MSOI thePost - 115° numero

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Jacopo Folco Direttore Responsabile Davide Tedesco Vice Direttori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni , Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Lucky Dalena, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Elena Amici, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolino, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Daniele Carli, Debora Cavallo, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria di Donato,Tommaso Ellena, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Lara Amelie Isai-Kopp, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Nina, Pierre Clement Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Barbara Polin, Jessica Prieto, Luca Rebolino, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Federica Sanna, Martina Santi, Martina Scarnato, Edoardo Schiesari, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA APPROVATA RISOLUZIONE SARGENTINI CONTRO ORBÀN Evidente rischio di grave violazione dello stato di diritto

Di Giuliana Cristauro Il Parlamento europeo ha approvato la risoluzione dell’europarlamentare olandese dei Verdi, Judith Sargentini, che accusa l’Ungheria del premier nazionalista Viktor Orbán di violare lo stato di diritto. Il testo è stato approvato con 448 voti a favore, 197 contrari e 48 astenuti. La risoluzione della Sargentini contro l’Ungheria ha ad oggetto l’invito al Consiglio a valutare l’esistenza di “un evidente rischio di grave violazione” a norma dell’articolo 7, paragrafo 1, del Trattato di Lisbona. Il procedimento può essere attivato quando vi sia una “sistematica violazione” dei valori su cui si fonda l’Unione, tra i quali il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e dei diritti umani. La procedura, nota come “opzione nucleare”, può scattare a seguito della proposta della Commissione, di un terzo degli Stati membri o dello stesso Parlamento. Si tratta di un meccanismo preventivo che consente al Consiglio di fornire un avvertimento allo Stato membro, prima che si proceda alla fase sanzionatoria. Quest’ultima può tradursi nella sospensione di de-

terminati diritti, compreso il diritto di voto nelle sedi europee. L’unico precedente finora è costituito dal procedimento di infrazione avviato dalla Commissione nei confronti della Polonia a tutela dell’indipendenza della Corte Suprema polacca, sul quale il Consiglio non si è ancora espresso. La Commissione Europea, già a partire dal 2015, aveva aperto numerose procedure di infrazione ai danni di Budapest per il modo in cui ha dimostrato in più occasioni di trattare i richiedenti asilo e per le norme adottate contro le organizzazioni umanitarie che aiutano i migranti e, in particolare, gli enti finanziati da George Soros, il finanziere americano di origine ungherese. In un report la Sargentini ha descritto dettagliatamente tutte le infrazioni commesse dall’Ungheria, riferendosi alle questioni sollevate precedentemente dalla Commissione Europea, in particolare al trattamento dei migranti e allacorruzione nell’uso dei fondi comunitari. Il ministro degli esteri ungherese, Peter Szijjarto, in una conferenza stampa, ha commentato la decisione del Parlamento Europeo come una “vendetta meschina dei politici pro-immigrazione”.

Il voto sul rapporto Sargentini è stato il primo step di un procedimento lungo e complesso che prevede molti altri passaggi prima di giungere ad una sanzione vera e propria. Il Consiglio dovrà redigere un rapporto sulla situazione in Ungheria e poi chiederne conto al governo ungherese, prima di confermare l’esistenza di una grave violazione. La mozione, peraltro, necessita l’approvazione dei 4/5 degli Stati membri. Il procedimento potrebbe interrompersi ancor prima di giungere alla fase sanzionatoria, essendo sufficiente l’opposizione di anche soli sei Stati membri per ostacolare la procedura. La Polonia e la Repubblica Ceca hanno già dichiarato di votare contro “qualsiasi sanzione” imposta all’Ungheria. Intanto la presidenza di turno austriaca dell’UE ha inviato una richiesta ai servizi legali del Consiglio per avere un’opinione sulla validità del voto al Parlamento Europeo. In particolare è stato chiesto se le astensioni debbano essere conteggiate come voto contrario, come aveva sostenuto anche Szijjarto, il quale aveva affermato che “si stavano esaminando le possibilità giuridiche per un ricorso, perché la votazione era irregolare non contando nella quota le astensioni”.

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EUROPA BREX-IN

Sadiq Khan, sindaco di Londra, spinge per un secondo referendum

Di Simone Massarenti Citando una canzone dei The Clash, si potrebbe tranquillamente dire che “London is Calling”, o meglio, il suo sindaco: Sadiq Khan. Lo scorso weekend, infatti, egli ha apertamente richiesto un nuovo referendum sulla Brexit, chiamando al “voto del popolo” per evitare, a pochi mesi ormai dalla formalizzazione dell’uscita dall’Ue, l’isolamento della UK. I timori circa un isolamento commerciale dall’Unione e una conseguente “fuga” di capitali dall’Isola ha spinto il Major della capitale britannica alla valutazione di una nuova consultazione popolare, al fine di riaprire un dibattito sulla questione, per ravvivare le coscienze popolari alla luce dei “rischi per la stabilità economica e della vita degli inglesi”. Secondo Khan, il nuovo piano commerciale che verrebbe attuato sarebbe molto severo circa gli standard attuali dell’Isola, il che legittimerebbe il popolo poiché, sempre stando alle parole del primo cittadino, 4 • MSOI the Post

“gli inglesi non hanno votato per diventare più poveri”. L’obiettivo per una vera Brexit vantaggiosa deve essere, per il Regno Unito, quello di avere l’ultima parola sull’affare, applicando quello che è il dividendo che stabilirebbe un liberalismo commerciale necessario per la crescita nell’ambito dell’istruzione, della sanità, delle infrastrutture. Tutto ciò, però, secondo il primo cittadino londinese, potrà avvenire solo rimanendo nell’UE, utilizzando il denaro necessario per il processo di distacco per risollevare il Paese. Le parole di Khan hanno naturalmente scatenato una bagarre politica, date anche le ripercussioni che una decisione del genere avrebbe soprattutto sul Partito laburista di Jeremy Corbin; alla vigilia della conferenza annuale del partito, le voci di un possibile nuovo referendum porterebbero il leader laburista a rivedere le proprie posizioni. Le parole del portavoce per gli Affari esteri, Barry Gardiner, sono state in tal senso molto chiare: “Se il governo attuale

non dovesse riuscire a portare a termine il processo della Brexit, allora vuol dire che bisognerà cambiare governo”. L’eco di tali parole proviene naturalmente dal sindaco Khan, il quale ha aggiunto che se la premier Theresa May non dovesse ricevere alcun tipo di supporto nell’affare Brexit, allora dovranno essere convocate nuove elezioni. Una dura critica all’atteggiamento di Khan arriva invece dal ministro dell’ambiente Michael Gove, il quale ha accusato il sindaco di “frustrare il voto”: secondo Gove, Khan sta cercando di convincere gli inglesi di aver fatto la scelta sbagliata, tentando di cancellare l’intero processo. A queste parole si aggiungono, inoltre, quelle di risposta della premier May, la quale ha affermato che “non si stia parlando del mio futuro, bensì del futuro del Regno Unito”, confermando che si sta lavorando al meglio per giungere ad un accordo favorevole per il Paese e per l’UE.


NORD AMERICA DIECI ANNI DAL FALLIMENTO CHE SCONVOLSE IL MONDO

L’anniversario della bancarotta di Lehman Brothers, momento chiave della crisi finanziaria

Di Luca Rebolino

cessione.

Lunedì 15 settembre 2008, il colosso finanziario Lehman Brothers dichiarò bancarotta. Il maggior fallimento bancario nella storia statunitense scosse irrimediabilmente il mondo intero, che si trovò così di fronte alla più grande crisi dal 1929. Fu, infatti, l’inizio del collasso dell’intero sistema finanziario, prima statunitense e poi, per l’alta interconnessione dei mercati, globale – con l’Unione Europea travolta in pieno.

