MSOI thePost numero 106

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni , Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Lucky Dalena, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Elena Amici, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolino, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Daniele Carli, Debora Cavallo, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria di Donato,Tommaso Ellena, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Lara Amelie Isai-Kopp, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Nina, Pierre Clement Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Barbara Polin, Jessica Prieto, Luca Rebolino, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Federica Sanna, Martina Santi, Martina Scarnato, Edoardo Schiesari, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 22 maggio. Preoccupati dal programma di governo del nuovo esecutivo italiano, 61 personalità francesi, tra le quali 46 parlamentari, hanno sottoscritto un appello consegnato direttamente al presidente Macron. L’obiettivo sarebbe la difesa della TAV Torino-Lione messa, invece, in discussione dall’attuale politica italiana. L’iniziativa è partita dal Comitato transalpino Lione-Torino, presieduto da Jacques Gounon, il quale auspica nel funzionamento del tunnel principale entro il 2030.

ITALIA 23 maggio. Il presidente Mattarella, al termine di una settimana di polemiche, ha conferito l’incarico come nuovo presidente del Consiglio a Giuseppe Conte. L’Unione Europea ha espresso diverse preoccupazioni in merito al programma contenuto nel “contratto di governo”. La BCE ha chiesto di non “allentare la pressione fiscale”, scelta che “sarebbe rischiosa per uno Stato dal debito pubblico così alto”, mentre la Commissione Europea ha avvertito che proseguirà il controllo dei conti pubblici italiani.

SPAGNA 21 maggio. Pablo Iglesias, leader di Podemos, partito indipendentista spagnolo, rischia di doversi dimettere per aver acquistato una villa, nei pressi di Madrid, dal valore di 600.000 euro. I 490.000 iscritti al partito avranno tempo fino a domenica

LA “CALDA” PRIMAVERA SVEDESE Stoccolma prepara la popolazione a fronteggiare una possibile invasione

Di Simone Massarenti Nella storia moderna e contemporanea, la Svezia è sempre rimasta la forza neutrale della Scandinavia. Questo trend sembra però destinato a mutare radicalmente: è notizia di pochi giorni fa, infatti, la distribuzione, da parte del governo di Stoccolma, di una “guida” per il cittadino affinché possa essere pronto ad affrontare una guerra. “Se la Svezia verrà attaccata da un altro Paese, non ci arrenderemo mai”; questo estratto della guida, distribuita a 4,8 milioni di svedesi, ben rappresenta il clima attuale che i venti di guerra stanno portando in Europa, dato che, nei precedenti decenni, una simile affermazione avrebbe suscitato ironia tra la popolazione. Stando al parere degli esperti, tale livello di allerta deriverebbe dalla pericolosa avanzata della Russia nell’area scandinava, idea che sembrerebbe confermarsi anche nelle azioni militari russe nell’air side svedese, suscitando sgomento e moniti da parte dell’intera Comunità internazionale. Per preparare la popolazione a un’eventuale crisi, il governo di Stoccolma ha elencato i potenziali rischi che il Paese

correrebbe in caso venisse attaccato: carenza di cibo, sospensione delle forniture di servizi, impossibilità nell’utilizzo dell’auto, mancanza di connessione internet, etc. Secondo fonti nazionali, tale misura è stata adottata l’ultima volta nel 1980 e, per questo, tra la popolazione è aumentato il timore in un nuovo periodo di pressioni da parte del Cremlino. Dopotutto, è doveroso ricordare che la Svezia è una zona ricca di materie prime, e che al momento conta anche di bassi tassi di disoccupazione e un’economia stabile. L’obiettivo del Governo sembra, quindi, non quello di preparare una controffensiva ma preservare la stabilità dell’area in caso di crisi a causa di un’eventuale guerra. Il clima in Scandinavia sembra essere rovente, situazione che riporta la mente agli anni della Guerra Fredda, quando la popolazione veniva sistematicamente preparata alla “difesa dei propri territori”. Il Paese si trova a vivere la vicinanza della potenza Russa con rinnovato timore in un clima politico mondiale allarmante che potrebbe rendere concreti i rischi di una avanzata di Mosca per una legittimazione del proprio potere. MSOI the Post • 3


EUROPA per esprimere il proprio parere sulla questione in occasione di un referendum. Il risultato decreterà il mantenimento o la perdita della leadership di Iglesias e della carica della moglie, Irene Montero, come capogruppo.

VERTICE UE SUL NUCLEARE

L’Unione Europea vuole mantenere l’accordo con l’Iran

UNIONE EUROPEA 20 maggio. L’Antitrust UE ha stabilito che gli impegni presi da Gazprom, che consentiranno di “ridurre i prezzi e liberalizzare le forniture di gas nei Paesi dell’Est”, saranno vincolanti già dal secondo semestre del 2018. Gazprom si è infatti impegnata “a rimuovere gli obblighi contrattuali e le restrizioni territoriali imposti ai clienti” e di “non sfruttare la posizione dominante come fornitore della regione dell’Europa centrale e orientale”. L’Antitrust ha decretato, infatti, che le proposte fatte dal gigante energetico russo tra dicembre 2016 e marzo 2017, risponderebbero alle preoccupazioni sollevate da Bruxelles.

24 maggio. La Commissione europea ha presentato la proposta per l’attuazione dei primi titoli cartolarizzati dell’area euro, gli European safe bond. L’obiettivo sarebbe quello di rafforzare l’integrazione finanziaria. Il provvedimento dovrà essere approvato dal Consiglio e dal Parlamento europeo. Il titolo in questione potrebbe essere di 2 tipologie: “ad alto rendimento e alto rischio o a basso rendimento e a basso rischio”.

A cura di Edoardo Schiesari

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Di Rosalia Mazza In vista del vertice UE-Balcani del 17 maggio 2018, i 28 Paesi membri dell’Unione Europea si sono riuniti a Sofia (Bulgaria) per discutere il mantenimento dell’accordo sul nucleare con l’Iran, nonostante l’uscita degli Stati Uniti. Le sanzioni internazionali imposte da Washington a Teheran, infatti, rappresentano l’abbandono dell’accordo da parte degli USA. Il presidente USA Donald Trump ha così deciso che gli Stati Uniti non avrebbero più rispettato l’accordo sul nucleare, siglato il 14 luglio 2015 a Vienna da Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia, Cina e Germania, e negoziato da Barack Obama. Tale accordo imporrebbe all’Iran lo sviluppo della tecnologia nucleare solo per scopi civili, in cambio del graduale annullamento delle sanzioni internazionali imposte al Paese mediorientale. Trump vuole invece attuare una politica diametralmente opposta, il cui fine sarebbe quello di non scendere a patti con l’Iran sulla questione del nucleare poiché, secondo l’opinione del Presidente USA e di Israele, l’Iran non rispetterà mai l’accordo. In questa inversione di rotta è stata coinvolta anche l’Unione Europea, che non verrà esentata dai più recenti dazi imposti su

acciaio e alluminio a meno che non acconsenta ad abbandonare l’accordo sul nucleare, e le cui imprese verranno colpite da sanzioni extraterritoriali qualora intrattenessero affari con l’Iran. Ciò che si prospetta è uno sconvolgimento dell’economia mondiale: il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, si è fatto portavoce della volontà dell’UE. I 28 Paesi membri, con un’unanimità guidata da Germania, Francia e Regno Unito, e che trova il supporto della Russia, hanno infatti dichiarato inattuabile l’abbandono dell’accordo: il deterioramento delle relazioni politiche e commerciali con l’Iran avrebbe delle ripercussioni insostenibili sul piano economico, e si è dunque pronti a mettere in atto lo statuto di blocco, riesumando una scappatoia che risale alle sanzioni USA su Libia e Cuba. Sebbene anche il disaccordo con gli Stati Uniti possa portare a ingenti danni economici, l’UE vorrebbe imporsi attraverso la BEI e la rete Swift, che ha sede a Bruxelles, tenendola attiva per l’Iran soprattutto quando si tratta di pagare le importazioni di greggio. La decisione finale resta però alle grandi imprese, che dovranno valutare chi scegliere tra Stati Uniti e Iran.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

TRUMP CONTRO “ROE Vs. WADE”

In arrivo ulteriori restrizioni ai servizi abortivi nazionali

Di Martina Santi STATI UNITI 21 maggio. Cina e Stati Uniti hanno sospeso i reciproci dazi evitando, per il momento, di proseguire nella “guerra commerciale”. Xi Jinping ha, infatti, accettato di aumentare di 200 miliardi di dollari l’anno le esportazioni verso gli Stati Uniti, per ridurre, così, il disavanzo commerciale tra i due Paesi. 21 maggio. Gina Haspel è diventata ufficialmente il nuovo capo della CIA, dopo aver giurato a Langley, Virginia. La nomina, proposta da Trump, era stata approvata dal Senato senza, tuttavia, essere esente da polemiche sulla sua passata carriera da spia. Haspel è la prima donna a ricoprire questa carica. 22 maggio. Donald Trump, a seguito di un incontro avvenuto con il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha riferito che “l’incontro previsto per il 12 giugno a Singapore con Kim Jongun, potrebbe essere rimandato”. La Corea del Nord non avrebbe, infatti, ancora accettato le condizioni degli USA sulla denuclearizzazione.

