMERICA LATINA la Bolivia”. COLOMBIA 8 aprile. Il nuovo rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani in Colombia, l’italiano Alberto Brunori, ha segnalato che il visto per la permanenza nel Paese che gli è stato rilasciato non è permanente, come richiesto, invece, dalla sua funzione. Il governo colombiano non si è ancora espresso sulla faccenda, ma l’ex presidente Ernesto Samper ha duramente criticato la gestione dei rapporti con i funzionari internazionali da parte dell’esecutivo. 10 aprile. Arrestato Jesús Santrich, uno dei dirigenti del partito Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común (FARC), accusato di traffico di stupefacenti. Il partito ha dichiarato che la decisione di arrestare uno dei suoi massimi dirigenti condurrà il processo di pace “al suo punto più critico” e ha chiesto al presidente Juan Manuel Santos “che tenga fede all’accordo ed alla parola data”, richiedendo una riunione urgente. PERU’ 10 aprile. Lima si sta preparando al Cumbre de las Americas, un Summit economico al quale parteciperà l’intero continente. Diverse le polemiche in corso e prima ancora dell’inizio dei lavori. Tra queste, quella per la decisione del presidente statunitense Trump di non partecipare, vista come una mossa di disinteresse nei confronti dell’America Latina. Forti critiche anche dal Venezuela, che ha percepito l’incontro come un’alleanza a suoi danni e da Cuba, dopo l’annuncio della presenza di alcuni imprenditori privati cubani. A cura di Daniele Pennavaria 20 • MSOI the Post

BRASILE: LULA SI È CONSEGNATO ALLA POLIZIA

L’ex presidente dovrà scontare 12 anni di carcere per l’accusa di corruzione giungimento del quarto grado d’appello.

Di Tommaso Ellena Da sabato 7 aprile Lula da Silva è detenuto presso il carcere federale di Curitiba; l’ex Presidente brasiliano (in carica dal 2003 al 2011) dovrà scontare 12 anni di prigionia per il suo coinvolgimento nello scandalo Lava Jato. L’inchiesta, iniziata nel marzo del 2014 e non ancora conclusa, ha mostrato l’esistenza di un giro di tangenti all’interno dell’azienda petrolifera statale Petrobras, che vede coinvolti molti membri del Partito dei Lavoratori tra cui l’ex presidente Dilma Rousseff. Secondo il pubblico ministero Deltan Dallagnol non ci sono dubbi riguardo il fatto che “Lula era il grande generale che comandò la realizzazione e la pratica dei reati”. In primo grado la richiesta è stata di 9 anni di carcere, mentre con il secondo grado la pena è aumentata di 3 anni. L’ultima speranza di poter evitare la prigione è svanita lo scorso 5 aprile quando il Tribunale Supremo Federale (TSF) ha respinto il ricorso dell’ex Presidente, che chiedeva di rimanere in libertà fino alla conclusione dell’intero iter giudiziario, ossia con il rag-

Secondo Lula la decisione del TSF segna “una giornata tragica per la democrazia e per il Brasile”. Egli si è barricato all’interno della sede del sindacato metallurgico nella sua città natale (Sao Bernardo do Campo), cercando di posticipare il più possibile la sua resa alle autorità. La sua ultima giornata di libertà è stata molto movimentata: i suoi sostenitori, riunitisi davanti al sindacato, hanno tentato di impedirgli di uscire dall’edificio, mostrando come nonostante le accuse egli goda ancora di una popolarità non indifferente. Soltanto la mediazione di altri membri del Partito dei Lavoratori ha evitato che la situazione degenerasse in scontri violenti con la polizia e Lula è stato consegnato alle autorità. Egli ha infine dichiarato: “non sono più un essere umano. Io sono un’idea. E le idee non si rinchiudono.” Mentre gli avversari politici sono scesi nelle vie del Brasile per festeggiare la sua incarcerazione, alcune importanti personalità dell’area latinoamericana continuano ad appoggiare l’ex Presidente. Tra queste spiccano Nicolás Maduro ed Evo Morales: il primo ha dichiarato che “la destra, nella sua incapacità di governare democraticamente, ha scelto il cammino giudiziario per spaventare le forze popolari”, mentre per il presidente della Bolivia “Siamo di fronte a una delle ingiustizie più grandi del XXI secolo.