L’intero sistema finanziario era arrivato a questo livello di esposizione per via delle misure di deregulation degli ultimi decenni, che avevano ridotto notevolmente le restrizioni e gli obblighi nel mercato finanziario. Un esempio è proprio l’abolizione della distinzione tra banche di investimento e commerciali. Inoltre, si era lasciato proliferare anche un complesso sistema bancario ‘ombra’, libero di operare senza vincoli. Dal 2009 e negli anni a venire, la crisi si propagò nell’economia globale. Ci fu una drastica contrazione dell’attività economica, con forti ripercussionisulpianosociale. Solo negli Stati Uniti, il PIL calò fino al minimo del -6% e la disoccupazione si impennò fino al 10%.

Le banche e gli istituti finanziari si erano, infatti, altamente esposti, con livelli di leva finanziaria elevatissimi. Negli anni precedenti si era alimentata un’enorme bolla speculativa, basata sulla crescita dei prezzi degli immobili. Le banche concedevano mutui facilmente, anche a individui considerati non sicuri, scaricando il rischio su altri soggetti con articolati strumenti di cartolarizzazione, come i Mortgage Backed Securities. Si formò così una ‘piramide rovesciata del debito’, enorme ma fragile struttura che tra il 2007 e il 2008 si sgretolò rovinosamente. In breve tempo, il crollo finanziario si ripercosse duramente anche nell’economia reale, portando alla Grande Re-

Controversa e molto dibattuta fu la scelta di salvare numerose banche statunitensi, sull’orlo del fallimento, con fondi pubblici. Considerate infatti ‘too big to fail’, l’amministrazione decise di socializzare le loro perdite. Misure duramente contestate da movimenti di protesa come Occupy Wall Street, che si pone di rappresentare il 99% della popolazione, contrapposto all’élite del restante 1%. Lo scontento è stato poi alimen-

tato anche dalla mancanza di misure punitive nei confronti dei responsabili della crisi, ovvero i principali manager degli istituiti bancari. Gran parte di loro, infatti, non sono stati perseguiti legalmente e operano ancora nel mondo finanziario, magari in ruoli di secondo piano. La timida crescita dell’economia statunitense negli anni seguenti non ha tuttavia impedito che aumentassero sensibilmente le diseguaglianze sociali. Un chiaro esempio è che, nei primi tre anni della ripresa, il 91% dei guadagni è andato al famigerato 1% più ricco. Le condizioni di vita sono peggiorate, soprattutto quelle di una classe media dal reddito stagnante. Il potere di acquisto dei lavoratori dipendenti e autonomi e dei pensionati è calato drasticamente o comunque ha seguito una lenta diminuzione rispetto al periodo pre-crisi. Dallo scoppio della crisi nella società statunitense si sono quindi diffusi malcontento e insofferenza, sentimenti accentuati da una generale mancanza di fiducia verso un sistema che non l’ha saputa tutelare. E, infatti, proprio Steven Bannon, riflettendo sull’ultimo decennio, ha dichiarato che “L’eredità della crisi finanziaria è Donald J. Trump”. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA RUSSIAGATE, MANAFORT SI DICHIARA COLPEVOLE DI COSPIRAZIONE

L’ex capo della campagna elettorale di Trump collaborerà con il Procuratore speciale

Di Jennifer Sguazzin Dopo essersi dichiarato innocente per mesi, Paul Manafort, l’ex-responsabile della campagna elettorale di Donald Trump, ha deciso di collaborare con il procuratore speciale Robert S. Mueller. L’accordo prevede che Manafort cooperi “pienamente e onestamente” sulle indagini condotte nel caso Russiagate. “Voleva assicurarsi che la sua famiglia fosse in grado di restare al sicuro e vivesse una vita buona. Ha accettato la sua responsabilità”, ha dichiarato Kevin Downing, l’avvocato difensore. Paul Manafort è un noto consigliere Repubblicano che, nel 2016, ha curato la campagna elettorale di Trump. A pochi mesi dall’inizio dell’incarico è stato accusato di aver ricevuto pagamenti illegali per milioni di dollari dal partito filorusso dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, del quale era consulente. Nonostante si fosse sempre dichiarato innocente, Manafort si dimise immediatamente dall’incarico. Nel primo processo, Manafort era già stato dichiarato colpevole di 8 capi di imputazione, di cui cinque per frode fiscale. C’erano altri 10 capi d’imputazione, ma furono archiviati poiché 6 • MSOI the Post

i giurati non raggiunsero il consenso. Il verdetto arrivò dopo oltre due settimane di processo durante il quale venne presentata un’ingente documentazionee furono ascoltati 27 testimoni. Successivamente, Manafort si è costituito continuando però a dichiararsi non colpevole. Rilasciato su cauzione, è stato mandato agli arresti domiciliari. Ad oggi sono cinque sono i capi d’imputazione che sono stati fatti cadere dall’accusa, mentre Manafort si è assunto la responsabilità dei reati di “cospirazione contro gli Stati Uniti” e di “cospirazione per ostacolare la giustizia”. Dichiarandosi colpevole, Manafort ha evitato il secondo processo, fissato per il 24 settembre, ma l’esito dell’accordo dipenderà dal grado di collaborazione con il procuratore Mueller. Nessuno dei capi d’imputazione è direttamente connesso alla campagna elettorale che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca. Si tratta, infatti, di crimini finanziari e fiscali legati ad attività illegali compiute per conto di politici e oligarchi ucraini filorussi. Ma l’allora consulente di Trump potrebbe senza dubbio rivelare informazioni utili sulle interferenze russe durante le elezioni presidenziali del 2016. Rappresenta un

testimone chiave anche in virtù della sua partecipazione al controverso incontro alla Trump Tower, tenutosi il 9 giugno 2016: un meeting organizzato da Donald Trump Jr, il figlio maggiore del Presidente, a cui hanno partecipato membri della campagna elettorale di Trump, un avvocato e un lobbista russi potenzialmente in possesso di materiale compromettente su Hillary Clinton. Il Presidente, che dopo il primo processo aveva elogiato Manafort come “un uomo coraggioso” che aveva deciso di non “inventarsi storie per ottenere un accordo”, dovrà ora fare i conti con questo nuovo scenario. La portavoce della Casa Bianca ha commentato che non ci sono timori per quanto emergerà dalla collaborazione poiché “ciò non ha assolutamente nulla a che vedere col Presidente o con la sua campagna vittoriosa del 2016”. Nonostante non sia certo che Manafort sia in possesso di informazioni compromettenti sul Presidente, Mueller ha l’occasione di interrogarlo su “tutte le questioni che il governo ritiene rilevanti”. E, considerata la tenacia del Procuratore speciale, sarà fatto tutto il possibile per andare in fondo a questa controversa vicenda.


MEDIO ORIENTE ARTE, INVESTIMENTI E SOFT POWER

Come il Golfo cerca l’alternativa al petrolio nelle collezioni occidentali

Di Lucky Dalena “It’s not a European museum, and it’s not the European point of view. It’s placed to see the world from Abu Dhabi”. Così il Presidente del Louvre (l’originale) parla dell’immenso nuovo Louvre, costruito nel cuore del deserto negli Emirati Arabi. Un’opera dell’architetto francese Jean Nouvel, costata un miliardo di dollari, inclusi i 399 milioni per avere in prestito il nome dal noto museo parigino per i prossimi 30 anni, senza parlare dell’affitto di circa 300 opere europee. Il museo, aperto lo scorso novembre dopo dieci anni dall’accordo con il governo francese, dichiara una visione universalistica: la collezione ripercorre con cura la storia della nostra civiltà, includendo anche una torah e delle iscrizioni ebraiche, come a tendere la mano a quello che è il nemico storico delle culture arabe. Quest’opera grandiosa, però, è solo la stella più scintillante in un panorama strategico molto più ampio. Il Louvre Abu Dhabi (LAD) ha l’aspirazione di diventare un centro culturale, che includa anche la New York University – che già ha una sede negli Emirati. Inoltre,