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maggio.

Nicolas

Maduro,

Era il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema statunitense decretava, con la sentenza Roe vs. Wade, l’incostituzionalità della legge che vietava l’aborto ed elevava tale libertà al rango di diritto costituzionale. A 55 anni da quella storica sentenza, Trump intende rimettere mano alla facoltà delle donne di esercitare un diritto strettamente legato alla privacy familiare e dal marcato volto femminile. La Casa Bianca ha, infatti, annunciato un taglio di 50 milioni dei fondi destinati al finanziamento delle cliniche abortive nazionali. Se approvata, la proposta colpirebbe non solo le strutture in cui è possibile richiedere un’interruzione di gravidanza, ma anche quelle che offrono un semplice servizio di consulenza. In effetti, in campagna elettorale il Presidente aveva già ampiamente chiarito la propria posizione in tema di aborto, mostrandosi affine al ramo più conservatore dell’ala Repubblicana e promettendo provvedimenti. Uno dei suoi primi atti presidenziali fu proprio la firma dell’ordine esecutivo che reintroduceva un provvedimento noto come Mexico City Policy. L’atto fu immediatamente oggetto di for-

ti contestazioni, poiché bloccava il finanziamento delle ONG che forniscono assistenza sanitaria e svolgono attività di consulenza per donne di tutto il mondo che intendono abortire. Non è un mistero che la legge sull’aborto, coinvolgendo la sfera della coscienza personale, generi posizioni confliggenti, perfino agli antipodi. La stessa Mexico City Policy, ripristinata da Trump nel 2017, ne è l’esempio più eclatante. La legge, inizialmente introdotta da Ronald Reagan, venne eliminata dal successore Clinton nel 1993, per poi essere nuovamente adottata da George W. Bush. Questa venne mantenuta fino al 2009, anno in cui Barack Obama l’abrogò a sua volta. Di amministrazione in amministrazione, il confronto fra attivisti pro-life e sostenitori pro-choice ha, quindi, infiammato tanto le strade delle città statunitensi, quanto i corridoi della Casa Bianca. Tuttavia, la posizione pro-vita assunta oggi dal Presidente statunitense appare più paradossale che mai, essendo Trump lo stesso uomo che ha posto un netto rifiuto a una stretta sulla vendita delle armi. Viene, quindi, da chiedersi quanto la sua convinzione morale non sia, piuttosto, mossa dall’interesse di ottenere il consenso della destra religiosa americana.

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NORD AMERICA presidente venezuelano, ha espulso due diplomatici statunitensi, Todd Robinson e il suo vice, Brian Naranjo, accusandoli di cospirazione e concedendo loro 48 ore per lasciare il Paese. 23 maggio. La BBC ha rivelato che l’avvocato di Trump, Michael Cohen, ha incassato 400.000 dollari dal governo ucraino per favorire un incontro con il presidente Petro Poroshenko, avvenuto lo scorso giugno.

CANADA 19 maggio. Il governo federale canadese ha dichiarato che “il ricorso del governo della British Columbia alla Corte sui lavori per l’oleodotto Trans Mountain contiene motivazioni politiche”. Il conseguente ritardo nei lavori, ora, infatti, sospesi, dovrà essere rimborsato all’azienda costruttrice con fondi pubblici. 20 maggio. Circa un centinaio di manifestanti affiliati a gruppi di estrema destra si sono radunati a Roxham Road, lungo il confine tra Canada e Stati Uniti. Il gruppo ha protestato contro l’attraversamento illegale della frontiera da parte degli immigrati, preoccupati per l’ingresso di potenziali terroristi islamici. A cura di Luca Rebolino 6 • MSOI the Post

GLI USA COMMENTANO DURAMENTE LE ELEZIONI VENEZUELANE Severa la posizione della Casa Bianca sulla rielezione del socialista Maduro

Di Martina Santi Domenica 20 maggio in Venezuela, si sono svolte le elezioni politiche per la designazione del Presidente di Governo. L’esito ha decretato la rielezione del chavista Maduro, in carica dal 2013, che, in seguito, ha ringraziato i suoi elettori per averlo votato con una percentuale del 68%. L’esito elettorale, tuttavia, è stato pesantemente contestato dalle forze all’opposizione, che hanno accusato il governo di brogli elettorali e giudicato illegittimo il risultato. La stessa percentuale di affluenza alle urne comunicata dal Governo (circa 46%) non corrisponderebbe a quella rilevata dal Frente Amplio Venezuela Libre (inferiore al 30%), un movimento politico che si batte per la restaurazione democratica nel Paese. La comunità internazionale ha espresso la propria preoccupazione per le dinamiche con cui si sono svolte le votazioni. Di fatto, le elezioni presidenziali sono state il riflesso delle condizioni politiche ed economiche in cui versa il Paese, da anni coinvolto in una drammatica crisi economica e teatro di una deriva autoritaria. In particolare, spicca la netta posizione assunta dagli Stati Uniti sulla rielezione del presi-

dente Maduro. L’amministrazione statunitense ha giudicato il procedimento elettorale venezuelano non in linea con i principi democratici e, pertanto, illegittimo. In un annuncio alla stampa, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha espresso la dura condanna degli USA al regime di repressione vigente in Venezuela, in cui centinaia di politici e giornalisti sono stati arrestati per la loro opposizione al governo. Il Segretario di Stato ha, inoltre, chiarito che il Paese prenderà serie misure economiche e diplomatiche nei confronti del governo sudamericano. “Until the Maduro regime restores a democratic path in Venezuela through free, fair, and transparent elections, the government faces isolation from the international community”. Tali misure si aggiungerebbero a precedenti sanzioni che il presidente Trump aveva già disposto nei confronti di un regime considerato dittatoriale. Maduro, da parte sua, ha accusato l’amministrazione Trump di voler infangare l’esito elettorale in Venezuela, ma mantiene aperta la possibilità di un nuovo dialogo con gli Stati Uniti. Solo pochi mesi fa, infatti, il presidente Nicolas Maduro auspicava un incontro con il tycoon per migliorare le relazioni tra Washington e Caracas.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole ARABIA SAUDITA 19 maggio. Le autorità saudite hanno arrestato 7 persone, tra le quali 4 donne che si erano battute per il diritto di guidare, con l’accusa di avere avuto “contatti sospetti con l’estero” e di avere elargito finanziamenti mirati alla destabilizzazione del governo. Il 24 giugno, il decreto reale che ha autorizzato le donne saudite alla guida diventerà effettivo.

IRAN 20 maggio. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, nel corso di un incontro con il commissario europeo per l’Energia, Miguel Arias Canete, ha affermato che “il sostegno politico dell’Unione Europea all’accordo sul nucleare tra Iran e le potenze mondiali non ” è sufficiente . Le aspettative di una maggiore cooperazione economica e di un aumento degli investimenti fa crescere la pressione sull’UE. ISRAELE/PALESTINA 22 maggio. Il comandante dell’aviazione israeliana, Amiram Norkin, ha affermato di aver compiuto due attacchi con aerei F35 in Siria. Si tratterebbe del primo Paese al mondo ad averne fatto uso. 18 maggio. Approvata dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite la risoluzione che consentirà la creazione della commissione d’inchiesta incaricata di indagare sulla gestione, da parte di Israele, degli scontri avvenuti al confine di

LA POSSIBILE RESA DEI CONTI: PALESTINA V. ISRAELE

Possibile investigazione per crimini di guerra e contro l’umanità a carico di Israele

