Msoi thePost Numero 109

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni , Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Lucky Dalena, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Elena Amici, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolino, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Daniele Carli, Debora Cavallo, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria di Donato,Tommaso Ellena, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Lara Amelie Isai-Kopp, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Nina, Pierre Clement Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Barbara Polin, Jessica Prieto, Luca Rebolino, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Federica Sanna, Martina Santi, Martina Scarnato, Edoardo Schiesari, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA NASCE L’EUROPEAN INTERVENTION INITIATIVE Ma l’Italia non aderisce

Di Edoardo Schiesari Il 24 giugno scorso, aderendo alla linea strategica già delineata nel Trattato di Lisbona del 2009, nove Paesi dell’Unione Europea hanno lanciato una nuova forza militare europea, la cosiddetta European Intervention Initiative. Il progetto è sponsorizzato dalla Francia di Emmanuel Macron, animato dall’obiettivo di realizzare, entro il 2024, un continente “sovrano, strategico e autonomo” nel campo della difesa. Il programma ha incontrato l’entusiasmo anche di Germania, Danimarca, Estonia, Spagna, Portogallo e Benelux (Belgio Olanda e Lussemburgo), che hanno sottoscritto l’intesa, firmata a Bruxelles. In futuro potrebbe aderire il Regno Unito che, nonostante la Brexit incombente, intende non recidere i legami con l’Europa in campo militare. L’Italia invece, che pur aveva partecipato alla fase iniziale dell’iniziativa, ha deciso di non aderire, a seguito del nuovo orientamento politico che l’esecutivo Conte ha deciso di mettere in atto in ambito Europeo. Si tratterebbe di una componente militare per far fronte a possibili minacce alla sicurezza europea come disastri naturali, interventi

per crisi o evacuazione di cittadini europei. Si tratterebbe dell’unica forma di sinergia militare europea. L’idea che sta alla base di questa iniziativa è avvicinare gli Stati maggiori dei paesi partecipanti ad essere in grado, in futuro, di intervenire nei teatri di guerra, anche se non necessariamente ad alta intensità: in situazioni in cui devono essere prese decisioni rapide, ad esempio. Il ministro della difesa francese, Florence Parly, sottolinea poi che “potranno prendervi parte anche alcuni Paesi che pur non sono membri dell’Unione Europea”. Paesi come Francia, Germania, Spagna Polonia e Italia (se dovesse aderirvi) avranno il compito di creare strutture militari permanenti e di schierare gruppi di battaglia dell’UE e di 18 battaglioni nazionali. Il progetto potrebbe anche prevedere un quartier generale di pianificazione militare con sede a Bruxelles, in parallelo con la NATO. Proprio quest’ultima, però, ha lasciato trasparire il timore che gli Stati Uniti e l’Organizzazione Atlantica vengano isolati, a seguito di questa iniziativa. Occorre poi evidenziare il fatto che l’alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, non abbia preso parte alla firma

del progetto: l’esecutivo Macron, da Parigi, insiste nel garantire che la forza di intervento sarà complementare all’Europa della Difesa e non concorrenziale; con uno strumento “a 27 teste”, infatti, in caso di crisi si correrebbe il rischio che le decisioni vengano prese senza la necessaria rapidità. L’iniziativa sarà strutturata nell’ambito di una cooperazione rafforzata permanente; le testate francesi alludono a una “zona euro della difesa”. L’obiettivo di fondo però, che anima L’Unione Europea, è una crescita nella cooperazione, nella pianificazione, nello sviluppo tecnologico, negli investimenti e nei progetti industriali comuni in campo militare. Il ministro Elisabetta Trenta, nel motivare la scelta italiana di Roma di sfilarsi, ha affermato di voler prima capire la complementarietà del progetto con l’iniziativa europea e con la NATO, nonché l’interesse del Paese nel prendervi parte. Dal Ministero è giunto un comunicato ufficiale, in cui si sostiene che “per il momento l’Eliseo non ci ha fornito molti elementi, né ci sono stati particolari scambi tra il ministro francese Florence Parly e il ministro Trenta quindi preferiamo aspettare per capire e valutare bene l’iniziativa, prima di aderirvi”. MSOI the Post • 3


EUROPA DISCUSSIONE A 16 SUI MIGRANTI Strada in salita al vertice informale di Bruxelles

Di Alessio Vernetti L’immigrazione è un problema di tutta l’Unione e richiede pertanto un’assunzione di responsabilità a livello europeo: su questo punto 16 capi di Stato e di Governo dell’UE si sono trovati d’accordo, almeno formalmente, al vertice di Bruxelles del 24 giugno scorso. I leader europei si sono poi detti concordi sul fatto che le frontiere esterne vadano rafforzate, che la cooperazione con gli Stati africani vada intensificata e che la Turchia debba ricevere quanto prima la seconda tranche degli aiuti per i migranti (3 miliardi di euro) per onorare l’impegno assunto per la chiusura del corridoio migratorio del sud-est. Inoltre, i 16 si sono detti d’accordo sul fatto che adesso l’UE debba dare una risposta duratura su tre livelli: su quello esterno, favorendo le partnership con gli Stati africani da cui provengono i migranti; su quello frontaliero, con la gestione dei confini europei attraverso una forza di polizia dell’Unione e un’Agenzia dell’asilo europea; infine, su quello interno. Quanto a quest’ultimo, la CSU, omologo bavarese della CDU di Merkel,

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vuole rimandare in Italia i migranti che sono già stati registrati nel Belpaese. La strada, dunque, sembra ancora in salita: Merkel e Macron sostengono che, se mancherà unità, si dovrà procedere con accordi bilaterali e multilaterali: ma questo farebbe indubbiamente traballare l’Unione. Non sarà peraltro facile convincere il gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) che, spalleggiato dall’Austria di Kurz, si oppone alla solidarietà in termini di redistribuzione delle quote di richiedenti asilo. Novità arrivano anche dal fronte italiano: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha portato nella capitale belga un piano basato su 10 punti in cui ha sintetizzato le posizioni del Governo. Il documento, chiamato European Multilevel Strategy for Migration, è volto a trovare anche una soluzione immediata ai movimenti secondari dei migranti, evitando anche una rischiosa crisi politica a Berlino. “L’Europa – vi si legge – è chiamata ad una sfida cruciale. Se non riesce a realizzare un’efficace politica di regolazione

e gestione dei flussi migratori, rischia di perdere credibilità tutto l’edificio europeo. Occorre un approccio integrato, multilivello che coniughi diritti e responsabilità. […] Ciò si realizza in primo luogo con la regolazione dei flussi primari (ingressi) in Europa, solo così si potranno regolare successivamente i flussi secondari (spostamenti intraeuropei)”. Di movimenti secondari dei migranti, quindi, si dovrebbe discutere più avanti: infatti, solo se si rafforzano le frontiere e vi è una gestione comunitaria dei flussi, gli spostamenti intraeuropei di rifugiati risultano marginali ai fini della politica migratoria. Macron e Merkel, tuttavia, non sono d’accordo sull’occuparsi prima dei flussi in entrata e poi dei movimenti secondari: la Cancelliera, in particolare, ha esplicitamente dichiarato che i due fenomeni hanno la stessa importanza. Anche sulle piattaforme regionali per la gestione delle partenze dall’Africa del Nord non c’è accordo: il gruppo di Visegrad, insieme all’Italia, ha infatti rifiutato la proposta di Francia e Spagna, ovvero organizzarle nei Paesi di sbarco.