sono in programma anche la progettazione di un ramo del London National Museum e del Guggenheim newyorchese. Tra i vicini, anche l’Arabia Saudita si sta concentrando sull’arte: sono in programma cinque nuovi musei e il restauro di sei musei già esistenti, tra i quali uno lungo il percorso dell’Hajj, il pellegrinaggio annuale verso la Mecca che raccoglie migliaia e migliaia di fedeli ogni anno. Il Qatar, tra i Paesi del Golfo più visionari (almeno, prima della messa al bando da parte dei vicini, che ha causato una battuta d’arresto non indifferente) ha in programma la costruzione del suo nuovo museo nazionale, affidato ancora allo “starchitect” occidentale Nouvel. Le opera house di Dubai e Muscat sono già in funzione e si sono già guadagnate il plauso degli intenditori, sia per estetica sia per programmazione. Qual è la ragione di questa esplosione culturale nel Golfo? No, non è (del tutto) un rinnovato illuminismo in versione desertica. Le ragioni di questa scelta sono da ritrovarsi, piuttosto, in fattori economicopolitici. Prima di tutto, i Paesi del Golfo hanno presto

realizzato che le risorse naturali, che hanno portato al loro sviluppo miracoloso negli anni passati, non sono inesauribili: hanno quindi dovuto cercare una o più alternative, tra cui il turismo. In secondo luogo, in un clima di crescente tensione tra Iran e Arabia Saudita (e quindi, i Paesi del Golfo) in Medio Oriente, è necessario accaparrarsi sempre di più il favore degli stati occidentali, mettendoli contro il nemico. Se le recenti affermazioni di Trump hanno fatto virare verso il regno saudita, è vero che l’Europa ha dimostrato una pericolosa vicinanza nei confronti dell’Iran. Che cosa c’è di meglio quindi di un accordo d’amicizia per amore dell’Arte (definita dal principe Muhammad il “gioiello della corona” nella relazione con la Francia) che si affianchi ad una sede dedicata della Sorbona, o ai più discreti accordi per una base militare francese? Per quanto affascinante possa essere questo rinnovato interesse per la bellezza, però, è necessario fare un passo indietro per guardare le cose più da lontano: i Paesi del Golfo hanno ancora molti progressi da fare nel campo dei diritti umani. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE IL LIBANO TRA DUE FUOCHI

La neutralità di Beirut messa a rischio dalle intromissioni dell’Iran e dell’Arabia Saudita

Di Anna Nesladek Anche il Libano, come molti altri Stati – non solo mediorientali – è una pedina del grande scacchiere geopolitico che vede l’Arabia Saudita e l’Iran come principali giocatori. Quasi un anno fa, il primo Ministro libanese Saad Hariri rassegnava misteriosamente le sue dimissioni dopo un viaggio in Arabia Saudita, quindi probabilmente in seguito alla pressione della casa al-Saud, anche se la motivazione ufficiale era la presunta minaccia proveniente dall’Iran e dal suo principale alleato in Libano Hezbollah, considerato da molti (tra cui alcuni paesi occidentali) un gruppo terrorista. Lo scopo del governo saudita era quello di ‘mostrare i muscoli’ allo storico rivale regionale: Saad Hariri aveva infatti intenzione di includere nella coalizione di governo Hezbollah e i propri alleati. Ciò nonostante, il risultato più importante di quell’intromissione negli affari interni libanesi fu che la parte del Paese più vicina a Teheran ne uscisse rafforzata. Anche le principali potenze occidentali si dimostrarono restie a dare il beneplacito all’azione di 8 • MSOI the Post

Riyadh, in quanto potenzialmente destabilizzante. Nonostante la crisi risalga a un anno fa e si sia conclusa con il ritiro delle dimissioni di Saad Hariri, la situazione è ancora tesa. Per quasi due anni il Libano non è stato in grado di trovare un accordo di governo per la scelta del proprio Presidente, il pesante influsso di rifugiati siriani ha creato delle vere e proprie colonie nelle aree orientali del paese, il quale si è ritrovato in una situazione politico-economica molto critica. Ciò ha fatto sì che nelle elezioni di maggio la popolazione libanese abbia ritirato gran parte dell’appoggio al Primo Ministro, mentre è accresciuto il sostegno a Hezbollah e ai suoi alleati. Gli equilibri in Libano, già di per sé delicati a causa del complicato sistema politico del confessionalismo, sono cambiati a tal punto che fino ad oggi è stato impossibile trovare un accordo di governo. La situazione sembra essere sfuggita di mano al governo di Riyadh, che potrebbe reagire alla destabilizzazione del Libano attraverso una serie di misure socio-economiche. In primo luogo, l’Arabia Saudi-

ta sta poco a poco sostituendo i lavoratori libanesi immigrati con cittadini sauditi, creando un enorme impatto negativo sulle rimesse. È probabile che si spinga fino a imporre restrizioni agli accordi con le banche libanesi o l’embargo sui beni provenienti dal Libano. Per quanto riguarda l’Iran, invece, lo scenario apertosi dopo le elezioni di maggio costituisce un’opportunità. Teheran, nonostante l’economia iraniana non si trovi al momento in buone condizioni, sta offrendo al Libano denaro, armi da fuoco e appoggio ai settori agricolo e industriale. In questo complicato gioco di equilibri, sia Teheran sia Riyadh hanno bisogno del Libano. Beirut, da parte sua, sta cercando in tutti in modi di mantenere una certa neutralità, anche di fronte alla prospettiva di un ruolo nella ricostruzione in Siria e alla necessità di uscire dalla crisi economica. Nello scacchiere geopolitico del Medio Oriente, bisognerà vedere chi vincerà la partita libanese fra i due giganti ma, soprattutto, quale sarà il prezzo da pagare per il Libano.


RUSSIA E BALCANI VUCIC VISITA IL KOSOVO

Un nuovo capitolo della complicata storia Kosovo-Serbia

Di Davide Bonapersona “Tra Serbia e Kosovo non siamo nemmeno vicini ad una soluzione” è una delle più importanti affermazioni pronunciate da Aleksandar Vucic, presidente della Repubblica di Serbia, durante il suo discorso di sabato 8 settembre a Mitrovica, città del Kosovo del Nord a maggioranza serba. Ed effettivamente, nonostante le tante promesse fatte e impegni presi negli anni, tra Serbia e Kosovo la distanza resta tanta. In agosto, Vucic aveva annunciato che l’8 e il 9 settembre avrebbe visitato il Kosovo del Nord per illustrare le linee guida della politica serba nei confronti della questione kosovara. Nel frattempo, era stato organizzato per il 7 settembre un incontro tra Vucic e il suo pari kosovaro Thaçi a Bruxelles, sotto la supervisione di Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri. Inizialmente, le autorità kosovare avevano rifiutato di autorizzare la visita al lago Gazivoda, poi però, all’ultimo momento, è arrivato il via libera. Nel mentre, il leader serbo aveva ormai deciso di non partecipare all’incontro

di Bruxelles. Federica Mogherini ha dichiarato che tenterà di organizzare un nuovo incontro il prima possibile e si è detta convinta che entrambe le parti rispetteranno gli impegni presi, tanche se le difficol à restano. Alla fine, Vucic ha dovuto comunque rinunciare ad una parte del suo viaggio: infatti, la tappa al villaggio di Banje è stata cancellata, poiché le strade per raggiungere il villaggio sono state bloccate da un gruppo di veterani di guerra kosovari, i quali hanno eretto delle barricate lungo il tragitto. Durante il discorso a Mitrovica, Vucic ha annunciato nuovi investimenti nell’area e ha ribadito che continuerà a fare tutto il possibile per trovare un accordo. Tuttavia, nessuna parola è stata spesa in merito all’argomento più caldo delle ultime settimane, quello di una possibile ridefinizione dei confini tra Serbia e Kosovo. Da qualche tempo, infatti, si discute della possibilità che il Kosovo del Nord possa passare sotto il controllo della Serbia e che, in cambio, alcuni territori a maggioranza albanese situati nel Sud della Serbia possano diventare parte del Kosovo. Que-

sta ipotesi sembra essere gradita non solo ai leader di entrambi i Paesi, ma anche ad una parte della comunità internazionale e in particolare agli Stati Uniti. Si sono invece fermamente schierati contro questa eventualità le opposizioni in Kosovo, la Chiesa ortodossa serba e la Germania. Va precisato che di questa possibilità si è discusso in entrambi i Paesi, ma che tra Belgrado e Pristina non vi sarebbe accordo sulla concreta determinazione dei confini e in particolare sul controllo del lago Gazivoda. Questo lago artificiale costituisce attualmente un’importante risorsa economica e energetica per entrambe le parti. La questione tra Serbia e Kosovo rimane estremamente spinosa e complessa e, come osservato da Vucic, una soluzione non è vicina. È infine interessante segnalare che il Presidente serbo, in un’intervista concessa qualche giorno fa a Reuters, ha affermato che, in ogni caso, se un accordo dovesse essere raggiunto, questo dovrà necessariamente garantire alla Serbia il diritto di diventare membro dell’Unione Europea. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI TRA ELEZIONI E RIFORMA