Di Andrea Daidone Dopo anni di soprusi, l’Autorità Palestinese ha deciso che è giunto il momento di reagire. La scorsa settimana, all’Ufficio del Procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) è stato inviato un documento di 700 pagine, recante quelle che sarebbero le prove di stragi, massacri e altri atti aberranti commessi ai danni del popolo palestinese, sia a Gaza sia nel West Bank, dall’esercito israeliano. Nondimeno, si riportano anche evidenze secondo le quali, molte delle azioni suddette, sarebbero state attuate con la complicità di alti ufficiali militari israeliani. Accompagnato al documento, vi è l’esplicita richiesta di avviare un’indagine formale per crimini di guerra e contro l’umanità a carico di Israele. Parrebbe superato anche lo scoglio derivante dal fatto che Tel Aviv non ha mai sottoscritto lo Statuto di Roma, Trattato che ha dato vita alla Corte nel 2003. La ragione è che, sebbene lo stato di Israele non sia perseguibile (per il motivo sopra riportato), gli ufficiali in questione sono comunque imputabili, a titolo personale. Tutto cominciò nel 2014 quando, a Gaza, Israele sferrò un’offensiva di 51 giorni che causò più di 2200 mortie 1462 feri-

ti, fra cui 500 bambini. Questo spinse l’Autorità Palestinese ad iniziare l’iter per aderire alla CPI, cosa che avvenne nell’aprile del 2015. L’intento era (e tutt’ora è) quello di assicurare alla giustizia coloro che hanno commesso quel massacro e di minare l’ormai consolidata aurea di impunità, che sembra da sempre accompagnare le azioni di Israele. La recente uccisione di 111 palestinesi ha contribuito ad aumentare la tensione: sono sempre maggiori le pressioni sulla Corte affinché inizi quanto prima l’indagine ufficiale. Tali pressioni derivano anche dalla mancanza di credibilità delle Corti israeliane, che, nelle settimane precedenti, si sono limitate a qualche generica inchiesta su soldati di basso livello e comunque riguardo a fatti non inerenti agli attacchi. Nessuno sa quali risvolti prenderà questa vicenda, che è ancora solo agli inizi. Tuttavia, la gravità delle accuse (fra le altre: sterminio, deportazione, trasferimenti forzati, persecuzioni e apartheid) non può che far riflettere su un conflitto che, in modo latente, avanza da 70 anni e che, nonostante tutto, continua a mietere vittime e a tradursi in una sistematica ed imperdonabile violazione dei diritti umani fondamentali. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE Gaza e sulla presunta violazione dei diritti umani avvenuta nella Striscia, in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Israele “respinge totalmente” tale decisione.

SIRIA 21 maggio. Come riferito dai media siriani, l’intera area urbana e suburbana di Damasco sarebbe tornata “sotto il controllo delle truppe governative dopo 7 anni, dall’inizio delle insurrezioni”. Lo stesso giorno, 30 pullman con a bordo gli estremiti jihadisti e le loro famiglie hanno lasciato Damasco in direzione della Siria centrale, nella zona desertica situata nei pressi di Palmira. In tale area, infatti, il gruppo IS si starebbe riorganizzando.

LA RIVINCITA DEL SULTANO

Erdogan in Bosnia-Herzegovina per la sua campagna

Di Lucky Dalena Anche se la guerra l’ha divelta e ne ha quasi intaccato l’anima, a Sarajevo si possono ancora scorgere, dipinti, i tulipani turchi, simbolo di un’era dorata dell’Impero Ottomano. Mentre la Bosnia-Herzegovina si avvicina, con fatica, all’Unione Europea, sembra che la Turchia voglia rafforzare il legame con Sarajevo per contrastare il gigante d’Occidente.

24 maggio. L’Osservatorio siriano per i diritti umani ha denunciato due ondate di attacchi missilistici, avvenute nelle prime ore della mattina di giovedì, dirette verso aree controllate dal gruppo IS. Avrebbero, infatti, colpito postazioni dell’esercito di Damasco. Se confermati, tali attacchi sarebbero i prima condotti dalla coalizione internazionale guidata dagli USA dal mese di aprile.

È in questo scenario che, in vista delle imminenti elezioni parlamentari, il presidente Erdogan si è recato a Sarajevo per una tappa della sua campagna elettorale. Le comunità turche all’estero, infatti, sono di importanza fondamentale per il partito Giustizia e Sviluppo (AKP): ancor più che sul territorio nazionale, l’attuale capo di Stato gode di consensi tra gli emigrati.

TURCHIA 21 maggio. Un tribunale di Izmir ha condannato al carcere a vita 104 ex-militari ritenuti responsabili del colpo di stato fallito contro il presidente Erdogan avvenuto nel luglio 2016. La sanzione imposta prevede, inoltre, l’impossibilità di applicare eventuali riduzioni di pena. Si tratta della più elevata condanna prevista dalla legge turca.

Nel 2017, proprio in seguito ai tentativi di promuovere all’estero un referendum che avrebbe influito sul potere presidenziale, Erdogan era stato bloccato dal governo dei Paesi Bassi. Quest’anno, si sono uniti anche Germania e Austria, il cui cancelliere Sebastian Kurz ha dichiarato che “la leadership di Erdogan ha per troppo tempo sfruttato le comunità europee di origine turca”. Una non troppo sottile stoccata diplomatica la cui risposta non

A cura di Anna Filippucci 8 • MSOI the Post

ha tardato ad arrivare: durante il suo discorso a Sarajevo, alla comunità turca residente in Bosnia ma anche a numerosi connazionali provenienti dalle vicine Austria e Germania, il presidente ha fatto notare come “in un tempo in cui i gloriosi paesi europei che dichiarano il loro essere culla di democrazia hanno fallito, la Bosnia-Herzegovina ha dato prova di essere non ostentatamente, ma realmente democratica offrendoci l’opportunità di riunirci qui”. La reazione bosniaca non è certamente stata omogenea, con commenti favorevoli da un lato e critiche dall’altro. Se alcuni considerano positiva la vicinanza ad Ankara, per molti altri, come la scienziata politica Jasmin Mujanovic, la visita di Erdogan è stata “un assalto ad un debole regime democratico”. Altri ancora vedono nelle ragioni di questo incontro una matrice religiosa: in fondo, Erdogan è considerato il “protettore dei musulmani” e, dati i delicati equilibri balcanici, la scelta di Sarajevo suona appropriata. Ciò che lascia più perplessi, però, è il silenzio dell’Europa, che in un momento cruciale per le relazioni con i paesi del Medio Oriente, con la Turchia come possibile legame, dovrebbe porsi in una posizione di dialogo piuttosto che alzare un altro muro.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole BIELORUSSIA 22 maggio. La Bielorussia ha nominato un nuovo ambasciatore in Svezia. La decisione arriva dopo 6 anni di interruzione delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi. Nel 2012, Minsk aveva richiamato il proprio ambasciatore ed espulso quello svedese dopo che un’azienda svedese aveva lanciato, sull’ex-repubblica sovietica, degli orsacchiotti di peluche recanti dei messaggi per il rispetto dei diritti umani nel Paese. MACEDONIA 19 maggio. Il primo ministro macedone, Zoran Zaev, ha annunciato di aver trovato un accordo con la Grecia relativo ad un nuovo nome per il proprio Paese, ponendo, così, fine a quella lunga disputa sorta tra i due Stati al momento dell’indipendenza macedone. La soluzione di compromesso sarebbe Repubblica della Macedonia Ilindenska. Cauta la reazione del primo ministro greco Tsipras: “i due Paesi sono più vicini che mai a una soluzione, non dobbiamo perdere questa storica opportunità, né fare mosse maldestre”.

MONTENEGRO 20 maggio. In seguito alla vittoria alle elezioni presidenziali del 15 marzo, Milo Djukanovic si è insediato come presidente della Repubblica: “il futuro del Montenegro sarà stabile e promettente fintantoché sarà

SOFIA, L’UNIONE EUROPEA SI RIUNISCE Pochi sviluppi sul fronte dell’integrazione balcanica