ECONOMIA WASHINGTON-BRUXELLES-PECHINO

L’Unione Europea tra l’unilateralismo di Trump e le opportunità cinesi

Di Luca Bolzanin Le tensioni tra Washington e Pechino in materia di politiche commerciali stanno mettendo l’Unione Europea di fronte a un dilemma: il blocco commerciale più grande al mondo dovrebbe schierarsi? Se sì, a favore di quale parte? Sebbene, in teoria, gli Stati Uniti risultino l’alleato naturale per l’Europa, l’approccio avventato di Donald Trump in ambito commerciale rischia di spingere l’UE tra le braccia della Cina. Il principale interesse strategico dell’UE in questa lotta, infatti, è garantire che il sistema commerciale multilaterale sopravviva e, attualmente, sembra che questa preoccupazione sia condivisa maggiormente da Pechino, che non da Washington. Sotto diversi aspetti, Stati Uniti e UE si trovano in una posizione simile per quanto riguarda la Cina. Le due economie sono entrambe importatrici nette: il loro deficit commerciale ammonta rispettivamente a 351 miliardi e 178 miliardi di dollari. Da entrambe le sponde dell’Atlantico sono giunte lamentele circa il sovvenzionamento dei ‘campioni nazionali’ cinesi, che danneggerebbe le imprese europee e statunitensi. Washington

e Bruxelles condividono anche le preoccupazioni per quanto riguarda la politica di trasferimento tecnologico della Cina: accusano le imprese cinesi di cercare di appropriarsi illecitamente della proprietà intellettuale, ad esempio acquistando le società occidentali nei settori ad alta tecnologia. Nonostante i punti di convergenza, Trump ha rivolto aspre critiche all’UE per la sua politica commerciale, definita “assai ingiusta” nei confronti degli Stati Uniti, e ha garantito un’esenzione (temporanea) ai Paesi UE per le tariffe su acciaio e alluminio solo a patto che questi ultimi facciano concessioni in altri settori. Ancora più importante, l’amministrazione statunitense, agendo unilateralmente, sta compromettendo la tenuta del sistema commerciale multilaterale che ha contribuito a costruire a partire dal secondo dopoguerra. Al contrario, la Cina sta cercando di attenersi alle regole del gioco commerciale multilaterale. Il presidente Xi Jinping si è impegnato a costruire un’immagine della Cina come strenuo difensore della globalizzazione. Non stupisce, dunque, che il governo cinese abbia affermato di voler contrastare le tariffe degli Stati

Uniti attraverso l’OMC. Questa presa di posizione è stata lodata da Cecilia Malmstrom, Commissario europeo al commercio, che ha paragonato un mondo senza OMC al ‘Far West’. La creazione di un asse Bruxelles-Pechino è stata auspicata da Zhang Ming, ambasciatore della Cina presso l’UE, che ha dichiarato che “la Cina e l’UE, in quanto membri principali dell’OMC e partner strategici globali, dovrebbero prendere una posizione chiara contro il protezionismo”. D’altronde, sono molti gli ambiti in cui è possibile un allineamento UE-Cina, dalla realizzazione della Belt and Road Initiative al consolidamento dell’Asian Infrastructure Investment Bank. Ad ogni modo, siamo ancora lontani dal vedere l’UE spostare il suo baricentro dagli Stati Uniti verso la Cina. L’UE ha ancora molte riserve sulla politica commerciale di Pechino e il legame transatlantico è ancora solido. Tuttavia, la politica di Trump rischia di consumare le grandi riserve di fiducia e di soft power che gli Stati Uniti hanno accumulato in Europa sin dalla guerra e ciò potrebbe essere tanto dannoso quanto i costi economici dei dazi di Trump sugli Stati Uniti e sull’intera economia mondiale. MSOI the Post • 21


ECONOMIA LA POLITICA ESTERA DELL’ENI - PARTE II

ENI e NATO ai ferri corti, sacrificati i nostri interessi nazionali

Di Michelangelo Inverso Come suggerivamo nel precedente articolo, la compagnia energetica italiana esercita una certa influenza sulla formulazione della politica estera italiana. Vi è, però, almeno un altro attore capace di esercitare una discreta influenza sull’azione internazionale italiana: la NATO. La politica atlantista, infatti, sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, è stata la cornice all’interno della quale l’Italia si è trovata a muoversi, rientrando sotto la sfera di influenza statunitense a condividendone i valori liberali. Tuttavia, questi due pilastri della politica estera non sempre si sono mossi in maniera concorde. Basti pensare alle numerose ombre dietro la morte di Enrico Mattei, il ‘padre’ della moderna ENI, avvenuta a causa di un incidente aereo. Fin da subito, molti pensarono a una mano straniera, forse persino di Paesi alleati, a causa della penetrazione economica dell’Eni in aree al di fuori della sfera di influenza ex coloniale - in particolare, a danno delle compagnie francesi, inglesi e statunitensi. Al di là di queste ipotesi, che quasi certamente non troveranno mai risposta, negli ultimi anni sempre più i nostri interessi energetici