Proteste per la riforma pensionistica scuotono le amministrative in Russia

Di Vladimiro Labate Il 9 settembre scorso si è tenuta in Russia una tornata di elezioni amministrative. Il voto ha riguardato 80 soggetti federali, tra cui 16 consigli regionali e diverse municipalità. Mosca ha visto la riconferma a sindaco di Sergei Sobjanin, spalla di Putin nella capitale dal 2010. Nonostante un’affluenza del 30,3%, in calo rispetto a cinque anni fa, Sobjanin si è imposto con circa il 70% dei voti. Più in generale, i risultati hanno visto nella quasi totalità dei casi una vittoria di Russia Unita, il partito al governo che ha sostenuto Putin alle presidenziali di marzo. Ma questa vittoria appare più fragile che in passato: sulle 21 elezioni a governatore, in 4 di esse Russia Unita è stata costretta al ballottaggio, mentre il Partito comunista si è rafforzato, vedendo aumentare il proprio gruppo di rappresentanti in particolare all’interno dei consigli regionali. Un caso particolare si è riscontrato nella regione di Primorye, dove si è tenuto, il 16 settembre, il ballottaggio tra il candidato comunista e quello appoggiato dal Cremlino. Il 19 settembre, il capo della Commissione elettorale centrale Ella Pamfilova ha consigliato alle autorità re-

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gionali di invalidare il voto a causa di “serie violazioni” che hanno scioccato la stessa Commissione. Se il ballottaggio, che ha visto vincente il candidato filo-governativo, dovesse essere annullato e ripetuto, sarebbe la prima volta dal 1996. Questa tornata elettorale è stata anche l’occasione per l’opposizione di scendere in piazza. Proteste sono avvenute in circa 33 città e villaggi di tutto il Paese. Le manifestazioni sono state organizzate dal partito di Alexei Navalny, il quale, però, non ha potuto però seguirle direttamente. Infatti, il leader dell’opposizione si trova in carcere a scontare una condanna di 30 giorni, emessa lo scorso febbraio ma impugnata soltanto a fine agosto, per “ripetute violazioni delle norme di organizzazione di manifestazioni pubbliche” in riferimento a fatti di fine gennaio. Le proteste sono state represse dalla polizia, che ha fermato 1018 persone. Le mobilitazioni avevano come oggetto la riforma delle pensioni proposta a giugno dal governo e si inseriscono in una lunga sequenza di proteste. La proposta di legge prevede l’innalzamento dell’età pensionabile: per gli uomini si passerebbe da 60 a 65 anni (oppure

45 anni di contributi), per le donne da 55 a 63 (oppure 40 di contributi). Secondo le autorità russe, questa riforma permetterebbe non soltanto di rendere sostenibile il sistema pensionistico russo, ma anche di poter alzare le pensioni dal 2024. La riforma, presentata il 14 giugno e discussa in contemporanea con i Mondiali di calcio, ha ottenuto il vaglio positivo delle regioni, ma non è stata accettata dalla popolazione: secondo un sondaggio del ROMIR, il 92% degli intervistati sarebbe contrario alla proposta. Varie manifestazioni si sono svolte da fine giugno, con i sindacati e il Partito comunista come principali promotori delle proteste. Anche per questo motivo, il governo, il 20 agosto, ha proposto alcune modifiche per ammorbidire il progetto iniziale, inserendo la possibilità di anticipo della pensione e riducendo l’innalzamento inizialmente previsto. Lo stesso Putin si è speso direttamente per spiegare in un video la necessità di questa riforma, giustificandola con ragioni di sostenibilità finanziaria di fronte a un’aspettativa di vita in crescita e che punta a quota 80 entro il prossimo decennio. La riforma dovrebbe subire una seconda lettura alla Duma nei prossimi mesi.


ASIA E OCEANIA TAIWAN ALLE PRESE CON LA PROPRIA IDENTITÀ

I nuovi documenti rilasciati da Pechino inaspriscono le tensioni tra Taiwan e RPC

Di Gaia Airulo A partire dallo scorso settembre, i cittadini provenienti da Taiwan, Hong Kong e Macao residenti nella Cina continentale da più di sei mesi, possono richiedere un nuovo tipo di carta d’identità che facilita la loro permanenza nella Repubblica Popolare Cinese. Il documento garantisce accesso al sistema sanitario, al sistema scolastico ed a servizi abitativi e relativi all’impiego, nonché una semplificazione delle procedure per il rilascio delle patenti di guida e l’acquisto di biglietti di viaggio. Sebbene tale provvedimento proposto da Pechino abbia ottenuto una generale approvazione da parte della società civile, le autorità taiwanesi si sono mostrate scettiche. Secondo il governo taiwanese, infatti, le nuove carte d’identità rappresenterebbero una minaccia alla privacy dei cittadini. Taipei teme che in questo modo Pechino possa garantirsi l’accesso ai dati e alle operazioni bancarie dei residenti in possesso del documento, ampliando il sistema di sorveglianza cinese. Inoltre, secondo quanto dichiarato dal Consiglio Per gli Affari Continentali, incaricato di gestire le relazioni tra Cina e Taiwan, l’iniziativa farebbe parte di “un disegno più ampio per riportare

Taiwan all’ovile politico cinese”. Il timore è che i nuovi documenti portino i taiwanesi residenti in Cina ad essere soggetti al sistema giudiziario cinese, oltre che a considerare se stessi come cittadini della Repubblica Popolare a tutti gli effetti. Un avvicinamento identitario della popolazione taiwanese a quella cinese potrebbe inoltre influire sulle elezioni municipali che si terranno a novembre 2018. Questa occasione fornirà un primo feedback sull’operato del Partito Progressista Democratico (PPD), in vista delle presidenziali del gennaio 2020. Nonostante sin dall’inizio del proprio mandato la leader indipendentista Tsai Ing-wen abbia portato avanti una politica non-provocatoria, i rapporti con Pechino sono andati deteriorandosi. La presenza militare cinese nello stretto si è intensificata, mentre Taiwan si è ritrovata protagonista di un isolamento diplomatico. L’ultimo Paese a interrompere le relazioni è stato El Salvador che, dopo essersi visto rifiutare da Taipei la richiesta di fondi per la realizzazione di un progetto considerato insostenibile, si è allineato formalmente all’interpretazione del governo della Repubblica Popolare Cinese della One Chi-

na Policy. Questo è, in genere, il primo passo per avviare qualsiasi relazione diplomatica con la Cina. El Salvador è il quinto Paese, dopo Panama, Sao Tome e Principe, Burkina Faso e la Repubblica Domenicana, che dal 2016 ha dato priorità ai rapporti con Pechino al fine di garantire gli investimenti cinesi. Attualmente sono solo 17 i Paesi che riconoscono la Repubblica di Cina. A Taipei, inoltre, è stata negata per il secondo anno consecutivo la partecipazione all’Assemblea Mondiale della Sanità, mentre 44 compagnie aeree globali hanno rimosso ‘Taiwan’ come parola chiave dai sistemi di prenotazione. All’Hard Power esercitato da Pechino, si aggiungono quindi la leva economica e il tentativo di mettere al muro l’attuale governo, dividendo ideologicamente la popolazione taiwanese, attraverso forme di Soft Power come quella recentemente esercitata con il rilascio delle nuove carte di identità. Potrebbe quindi verificarsi un indebolimento del PPD ed un parallelo rafforzamento del suo principale oppositore politico, il Kuomintang (KMT) che accetta invece il principio di “una sola Cina”. MSOI the Post • 11