Di Amedeo Amoretti Giovedì 17 maggio, si è tenuto a Sofia il Summit UE per discutere dello stato dell’allargamento nei Balcani. Al meeting erano presenti tutti i leader dell’Unione, a cui si aggiungevano quelli di Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia. Al termine dell’incontro, il Primo Ministro croato ha rinnovato l’impegno europeo nella regione promuovendo un nuovo Summit UE a Zagabria nel 2020. Nella finale “Dichiarazione di Sofia” sono stati toccati molti punti su cui l’Unione Europea deve concentrarsi e migliorarsi. Nei suoi 17 paragrafi, viene ribadito l’impegno europeo per una maggior stabilità e forza dell’Unione e sono rimarcati i requisiti democratici per la membership, come la lotta alla corruzione e al crimine organizzato h affinc é possa svilupparsi una buona governance che difenda i diritti umani e quelli delle minoranze. La dichiarazione precisa che anche la società civile e i media indipendenti svolgono un ruolo cruciale, soprattutto nell’evitare la diffusione di disinformazione. Nella seconda parte della dichiarazione, è annessa la “Sofia Priority Agenda” che stabilisce gli obiettivi cardine dello sviluppo europeo, come la con-

nettività e migliori relazioni tra Stati, lo sviluppo socio-economico, la questione delle migrazioni e della sicurezza e, infine, una Agenda digitale per i Balcani occidentali. Il testo è stato, però, molto criticato dai media in quanto non presenta parole come “integrazione” o “allargamento”. Questo è dovuto al fatto che una buona parte di Stati Membri preferisce riformare e migliorare l’Unione prima di allargarne i propri confini. Primo fra tutti il presidente francese Macron che ha affermato che “Gli ultimi 15 anni hanno mostrato un sentiero che ha indebolito l’Europa pensando tutto il tempo che dovesse allargarsi”. Anche Angela Merkel è stata molto scettica circa le possibilità di un’annessione entro il 2025, ribadendo comunque il notevole progresso ottenuto dai candidati. Importanti sviluppi sulla questione del nome della Macedonia, per cui la Grecia teme una rivendicazione macedone sull’omonima regione greca, sono stati avviati a Sofia e recentemente raggiunti. I leader di Macedonia e Grecia avrebbero raggiunto un accordo su Repubblica della Macedonia di “Ilinden” o di “Ilindeska”, letteralmente “giorno di Sant’Elia”, quando il popolo si ribellò contro i turchi nel 1903 e contro i nazisti nel 1944. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI basato su un ampio spettro di capacità economiche”. Djukanovic, accusato dalle opposizioni di favorire la corruzione e il clientelismo, occuperà la carica che aveva avuto tra il 1998 e il 2002.

RUSSIA 18 maggio. Il presidente russo, Vladimir Putin, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, si sono incontrati in occasione di un vertice bilaterale a Sochi. Tra i temi affrontati, figurano il conflitto ucraino, la reazione europea al ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con l’Iran e il gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania. Putin, dopo il colloquio, ha detto che “una sospensione del transito del gas russo dall’Ucraina non è prevista”, mentre Merkel ha sottolineato che “il ruolo dell’Ucraina come Paese di transito dovrebbe continuare anche dopo la costruzione del Nord Stream 2. Ha un’importanza strategica”. UCRAINA 22 maggio. Negli ultimi giorni le tensioni nell’Est del Paese hanno subito un’escalation che ha condotto a violenti scontri, secondo gli osservatori OSCE. Alexander Hug, vice capo della missione di osservazione, ha confermato che 2 civili sono stati uccisi e altri tre risultano feriti: “la scorsa settimana è stata la peggiore vista finora dall’inizio dell’anno. In totale, abbiamo registrato 7.700 violazioni del cessate il fuoco”. I separatisti accusano l’esercito ucraino di aver usato l’artiglieria pesante per bombardare delle aree residenziali. A cura di Vladimiro Labate 10 • MSOI the Post

PUTIN-MEDVEDEV: UNA STORIA INFINITA

La storia si ripete, Putin Presidente e Medvedev Primo Ministro

Di Davide Bonapersona I primi rapporti tra Putin e Medvedev risalgono agli anni ’90, quando entrambi erano giovani politici all’inizio della loro carriera che cercavano di affermarsi nella loro città natale, San Pietroburgo. Nel 1999 Putin viene eletto Primo Ministro e chiama a Mosca Medvedev. Quando, nel 2000, viene eletto Presidente, continua ad affidare al vecchio amico nuove cariche pubbliche sempre più importanti, fino a nominarlo, nel 2005, vice Primo Ministro. Tuttavia, il momento saliente della loro storia è il 2008. In quell’anno termina il secondo mandato presidenziale di Putin che è, per via delle leggi russe, costretto a non potersi ricandidare, e decide allora di nominare Medvedev come suo successore politico. Le elezioni vengono vinte da Medvedev, il quale nomina come suo Primo Ministro lo stesso Vladimir Putin. Nonostante la differenza di ruoli, in quel quadriennio, la linea politica continuerà ad essere dettata da Putin. Alle elezioni del 2012, Putin viene eletto nuovamente Presidente e nomina Medvedev suo Capo del Governo. Analogamente, nelle appena concluse elezioni, dopo la sua vittoria, Putin designa, il 7 maggio scorso, Medvedev come Primo Ministro e il giorno seguente, con 374 voti a favore

e 56 contrari, la Duma conferma la nomina. Nonostante il rapporto tra i due sia di lunga data, è chiaro a tutti che il loro rapporto non è mai stato paritario. È indubbio che Medvedev sia uno degli alleati più fidati e leali del neoeletto Presidente, ma ha sempre ricoperto il ruolo di ombra e di capro espiatorio delle scelte politiche di Putin. Nessuno ha dubbi sul fatto che, dal 2000, l’unico vero leader della Russia sia Putin e che l’apporto politico di Medvedev sia stato piuttosto marginale. Va comunque precisato che nell’ordinamento costituzionale russo, la carica di Primo Ministro ricopre un ruolo secondario, soprattutto nel caso in cui il risultato elettorale (come effettivamente è sempre avvenuto) dia forte legittimazione al Presidente. Se da una parte, per Putin, risulta strategico e comodo avere una persona di fiducia in quel ruolo, dall’altra bisogna segnalare che proprio perché il ruolo di Capo del Governo è così debole e oscurato dalla figura del Presidente, questo risulta poco appetibile per coloro che desiderano intraprendere una scalata politica in Russia. Per questo motivo alcuni osservatori sostengono che non sia lunga la lista di coloro che ambiscono a ricoprire tale carica.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

SENZA PAESE, SENZA STORIA, SENZA SPERANZA

Uno sguardo sulle diverse narrazioni di una crisi irrisolta e incompresa

Di Giusto Amedeo Boccheni

AUSTRALIA 21 maggio. Si complicano i tentativi di distensione tra Australia e Cina. In occasione del G20 tenutosi a Buenos Aires, le buone impressioni manifestate dal ministro degli Esteri australiano, Julie Bishop, si sono scontrate con la denuncia del corrispettivo cinese, Wang Yi, al “pensiero conservatore” di Canberra. I due governi sono in rotta da alcuni mesi a causa della nuova legislazione australiana sull’immigrazione. CINA 22 maggio. Nuovi segnali di distensione nello scontro dei dazi tra Usa e Cina. Il governo cinese ha annunciato che dal 1luglio saranno ridotte del 10% le tariffe sulle importazioni di auto e ricambi. Si tratta di una decisione che Pechino dichiara essere legata al proprio processo di “apertura economica”. COREA DEL NORD 24 maggio. Trump ha cancellato il vertice Usa-Nord Corea previsto per il 12 giugno a Singapore. In una lettera indirizzata personalmente a Kym Yong Un, il Tycoon si è rammaricato per l’occasione persa, ritenendo momentaneamente inutile il confronto a causa della “aperta ostilità” manifestata dalla controparte. La lettera è giunge poche ore dopo l’annuncio dello smantellamento del

Martedì 22 maggio, Amnesty International ha diffuso i risultati di un’investigazione, basata su interviste e sopralluoghi, che confermerebbe le allegazioni del Governo birmano circa l’uccisione di 99 membri della minoranza indù, da parte di un gruppo armato Rohingya nello Stato di Rakhine. Le vittime erano state trovate dall’esercito a settembre 2017, in una fossa comune, confermando alcuni degli eventi descritti dall’esecutivo di Naypyidaw che hanno condotto all’esodo di oltre 800.000 Rohingya.

interessati non sono rappresentati, la Cina e la Russia combattono per impedire che lo Stato di Rakhine, ricco di risorse e crocevia per la Baia del Bengala, sfugga al controllo del Governo birmano e ai loro investimenti. In occasione di una visita ai campi in Bangladesh, dove si sono rifugiati 700.000 Rohingya, i rappresentanti dell’UNSC hanno raccomandato “investigazioni trasparenti per le accuse di abuso e violazioni dei diritti umani”, ma pure evidenziato il grande rispetto per la “sovranità, indipendenza politica, integrità territoriale e unità del Myanmar”.

La crisi, definita pulizia etnica dall’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite e dalla stessa Amnesty International, viene percepita e raccontata in modi diversi all’interno della comunità internazionale. Se, infatti, in Occidente e nel mondo musulmano si discutono le angherie e le discriminazioni perpetrate dall’esercito e dalla maggioranza buddhista, che continuano nelle zone di confine, e si condanna l’indifferenza di Aung San Suu Kyi per le sofferenze di questa ed altre minoranze birmane, il Myanmar e i suoi alleati denunciano l’estremizzazione di un gruppo estraneo e violento.

A livello regionale, l’India si annovera tra gli investitori in Rakhine e si affianca al blocco filo-birmano. L’ASEAN, dal canto proprio, rimane cauto nel consueto cantuccio della non-interferenza.