NORD AMERICA LA CRISI DEL PRESIDENTE

L’opinione pubblica internazionale tuona contro la politica di separazione dei figli US

Di Martina Santi Negli Stati Uniti, le leggi che regolano l’immigrazione clandestina prevedono un periodo di detenzione o la deportazione nel Paese di origine, per gli immigrati irregolari. La gestione dell’immigrazione illegale spesso si confronta, tuttavia, con la questione della prole. La deportazione o l’arresto di un genitore possono, infatti, esporre la salute dei figli a una situazione di forte stress. Per preservare il benessere psicofisico dei minori, la Detained Parents Directive del i 2017 affida ai genitor che rischiano un periodo di allontanamento dai propri figli, la responsabilità di individuare sistemazioni ottimali per i bambini. Solo qualora la famiglia non sia in grado di assicurare, da sé, tale assistenza, le istituzioni dello Stato prevalgono nella tutela del minore. Tuttavia, negli ultimi mesi, l’amministrazione Trump ha irrigidito le politiche sulla gestione dell’immigrazione clandestina, prevedendo, per le famiglie che tentano di attraversare il confine messicano, l’immediata separazione dai propri figli. I

bambini

vengono,

così,

trasferiti in “strutture di accoglienza” in Texas, il cui scopo originario è quello di accogliere i minori che attraversano il confine non accompagnati. Le prime immagini raccolte di questi centri mostrano però minori avvolti spesso in coperte isotermiche, all’interno di gabbie di metallo. Nonostante la vita in comunità con altri bambini possa facilitarne la permanenza, comunque devono affrontare il dramma di essere stati separati dai propri genitori. A livello internazionale, Washington ha dovuto rispondere alla denuncia delle Nazioni Unite, secondo cui starebbe violando i principi sulla tutela del bambino e usando la minaccia della separazione come deterrente per l’attraversamento clandestino della frontiera. La replica della Casa Bianca ha ribadito il disinteresse degli Stati Uniti, in quanto nazione sovrana, ad accettare consigli di terzi, circa l’adeguata gestione dei propri confini. Forse, però, la reazione più forte e incisiva è arrivata proprio dai numerosi cittadini che non si riconoscono nella politica aggressiva e unilaterale del presidente Trump. Proprio negli stessi giorni, le domande incalzanti dei giornalisti

hanno messo a dura prova la capacità della portavoce della Casa Bianca nella gestione del briefing con la stampa. La Sanders ha difeso la politica dell’amministrazione Trump, ribadendo a più riprese come il Presidente statunitense stia semplicemente mettendo in atto un provvedimento già esistente. La portavoce ha poi ricordato che è priorità assoluta, per l’attuale amministrazione, la sicurezza dei confini nazionali, anche se ciò comporta una politica di ‘tolleranza zero’. Tale assertività da parte dell’amministrazione Trump ha generato ricadute su alcuni membri dello staff presidenziale, come testimonia l’episodio che ha coinvolto la stessa Sanders, allontanata da un locale pubblico, per la sua collaborazione con l’amministrazione vigente. Recentemente, tuttavia, cedendo all’ondata di indignazione internazionale e, forse in misura maggiore, alle proteste dei suoi stessi cittadini, il Presidente è tornato sui propri passi. Trump ha, infatti, posto fine alla politica di separazione genitori-figli, con un nuovo ordine esecutivo. In attesa che una valida riforma della legge sull’immigrazione passi al Congresso, d’ora in avanti le famiglie di immigrati clandestini verranno collocate negli stessi centri. Detenute, ma unite.

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NORD AMERICA GLI STATI UNITI SI SONO RITIRATI DALL’UNHRC Trump accusa il Consiglio di parzialità nei confronti di Israele

Di Jennifer Sguazzin Martedì 19 giugno, Nikki Haley, l’ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, ha comunicato il ritiro degli Stati Uniti dal Consiglio dei diritti umani dell’ONU (UNHRC). Una dichiarazione preannunciata dalle dure critiche rivolte dall’amministrazione Trump nei confronti di un organismo ritenuto “protettore di chi abusa dei diritti umani” e “pervaso da un pregiudizio verso Israele”. La stessa ambasciatrice ha evidenziato l’elevato numero di risoluzioni adottate dal Consiglio contro Israele, più di 70, ritenute eccessive se paragonate alle sette accolte contro l’Iran. L’UNHRC è stato istituito nel 2006 in sostituzione della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, con l’obiettivo di tutelare e promuovere il rispetto dei diritti dell’uomo. Il rapporto degli Stati Uniti con il Consiglio è stato difficoltoso fin dalla sua istituzione, contro la quale Washington ha espresso uno dei 4 voti contrari assieme a Israele, Palau e alle Isole Marshall. 6 • MSOI the Post

Durante la presidenza di George W. Bush, gli Stati Uniti non avevano preso parte al Consiglio, entrandovi solo nel marzo 2009, sotto la presidenza Obama. L’insediamento alla Casa Bianca del presidente Trump ha portato a un’ulteriore inversione di rotta. Nell’ottica dell’America First, è conseguito infatti il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi e il più recente accordo sul nucleare iraniano. “Questo passo non è un ritiro dal nostro impegno sul fronte dei diritti umani. Assumiamo questa iniziativa perché il nostro impegno su questo fronte non ci consente di restare parte di un organismo ipocrita che deride i diritti umani”, queste sono le parole con le quali Nikki Haley ha cercato di rassicurare la comunità internazionale. Le reazioni non si sono fatte attendere, a partire dall’ambasciatore israeliano al Palazzo di Vetro, Danny Danon, che ha ringraziato Washington: “Gli Stati Uniti hanno dimostrato ancora una volta il loro impegno alla giustizia e alla verità e la loro riluttanza a consentire all’odio cieco nei confronti di Israele di restare incontrastato nelle istituzioni internazionali”. Una voce fuori dal coro, che ha suscitato aspre critiche.

A partire dal portavoce del servizio di azione esterna dell’UE, che ha dichiarato la propria preoccupazione circa la credibilità degli Stati Uniti sulla scena globale dopo una tale decisione. Mosca, attraverso la portavoce del ministro degli esteri Maria Zakharova, non ha tardato a condannare una scelta che “ha dimostrato il loro disprezzo non solo verso il Consiglio dei diritti umani ma anche verso l’ONU in generale e le strutture che ne fanno parte”. Anche il Segretario Generale di Amnesty International, Salil Shetty, ha criticato duramente l’annuncio americano: “Ancora una volta il presidente Trump mostra il suo completo disprezzo per i diritti e le libertà fondamentali che il suo Paese pretende di sostenere”. La decisione statunitense di lasciare l’UNHRC, avviene proprio quando il mondo ha gli occhi puntati sulla frontiera messicana, dove numerosi bambini sono stati separati dai genitori, entrati illegalmente nel territorio statunitense. Come ha affermato il segretario generale di Amnesty International, gli USA dovrebbero considerare se questa decisione e le politiche migratorie adottate non li stiano ponendo “sul lato sbagliato della storia”.


MEDIO ORIENTE LE CONQUISTE ROSA: DONNE EMANCIPATE IN MEDIO ORIENTE La forza di donne che nonostante la condizione di totale svantaggio in ambito culturale, politico e sociale sono riuscite ad emergere.

Di Maria Francesca Bottura La nostra concezione di “donna”, in qualsiasi ambito ne si parli, è cambiata radicalmente durante gli anni. Essere donna oggi, in questa parte di mondo, è molto più semplice di quanto non sia in altri luoghi, come il Medio Oriente. Essere donna in Medio Oriente, avere sogni, aspirazioni per il futuro e desiderare ardentemente di essere qualcosa di più di una semplice moglie, o figlia, non è semplice. Crescere in ambienti chiusi, sia letteralmente, sia culturalmente parlando, rende molto difficile riuscire ad immaginare qualcosa di diverso. Forse è proprio l’immaginazione l’unico limite di molte donne in Medio Oriente. Crescere senza saper immaginare come sarebbe la loro vita fuori da quegli abiti scomodi e da quelle mentalità ristrette, rende pressoché impossibile la nascita di una volontà generale di cambiare le cose. In un rapporto redatto nel 2013 dal World Economic Forum, intitolato “Global Gender Gap Report”, compara la condizione delle donne in 136 diversi paesi, arrivando alla conclusione che il divario tra generi si sia ridot-