ASIA E OCEANIA INDIA: L’OMOSESSUALITÀ NON E’ PIU’ UN REATO

La Corte Suprema: “Criminalizzare l’omosessualità è irrazionale, arbitrario e indifendibile”

Di Virginia Orsili In India l’omosessualità non è più considerata un crimine. Lo scorso 6 settembre la Corte Suprema ha approvato all’unanimità la depenalizzazione degli atti omosessuali. Il presidente della Corte Suprema Dipak Misra ha dichiarato: “Criminalizzare l’omosessualità è irrazionale, arbitrario e indifendibile. L’orientamento sessuale di ogni individuo deve essere protetto, in quanto il diritto alla privacy e la protezione dell’orientamento sessuale sono alla base dei diritti fondamentali garantiti dagli articoli 14, 15 e 21 della Costituzione”. Il provvedimento è il frutto di una battaglia legale durata 18 anni. Nel 2001, la Naz Foundation India, un’ONG dedita alla prevenzione dell’HIV, aveva messo in discussione la costituzionalità della Section 377 del Codice Penale. Nel 2009 l’Alta Corte di Delhi era riuscita a far annullare la legge nel proprio Stato, ma nel 2013 la Corte Suprema ha annullato il provvedimento. In seguito ad una sempre maggiore diffusione di petizioni a denuncia della violazione del diritto alla dignità, all’uguaglianza, alla libertà di espressione, nel 2016 la Corte Suprema ha

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dunque incaricato un collegio di cinque magistrati di verificare l’incostituzionalità della legge. Prima della suddetta sentenza, in India qualsiasi rapporto sessuale tra persone dello stesso sesso, anche se adulte e consenzienti, era considerato reato punibile con un periodo di reclusione fino a dieci anni, o anche con l’ergastolo. Nello specifico, la sezione 377 del Codice Penale penalizza ogni rapporto sessuale “contro natura”. Gli interpreti, tradizionalmente, hanno ricondotto alla norma l’omosessualità, insieme ad altre pratiche sessuali come i rapporti con gli animali o i bambini. Il Codice è una vestigia del dominio coloniale britannico; nella cultura induista, tuttavia, non mancano antichi riferimenti iconografici e letterari a rapporti erotici tra persone dello stesso sesso. Sebbene la sentenza sia stata accolta come un importante passo avanti per i diritti umani nel Paese, resta la consapevolezza che ci sia ancora tanto da fare per eliminare del tutto le discriminazioni. Gli abitanti dei territori rurali dell’India, per esempio, sono più conservatori e guardano con sospetto a misure di questo tipo, senza contare i gruppi più genuinamente reli-

giosi e politici. In seguito all’annuncio della sentenza, i più tradizionalisti tra cristiani, hindu e musulmani si sono detti pronti a combattere. “Stiamo dando credibilità e legittimità a persone mentalmente malate”, ha detto Swami Chakrapani, presidente dell’All India Hindu Mahasabha, un gruppo induista conservatore. E’ importante in questo caso segnalare che, nel 2013, la legge fu ripristinata proprio a causa delle proteste di gruppi cristiani, induisti e musulmani. Nessun commento invece da parte del primo ministro Narendra Modi. Il proprio partito, il Bharatiya Janata Party, non si era mai pronunciato a favore della misura, sebbene nell’estate del 2017 avesse fatto sapere che si sarebbe messo da parte senza interferire con il provvedimento della Corte Suprema. In ogni caso, l’India diviene oggi un modello e uno stimolo per gli altri 71 Paesi in cui l’omosessualità è ancora considerata un crimine. “Il verdetto in India, la seconda nazione più popolosa al mondo, potrebbe incoraggiare ulteriori azioni”, ha detto Meenakshi Ganguly, direttore di Human Rights Watch per l’Asia meridionale.


AFRICA IL FUTURO DEL CAMERUN

9 candidati per una poltrona: verso le elezioni più sentite nella storia del Paese

Di Corrado Fulgenzi Il capo di Stato attualmente in carica, Paul Biya, ha annunciato che il 7 ottobre la popolazione camerunense sarà chiamata alle urne per individuare il futuro Presidente. Secondo alcuni commentatori, queste elezioni saranno ricordate come le più incerte e temute nella storia del Camerun: da anni il Paese sta soffrendo le continue pressioni dei ribelli anglofoni, i quali rivendicano una maggiore autonomia, se non addirittura l’indipendenza come i separatisti dell’Ambazonia. La maggiore paura, percepita tra le alte sfere governative, riguarda una possibile guerra civile. È bastata l’ombra del conflitto, d’altronde, a scatenare il dubbio nelle regioni anglofone del Paese, che già si dicono pronte a veder sacrificato il loro diritto a consultazioni elettorali libere e giuste. La situazione turbolenta, sia nel Nord Ovest sia nel Sud Ovest del Camerun, affonda le proprie radici nel passato coloniale del Paese, che all’inizio del ‘900 era una colonia tedesca e che venne diviso tra francesi e inglesi dopo la Prima Guerra Mondiale. La grande diversità culturale, che gli è valso il soprannome di

‘Africa in miniatura’, non è stata accomodata in modo opportuno con l’indipendenza del 1960, nè, in seguito, la situazione è stata risolta dai governi che si sono succeduti. Ad oggi, il Camerun si divide in dieci regioni: otto francofone e due anglofone. Secondo un recente report di Amnesty International, le forze del governo di Yaoundè si sono macchiate di numerose violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali, omicidi illegali, distruzione di beni, arresti arbitrari e atti di tortura. Oltre 160.000 persone hanno abbandonato le proprie case e 40.000 tra queste hanno deciso di mettersi in viaggio per la Nigeria. Un altro elemento che va alimentando l’instabilità interna è l’elevata frammentazione partitica. I candidati che si sfideranno sono infatti 9, mentre se ne contavano più di 20 prima dell’intervento dell’ELECAM, l’organo che occupa di gestire il regolare svolgimento delle elezioni, che ha proceduto alla squalifica della maggior parte degli stessi, considerati non idonei. Tra i rimasti, Paul Biya è il più accreditato per la vittoria. Al potere da 35 anni grazie ad una

legge del 2008 che gli ha permesso di estendere il suo mandato, è il leader del partito Movimento Democratico del Popolo Camerunense. Il 13 settembre, a Ebolowa, 1500 capi tribù del Sud del Paese si sono incontrati e hanno eseguito un rituale tradizionale per conferire a Biya la propria benedizione, dimostrando così il loro sostegno. Il presidente del Consiglio regionale dei capi del Sud, René Désiré Effa, ha in questa occasione dichiarato che, dal 2011, il Consiglio ha scelto Biya come Nnom Nguii, o capo dei capi, suggellando di conseguenza un’alleanza. I candidati più di rilievo nel confronto con Biya sembrerebbero essere Joshua Osih, del Fronte Social Democratico (SDF) e l’avvocato di fama Akere Muna. Gli analisti politici, tuttavia, hanno suggerito che il miglior modo per poter ostacolare Biya sarebbe la creazione di un’alleanza, con l’obiettivo preminente di rafforzare un’opposizione frammentata e debole. Cabral Libii del Partito Universale, in particolare, sembrerebbe voler concentrare i suoi sforzi in tal senso; resta però da vedere chi sia disposto a farsi da parte per appoggiare uno degli altri concorrenti.