Questa contrapposizione, si riflette nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC), incaricato di vegliare sulla pace sulla sicurezza internazionale. Qui, dove i diretti

Così, mentre una soluzione dall’alto tarda ad arrivare, i rifugiati si preparano alla stagione delle piogge, sperando che il fango non peggiori la situazione.

Ha altresì fatto scalpore la designazione da parte dell’Oxford Research Encyclopedia di Jacques Leider, uno storico specializzato nello Stato di Rakhine, per la composizione di un articolo sui Rohingya. Secondo alcuni accademici come Noam Chomsky e Richard Falk, sarebbe troppo vicino al Governo birmano per poter offrire una versione obiettiva dei fatti.

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ORIENTE sito nucleare di Punggyeri, primo passo verso la denuclearizzazione della penisola.

THAILANDIA: RICHIESTA DI NUOVE ELEZIONI

Dopo le maglie rosse, nuove agitazioni popolari contro il regime

Di Alessandro Fornaroli

GIAPPONE 19 maggio. All’alba del 21° incontro tra Shinzo Abe e Vladimir Putin, il Primo Ministro giapponese si è detto fiducioso sul raggiungimento di un trattato di pace atteso da circa 70 anni. Stando alle parole del leader nipponico, tale accordo rappresenta “un grande contributo al rafforzamento della stabilità mondiale”.

INDONESIA 24 maggio. Sulla scia degli attentati terroristici che hanno colpito il Paese la scorsa settimana, il Presidente indonesiano ha acconsentito all’azione congiunta delle forze armate e della polizia contro le cellule islamiche responsabili degli attentati. Ciò in attesa di questo venerdì, quando il Parlamento sarà tenuto a votare una nuova legge sul terrorismo che assicuri un inasprimento sia sul piano preventivo che punitivo. A cura di Daniele Carli

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Martedì 21 maggio in Thailandia è stata organizzata una marcia che avrebbe dovuto attraversare la città di Bangkok fino alla sede centrale del Governo. Il motivo principale della manifestazione, che è iniziata con il presidio notturno dell’Università di Thammasar, è la commemorazione del quarto anniversario dal colpo di stato che ha portato l’esercito alla guida del Paese nel 2014. Nella terra del Siam, si sono già verificati 19 golpe dalla rivoluzione siamese del 1932. Rangsiman Rome, capo del Democracy Restoration Group, ha affermato che l’obiettivo iniziale della manifestazione fosse quello di arrivare alla sede dell’esecutivo per evidenziare l’interesse popolare ad esercitare il diritto di voto. È dal 2017, infatti, che il generale Gen Prayuth Chan-ocha continua a posticipare la data delle elezioni. Nuttaa “Bow” Mahattana, una delle guide di questa protesta, in seguito a una fase di trattative con la polizia locale, ha ottenuto il permesso di spiegare via megafono i tre punti principali del corteo. Oltre alla votazione chiesta dai cittadini per novembre, la portavoce ha chiesto lo scioglimento del National Council for Peace and Order (NCPO), affinché venga assicurata la libertà di voto effettiva e ha infine domandato la cessazione del

supporto delle forze armate a questi organi amministrativi. La giunta militare, invece, per legittimare il proprio potere, sta ricorrendo soprattutto a due strumenti. Il primo, di antica tradizione, è il reato di lesa maestà, che trova fondamento nell’articolo 112 del codice penale thailandese, il quale prevede una reclusione dai tre ai quindici anni. Questo, in senso lato, viene usato anche per condannare post sui social media che facciano anche indirettamente riferimento ai regnanti o a figure che siano espressione del potere ad essi legato. Il secondo invece, voluto dalla giunta stessa, è la Assembly Law, il cui principio vieta l’aggregazione di più di cinque persone a fini politici. Per quanto raramente violazioni di questa normativa arrivino ad essere decise da un giudice, la minaccia dell’applicazione viene regolarmente spesa per disperdere i manifestanti. Brandendo queste due norme, le forze dell’ordine hanno messo a tacere diverse forme di dissenso, limitando la libertà di espressione e congregazione, punti cardine per lo sviluppo del dibattito e del confronto politico. Stando alle ultime dichiarazioni tuttavia, le nuove elezioni dovrebbero tenersi nel 2019, spostando almeno di tre o quattro mesi la data rivendicata dai cittadini.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole EBOLA: NASCE UN VACCINO SPERIMENTALE L’OMS invia 4000 dosi di vaccino a Kinshasa

BURUNDI 18 maggio. Resi noti i primi risultati del referendum costituzionale indetto dal presidente Pierre Nkurunziza per estendere il mandato presidenziale da 5 anni a 7 anni. Il “sì” alla modifica ha vinto in 14 province su 18. Gli elettori sono stati stimati introno ai 5 milioni. 21 maggio. Le votazioni si sono svolte regolarmente, ma a causa delle forti proteste messe in atto dai partiti di opposizione, il 19 maggio è stata istituita una commissione per valutare una possibile incostituzionalità del referendum, successivamente confermato. Il mandato presidenziale sarà, quindi, esteso da 5 a 7 anni. KENYA 18 maggio. L’avvocato keniota, Apollo Mboya, prosegue la propria lotta. al fianco dei consumatori, contro la decisione governativa di aumentare i costi dell’elettricità. In alcuni casi, infatti, le cifre richieste alla popolazione sono state triplicate. 19 maggio. Un’epidemia di colera, in rapida diffusione, è scoppiata nel secondo campo di rifugiati più grande al mondo, Daadab. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 18 maggio. L’epidemia di ebola

Di Barbara Polin Dal mese di aprile al 18 maggio scorso, i malati di febbre emorragica nella Repubblica Democratica del Congo sono 45. 25 i morti. È stato confermato che 14 casi sono stati causati dal virus Ebola: un numero sufficiente a provare l’esistenza di un focolaio della malattia. Per eliminarlo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha inviato 5.000 dosi di vaccino a Kinshasa, con la notifica che ne giungeranno altre 4.000 a breve. La distribuzione del vaccino, tuttavia, è problematica per diverse ragioni. Il primo aspetto che suscita preoccupazione è che la propria capacità di immunizzazione è garantita solo tramite la refrigerazione a temperature tra i -60 e i -50 gradi Celsius, assicurabile tramite una fornitura continua di energia elettrica, che è tuttavia spesso mancante. Inoltre, anche se gli ultimi casi sono stati registrati nell’area urbana di Mbandaka, la maggior parte degli ammalati vive in aree boschive, poco accessibili a veicoli specializzati che trasportino i vaccini. Il secondo aspetto da tenere in considerazione è il carattere sperimentale del vaccino, che è stato testato in trial clinici limitati tra il 2015 e il 2016 in

Guinea e che non è stato ancora approvato ufficialmente. L’Ebola rimane una malattia incurabile, il cui trattamento per ora prevede la continua idratazione del paziente. Da qui, si può comprendere l’importanza di strutture ospedaliere locali che assistano gli ammalati. Il programma di vaccinazione applicato dall’OMS avviene secondo uno schema ad anello: i primi individui ad essere immunizzati sono gli operatori sanitari e gli addetti alle pompe funebri, ai quali seguiranno le persone venute a contatto con i possibili contagiati. Anche se in questo caso l’Ebola ha raggiunto una zona urbana, l’OMS ha dichiarato che la situazione non è definibile come una crisi di sanità pubblica, anche se è necessario uno sforzo vigoroso per contenere la malattia. L’azione dell’OMS è stata più rapida e è efficient rispetto all’intervento avvenuto durante l’epidemia di Ebola nel 2014, che causò 28.000 infezioni e 10.000 morti. Secondo gli esperti di salute pubblica, la risposta all’epoca era stata tardiva e aveva sottovalutato l’effetto di spillover del virus. Di conseguenza, Margaret Chan, direttrice generale dell’OMS, aveva dichiarato l’avvio di un piano di riforma dell’Organizzazione, i cui risultati si possono oggi osservare sul campo. MSOI the Post • 13


AFRICA è entrata in una “nuova fase” dopo il ritrovamento di 3 soggetti infetti a Mbandaka. L’Organizzazione Mondiale della Sanità si riunisce, venerdì 25 maggio per la valutazione del problema. Temuta, la diffusione nei Paesi vicini. 21 maggio. L’OMS ha dichiarato che la situazione potrebbe essere messa sotto controllo attraverso l’utilizzo di vaccini. Nel frattempo, sono stati inviate 7.500 dosi di vaccini di cui 4.000 per la sola città fluviale di Mbandaka. SWAZILAND/eSWATINI 19 maggio. Modificato il nome del Paese. Lo Swaziland si chiamerà eSwatini. A darne la notizia è stato il re Mswati III, come riportato sulla gazzetta e ufficial Local Notice. ZIMBABWE 21 maggio. Il presidente Emmerson Mnangagwa ha formalmente richiesto la riammissione del Paese all’interno del Commonwealth. In caso di accoglimento, sarebbe il 54° membro dell’organizzazione intergovernativa. A riguardo, il ministro degli Esteri inglese, Boris Johnson, si è espresso favorevolmente.