to in media del 96% e quello economico del 60%. Nonostante questi ottimi risultati, rimane però da dire che gli Stati medio orientali non sono riusciti comunque a raggiungere delle buone posizioni. Ne è un esempio l’Arabia Saudita, al 122° posto nella classifica per le opportunità economiche date alle donne; oppure il Libano, situato al 126°. Pochi anni più tardi, nel 2016, Human Rights Watch ha redatto un altro report di denuncia, il “Boxed In: Women and Saudi Arabia’s Male Guardianship System”, contro il controllo imposto degli uomini sulle donne in Arabia Saudita, condizione che si può facilmente allargare ai restanti Stati del Medio Oriente, nella speranza di veder cambiare la condizione delle donne, soggette alle restrizioni culturali e sociali che vedono gli uomini come i loro “padroni”. La condizione femminile rimane relegata saldamente a questa concezione di “bene di proprietà” esclusivamente maschile, facendo si che addirittura un figlio possa considerarsi il “custode” della propria madre. In prigioni fatte di regole ferree e punizioni severissime per chi le trasgredisca, è difficile riuscire

ad emergere. Eppure, c’è chi è riuscita a cambiare la propria condizione di donna, sfuggendo a queste trappole sociali. Miriam Al Mansour è riuscita a diventare un maggiore dell’aviazione degli Emirati Arabi; Rana Moharrak, nata in Arabia Saudita, è stata la prima donna del Medio Oriente a raggiungere la vetta dell’Everest; Sima Samar è l’ex ministro per le questioni femminili in Afghanistan e relatrice delle Nazioni Unite per i diritti umani in Sudan; Monira al-Qadiri, dal Kuwait è riuscita a portare ed esporre le sue opere al New York Museum. Questi non sono gli unici esempi di donne che con perseveranza e coraggio sono riuscite a raggiungere, letteralmente e non, la vetta. A piccoli passi e con piccole grandi conquiste, le donne di questo mondo a noi estraneo stanno pian piano riuscendo a fare quello che per secoli è stato impossibile immaginare. E si può dire che in Medio Oriente ci siano state delle conquiste rosa che, si spera, un giorno, cambieranno le sorti di moltissime ragazze e bambine a cui nessuno ha ancora insegnato ad immaginare in grande.

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MEDIO ORIENTE HUMANITARIAN ASSITANCE AND THE WAR OF NUMBERS A warning from 1982 Israeli operation “Peace for Galilee”

By Jean Marie Reure It can be useful to make an example out of the war context: the war of numbers between strike organizers and police forces can serve this purpose. Whenever a strike takes place organizers diffuse a number of participants which is very likely to be different from the one released by police forces. The problem does not rely on the different statistic/mathematics tools used to count people, but on the purpose these numbers serve. For the organizers the higher the turnout is, the stronger will be their position in bargaining, while for the government it is the opposite.

tool of anti-Israeli propaganda”, some have hazarded aggregate numbers (Tucker, 1982,1). Caritas, the Christian relief agency, released “minimum established figures” of 14,000 dead, 25,000 wounded and 400,000 homeless on June 28. According to Lebanon police death were 10,000. On July 5, after some contradictory statements, Israel issued the definitive official number of 331 people dead and 20.000 homeless after the initial phase of the invasion. The striking difference between numbers released by the Rome-based relief agency and those issued by Israel can be explained by a certain, particular, dynamic.

Wars of numbers unluckily do not occur only during strikes or public happenings: a viable example taken from a conflict setting can be 1982 Israeli invasion of south Lebanon within the operation “Peace for Galilee”. The operation was launched on the sixth of June. Although “Precise numbers have been hard to assemble because of unsettled conditions, lack of free access to all areas, the incomplete recovery of bodies buried under the rubble, censorship and the tendency on the part of Israel and its supporters to view casualty statistics as a

In fact, the number of victims, deaths, wounded and displaced constitute what literature calls “private information”. Parties know, more or less precisely, at least the number of the combatants they have lost in the field (that is an information the other part may not know) but they have an interest in not sharing or to misrepresenting it. For Israel not divulging the numbers, or loweringthem, means paying a lower (domestic and international) political cost. On the opposite, it is possible that relief agencies have to justify their presence

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in the field, knowing that numbers will also condition fundraising campaigns. Hence, they might refer mainly to numbers given by the PLO (Palestinian Liberation Organization) or other groups present in Lebanon. Those groups have in turn the incentive to misrepresent the number of victims to influence public opinion and to draw attention to their cause, to create a “rally-round-the-flag” effect, and eventually to receive more aid. In this context it is possible that the total humanitarian aid inflow into the war-torn country exceeds the real need (and then contributes to war economy, relieves parties’ war costs...) or is inferior to it (and then causes famine, population suffering...). This was 36 years ago, but today the situation is the same. The war continues around the notorious wall, in people’s mind (from both parties) and with numbers. Both Israel and the Palestinian Authority continue diffusing different numbers and different stories. Both are heavily dependent on international aid. Does someone really expect that the truth, if one exists, will come from the number of victims of this seemingly never-ending conflict?


RUSSIA E BALCANI 46 GIORNI DI SCIOPERO DELLA FAME

Il regista ucraino Oleg Sventsov è intenzionato a continuare la sua battaglia

Di Andrea Bertazzoni Il regista ucraino Oleg Sventsov, detenuto dal 2015, il 14 maggio scorso ha iniziato uno sciopero della fame che non ha subito alcuna interruzione. Sventsov, che al momento si trova in una colonia penale nell’estremo nord della Russia chiamata l’“Orso Bianco”, sta scontando una pena di 20 anni di reclusione inflittagli per sospetto terrorismo ai danni della Federazione Russa. Il regista, nato a Sinferopoli, città della Crimea, ha promesso che porterà avanti la propria battaglia finché non saranno rilasciati tutti i prigionieri politici ucraini detenuti nelle carceri russe. Il gesto di questo attivista ucraino, diventato famoso già ai tempi della rivoluzione del Maidan per il sostegno ai manifestanti in piazza a Kiev, oltre a mettere a repentaglio la propria salute, rappresenta una vera e propria minaccia anche per il governo russo, che tutto si auspica, meno che di dover gestire una situazione simile in una delle sue prigioni. Nel corso dell’ultimo mese, Sentsov ha ormai perso più di 13 kg di peso e poco stanno facendo le terapie fisiologiche di glucosio e di amminoacidi a cui è sottopo-

sto in carcere. Le sue condizioni di salute peggiorano di giorno in giorno e, negli ultimi tempi, il suo caso è sotto l’attenzione costante non solo delle principali organizzazioni internazionali, ma anche dei principali giornali che si occupano di politica internazionale. Alcuni aspetti critici riguardano, inoltre, il procedimento giudiziario a suo carico: prima di presentarsi in tribunale, al regista ucraino era stata imposta la cittadinanza russa e di conseguenza non è stato più in grado di rivolgersi al console ucraino a Mosca. Le udienze, che si sono poi concluse con la condanna, sono state definite da Amnesty International “largamente inique e motivate politicamente”, basate su confessioni “ottenute sotto tortura”. I difensori civici di Ucraina e Russia, così come i rispettivi Presidenti, sono in stretto contatto riguardo alla situazione dei prigionieri ucraini in territorio russo e di quelli russi in territorio ucraino. Ciononostante, non vi è traccia di alcuno sviluppo significativo in merito a eventuali scambi di persone per venire incontro alle richieste dei reclusi. Sia le autorità russe sia quelle ucraine, infatti, si tacciano a vicenda di fornire sempre ri-

sposte evasive alle rispettive richieste. Nonostante si tratti di un’ultima speranza, diverse testate giornalistiche, inoltre, rimangono dell’avviso che un’eventuale amnistia, almeno nei confronti di parte dei prigionieri politici ucraini e russi, rimanga possibile. In effetti, il 25 maggio 2016, era stata rilasciata con un aereo diretto a Kiev Nadežda Savčenko, ex deputata ucraina, precedentemente condannata a 22 anni di carcere, rea di aver commesso l’omicidio di diversi giornalisti russi che avevano perso la vita durante alcuni scontri a fuoco nella zona del Donbass. Lo scorso 14 giugno il Parlamento europeo, su invito di alcuni gruppi di attivisti per i diritti dell’uomo, aveva votato una risoluzione per esigere dalle autorità russe il rilascio immediato e senza condizioni del regista ucraino e di altri 63 cittadini ucraini detenuti illegalmente in Russia e in Crimea. Nonostante alcuni voti contrari, provenienti anche da aree politiche spesso impegnate a favore della tutela dei diritti della persona, la risoluzione è passata, ma Mosca non ha ancora dimostrato alcuna intenzione di collaborare.