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AFRICA LA RIFORMA AGRARIA DEL SUDAFRICA Scontro all’ultimo tweet tra Ramaphosa e Donald Trump

Di Jessica Prieto Nelle ultime settimane si è accesa una nuova polemica tra il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa e quello statunitense Donald Trump, incentrata su una possibile riforma agraria del Paese africano, che riporterebbe alla alcuni scheletri nell’armadio del periodo coloniale. Per capire ciò che sta accadendo, è necessario tornare indietro fino al 1913. In quell’anno venne approvato il Native Land Act, un provvedimento governativo che concedeva il 10% delle terre coltivabili agli abitanti di origine africana e la restante parte ai cittadini bianchi, che all’epoca costituivano solo il 21% della popolazione totale. Inoltre, la legge obbligava i cittadini africani a vivere in questi terreni come braccianti ed era severamente vietata la compravendita delle terre tra la comunità bianca e nera: i bianchi non potevano vendere e i neri acquistare. Questa situazione costrinse molti cittadini africani a fuggire dalle loro terre native. Negli anni ’90, con l’avvento di Nelson Mandela sulla scena politica e la fine dell’apartheid, si

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cominciò a parlare di un processo di redistribuzione delle terre, che tuttavia ancora oggi risulta procedere a rilento. Secondo una recente dichiarazione di Ramaphosa, l’espropriazione delle terre continua ad avere delle ripercussioni negative sullo sviluppo economico del Paese: a quasi un secolo dalla fine della segregazione razziale, le terre appartengono per il 72% a cittadini bianchi e il restante 28% alle diverse etnie di colore che compongono il Paese. A luglio 2018, il Presidente Sudafricano ha proposto un emendamento costituzionale che consentirebbe l’esproprio delle terre senza compensazione economica. Secondo una sua dichiarazione, infatti: “Il governo è determinato a implementare la riforma agraria in modo da aumentare la produzione agricola, migliorare la sicurezza alimentare e garantire che la terra sia restituita a coloro dai quali è stata sottratta sotto il colonialismo e l’apartheid. […] L’accelerazione della redistribuzione della terra è necessaria non solo per rimediare a una grave ingiustizia storica, ma anche per portare più produttori nel settore agricolo e rendere disponibile

più terra per la coltivazione”. La proposta di Ramaphosa ha tuttavia incontrato un’accesa ostilità da parte di diversi attori internazionali che accusano il Presidente di razzismo e di attuare “politiche persecutorie”. Tra i demistificatori dell’iniziativa troviamo il commentatore politico di Fox News, Tucker Carlson assieme allo stesso Presidente statunitense. Quest’ultimo, in un tweet, ha affiancato la riforma espropriativa, implicitamente accusando il governo sudafricano, alle “uccisioni degli agricoltori su larga scala”. Al tweet è seguita tempestivamente la risposta di Ramaphosa, che, nonostante abbia ammesso il problema di omicidi e violenze tra agricoltori e proprietari, ha affermato che proprio il 2018 è stato l’anno con il minor numero di agricoltori uccisi. Il Presidente ha concluso affermando che il Governo presterà grande é attenzione affinch la riforma agraria venga attuata senza discriminare le minoranze e senza alimentare tensioni interetniche, così da non ricadere in un passato che per anni il Paese ha cercato di superare.


AMERICA LATINA BRASILE: INCERTEZZA DAVANTI ALLE PRESIDENZIALI L’estrema destra in testa ai sondaggi, a sinistra manca il carisma di Lula

Di Tommaso Ellena Il prossimo 7 ottobre si terrà in Brasile il primo turno delle elezioni generali, determinando chi sarà il futuro Presidente dello Stato latinoamericano per i successivi 4 anni. Il partito che ha vinto le ultime quattro tornate elettorali, il Partido dos Trabalhadores (PT), è in una fase di transizione: l’ex presidente Lula sta scontando 12 anni di prigione e per questo non potrà essere candidabile. Come ha affermato il Tribunal Superior Electoral (TSE) “la sua candidatura è virtualmente nulla, perché la legislazione brasiliana impedisce che i condannati in seconda istanza, come nel suo caso, possano presentarsi a cariche elettive”. Lula ha dunque ritirato la propria candidatura, e a meno di un mese dalle elezioni, il PT ha deciso di candidare l’ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad. Secondo recenti sondaggi, nonostante le vicende giudiziarie, Lula gode di un ampio appoggio tra la popolazione. Haddad è stato selezionato personalmente da Lula e ciò gli permetterà di ereditare parte del suo appoggio, ma senza il carisma dell’ex Presidente il PT

rischia di diventare minoranza. Non è quindi esclusa la possibilità che Haddad possa essere scavalcato da altri schieramenti di sinistra. Il Partido Democrático Trabalhista (PDT) di Ciro Gomes, per esempio, che alle presidenziali del 2014 aveva ottenuto solamente il 3,6%, oggi è un movimento di crescente influenza. Il grande favorito delle prossime elezioni resta però Jair Messias Bolsonaro, candidato del Partido Social Liberal (PSL), partito politico di orientamento nazional-conservatore. Personaggio più volte paragonato a Donald Trump per la durezza dei discorsi in campagna elettorale, Bolsonaro ha dichiarato di essere a favore dalla vendita libera di armi e della tortura ed esecuzione dei criminali. Uno dei punti cruciali della sua campagna elettorale è stato abolire le norme che puniscono le forze dell’ordine in caso di eccessi di violenza nello svolgimento delle loro funzioni: a tal proposito, ha fatto scalpore la sua dichiarazione secondo cui “i poliziotti che non uccidono non sono poliziotti”. Bolsonaro è stato inoltre accusato di sessismo dopo aver dichiarato che “le donne devono guadagnare di meno perché

possono rimanere incinte”. Una sua possibile vittoria alle elezioni di ottobre potrebbe mettere a rischio la tenuta democratica del Brasile, visto che Bolsonaro ha più volte difeso i politici che instaurarono la dittatura militare che soffrì il Paese dal 1964 al 1985, affermando che “l’errore della dittatura fu torturare e non uccidere” gli oppositori del regime. La trionfante campagna elettorale di Bolsonaro ha però subito una brusca interruzione a causa di attentato avvenuto nei suoi confronti durante uno dei suoi comizi. Un uomo gli si è lanciato addosso colpendolo con una coltellata al basso ventre. Ricoverato d’urgenza, Bolsonaro non è in pericolo di vita ma dovrà rimanere in ospedale per alcune settimane. L’attentato è stato rapidamente sfruttato dai sostenitori di Bolsonaro a scopi propagandistici, soprattutto dopo la diffusione della notizia che l’aggressore fosse un simpatizzante di Lula e del PT. La popolarità del candidato di estrema destra è cresciuta, e nonostante la sua campagna elettorale si sia conclusa in anticipo rimane tutt’oggi il grande favorito del primo turno di ottobre.

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AMERICA LATINA OSA: INTERVENTO MILITARE IN VENEZUELA NON È ESCLUSO L’Organizzazione degli Stati Americani sta considerando attentamente ogni opzione

Di Elisa Zamuner Il segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), Luis Almagro, dopo essersi recato in Colombia in visita a migranti venezuelani, ha espresso delle forti preoccupazioni nei confronti della situazione in Venezuela, dichiarando di “non escludere l’ipotesi di un attacco militare contro Maduro”. La crisi venezuelana, peggiorata in modo drammatico nell’ultimo anno, ha portato il Paese a un grave stato di indigenza, mettendo i propri cittadini in condizioni di disagio economico sempre più opprimente; le persone più povere fanno fatica a procurarsi beni di prima necessità come alimenti e medicine, trovandosi costrette a migrare. Parallelamente alla crisi monetaria si è innescata una crisi migratoria. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 2015 avrebbero lasciato il Paese almeno 2.3 milioni di venezuelani, circa il 7% della popolazione. Questi spostamenti hanno cominciato a causare delle forti tensioni con gli altri Paesi dell’America Latina, come il Brasile, la Colombia e l’Equador. Il Brasile ha promesso maggiori controlli nelle città di confine, 16 • MSOI the Post