CONGO: LA GIUSTIZIA DI SASSOU NGUESSO CONTINUA A FAR CONDANNE Chiuso il primo processo illustre, ma la corte di Brazzaville non accenna a fermarsi

Di Francesco Tosco Il Congo, dal 2015, vive in un clima politico di instabilità interna e di repressione dell’opposizione. Il regime instaurato da Denis Sassou-Nguesso, salito al potere nel 1979, era stato combattuto nel 1992, dando luogo ad una guerra civile che Nguesso vinse. Nel 1997, la propria carica di Colonnello fu sostituita con quella di Presidente della Repubblica Del Congo. Infine, nel 2015, Nguesso promosse un referendum per permettergli di presentarsi come candidato alle elezioni successive, peraltro suscitando dispute interne tra coloro che davano per scontato un suo ritiro politico, come del resto era sancito dalla carta costituzionale antecedente.

23 maggio. Il viceministro delle Finanze, Terence Mukupe, in un raduno avvenuto lunedì 21 maggio ad Harare, è stato ripreso, in un video, nel momento in cui avrebbe dichiarato che “l’esercito non permetterebbe al leader dell’opposizione, Nelson Chamisa, di prendere il potere, in caso di vittoria nelle prossime elezioni programmate ad agosto”. Provocata l’indignazione dell’opinione pubblica, il governo ha condannato l’affermazione del Vice Ministro.

Dalle elezioni del 2016 Nguesso è uscito vittorioso, sebbene alcuni dei suoi avversari politici ed anche alcuni suoi stretti collaboratori di un tempo, all’indomani dello scrutinio, abbiano contestato la sua vittoria per presunti brogli elettorali. Da quel momento in poi, presso il Tribunale di Brazzaville, la capitale del Paese, sono stati aperti numerosi procedimenti a carico di ex-alti dirigenti dell’Amministrazione per attentato alla sicurezza interna dello stato.

A cura di Corrado Fulgenzi

L’11 maggio scorso è terminato il primo di questi ‘processi il-

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lustri’, che ha visto la condanna a 20 anni di reclusione per il generale ed ex-capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Jean-Marie Michel Mokoko. Secondo quanto riferito dal proprio avvocato, né ci sarebbero prove tangibili a carico, né la Corte avrebbe spiegato le motivazioni della sentenza. Per il legale, l’unico crimine attribuibile al generale sarebbe quello di essersi opposto a Nguesso come candidato alternativo durante le elezioni politiche del 2016. Ma la Corte d’Appello non si è fermata qui: dopo solo quattro giorni ha richiamato alla barra un altro ex dirigente dell’esercito, Norbert Dabira. Questi, accusato di aver organizzato un colpo di stato, era stato arrestato nel gennaio 2017 a seguito di alcune intercettazioni telefoniche che proverebbero un suo presunto tentativo di far abbattere l’aereo presidenziale in volo. Oggi si stima che i prigionieri politici in Congo siano più di un centinaio, tra ex-dirigenti e membri della società civile che avevano manifestato contro il Presidente in diverse occasioni. Aspettano ancora giudizio il più volte ministro Jean-Martin Mbemba ed alcuni membri del movimento civile Ras-le-bol, colpevoli di aver organizzato manifestazioni (pacifiche) di protesta.


AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole

BRASILE 22 maggio. Dopo il terremoto politico che ha scosso il Brasile, Temer ha annunciato che non prenderà parte alla prossima campagna elettorale in vista delle presidenziali del prossimo ottobre. Il Presidente brasiliano ha già dichiarato il proprio sostegno all’ex-ministro delle Finanze, Henrique Meirelles. Il candidato del Movimento Democratico Brasiliano (MDB) verrà ufficializzato dopo la conferenza del partito programmata dal 20 al 25 luglio. COLOMBIA 22 maggio. Una delegazione del Parlamento Europeo composta da 8 deputati si è recata in visita a Bogotá, in vista delle presidenziali di domenica. Oltre alla presenza per la tornata elettorale i rappresentanti dei diversi gruppi parlamentari seguiranno anche una fitta serie di incontri istituzionali con la cancelliera María Angela Holguín e l’alto commissario per la Pace Rodrigo Rivera. MESSICO 23 maggio. Oltre 10.000 gli omicidi dall’inizio dell’anno. Questo sarebbe il peso della criminalità sulle elezioni in Messico. Continuano, intanto, i comizi di López Obrador, il leader del Movimento di Rigenerazione Nazionale (MORENA) che guadagna consenso sul Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) di Peña Nieto.

VESCOVI CILENI SI DIMETTONO IN MASSA Mesi dopo la visita in Cile del Papa, l’ultimo capitolo del caso Karadima

Di Elena Amici Tutti i vescovi cileni hanno rassegnato le loro dimissioni a Papa Francesco lo scorso venerdì, al termine di un summit di emergenza per discutere un caso di abusi sessuali che ha sconvolto il Paese. Si tratta delle prime dimissioni di massa nella storia della Chiesa cattolica, causate dalle gravi accuse mosse dal Pontefice al clero cileno: i vescovi sarebbero colpevoli di aver interferito con le indagini nel caso di Fernando Karadima, ignorando le dichiarazioni delle vittime e trasferendo i membri del clero colpevoli per evitare scandali. Il caso di Karadima va avanti da oltre 30 anni: nel 1984 l’allora sacerdote, carismatico e con molti amici tra l’élite di Santiago, fu accusato per la prima volta di abusi sessuali su minori, ma nessun provvedimento fu preso dalle autorità ecclesiastiche. Solamente nel 2010, quando 4 delle sue vittime resero pubbliche le accuse, il Vaticano costrinse Karadima a ritirarsi a vita privata, ma l’ombra dello scandalo continuò a aleggiare sulla comunità cattolica cilena. Molti tra i pupilli e gli stretti collaboratori di Karadima sono stati accusati di complicità, compreso Juan Barros Madrid, nominato dallo stesso Papa Francesco alla diocesi di Osorno nel 2015, quando già si vociferava del suo coinvolgimento.

Un nuovo capitolo della vicenda si è aperto lo scorso gennaio, durante la visita in Cile di Papa Francesco. In un discorso tenuto alla presenza dell’allora presidente Bachelet, il Pontefice si è scusato per il “danno irreparabile degli abusi”, dicendosi addolorato e vergognato a nome della Chiesa. Allo stesso tempo Bergoglio ha continuato a difendere Barros a spada tratta, attirando critiche sia dalla popolazione sia da portavoce del Governo. Ulteriori critiche sono arrivate dall’interno dello stesso Vaticano, portando eventualmente a una nuova investigazione che in poche settimane ha coinvolto ben 64 testimoni e portato alla luce l’insabbiamento sistematico di abusi sessuali da parte del clero cileno. Una volta confrontato con la situazione, Papa Francesco ha personalmente invitato le vittime di Karadima a Roma per scusarsi faccia a faccia, e convocato i vescovi del Paese per il summit che si è appena svolto. Rimane ora da vedere quali saranno le conseguenze di vicenda avrà sul futuro della Chiesa cattolica in Cile. Juan Carlos Cruz, una delle vittime ricevute da Papa Francesco in Vaticano, si è detto cautamente ottimista, sperando in un “effetto tsunami” che possa dare a altre vittime il coraggio di fare un passo avanti. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA IN VENEZUELA VINCONO MADURO E L’ASTENSIONE

L’opposizione sabota le elezioni: più della metà degli aventi diritto non ha votato NICARAGUA 22 maggio. Cresce il numero dei morti nelle proteste di Managua. Il report presentato dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDH), alza le stime delle vittime ed evidenzia che “negli scontri iniziati il 18 aprile sarebbero avvenute anche delle esecuzioni extragiudiziali e che le misure detentive sarebbero state applicate in maniera arbitraria, spesso con trattamenti inumani e degradanti”. Questo è un grave colpo per il presidente Ortega, attualmente in una trattativa per una riforma democratica dopo 11 anni al potere. PARAGUAY 21maggio. Assecondando la politica intrapresa dal Guatemala e, soprattutto, dagli Stati Uniti, il Paraguay ha trasferito ufficialmente la propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Il presidente Horacio Cartés si è recato in Medio Oriente appositamente per l’inaugurazione. VENEZUELA 23 maggio. Non è stata tollerata la posizione espressa dall’Europa riguardo alle elezioni venezuelane. La critica sull’affluenza alle urne dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, è stata condannata dai portavoce del governo di Maduro, i quali hanno sottolineato i dati della partecipazione che risulterebbero agli organi ufficiali venezuelani; 68% degli aventi diritto. A cura di Daniele Pennavaria