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RUSSIA E BALCANI IL CONTROVERSO RAPPORTO TRA SPORT E POLITICA NEI BALCANI Quando il calcio è metafora di conflitto

Di Davide Bonapersona

mai risolta tra Kosovo e Serbia.

Da sempre lo sport è uno dei mezzi più efficaci per avvicinare persone e culture diverse, ma ancheperfavorirel’integrazionee la pace. Tuttavia, nei Balcani, in particolare negli ultimi anni, lo sport si è intrecciato fortemente con la politica, diventando spesso uno strumento di sfogo, che ha fomentato e inasprito le tensioni sociali e etniche dell’area.

La stessa questione è stata al centro di violenti scontri, dentro e fuori dal campo, durante la partita tra Serbia e Albania, valida per la qualificazione ad Euro 2016, giocata a Belgrado nell’ottobre 2014. Data l’accesa rivalità tra le due Nazioni, importanti misure di sicurezza furono dispiegate, in vista della partita. Ma ciò non bastò, perché, nel corso della partita, un drone sorvolò il terreno di gioco, sventolando una bandiera con i simboli della Grande Albania. In pochi minuti la situazione degenerò e la partita venne sospesa. In campo si scatenò una rissa tra i giocatori e gli hooligan serbi scavalcarono le staccionate dello stadio, scagliandosi verso la squadra albanese.

Di questo stretto e malsano rapporto tra sport e politica, il calcio fornisce sicuramente gli esempi più eclatanti. L’ultimo in ordine cronologico risale a pochi giorni fa, durante la partita dei mondiali Svizzera-Serbia. Al momento dell’esultanza, due giocatori svizzeri di origine kosovara, Xhaka e Shaqiri, hanno mimato l’aquila, simbolo della Grande Albania. Per i due calciatori, che, per via della guerra nell’exJugoslavia, hanno dovuto abbandonare il proprio Paese e hanno subito le problematiche derivanti dalla migrazione, il gol è stata l’occasione per un riscatto nei confronti della storia. Ma il loro gesto ha spaccato in due l’opinione pubblica, e ha riacceso le polemiche e i malumori attorno alla questione 10 • MSOI the Post

Ciò nonostante, l’evento più rappresentativo di questo legame tra calcio e politica nei Balcani, furono i fatti avvenuti nel corso della partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa Belgrado, disputata a Zagabria, nel maggio 1990. La partita si svolse in un momento storico e politico molto delicato per la regione: Tito, sepolto da ormai 10 anni, e la Jugoslavia sull’orlo del crollo, soprattutto

a causa delle pressioni dei movimenti indipendentisti dei vari Paesi, in Croazia in primis. La partita divenne così la metafora di un conflitto civile ormai nell’aria: i tifosi della Dinamo (i Bad Blue Boys), da una parte, rappresentanti della Croazia che reclama l’indipendenza e quelli della Stella Rossa (Delijie), dall’altra, simboli del nazionalismo serbo che non accetta il cambiamento. Già prima della partita, si registrarono scontri tra tifosi e atti di vandalismo in giro per la città. Allo stadio, nel giro di pochi minuti, il lancio di sassi e oggetti sugli spalti fra tifoserie, si trasformò in una vera e propria guerriglia in campo, con la polizia (in maggioranza serba) che intervenne solo per manganellare i tifosi croati. Al termine della giornata, il bilancio fu di oltre 100 feriti, decine di arrestati e ingenti danni alle strutture. Ma l’episodio fu particolarmente significativo perché segnò la definitiva spaccatura interna della Jugoslavia e fu il primo atto di quel sanguinoso conflitto civile, che imperversò nei Balcani negli anni successivi, e che portò alla definitiva scomparsa della Jugoslavia.


ORIENTE LA THAILANDIA FATICA A TROVARE LA VIA DELLA DEMOCRAZIA Rigettato il ricorso contro gli artefici del colpo di Stato del 2014

Di Emanuele Chieppa La Corte Suprema della Thailandia non ha ammesso ricorso sul giudizio della Corte d’Appello che, nel 2016, ha assolto il Consiglio nazionale per la pace e per l’ordine (NCPO) dalle accuse di insurrezione. Nel 2015, un gruppo di resistenza civile, guidato da Pansak Srithep, ha denunciato i membri dell’Armata Reale Thailandese che il 22 maggio 2014 avevano condotto un colpo di Stato e avevano poi costituito l’NCPO, spesso chiamato semplicemente ‘giunta militare’. Il golpe è stato il 12° per la Thailandia da quando fu concessa la prima Costituzione nel 1932. In quell’anno si era conclusa l’era della monarchia assoluta, ed era stata promulgata la prima Costituzione che, com’è noto, non fu quella definitiva. Ad aprile 2016, infatti, è entrata in vigore la nuova Costituzione, la 20° per l’esattezza, la quale, secondo gli osservatori internazionali, ha rafforzato ulteriormente i poteri della giunta. L’escalation di violenza che aveva preceduto il coup aveva

visto fronteggiarsi i conservatori sostenitori della monarchia, le Camicie Gialle, e gli accesi sostenitori del clan Shinawatra, le Camicie Rosse del Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura (FUDD), formatesi nel 2006 a seguito di un altro colpo di Stato che aveva deposto Thaksin Shinawatra, un magnate locale delle telecomunicazioni, anche definito il “Berlusconi dell’Asia”. Thaksin, prima del 2006, aveva praticato una politica a favore delle classi più deboli del Nord e Nord-est del Paese, che costituivano la sua base di voti. Queste politiche, nonostante abbiano trovato il consenso di una buona parte della popolazione, hanno portato dissenso tra i conservatori, monarchici, nazionalisti e militari. Il 2006 ha inoltre visto lo scontro tra queste due dimensioni della società thailandese acuirsi sempre più; da allora, si sono alternate al governo del Paese due fazioni, quella dei filo-monarchici e quella dei democratici. Nel 2010, sotto governo filomonarchico, 87 persone tra cui alcuni militari morirono e furono

ferite 1.378 persone nel corso di una serie di violente proteste. Nel 2011, lo stesso governo fu costretto a sciogliere le Camere e ad indire nuove elezioni, a seguito delle quali si ebbe la vittoria del partito Pheu Thai, retto da Yingluck Shinawatra, sorella di Thaksin, che vinse anche grazie ad uno stratagemma populista, promettendo di aumentare la remunerazione di una tonnellata di riso da 8.000 bath a 15.000, ovvero da 275 dollari a 490, secondo il cambio dell’epoca. La proposta convinse la popolazione rurale, ma mise in pericolo le esportazioni di riso e il PIL del Paese. La Thailandia, infatti, ha a lungo detenuto il primato di primo esportatore di riso del mondo. Dopo una serie di ulteriori cambi di governo, di Costituzione (e perfino di monarca), al netto della recente condanna di Yingluck Shinawatra per il tracollo finanziario derivato dalla politica delle quote riso, ad oggi la giunta militare resta al governo, con le massime cariche delle forze armate e di polizia alla guida di tutti i Ministeri. MSOI the Post • 11


ORIENTE MIGLIAIA DI MANIFESTANTI PROTESTANO IN VIETNAM Tra il risentimento contro la Cina e la frustrazione nei confronti del governo