sostenendo di non poter più far fronte al numero crescente di immigrati; alcuni cittadini brasiliani hanno reagito con rabbia e violenza a questi arrivi e a Pacairama alcuni locali hanno dato fuoco a un campo di migranti, obbligando circa 1200 venezuelani a far ritorno in patria. Altri Paesi, come Ecuador e Perù, hanno invece affermato di bloccare chiunque tenti di entrare senza passaporto. L’OSA guarda da tempo al governo Maduro con preoccupazione. In particolare, l’amministrazione venezuelana è accusata di gravi violazioni dei diritti umani e di crimini contro l’umanità. Da parte sua, invece, Maduro ha più volte criticato l’OSA, sostenendo interferisca gravemente con il suo ruolo di Esecutivo. Il Governo ha anche rifiutato più volte le offerte di aiuti umanitari. Una recente inchiesta del New York Times, a cura di Ernesto Londoño e Nicholas Casey, ha inoltre rivelato alcuni incontri tra l’amministrazione statunitense e alcuni ufficiali dell’esercito venezuelano nei quali si è discusso di una possibile manovra militare per destituire Maduro. Gli incontri, di natura informale, non avrebbero

portato a nessuna negoziazione o accordo, e il Governo statunitense ha dichiarato di voler semplicemente ascoltare chiunque sia interessato al ripristino della democrazia in Venezuela. Negli ultimi anni i rapporti tra USA e Venezuela sono stati particolarmente difficili. Il governo Trump ha applicato delle sanzioni contro il Venezuela, come il travel ban, e altre restrizioni economiche nei confronti dell’amministrazione Maduro, arrivando a vietare operazioni con debito e capitale emessi dal Governo venezuelano a causa di quella che lo studio ovale definisce una politica anti-democratica. Inoltre, gli stessi rapporti diplomatici sono congelati dal 2010. L’atteggiamento degli Stati Uniti rimane però cauto. Un’azione militare da parte dei soli Stati Uniti, o comunque un loro coinvolgimento al di fuori di un’operazione congiunta con l’OSA, potrebbe non essere ben accetto dagli altri Paesi latinoamericani, i quali, pur d’accordo sull’emergenza, vivrebbero ciò come un’ennesima intrusione degli States negli affari dell’America Latina.


ECONOMIA GOOGLE E MASTERCARD ALLEATI ALLE SPALLE DEGLI UTENTI La nuova frontiera della compravendita di informazioni sul commercio al dettaglio

Di Francesca Maria De Matteis Due miliardi di utenti e 25.000 istituti finanziari. Quattro anni di trattative con Google per la stipula di un accordo. Nell’ultimo anno Mastercard, infatti, ha venduto al motore di ricerca numero uno al mondo i dati che ricava dalle transazioni effettuate dagli utilizzatori di carte plastiche per gli acquisti al dettaglio. Tale compravendita di informazioni, tuttavia, non è stata annunciata agli utenti stessi, protagonisti indiretti della trattativa, sulla quale ha puntato i riflettori un’inchiesta di Bloomberg. Il fine principale dell’accordo è incrociare i dati dei beni comprati con carte di credito presso riveditori fisici con quelli ottenuti dalle ricerche effettuate sul web sui siti commerciali. Il legame tra acquisti online e presso i negozi fisici sono gli annunci pubblicitari. Una delle più grandi aziende di gestione di tali inserzioni è la stessa Google, che, anche grazie all’utilizzo di algoritmi di profilazione degli utenti, analizza gusti e preferenze della clientela. Già l’anno scorso, l’azienda statunitense, annunciando il proprio servizio Store Sales Me-

asurements, ammise di avere accesso al 70% delle carte di credito e debito degli Stati Uniti. Non è la prima volta, quindi, che Google cerca di ottenere informazioni sulle transazioni retail: già Google Wallet aveva lasciato presagire un rapido sviluppo delle carte prepagate virtuali, che permettono l’accesso ai conti corrente personali direttamente dal cellulare. Un portavoce di Mastecard, rifiutando di lasciare dichiarazioni che riguardassero esplicitamente Google, ha ammesso la vendita di dati sulle transazioni degli utenti retail, in modo tale che i commercianti possano valutare “l’efficacia delle loro campagne pubblicitarie”. Inoltre, ha aggiunto che Mastercard non condivide informazioni che riguardano singoli clienti, ma provvede alla loro diffusione aggregata. Da parte sua, Google ha confermato che il sistema funziona solo per chi accede a un proprio account appartenente al motore di ricerca stesso e che non abbia impostato l’opzione di opt out. Con quest’ultima tutela giuridica è possibile, infatti, rinunciare a ricevere un qualsiasi tipo di annuncio commerciale indesiderato. È una portavoce di Google, inve-

ce, a comunicare a Bloomberg stesso un messaggio che dovrebbe rassicurare: “I rivenditori vedono cifre di vendita aggregate e stimano quanto di queste può essere legato alle pubblicità su Google - ma non vedono i dati personali degli acquirenti, né quanto spendano o cosa comprino esattamente. I test sono disponibili solo per i rivenditori, non per i produttori dei beni che vengono venduti”. La preoccupazione delle agenzie di marketing, legata alla difficoltà di raccogliere informazioni sul commercio che avviene offline, sembra essere il principale fattore alle spalle di una tale manovra commerciale. E della conseguente alleanza tra le due corporazioni statunitensi. La segretezza di tale accordo e la commercializzazione di informazioni private di utenti ignari del proprio coinvolgimento in un affare da milioni di dollari, ricorda l’altrettanto recente scandalo che vede coinvolti il social network Facebook e l’app Cambridge Analytica. Se quest’ultimo riguarda la sfera strettamente personale degli iscritti alla piattaforma social, l’altro vede al centro del terremoto mediatico miliardi di dati d’acquisto dei consumatori. MSOI the Post • 17


ECONOMIA IL PANE AMARO DI PARIGI

Italia e Francia ai ferri corti per la Libia, ma il tempo gioca in favore di Parigi

Di Michelangelo Inverso Ancora una volta si riaccende l’eterna rivalità tra Roma e Parigi per l’oro nero di Tripoli. In realtà, non si è mai spenta dall’inizio dell’operazione di regime change ‘Odissey Dawn’ della NATO, fortissimamente voluta dalla Francia nel 2011. A distanza di sette anni da quello sciagurato intervento militare, la Libia resta un Paese in rovina, diviso e con scarse prospettive di rinascita, sulle cui spoglie si gioca una partita energetica fondamentale per il nostro futuro. Come ormai noto, sulla ‘Quarta Sponda’, si intrecciano partite locali, cioè tra governi contrapposti Ovest-Est, regionali, tra Italia e Francia, e globali, tra Stati Uniti e Russia. Gli schieramenti sono sufficientementechiari:Tripolitania, alleata di Italia, Qatar e Stati Uniti (con legittimo mandato ONU conferito al premier Fayez al-Sarraj) contro Cirenaica, alleata di Francia, Egitto, Arabia Sudita e Russia. Il Paese è letteralmente spaccato a metà e da più di sei anni. Nessuno ha prevalso sull’altro, in assenza di forze sufficienti ed equipaggiamento militare (ndr, in Libia vige un embargo internazionale sulle armi). L’unica ragione per cui Paese è ancora formalmente unito è la 18 • MSOI the Post

National Oil Company (NOC). La compagnia petrolifera di bandiera contribuisce per il 60% del PIL, per l’80% delle esportazioni ed eroga, tramite la Banca Centrale Libica, stipendi a tutti i funzionari pubblici (comprese le forze di sicurezza) della nazione, sia di Tripoli sia di Tobruk (‘capitale’ della Cirenaica). La NOC, fin dalla sua fondazione, a opera di Gheddafi, ha sempre agito in strettissima collaborazione con l’Eni, concessionario monopolista delle immense ricchezze libiche. Tramite l’Eni sono stati completati progetti che ancora oggi garantiscono la stabilità energetica della Libia, come il metanodotto Greenstream, che con 520 km di lunghezza unisce i giganteschi giacimenti di Bahr Essalam e Wafa alla Sicilia, trasferendo 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno in Europa. Chi controlla la NOC controlla la Libia. E questo la Francia lo sa bene: con la sua Total, da sempre concorrente minore dell’Eni in Libia, Parigi sta guadagnando terreno prendendo il controllo, grazie a Haftar, delle risorse nell’Est e acquisendo le partecipazioni in mano a compagnie americane come ConocoPhillips (16,33%) e Hess (8,16%).