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Di Tommaso Ellena Domenica 20 maggio si sono tenute in Venezuela le elezioni presidenziali: il Frente Amplio de la Patria di Nicolás Maduro ha vinto in modo netto, con il 67,59% di voti, permettendogli di restare al Governo fino al 2025. L’opposizione, duramente repressa in questi anni, ha deciso di boicottare il voto. La scelta ha influito notevolmente sulla percentuale dei votanti, che è calata in modo esponenziale rispetto alle scorse elezioni presidenziali: nel 2013, quasi l’80% degli aventi diritto si era recato alle urne, mentre quest’anno hanno votato poco più del 46% degli elettori. Il principale avversario di Maduro, Henri Falcón, arrivato secondo con quasi due milioni di voti, ha dichiarato di non riconoscere la legittimità di queste elezioni. La tornata elettorale è stata criticata da parte degli Stati Uniti, del Canada, dell’Unione Europea e della maggioranza degli Stati latinoamericani. Il presidente spagnolo Mariano Rajoy ha dichiarato che il processo elettorale non ha rispettato “le norme democratiche minime”. Sono però molti i Paesi che difendono il successo di Maduro: tra questi spicca la

Cina, il cui portavoce per gli Affari Esteri ha affermato che “le parti devono rispettare la decisione del popolo venezuelano”. Il presidente della Bolivia, Evo Morales, ha espresso tutta la sua soddisfazione per la vittoria del Frente Amplio de la Patria, scrivendo su Twitter: “il popolo sovrano venezuelano ha nuovamente trionfato di fronte al golpismo e all’interventismo dell’impero nordamericano”. Altri messaggi di congratulazioni sono arrivati dal presidente cubano Miguel Díaz-Canel e dal presidente del Salvador Sanchez Ceren. Intanto, dal punto di vista economico la situazione continua a peggiorare: il 15 maggio la multinazionale statunitense Kellogg’s ha comunicato la decisione di terminare le sue attività in Venezuela, chiudendo il suo stabilimento presente nella città di Maracay (aperto da oltre 50 anni) e dichiarando che “il peggioramento economico e sociale nel Paese ha obbligato la società a terminare le sue operazioni”. Maduro ha minacciato di affidare la fabbrica ai 400 lavoratori dello stabilimento, rimasti ora disoccupati, ma la Kellog’s ha risposto che in tal caso prenderà tutte le iniziative legali per non perdere lo stabilimento e i macchinari presenti al suo interno.


ECONOMIA PETROLIO: ORA È RISCHIO SHOCK ENERGETICO

Dazi, sanzioni e aumento della domanda riportano in auge il tema del ‘caropetrolio’

Di Alberto Mirimin “Fase di tensione”. Così gli esperti hanno definito il momento che in queste settimane sta attraversando il mercato del petrolio. Infatti, dopo anni in cui le sue quotazioni erano in ribasso, il greggio ha ripreso la corsa al rialzo, specie nell’ultima settimana, quando il Brent ha raggiunto quota 80 dollari al barile, molto distanti dai 26 dollari al barile del febbraio 2016. Oltre al Brent, anche il WTI si è riportato sui massimi del 2014, e sta continuando ad aumentare rapidamente. Da “eccessivamente basso”, il prezzo del petrolio è tornato ad essere considerato come “troppo caro”. Le cause di questo fenomeno economico sono diverse, sebbene la gran parte degli economisti concordi sulla loro individuazione. In primo luogo, una causa del ‘caropetrolio’ è sicuramente da ricercare nelle sanzioni statunitensi: già reintrodotte quelle sull’Iran; in arrivo quelle sul Venezuela. Per quanto concerne il primo Paese, basti pensare che l’impennata vera e propria sui future di petrolio si è registrata lo scorso 8 maggio, giorno in cui Donald Trump ha dichiarato ufficialmente il ripristino delle sanzioni contro l’Iran. Gli

economisti hanno stimato che le posizioni nordamericane nei confronti dello Stato islamico potrebbero togliere dal mercato da 400.000 a un milione di barili al giorno, sul totale dei 2,4 milioni di barili che l’Iran è tornato a produrre. Per quanto riguarda il Venezuela, la situazione è ancora più drammatica. Il Paese, infatti, sta attraversando una gravissima crisi economica che colpisce la produzione del greggio, prima fonte di sostentamento del Paese: la produzione è crollata del 40% in due anni, a 1,4 milioni di barili al giorno e minaccia di diminuire ulteriormente. Come se ciò non bastasse, la rielezione del Presidente Maduro ha scatenato le ire statunitensi, che, di conseguenza, hanno minacciato nuove sanzioni su Caracas, le quali andrebbero a riversarsi inevitabilmente sul prezzo del petrolio. A questo discorso sulla crisi del Venezuela, è doveroso aggiungere che numerosi Paesi stanno vivendo un declino involontario dell’output: Angola, Messico e Brasile, solo per citare i principali. Un apporto cruciale per il rilancio del prezzo del petrolio è poi arrivato dall’OPEC, che da un lato sta sfruttando la situazio-

ne mondiale che va delineandosi, dall’altro è riuscita a tessere una proficua rete di relazioni con la Russia e altri Paesi. La domanda supera l’offerta, le scorte diminuiscono sempre più, e chi ne giova maggiormente è l’Arabia Saudita, che punta a un prezzo del petrolio elevato in vista del collocamento in Borsa della sua compagnia di Stato, la Saudi Aramco. Altri due fattori, infine, che hanno contribuito a creare questa situazione sono: da una parte, la speculazione, con previsioni economiche sempre più aggressive e hedge fund che operano di conseguenza; dall’altra, il vertiginoso aumento della domanda, con i dati aggiornati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia che riportano un aumento di 1,4 milioni di barili al giorno. A essere svantaggiati sono sicuramente i consumatori occidentali, ma si prevede che anche alcuni Paesi in via di sviluppo, come l’India, ne potranno rimanere colpiti. Tuttavia, la situazione non cambierà in tempi brevi: dal 2020, il settore del trasporto marittimo, per citare un esempio, per rispettare l’obbligo di ridurre le emissioni di zolfo, impiegherà ancora più diesel. MSOI the Post • 17


ECONOMIA PER I PAESI DELL’EUROPA ORIENTALE, LA STRADA VERSO L’EURO È ANCORA LUNGA

La Bulgaria, in particolare, deve ancora soddisfare numerosi requisiti d’accesso

Di Giacomo Robasto Lo scorso 23 maggio, la Commissione Europea ha pubblicato il cosiddetto “Convergence Report 2018”, documento che viene pubblicato con cadenza almeno biennale (l’ultima edizione risale, infatti, a maggio 2016) e che intende fornire una valutazione sui progressi compiuti da alcuni Paesi membri verso la piena adesione alla moneta unica. La relazione prende, dunque, in esame sette Stati in particolare, che sono membri dell’Unione Europea pur non adottando ancora l’Euro come propria valuta: Repubblica Ceca, Croazia, Polonia, Ungheria, Romania, Svezia e Bulgaria. Dei 9 Paesi membri con le proprie valute nazionali, infatti, soltanto il Regno Unito, la cui uscita dall’Unione è ormai prossima, e la Danimarca hanno in passato categoricamente escluso una possibile entrata nell’Eurozona. L’edizione di quest’anno, appena pubblicata, si sofferma soprattutto sui Paesi che da due anni a questa parte mostrano maggiori à difficolt nel percorso verso la moneta unica, tra i quali vi sono senz’altro la Romania e la Bulgaria. Secondo la Commissione, infatti, 18 • MSOI the Post

la Bulgaria, pur presentando degli indicatori quantitativi e macroeconomici in linea con i criteri di convergenza stabiliti da Bruxelles, non è ancora dotata di sistemi di controllo a garanzia dell’indipendenza del potere giudiziario e della lotta alla corruzione. Lo Stato balcanico presenta, infatti, un basso tasso di inflazione annuo unito a una buona gestione delle finanze pubbliche. Tuttavia, a non convincere i funzionari di Bruxelles, vi sono i sistemi di leggi che regolano il funzionamento non soltanto della BNB (Banca nazionale bulgara), ma anche dei principali istituti di credito del Paese, che non soddisfano i requisiti in materia di indipendenza, concessioni di finanziamenti e integrazione legale nell’Eurosistema. La direzione della Banca Centrale Europea ha poi espresso, nelle scorse ore, seri dubbi sulla futura sostenibilità dell’attuale tasso di inflazione, considerando che, con un’eventuale adozione dell’Euro, diverrebbero necessarie alcune misure correttive di politica monetaria, considerato anche l’aumento generalizzato del costo del lavoro. A complicare il quadro complessivo della Bulgaria vi è