Di Francesca Galletto Nella giornata di domenica 10 giugno, in Vietnam, migliaia di manifestanti hanno occupato la capitale Hanoi, il centro economico Ho Chi Minh City ed altre province del Paese per protestare contro la possibile approvazione di tre nuove zone economiche speciali (SEZ). A differenza delle 18 già presenti, in queste aree sarà possibile per gli investitori stranieri, tra i quali spicca la Cina, affittare terreni per un periodo capace di estendersi fino a 99 anni, anziché 70. Due delle tre zone speciali sono considerate strategiche per l’influenza cinese e il controllo del territorio vietnamita: Van Don, nella provincia di Quang Ninh, molto vicina al confine, e l’isola di Phu Quoc, nella provincia di Kien Giang, prossima ad una zona costiera Cambogiana dominata da progetti cinesi. L’ambasciata cinese ad Hanoi ha qualificato le rimostranze come raduni illegali e anti-cinesi. Il presidente dell’Assemblea Nazionale, Nguyen Thi Ngan, ha dichiarato che i manifestanti potrebbero aver frainteso la natura del disegno di legge, che mira a potenziare lo sviluppo economico e a fornire uno spazio per esperimenti istituzionali. 12 • MSOI the Post

Le proteste contro le SEZ e l’influenza cinese sono state il punto di partenza per far emergere altre problematiche sentite dalla popolazione, quali la frustrazione per il sempre più crescente controllo delle autorità, la richiesta di una maggiore democrazia, l’opposizione al sequestro di terreni agricoli per la costruzione di centri commerciali e fabbriche e la contrarietà rispetto alla legge sulla sicurezza informatica, che la legislatura aveva in programma di approvare la settimana seguente. Da una parte, le manifestazioni hanno portato alla sospensione della legge sulle SEZ, che sarà nuovamente discussa durante la prossima sessione dell’Assemblea Nazionale ad ottobre; dall’altra, alla detenzione di molti manifestanti ed organizzatori. Sono inoltre stati registrati alcuni episodi di violenza, ai quali avrebbero contributo entrambe le parti, che hanno portato al ferimento di civili ad opera della polizia. Proteste di solidarietà si sono svolte a Parigi e a Tokyo. Gli Stati Uniti e il Canada hanno invece sollecitato il governo vietnamita a ritardare il voto della legge sulla sicurezza informatica, anch’essa oggetto di protesta, che l’Assemblea Nazionale ha tuttavia approvato

il 12 giugno. Alcuni legislatori hanno ammesso perplessità circa quest’ultima disposizione, sottolineando il rischio di una conseguente eccessiva censura e limitazione all’accesso di informazioni per cittadini e imprese. Altri osservatori sostengono che, più che una legge sulla protezione della sicurezza in rete, la riforma sia un tentativo di proteggere il potere del Partito Comunista sul Paese. “Ci sono persone che approfittano di Internet per istigare proteste e comportamenti distruttivi volti a rovesciare il Governo[...]. Abbiamo bisogno di questa legge per proteggere questo regime” ha detto Nguyen Phu Trong, segretario generale del Partito Comunista Vietnamita, ad un incontro con gli elettori ad Hanoi il 17 giugno. Vo van Thuong, capo della Commissione centrale per la propaganda e l’educazione del Partito Comunista Vietnamita, ha dichiarato ad un incontro con gli elettori nella provincia di Dong Nai il 20 giugno, che la legge informatica non pregiudica i diritti del popolo alla libertà d’espressione e di parola, ma che anzi facilita la possibilità per i propri cittadini di esercitare legalmente tali diritti.


AFRICA L’INTERROGATIVO HOTSPOT IN AFRICA Soluzione o azzardo per la questione immigrazione?

Di Guglielmo Fasana È ormai chiaro ai più che l’Europa abbia trovato nella cosiddetta questione migranti un nodo fondamentale sul suo cammino. A tal proposito, appare ormai scontato ai grandi leader politici europei che non è più possibile – se mai lo è stato – ignorare quel che accade in Africa per risolvere l’impasse. E, in effetti, si è arrivati a parlare proprio di Africa ai più alti livelli della diplomazia, segno che la sua importanza nello scacchiere delle migrazioni ha subìto una rivalutazione. Se la Libia è sempre rimasta, per ovvie ragioni, nel vivo del dibattito, lo stesso non si può dire di altri stati apparentemente di secondo piano. Nei giorni scorsi, ha fatto molto parlare di sé la proposta per la European Multilevel Strategy for Migration (EMSM), presentata dal presidente del Consiglio italiano Conte, in un incontro preparatorio al Consiglio europeo di giovedì 28 giugno. Definita “coerente” dal presidente francese Macron con quanto già in corso di discussione, la proposta fa dei famigerati hotspot uno dei suoi 10 punti cardine. Il nome scelto e utilizzato nella EMSM (“centri di protezione internazionale nei

Paesi di transito”) è indicativo del fatto che si ricerchi il consenso sulla questione, a livello europeo. Nel documento viene infatti citato il Niger quale possibile Paese nel quale basare tali centri. Si tratta, infatti, del luogo di destinazione di una potenziale missione militare italiana, votata dal Parlamento nel dicembre del 2017 e attualmente in stallo. Situato a Sud di Libia e Algeria, senza sbocchi sul mare, il Paese confina con numerose nazioni del Sahel (Mali, Burkina Faso, Nigeria e Ciad). La scelta era ricaduta sul Niger dopo il categorico rifiuto espresso dalla Libia di ospitare le strutture, che dovrebbero essere gestite da personale europeo e non dall’autorità locale. Quali sarebbero dunque le conseguenze dell’eventuale decisione di rendere operativi questi centri in uno dei Paesi considerati dall’ONU tra i più poveri e meno sviluppati al mondo? Da una parte, il Niger è uno dei principali Paesi di transito per i migranti. Gli hotspot permetterebbero quindi di frenare il flusso di arrivi sulle coste libiche, e di conseguenza, il numero di persone che prendono

quasi quotidianamente il mare, sfidando il pericolo. Indirettamente, si andrebbero anche ad intaccare le finanze di quelle organizzazioni di scafisti che si occupano di fornire i mezzi pratici, dietro compenso, ai migranti per arrivare in Europa. Un altro vantaggio sarebbe quello di poter garantire ai migranti un luogo sicuro in cui poter attendere il responso di eventuali domande di asilo o di status di rifugiato. Dall’altra, è necessario confrontarsi con una realtà in continuo cambiamento e con flussi molto difficili da inquadrare. Per esempio,seglihotspotfosserogestiti dalle autorità locali, si paventa il rischio di ulteriori violazioni dei diritti umani, come peraltro già testimoniato dalle Nazioni Unite in Libia, con condizioni definite disumane. Si pone poi il problema dei grandi numeri di persone che si concentrerebbero in questi centri di protezione, con la sfida cruciale di garantire servizi e assistenza a bambini, donne e anziani: un costo economico per le finanze europee, ma anche politico per il Niger, già alle prese con disordini interni e messo di fronte alla prospettiva di tramutarsi in un campo per rifugiati fino a data da destinarsi.

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AFRICA “GLI ADEPTI DELLA TRADIZIONE DEL PROFETA” Nel nord del Mozambico si sfiora la guerra civile.