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ed economici si sono trovati in contrasto con la linea filoatlantista. Il caso più lampante è quello libico. Da quando la NATO è intervenuta militarmente nella ‘quarta sponda’ italiana, la situazione sociopolitica del Paese è notevolmente peggiorata. Gli immensi giacimenti di idrocarburi, un tempo appannaggio esclusivo dell’Eni e della Noc libica, oggi sono sempre più minacciati da interventi armati di milizie al soldo del migliore offerente. Anche la preziosa partnership con l’Egitto è stata soggetta a pressioni internazionali indirette, legate al caso Regeni, i cui retroscena portano al servizio segreto britannico, il MI6, forse proprio per far naufragare i progetti dell’ENI legati al giacimento di Zohr, il più grande mai scoperto nel Mediterraneo. Passando poi per il Qatar, l’ENI ha intrapreso numerosi progetti comuni per lo sfruttamento di gas e petrolio. Ma, anche in questo caso, si è mossa in uno scacchiere minato dai conflitti regionali e internazionali, che vedono l’Italia come unico Paese occidentale fuori dal coro, dal momento che la posizione dell’Eni ci rende interlocutori non solo economici, ma anche

politici di un Paese isolato sul piano internazionale. Infine, andrebbero ricordati i profondi legami tra ENI e Rosneft, la compagnia statale russa degli idrocarburi. Anche in questo caso, gli interessi dell’Eni si legano a doppio filo con la Russia, in un frangente in cui il blocco NATO cerca di impedire qualsiasi dialogo con il Cremlino. Queste continue contrapposizioni tra i nostri interessi nazionali e le necessità dell’Alleanza atlantica mettono in serio pericolo tutti i tavoli su cui l’Italia si muove. Non è un caso, dunque, che le forze politiche uscite con più forza dalle urne elettorali siano proprio quelle che chiedono, come minimo, un rilancio della diplomazia a difesa delle nostre esigenze e, come massimo, l’uscita dalle alleanze storiche. L’ENI, per ora, sceglie una politica di dialogo e di noninterferenza negli affari esteri, una linea che ha sempre dato buoni frutti e che ricalca quella adottata dal Ministero degli Esteri. Dal canto suo, il prossimo governo dovrà mostrarsi in grado di salvaguardare gli interessi nazionali e, in particolare, settori strategici come quello energetico.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO CGUE: VIETATO APPELLARSI A TRIBUNALI ARBITRALI PER CONTROVERSIE TRA INVESTITORI PRIVATI E STATI Un’opportunità per i paesi non membri dell’UE?

Di Elena Carente In una decisione rilasciata all’inizio di marzo, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che i tribunali arbitrali privati sono incompatibili con il diritto europeo per le controversie tra investitori privati e Stati. Escludendo il diritto di appellarsi a tali tribunali, la Corte offre ai paesi non membri dell’UE la possibilità di attrarre a sé aziende europee che vorrebbero poter continuare ad accedere a tribunali privati piuttosto che adire la tradizionale giustizia statale. Sono diversi gli accordi bilaterali di libero scambio che prevedono il ricorso ai tribunali privati. Gli accordi di libero scambio e i trattati bilaterali per gli investimenti (in inglese BIT, Bilateral Investment Treaties) danno alle aziende che investono in uno Stato, il diritto di rivolgersi ad un tribunale arbitrale privato in caso di controversia con quello Stato. Gli investitori hanno quindi la garanzia che in caso di contenzioso, non sarà lo Stato che ospita l’investimento a decidere. Tuttavia, la CGUE ha deciso che i tribunali istituiti in base ai trattati bilaterali per gli investimenti non sono compatibili con il diritto europeo. In particolare, nel caso Slowakische Republik c. Achmea BV,

la CGUE ha ritenuto che gli artt. 267 e 344 del TFUE debbano essere interpretati nel senso che ostano a una disposizione contenuta in un accordo internazionale concluso tra gli Stati membri, in base alla quale un investitore di uno Stato membro può avviare un procedimento contro un altro Stato membro dinanzi a un tribunale arbitrale. Al momento è difficile valutare con precisione quale sarà la portata di questa decisione. La Corte di Giustizia non ha fornito alcuna indicazione sul destino dei quasi 200 Trattati BIT intra-europei esistenti, ma è molto probabile che gli Stati interessati decidano di porre fine a tali trattati. Ciò avrà due conseguenze dirette significative: in primo luogo, gli investitori non avranno altra scelta che rivolgersi ai tribunali statali se ritengono di essere stati danneggiati dagli investimenti dello Stato ospitante. In secondo luogo, gli investitori saranno protetti solo dalla legge europea e non beneficeranno più delle protezioni aggiuntive contenute nei BIT. La più grande incognita è capire quale sarà il ruolo della giustizia europea in caso di conflitto tra uno Stato europeo e un investitore di un paese