poi il fatto che il Paese presenta non solo il più alto divario nella distribuzione del reddito tra i suoi cittadini, rendendolo di fatto il Paese meno equo dell’intera Unione Europea, ma è anche il Paese con il salario medio lordo minore, che equivale a circa €360 al mese. In questo modo, il reddito pro-capite annuo, che non supera i €6300 - equivalenti a circa un quinto della media nell’Eurozona -, allontana la data di adesione alla moneta unica. Tenendo conto della situazione in cui la Bulgaria versava nel 1991, alla caduta del regime comunista che la governò ininterrottamente dal 1946, la nazione balcanica ha effettuato considerevoli passi avanti in un arco di tempo relativamente breve, che le hanno consentito di divenire a tutti gli effetti un Paese europeo. La vera sfida per lo Stato balcanico inizia ora, e sarà vinta con l’adozione dell’Euro solo se vi saranno notevoli sforzi innanzitutto nella lotta alla corruzione, che sottrae ogni anno l’equivalente di milioni di euro di PIL. In secondo luogo, sarà fondamentale e determinante il verdetto che la Commissione Europea emetterà nel prossimo Convergence Report. Appuntamento al 2020.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL PRINICIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE E LE PRATICHE DI ETHNIC PROFILING Quando il colore della pelle torna ad essere determinante

Di Luca Imperatore Chi dovesse ritenere che l’era della globalizzazione, delle frontiere aperte, della libera circolazione delle persone e delle grandi migrazioni abbia portato con sé, naturaliter, la definitiva accettazione dello straniero si troverebbe, forse, a ingannare sé stesso. La cronaca quotidiana mostra come la piena consapevolezza di vivere in una società che è –e che sarà sempre più– multiculturale e multietnica è ancora lontana da raggiungere. A dimostrazione di ciò, sorprende –ma forse non troppo– la dinamica della vicenda che vede coinvolta la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Zesham Muhammad c. Spagna. I fatti, dalla disarmante semplicità, sono i seguenti: il ricorrente, cittadino pakistano, veniva fermato a Barcellona, durante una passeggiata, da agenti della polizia spagnola per un controllo di identità. Alla richiesta dell’uomo delle motivazioni di tale controllo, uno degli agenti avrebbe candidamente ammesso che la sola e unica base era dettata dal colore della sua pelle. Il ricorrente proponeva, quindi, ricorso per responsabilità dello Stato da condotta di suoi organi, ricorso che veniva rigettato sia in primo grado, sia in appello. Anche il recurso de

amparo in Corte costituzionale dava esiti fallimentari. Il Sig. Muhammad adiva, dunque, la Corte di Strasburgo sostenendo di essere vittima di una violazione (fra gli altri) dell’articolo 14 CEDU, lamentando un’indebita discriminazione. Al netto della singola vicenda, è evidente che la Corte ha la possibilità di fornire una pronuncia forte su una questione estremamente rilevante per portata e diffusione: il c.d. ethnic profiling condotto dalle forze di polizia e dagli organi di sicurezza dello Stato. Con il termine (spesso tradotto come profilazione etnica o profilazione razziale) si intende la pratica, molto diffusa in molteplici Stati occidentali, di basare azioni di polizia su fattori legati all’appartenenza etnico-sociale di un dato individuo. Il ricorso ha visto la partecipazione dello Human Rights Centre dell’Università di Ghent, in qualità di amicus curiae. Tale intervento ha lo scopo di attirare l’attenzione della Corte sul fenomeno dell’ethnic profiling e sulle conseguenze dannose e negative che tale azione ha nei confronti del rispetto dei diritti umani di uguaglianza e non discriminazione. L’auspicio è che i giudici di Strasburgo possono dare luogo a una pronuncia forte, in grado di influenzare

i legislatori nazionali verso un maggiore controllo e, possibilmente, una limitazione di queste modalità operative. A onor del vero, occorre sottolineare come la pratica della profilazione razziale sia oggetto di forti dibattiti da parte della società civile e di specialisti del settore della sicurezza, che finora non ha prodotto alcuna convergenza concreta. Appare, dunque, lecito chiedersi se sia eticamente corretto e giuridicamente legittimo continuare a fondare azioni di polizia, spesso invasive, sull’appartenenza etnica e sul colore della pelle delle persone. Tali pratiche sono effettivamente valide modalità per garantire la sicurezza nazionale o la bilancia costi-benefici pende maggiormente nei confronti di un’indebita discriminazione? La diffusione di tale modalità operativa e gli esiti che ne conseguono sono tali da esigere una forte presa di posizione che potrebbe, in questo caso venire dall’autorevole voce della Corte. Quand’anche sembri anacronistico, quindi, il grido delle black panthers risuona ancora nell’aria ed il lascito dei movimenti antidiscriminatori degli anni ’60 ha, forse, ancora molto da insegnare. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO GDPR

General Data Protection Regulation

Di Stella Spatafora Oggi, 25 maggio 2018, il General Data Protection Regulation (GDPR) entra in vigore. Il nuovo Regolamento Europeo sulla privacy e la gestione dati coinvolge dalle aziende più grandi sino al singolo utente ed è nato per superare gli automatismi del vecchio documento OCSE del 1980 e della Direttiva 95/46 CE. Quando si parla di gestione dei dati (data protection) occorre considerare tre attori principali, ovvero: l’interessato, o data subject, cioè l’utente e dunque ciascuno di noi; il titolare e il responsabile del trattamento, ossia il data controller; infine, vi è la figura dell’autorità di controllo, che nel caso del GDPR è rappresentata dal garante privacy. Fino ad ora, l’utente aveva consentito passivamente al trattamento dei propri dati personali, spesso evitando di leggere le condizioni di servizio, perchè esageratamente lunghe e poco chiare. Con il nuovo Regolamento, invece, i vari tipi di licenze dovranno essere scritte in un linguaggio accessibile e in modo coinciso, attraverso anche l’utilizzo di icone e immagini per rendere più immediata la comprensione dell’informativa (Art.7). Infatti, il GDPR parte dall’assunto che trattare i

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dati personali è un’attività rischiosa che necessita la maggior chiarezza possibile. Inoltre, l’intero Regolamento è permeato dal principio di responsabilizzazione, ovvero, sia il titolare che i responsabili devono essere posti nella condizione migliore per capire che tipo di dati vengono trattati nello specifico e, dunque, prendere le misure di sicurezza più adeguate a prevenire il rischio. Non si tratta più solo di un “tick & box” automatico, bensì vi è una responsabilità che sorge in capo al titolare del trattamento nel decidere quali misure prendere per prevenire i rischi legati al trattamento dei dati personali. A fronte di ciò, occorre che il responsabile del trattamento sia dotato di misure tecniche, come un registro di trattamento (Art. 30), e di misure organizzative, ossia l’amministrazione del personale adeguata a garantire i diritti del singolo e a prevenire, per quanto possibile, i rischi derivanti dal trattamento dei dati personali attraverso la designazione di un “responsabile della protezione dei dati” (Art. 37). Con il GDPR ci troviamo di fronte a una nuova generazione di diritti, tra i quali spiccano il diritto alla sicurezza per falle del sistema informatico, che prevede un obbligo di notifica all’autorità di controllo entro le

72 ore successive da un eventuale data breach (Art. 33); il diritto di accesso, vale a dire il diritto a sapere gratuitamente chi disponga dei propri dati personali (Art. 15); il diritto all’oblio, ossia alla cancellazione di dati personali (Art. 17); e il diritto alla portabilità dei dati (Art. 20), che riconosce all’interessato il diritto di ricevere da un titolare del trattamento i propri dati personali, senza difficoltà e in formato comprensibile Inoltre, rileva l’applicazione extraterritoriale del Regolamento, cioè il GDPR è applicabile al “trattamento dei dati personali effettuato nell’ambito delle attività di uno stabilimento da parte di un titolare del trattamento o di un responsabile del trattamento nell’Unione, indipendente o meno che il trattamento sia effettuato o meno nell’Unione” (Art. 3). Ebbene il GDPR pone chiunque nella posizione migliore per farsi garante esso stesso della protezione dei propri dati una volta immessi in rete. Con il GDPR è stata offerta a ciascun individuo la possibilità di diventare coscienti della propria forza e delle proprie responsabilità. Facciamone buon uso.


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