Di Jessica Prieto Al sunna wa jamaa, che tradotto significa “gli adepti della tradizione del profeta”, è il nome di un’organizzazione terroristica che dal 2016 conduce attacchi feroci nel nord del Mozambico. Negli ultimi mesi il numero degli attacchi è notevolmente aumentato, provocando la morte di almeno 35 persone e la distruzione di numerose abitazioni. Tali violenze si concentrano in particolare nella provincia di Cabo Delgado, una zona conosciuta anche in Italia per via delle fiorenti attività di estrazione petrolifera di società nostrane come ENI. Gran parte della popolazione, spaventata dallo scenario attuale si è rifugiata nel vicino distretto di Macomia, mentre altri hanno raggiunto la costa nella speranza di poter raggiungere le isole dell’arcipelago di Quirimbas. Lo origini di Al sunna wa jamaa possono essere paragonate a quelle di Boko Haram in Nigeria: entrambe, infatti, sono nate come sette religiose e si sono in seguito trasformate in cellule terroristiche. Ad oggi, si stima che l’organizzazione raccolga tra i 350 e 1500 adepti, orga-

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nizzati in decine di cellule attive lungo la costa nord del Mozambico. Chi aderisce alla setta si pone come obiettivo quello di imporre la sharia (la legge islamica) in tutta la regione e osteggia tutti coloro che non praticano il ‘vero’ Islam. A partire dal 2017, l’organizzazione ha assunto una veste più militarizzata, attaccando tre commissariati a Mocimboa de Praia. Durante quest’azione, i militanti uccisero due poliziotti, rubarono armi e munizioni e occuparono la città. Il gruppo si sarebbe in seguito rafforzato, stringendo alleanze con altri gruppi armati in Tanzania, Kenya e nella regione dei Grandi Laghi, divenendo parte integrante di una rete terroristica internazionale. Gli stessi si sarebbero poi approvvigionati finanziamenti tramite gli alleati internazionali o attraverso attività clandestine locali, come il commercio illegale di droga, legno o pietre preziose. Secondo due studiosi, João Pereira e Salvador Foruilha, che hanno seguito il gruppo da vicino per 4 mesi, le cause che portano questi giovani ragazzi ad arruolarsi nelle fila del terrorismo islamico sono da ricercare nelle condizioni sociali, spesso

modeste, in cui vivono e nel loro isolamento politico. La maggior parte di loro, infatti, appartiene all’etnia Kimwani, mentre molti esponenti del Governo e politici appartengono alla tribù Maconde. Di fronte alla crescente guerriglia seminata dal gruppo, il Governo ha reagito con il pugno di ferro, arrestando centinaia di persone e chiudendo o distruggendo molte moschee. In alcuni casi, vietando addirittura ad alcuni musulmani di indossare abiti che mostrassero la loro fede. In risposta a queste misure, i capi della comunità islamica hanno criticato il governo, chiedendo di non cadere in una nuova “caccia alle streghe”, che non farebbe che aumentare l’odio e la tensione nel Paese, avvantaggiando ancora una volta il terrorismo. Secondo l’analista Éric Morier-Genoud, l’unica soluzione risiederebbe quindi in una maggiore integrazione di questi giovani nella società, il che potrà avvenire solo quando il Governo deciderà di investire di più nell’educazione, una delle armi più forti contro qualsiasi tipo di fondamentalismo.


AMERICA LATINA LA CAMERA ARGENTINO APPROVA LA LEGGE SULL’ABORTO L’Argentina potrebbe diventare il terzo Paese latinoamericano a legalizzare l’aborto

Di Francesca Chiara Lionetti Giovedì 14 giugno l’Argentina ha compiuto un enorme passo avanti verso la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza. La legge per la depenalizzazione dell’aborto è stata approvata dalla Camera con 129 voti favorevoli, 125 contrari e un’astensione. Toccherà ora al Senato esprimersi sul testo, approvandolo, modificandolo e rimandandolo alla Camera, o bocciandolo. La definitiva approvazione della legge non quindi è scontata, ma il passaggio alla Camera è comunque considerato una pietra miliare per tutte le donne argentine e un grande passo in avanti per l’emancipazione femminile in generale. Il presidente Mauricio Macri, pur essendo contrario all’aborto, ha affermato che accetterà la decisione parlamentare e non eserciterà il diritto di veto previsto dalla sua carica. Il testo di legge prevede che l’interruzione di gravidanza sia garantita in forma “sicura, legale e gratuita” fino alla quattordicesima settimana per ogni donna che la richieda, e in seguito solo se la gravidanza è frutto di violenza sessuale, se la vita della madre è a rischio o se il feto presenta malformazioni non compatibili con la vita.

Se la Legge venisse approvata dal Senato, l’8 agosto prossimo, l’Argentina diventerebbe il terzo Paese dell’America Latina a legalizzare l’aborto. Ad oggi, infatti, sui 22 Paesi che conta la Regione (compresi i Caraibi) solo 4 paesi legalizzano l’aborto senza restrizioni: Uruguay, Cuba, Puerto Rico e Guyana. La svolta argentina potrebbe addirittura spingere altre nazioni a modificare le proprie normative, portando a una vera e propria “rivoluzione” in Paesi con una lunga tradizione conservatrice in tal senso. Nella Repubblica Domenicana ed El Salvador, per esempio, i movimenti a favore della depenalizzazione e legalizzazione dell’interruzione di gravidanza hanno già ripreso, con rinnovato impeto, a fare pressione sull’opinione pubblica e i rispettivi Governi. Sebbene l’entusiasmo sia alto, non è la prima volta che in Argentina si cerca di erogare una legge pro-aborto. Al primo tentativo, nel 2005, ne sono seguiti altri sei, tutti fallimentari. Il Ministero della Salute argentino stima che negli ultimi anni circa 3000 donne hanno perso la vita per aver ricorso all’aborto clandestino. L’elemento di novità, che fa sperare in un risultato diverso dai precedenti tentativi di legalizzazione, è l’incredibile mobilitazione popolare,

che ha accompagnato le discussioni e la votazione con manifestazioni, marce e occupazioni nelle scuole. Nonostante molti politici e alcune personalità di spicco, come Papa Francesco, argentino egli stesso, si siano espressi contro la depenalizzazione, la Ola Verde, legata al movimento Campaña Nacional por el Derecho al Aborto Legal, Seguro y Gratuito ha fatto sentire con forza la richiesta per il rispetto dei propri diritti. Durante il dibattito parlamentare è scesa in piazza anche l’“onda rossa”, dove con altrettanta forza hanno espresso la propria opinione le donne contrarie all’aborto. L’approvazione, un esito considerato favorito all’inizio della sessione, ha vinto per soli 4 voti e all’ultimo momento, alcuni parlamentari delle Province de La Pampa e di Terra del Fuoco, dopo una prima opinione contraria hanno deciso di schierarsi a favore della legalizzazione. Se un tale esito dovesse ripetersi in Senato, l’interruzione di gravidanza sicura e gratuita sarà finalmente garantita dalla normativa argentina, rappresentando una svolta storica per il Paese, le donne che vi abitano e, probabilmente, per tutta l’America Latina. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA TRA PACE E GIUSTIZIA IN COLOMBIA

Il Presidente ha promesso di apportare cambiamenti strutturali all’Accordo di pace con le FARC

Di Davide Mina Le elezioni presidenziali colombiane si sono finalmente concluse con la vittoria, al ballottaggio, del leader conservatore Iván Duque. Avanti nei sondaggi e con un’approvazione finale del 54,07%, Duque ha sconfitto con facilità il favorito della sinistra Gustavo Petro. Quest’ultimo, economista rinomato, ex sindaco di Bogotá ed ex membro dell’organizzazione paramilitare di sinistra M-19, ha comunque ottenuto un risultato inaspettato:41,7% contro il 34% previsto dai sondaggi. Tra i protagonisti di queste elezioni, sia come soggetto politico sia come oggetto di discussione, si sono distinte le nuove FARC. In seguito all’Accordo di Pace del 2016 l’ex gruppo guerrigliero si è convertito in partito politico col nome di Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, e nonostante non abbia superatolo 0,4% dei voti, in base agli Accordi hanno diritto a 5 seggi al Senato e 5 alla Camera. Questa garanzia, rappresentativa di un Accordo che ha focalizzato gran parte dei propri obiettivi sulla “re-inserzione sociale” degli ex guerriglieri, è anche diventata oggetto privilegiato 16 • MSOI the Post

del dibattito politico nel Paese, inaspritosi durante il periodo elettorale. Come riporta il quotidiano The Guardian, la campagna è stata lunga e divisiva, ruotando attorno al tema,ancora caldo e controverso, della pace con le FARC. Proprio l’Accordo, secondo la stampa internazionale, sarebbe stato uno egli elementi principali che ha portato all’insediamento di un Governo conservatore. Attraverso una fitta campagna social, infatti, Duque ha fatto leva sull’insofferenza di quella parte dell’opinione pubblica colombiana, a maggioranza urbana, che fin dall’inizio si è mostrata critica del trattamento benevolo che l’ex presidente Santos ha garantito agli ex guerriglieri. Centrando il proprio discorso elettorale sul “porre le vittime al centro degli accordi” e “garantire verità, giustizia e risarcimento”, Duque ha avuto la prontezza di placare i timori di un ritorno alle violenze, assicurando la volontà di stabilire “lucidità e pace integrale per il Paese” e invocando l’unità tra cittadini e istituzioni attraverso gli hashtag #ElFuturoEsDeTodos e #PorUnaColombiaUnida. Poco dopo l’insediamento, il nuovo Presidente ha reso pubblica