Il governo italiano, tramite l’ex premier Gentiloni, si era schierato con Sarraj, ottenendo il formale sostegno statunitense e dell’ONU, ma gli ultimi scontri a Tripoli non sembrano rassicuranti e rivelano in Fayez al-Sarraj una figura troppo debole, priva di un reale sostegno popolare, tenuta in piedi quasi esclusivamente dalla NOC e dall’Eni, i cui principali interessi economici si trovano nell’Ovest. A seguito della sua Conferenza di Parigi, sono state indette nuove elezioni per il 10 dicembre, da cui Sarraj risulterebbe ancora più marginalizzato in favore di Haftar, considerato molto più popolare grazie alla sua campagna militare anti-Isis a Sirte. Il rischio è di una transizione totale dall’Eni alla Total che comporterebbe anche la nostra esclusione dalla Libia sul piano militare e politico in favore della Francia. Spetterebbe, dunque, all’Italia salvare l’unico attore, al momento, riconosciuto internazionalmente dalle milizie antagoniste di Tobruk e da quelle jihadiste nel Sud della Libia e in Tripolitania. Ma l’embargo ci impedisce di fornire assistenza militare diretta o indiretta al governo libico, portando acqua al mulino francese, che per l’Italia prepara un pane molto amaro.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO DEPENALIZZAZIONE DELL’OMOSESSUALITÀ IN INDIA Storica decisione della Corte suprema indiana

Di Chiara Montano Con una decisione storica, la Corte Suprema indiana ha depenalizzato l’omosessualità, cancellando la sezione 377 del Codice penale indiano, risalente al 1860, che definiva l’omosessualità un “comportamento contro natura”, sanzionato con una multa e la reclusione fino all’ergastolo. Il collegio, composto da cinque giudici, era presieduto da Dipak Misra, il quale ha dichiarato che “criminalizzare l’omosessualità è irrazionale e indifendibile”, definendo la legge “manifestamente arbitraria”. Una decisione analoga era già stata pronunciata dall’Alta Corte di Delhi nel 2009, per poi essere cancellata nel 2013 dalla stessa Corte Suprema. Sebbene non esistano dati ufficiali, da una stima fatta dal governo indiano nel 2012, gli omosessuali nel Paese sono oltre due milioni e mezzo. La depenalizzazione dell’omosessualità è il risultato di un lungo processo, iniziato fra Ottocento e Novecento: nel 1897 nacque, a Berlino, il Comitato Scientifico Umanitario, che costituì il primo tentativo nella storia di organizzarsi contro le leggi penali che discriminavano gli omosessuali.

Dall’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, nel 1948, gli Stati dispongono di un codice di comportamento, basato su precise norme internazionali che tutelano i diritti dell’uomo. Nonostante la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani vieti qualsiasi trattamento inumano o degradante e consideri il diritto alla vita come inviolabile, sono ancora molti gli Stati in cui l’omosessualità è considerata un reato e viene duramente sanzionata. Nel gennaio 2008, il Parlamento europeo ha emanato una risoluzione finalizzata a condannare la repressione omofobica in Iran, dove si era registrato un aumento delle esecuzioni capitali come condanna per gli omosessuali. Il 17 maggio 1990 è la data storica in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definì l’omosessualità “una variante naturale del comportamento umano”, cancellandola dall’elenco delle malattie mentali. Questa data viene ricordata, da qualche anno, celebrando la giornata mondiale contro l’omofobia. Dal 1994 in poi, si è assistito all’emergere di una sensibilità e di un’attenzione sempre maggiori riguardo alla tematica dell’orientamento sessuale, grazie al contributo apportato

dalle Nazioni Unite e dalle iniziative dei singoli Stati. Nel panorama internazionale, di fondamentale importanza è stata anche la Dichiarazione sui Diritti umani, l’orientamento sessuale e l’identità di genere, del 18 dicembre 2008, sostenuta da 66 nazioni, in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Dichiarazione condanna esplicitamente le violazioni dei diritti basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere e include una richiesta di depenalizzazione dell’omosessualità in tutto il mondo, proposta all’ONU dalla Francia e approvata da 25 Paesi dell’Unione europea. Infine, l’art. 14 della CEDU vieta la discriminazione su qualsiasi base, incluso l’orientamento sessuale. Con questa sentenza storica, l’India si è allineata alla tendenza di depenalizzazione dell’omosessualità, che va avanti da diversi anni, in Europa e nel resto del mondo, diventando così, secondo l’Associazione internazionale delle persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali (ILGA), il 124esimo Paese al mondo dove i rapporti omosessuali non sono, o non sono più, considerati reati.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL PARLAMENTO EUROPEO APPROVA LA PROCEDURA CONTRO L’UNGHERIA

Per la prima volta nella storia dell’Unione, il Parlamento europeo ha votato l’attivazione della procedura prevista dall’art. 7 TUE

Di Federica Sanna Il 12 settembre è stato certamente un giorno delicato per Strasburgo. Oltre all’annuale discorso sullo State of the Union tenuto dal presidente della Commissione Juncker e al voto in merito alla direttiva sul copyright, il Parlamento Europeo ha affrontato la votazione circa l’attivazione della procedura dell’art. 7 TUE nei confronti del Governo ungherese di Orbán. Il Parlamento, votando a favore della risoluzione, ha inteso mettere in luce le decisioni antidemocratiche assunte dal governo ungherese e l’evidente rischio che il Paese stia superando la sottile linea esistente tra un Governo democratico e un regime autoritario. L’art. 7 TUE prevede che, su proposta di 1/3 degli Stati membri, del Parlamento Europeo (come in questo caso) o della Commissione, il Consiglio, previa approvazione del Parlamento, possa, a maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, constatare l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro di uno dei valori dell’UE elencati all’art. 2 TUE (rispetto della di-

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gnità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani). L’Ungheria ha reagito alla decisione lamentando un voto di vendetta nei propri confronti da parte dell’Europa, e la sua propaganda interna sostiene che a votare contro il Paese siano stati quelli che “vogliono riempire l’Europa intera di migranti musulmani”. Il Primo Ministro ungherese ha inoltre ipotizzato il ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Al contrario, diversi esponenti dell’organo legislativo dell’UE hanno sottolineato come lo scopo del procedimento non sia quello di imporre sanzioni all’Ungheria, ma quello di ristabilire l’utilizzo di pratiche tollerabili e aderenti ai valori europei. In seguito al voto del Parlamento, la discussione è ora nelle mani del Consiglio. L’Ungheria, in sede di votazione, avrà sicuramente il sostegno polacco e probabilmente degli altri Paesi del gruppo Visegrad (Slovacchia e Ungheria), mentre non è ancora chiara quale sarà la posizione assunta dall’Italia (i due partiti di Governo hanno, in-

fatti, votato in maniera opposta in plenaria). Ad ogni modo, il Consiglio, in questa fase, può soltanto constatare l’esistenza delle violazioni lamentate dal Parlamento Europeo. Al fine di imporre sanzioni, invece, è necessario raggiungere l’unanimità della decisione, come previsto dal secondo paragrafo dell’art.7. In questo caso, il Consiglio potrebbe deliberare la sospensione del diritto di voto dell’Ungheria i sede europea e il freno ai finanziamenti, di cui però farebbero principalmente le spese i cittadini ungheresi. Contestualmente, allo Stato verrebbe richiesto di continuare ad adempiere agli obblighi derivanti dal vincolo di adesione all’UE. A prescindere dall’esito finale di tale procedura, è importante sottolinearne il valore politico: nell’unico caso precedente di utilizzo dell’art. 7 (nei confronti della Polonia, procedura non portata poi a termine), lo stimolo proveniva dalla Commissione e non dal Parlamento Europeo, il quale, per la prima volta, si è assunto la responsabilità di mettere in chiaro la portata non negoziabile dei valori fondanti dell’Unione Europea.


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