terzo. La sentenza emessa a marzo sembra essere limitata ai BIT intra-europei. Pertanto, i BIT conclusi tra uno Stato membro e uno Stato terzo non sono, in linea di principio, interessati da tale decisione. Così, un investitore di un paese terzo che abbia investito in uno Stato membro dovrebbe poter continuare a beneficiare della protezione offerta dal BIT concluso tra lo Stato terzo e tale Stato membro nonché dalla possibilità di rivolgersi a un tribunale arbitrale. D’altra parte la decisione in questione potrebbe costituire una concreta opportunità per i paesi non membri dell’UE, ad esempio la Svizzera. Si potrebbe infatti ipotizzare uno scenario in cui gli investitori decidano di spostare i propri investimenti dall’UE alla Svizzera e continuare le loro attività con l’UE dal suddetto paese. In questo modo, gli investitori beneficerebbero della protezione offerta dai BIT conclusi tra la Svizzera e i paesi membri dell’UE. In previsione della decisione di marzo, alcune società con sede nell’UE avevano già iniziato a esplorare la possibilità di spostare i propri investimenti. Dopo la decisione della Corte, questa tendenza crescerà visibilmente. MSOI the Post • 23


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO TERRITORI CONTESI

Lo scontro fra Guyana e Venezuela dinnanzi alla Corte internazionale di giustizia

Di Luca Imperatore Il 29 marzo scorso, il Governo della Guyana ha presentato ricorso dinnanzi alla Corte internazionale di giustizia (di seguito CIG o Corte) in relazione al controllo di una regione storicamente contesa con il Venezuela: Essequibo. La lite non è priva di complessità: primariamente, la giurisdizione della CIG non è pacificamente accettata da entrambe le parti – dal momento che viene legittimata da una contestata applicazione dell’art. 33 della Carta delle Nazioni Unite –, permangono inoltre contrasti circa l’applicabilità di un lodo arbitrale del 1899 – che attribuiva la regione di Essequibo alla Guyana (all’epoca britannica). Per avere un’idea della grande rilevanza e dell’area è sufficient considerare che la regione non è solamente ricca di risorse naturali ma è adiacente alla più grande riserva mondiale di petrolio (attorno al delta dell’Orinoco, per ora intatta). Tralasciando le considerazioni relative all’evolversi della disputa nel tempo, occorre però rimarcare come la stessa esistenza di una disputa per i confini sia da considerarsi contesa: è opinione del Governo venezuelano che l’Accordo di Ginevra del 1966 (che regolava i rapporti tra l’allora madrepatria, il Re-

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gno Unito, e il Venezuela) sancisca l’invalidità del lodo arbitrale del 1899, mentre è pacifico per il Governo della Guyana che detto lodo sia valido e vincolante. In punto di diritto, inoltre, la competenza della CIG rimane contesa a causa di quanto segue. Dando seguito all’art. IV dell’Accordo di Ginevra, il Segretario generale delle Nazioni Unite “shall chose” il metodo di risoluzione di eventuali controversie, stante l’assenza di accordo tra le parti. L’Accordo di Ginevra, ad ogni modo, non fa alcun esplicito riferimento alla CIG ma rimanda unicamente alle possibilità di risoluzione pacifica delle controversie offerte dall’art. 33 della Carta ONU, il quale, dal canto suo, non fa richiamo alla Corte. Da ciò consegue la diversa posizione delle parti: la Guyana interpreta l’art. IV dell’Accordo di Ginevra come titolo valido per fondare la competenza giurisdizionale della CIG, mentre il Venezuela si oppone (primariamente adducendo un mancato esaurimento delle vie di ricorso diplomatiche extragiudiziali). Al netto dei dettagli della disputa in questione, la vicenda ripropone il dibattito circa l’illusorietà di alcune convinzioni moderne, quali il carattere certo ed immutabile dei confini contemporanei fra gli Stati del mondo.

Se appare evidente, nell’opinione comune contemporanea, che i confini delle nazioni siano una certezza, un dato di fatto sicuro e imperituro, occorre tenere a mente che essi sono e permangono prodotti antropici e come tali soggetti a continue trasformazioni. Più che ad un concetto granitico e immutabile, forse, sarebbe opportuno pensare alle frontiere moderne come ad un’entità fluida che tende a modificarsi e che esige continui adattamenti, specialmente considerando l’ampio ventaglio di dinamiche che tendono a metterne in discussione la tenuta. Ne sono testimoni le molteplici questioni portate dinnanzi a organi giurisdizionali internazionali, le controversie che costituiscono l’oggetto di scontri bellici ma anche movimenti indipendentisti intestini comuni a molti Stati della comunità internazionale. Se è vero quanto anticipava Norberto Bobbio quando affermava che “il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze” una considerazione di siffatta natura potrebbe, auspicabilmente, condurre ad un dialogo concreto e rinnovatore circa la necessità di ripensare le “certezze” del terzo millennio in chiave meno dogmatica e assolutistica.


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