la sua intenzione di modificare l’Accordo, orientandolo in modo che i membri dell’organizzazione paghino per i propri crimini e le vittime ricevano un “giusto” risarcimento. Duque non è entrato nel dettaglio del piano, ma considerando il forte appoggio che riceve dal Congresso e dall’élite politica e finanziaria, è facile immaginare che si troverà davanti ben pochi ostacoli. A sostenere il nuovo Esecutivo c’è anche il fatto che nonostante la violenza politica si sia acquietata, la violenza generale nel Paese non è diminuita. Non solo vaste aree della Colombia sono ancora sotto controllo delle organizzazioni narcotrafficanti, ma nel corso dell’anno in cui si è concretizzatala resa delle FARC la produzione di coca è aumentata del 52%. Nel contesto dell’espansione del narcotraffico e dell’ondata migratoria dal Venezuela, il presidente Duque si mostra ottimista davanti alle grandi sfide che la propria amministrazione dovrà affrontare. Sulle sue spalle, infatti, grava il futuro non solo dell’Accordo con le FARC, ma anche della trattativa con l’altra principale organizzazione paramilitare colombiana, l’ELN, Ejército de Liberación Nacional.


ECONOMIA PETROLIO: IL SETTORE TRA CONFERME E NOVITÀ

Il Canada rallenta mentre l’OPEC a Vienna prospetta un aumento della produzione

Di Francesca Maria De Matteis In meno di un mese il differenziale tra il prezzo al barile del petrolio Wti, estratto negli Stati Uniti, e quello del Brent, indice di riferimento per il petrolio europeo, è aumentato, raggiungendo all’inizio del mese gli 11 dollari. Questo divario ha generato una diffusa preoccupazione, dato che non permette di definire con chiarezza le possibili conseguenze. Le proiezioni a lungo termine, infatti, non sono ancora ben definibili. Le cause di questo andamento sono principalmente legate alla politica, ma anche fortemente correlate ai problemi tecnici che negli ultimi mesi hanno colpito alcuni importanti centri di produzione nel settore petrolifero. Il guasto riportato negli ultimi mesi all’impianto canadese Syncrude, della Syncrude Canada Ltd. e controllato dalla Suncor Energy, che trasforma sabbie bituminose in greggio leggero, sta avendo conseguenze più gravi del previsto. I prodotti dello stabilimento, infatti, hanno come destinazione il centro di stoccaggio e punto di consegna e raccolta di Wti in Oklahoma, dove viene fissato il

prezzo per il NYMEX. Le previsioni annunciano una perdita potenziale di 360.000 barili al giorno, dovuti alla chiusura dello stabilimento canadese che si protrarrà almeno fino a tutto il prossimo agosto. Quando venerdì scorso, poi, è deragliato un treno cisterna nell’Iowa, bloccando un’importante via di trasporto del greggio della Bsnf, le difficoltà dell’export petrolifero canadese sono aumentate, influenzando i mercati internazionali. Lo spread tra i due indici il 25 giugno è sceso sotto i 5 dollari al barile, penalizzando le esportazioni di petrolio degli Stati Uniti. “I am happy to report that we have seen overall monthly conformity levels well above 100% in the months since the last Ministerial meeting. This clearly demonstrates the commitment of participating countries to the restoration of market stability, which is intended to serve the long-term interests of producers, consumers and the global economy.” È la nota positiva con cui Suhail Mohamed Al Mazrouei, ministro dell’Energia e dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti e presidente della conferenza OPEC, tenutasi a Vienna il 23 giugno scorso, ha

dato inizio al proprio discorso di apertura. Diverse le proposte di innovazione del settore provenienti dai Paesi che hanno partecipato al vertice. L’Iraq e gli Emirati Arabi guardano entrambi a un futuro ma vicino aumento nella produzione del petrolio, il primo confidando nello sviluppo di nuove alternative produttive, il secondo dichiarandosi fiducioso nella prospettiva di un’intesa a livello internazionale. Il presidente del Qatar guarda, invece, all’equilibrio generale del mercato del greggio. La Russia, intanto, è stata invitata ad entrare nell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio. Negli ultimi giorni, però, il futuro ottimista prospettato a Vienna ha già iniziato a tentennare. Il rischio è un arresto della produzione del petrolio a causa dei recenti avvenimenti in Libia e in Iran. A rischio 3 milioni di barili al giorno. Il prezzo ha ricominciato dunque a salire, in seguito all’introduzione di sanzioni all’Iran da parte degli Stati Uniti e alla decisione della Libia di affidare la gestione dei terminal petroliferi a una compagnia nazionale parallela a quella statale che ne deteneva il monopolio.

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ECONOMIA GENERAL ELECTRIC ESCE DAL DOW JONES E ANNUNCIA L’ABBANDONO DI ALCUNI SETTORI

La mossa del conglomerato statunitense mira al rilancio dopo anni di crisi

Di Giacomo Robasto General Electric (abbreviato GE), ovvero uno dei maggiori conglomerati statunitensi attivo nei settori della tecnologia e dell’energia, è giunto in questi giorni a un punto di svolta della sua storia, che iniziò nel lontano 1892. Il management dell’azienda, infatti, visti i risultati economici e finanziari tutt’altro che soddisfacenti degli ultimi anni, ha accordato con la Borsa di New York l’uscita del titolo dal Dow Jones. Quest’ultimo è senza dubbio il più noto indice azionario con sede a Wall Street, ed è calcolato, a differenza di altri indici che tengono conto della capitalizzazione (e quindi del peso relativo delle varie società), soppesando il prezzo dei principali titoli di Wall Street. Dando uno sguardo ai titoli che confluiscono nel calcolo dell’indice, si evince subito l’importanza dell’indice oltreoceano: aziende come Microsoft, Coca-Cola, ExxonMobil sono infatti solo tre dei 30 colossi che compongono il Dow Jones, tra cui vi era proprio anche General Electric. L’uscita dal Dow Jones, che ha un impatto non così rilevante da un punto di vista pratico, mette in evidenza la stagione di declino 18 • MSOI the Post

che ha caratterizzato il gruppo negli ultimi anni e ha un notevole significato simbolico. Il titolo di General Electric fu, infatti, tra i primi inclusi nell’indice alla sua creazione, nel 1896, e ne ha fatto parte senza alcuna discontinuità sin dal 1907. L’illuminazione con le lampade, gli elettrodomestici, i motori aerei e le turbine delle centrali elettriche sono solo alcuni dei prodotti più noti sviluppati da GE, che ha dato lustro all’economia del XX secolo e ha agito da fattore di cambiamento profondo sulle nostre vite, migliorandone la qualità in numerosi ambiti. La General Electric è stata un gigante industriale del secolo scorso, resistita inizialmente all’avvento dell’era dei giganti della Silicon Valley, che ha giocato un ruolo determinate in America e nel resto del mondo. A nulla sono valsi dapprima il cambio dei vertici (al posto di Jeffrey Immelt è arrivato John Flannery), seguito dal taglio del dividendo (seconda volta nella storia dal 1938) e dalla ristrutturazione: GE non è riuscita a invertire rotta, lasciandosi alle spalle il periodo d’oro degli anni Novanta quando era la società con il valore di capitalizzazione più alto negli Stati Uniti.

I numeri odierni del gruppo, infatti, non lasciano spazio a dubbi: il titolo di GE è calato di oltre il 50% nell’ultimo anno, bruciando 100 miliardi di dollari di ricchezza. Il valore di mercato di GE è crollato a 113 miliardi di dollari. Recentemente, l’azienda ha annunciato un drastico ridimensionamento delle ambizioni: nei mesi venturi, General Electric scorporerà le attività di tecnologie mediche, concentrando i propri sforzi su aeronautica ed energia, comprese le fonti rinnovabili. Le divisioni rimanenti rappresentano oltre la metà del business odierno del gruppo, che in totale genera un fatturato annuale di oltre 122 miliardi di dollari. General Electric è il caso di un conglomerato industriale travolto dal suo stesso gigantismo, poiché ha optato per un ampliamento eccessivo delle proprie attività, ignorando progressivamente il core business. Il neo AD John Flannery l’ha intuito nel 2017, indicando che un ripensamento nella strategia di GE sarebbe stato inevitabile. Per valutarne i risultati, però, bisognerà attendere ancora a lungo.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL RICONOSCIMENTO DEL KOSOVO. STRATEGIE E IMPLICAZIONI PER L’UNIONE EUROPEA La partita dei mondiali e il meeting con Federica Mogherini riaccendono l’attenzione sulla questione kosovara

Di Federica Sanna Serbia-Svizzera, mondiali Russia 2018, 22 giugno. La sconfitta della Serbia è dovuta ai goal di Xhaka e Shaquiri, calciatori originari del Kosovo che hanno esultato mimando il gesto dell’aquila, ovvero il simbolo albanese. La Serbia non ha evidentemente gradito il gesto, non riconoscendo la minoranza kosovara, così come la FIFA, che ha multato entrambi per condotta antisportiva. La partita dei mondiali ha riacceso l’attenzione sulla questione del riconoscimento del Kosovo, sicuramente più di quanto abbia fatto il meeting del 24 giugno scorso tra l’Alto Rappresentante UE Federica Mogherini e i presidenti del Kosovo e della Serbia, Thaci e Vucic. La questione del riconoscimento internazionale del Kosovo come Stato indipendente è delicata e di fondamentale importanza per il futuro dell’Unione. Oggi il Kosovo è riconosciuto soltanto da 23 dei 28 Stati membri. All’appello mancano Grecia, Slovacchia, Romania, Spagna e Cipro. Le motivazioni vanno cercate in particolare nel timore che il riconoscimento dell’indipendenza della minoranza albanese in Serbia possa costituire un precedente per analoghe rivendicazioni da parte delle minoranze presenti nei loro territori. La situazione è

particolarmente incandescente nei casi della Catalogna in Spagna e della presenza turca a Cipro. Dal punto di vista del diritto internazionale, è necessario ricordare che, nel 2008, il Kosovo ha adottato una dichiarazione unilaterale di indipendenza, contestata dalla Serbia e considerata priva di effetti giuridici vincolanti nei suoi confronti. La Corte Internazionale di Giustizia, investita dalla richiesta di un parere in merito da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU, pur non pronunciandosi circa l’esistenza di un diritto positivo all’autodeterminazione dei popoli per via secessionista, rileva l’assenza di norme di diritto internazionale che vietano una dichiarazione di indipendenza come quella avvenuta nel caso del Kosovo. Dalla sentenza del 2010 la situazione internazionale del Kosovo è rimasta in una situazione di sostanziale stallo fino alle recenti prese di posizione da parte del Presidente serbo Vucic, il quale ha più volte fatto riferimento alla possibilità di riconoscerne l’indipendenza, consapevole che si tratta dell’unica strada verso l’adesione serba all’Unione Europea. Bruxelles ha infatti posto come condizione

all’adesione della Serbia la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina. In quest’ottica, i due Presidenti stanno lavorando, con il supporto della mediazione europea, al raggiungimento di un accordo tra le due parti che potrebbe risolvere una situazione di conflitto secolare. Al centro del negoziato vi è sicuramente la necessità serba di tutelare i propri cittadini presenti sul territorio kosovaro, così come la comune volontà di promuovere il progresso economico dell’area. L’UE assume in questo contesto un ruolo particolarmente importante nel facilitare un dialogo complesso e denso di ostacoli verso il raggiungimento di un accordo giuridicamente vincolante, così come ha recentemente fatto nei confronti della storica intesa raggiunta poche settimane fa tra la Grecia e la Macedonia: le autorità dei due Stati hanno concordato la denominazione della Repubblica della Macedonia del Nord, chiudendo un capitolo conflittuale in atto dall’inizio degli anni Novanta. L’Unione Europea, impegnata nella risoluzione dei conflitti internazionali, può assumere un ruolo diplomatico di primo piano nella costruzione del futuro assetto delle relazioni internazionali. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO CREATIVE COMMONS L’arte di condividere l’arte

Di Stella Spatafora Le reti digitali hanno offerto l’opportunitàdi scambiare testi, disegni, musica e video con facilità e in maniera rapida ed economica. Tuttavia, la possibilità di diffondere in maniera capillare le opere in retehamesso in discussione alcuni paradigmi normativi preesistenti. Uno deilimiti maggiori a questa “libertà comunicativa digitale”risiede nella tutela della proprietà intellettuale. Il diritto d’autore si è sempre posto il problema di attribuire i diritti sulla creatività umana. La sua disciplina trova ampio spazio a livello internazionale, ad esempio nell’Art. 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1947); nella Convenzione di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche del 1886 (aggiornata al 1979); nel World Intellectual Property Organization Copyright Treaty del 1996, nonché nella Direttiva 2001/29/CE. Il principio di fondoè quello di una protezione automatica delle opere dell’ingegnoa carattere creativo: una tutela che si origina automaticamente nel momento in cui le opere vengono create. Dunque, è il momento della creazione dell’operaa generarne i relativi diritti in capo all’autore, anche a prescindere dalla sua consapevolezza. 20 • MSOI the Post

Con l’introduzione delle tecnologie digitali, la trasmissione delle opere dell’ingegno ha creato un vero e proprio scompenso in questo panorama normativo. Il canale di trasmissione dell’opera è diventato internet e, per l’autore,il controllo della circolazione della propria opera è diventato pressoché impossibile. Inoltre, con l’intelligenza artificiale si è aperta la possibilità che le macchine dotate appunto di intelligenza artificiale creino esse stesse contenuti in maniera autonoma, andando oltre l’essere il semplice “pennello dell’artista”. Dunque, nellasocietà dell’informazione in cui la conoscenza risulta esserne il nucleo centrale, il diritto d’autore si pone come limite alla circolazione della conoscenza. La frizione tra il mondo normativo, che protegge ma ostacola le opportunità di condivisione,e la forte necessità di condividere, ha portato molti autori a ripensare ai fondamenti della materia del diritto d’autore, in modo tale che la divulgazione delle opere non fosse vista necessariamente come una violazione, ma come valore aggiunto per esaltare la condivisione di nuove opere grazie al digitale. Creative Commons rappresenta la chiave di svolta. Attraverso la creazione di unset di licenze standard a disposizione del

pubblico, si offre l’opportunità di determinatiliberi utilizzi agevolando la libera circolazione dei contenuti digitali attraverso le reti telematiche. Le licenze Creative Commonstraslano dunque il concetto dell’open source proiettandolo nell’ambito delle opere protette dal diritto d’autore. Si tratta di un sistema di sei licenze principali, generate dall’utente ecombinabili in base alle proprie preferenze, dalla licenza aperta più restrittiva a quella che consente più libertà, mantenendo come tratto comune la paternità dell’opera. Le licenze non si contrappongono al diritto d’autore, bensì l’autore che utilizza una licenza deve essere titolare dei diritti che concede. Inoltre, le licenze non sono esclusive, sono irrevocabili e valgono per tutto il mondo. Le licenze Creative Commons hanno recepito l’esigenza di condivisioneda parte dei creatori edi tutti gli utenti di internet, nello stesso tempo fruitori e autori di contenuti. Con le licenze Creative Commons Internet ha la possibilità di valorizzare il proprio potenziale, ovvero l’accesso universale all’informazione, agevolando la partecipazione alla cultura e stimolando lo sviluppo della società.


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