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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

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N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Davide Tedesco Direttore Responsabile Giusto Amedeo Boccheni Vice Direttori Luca Bolzanin, Luca Rebolino Caporedattori Arianna Salan, Fabrizia Candido, Matteo Candelari, Pauline Rosa, Luca Imperatore Capiservizio Fabrizia Candido, Guglielmo Fasana, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Vladimiro Labate, Pierre Clément Mingozzi, Andrea Mitti Ruà, Giacomo Robasto, Arianna Salan Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolini, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Federica Cannata, Daniele Carli, Debora Cavallo, Sabrina Certomà, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria Di Donato, Tommaso Ellena, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Vittoria Beatrice Giovine, Lara Amelie Isaia Kopp, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Mina, Pierre Clément Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Anna Nesladek, Virginia Orsili, Francesco Pettinari, Barbara Polin, Luca Pons, Jessica Prieto, Mario Rafaniello, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Federica Sanna, Martina Scarnato, Andrea Domenico Schiuma, Natalie Sclippa, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Diletta Sveva Tamagnone, Francesco Tosco, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole AUSTRIA 19 novembre. George Soros, filantropo fondatore della Central European University di Budapest, ha incontrato il cancelliere austriaco Sebastian Kurz per discutere del trasferimento dell’ateneo dall’Ungheria a Vienna. L’Università è costretta a spostarsi a causa delle pressioni messe in atto dal governo ungherese di Viktor Orbán, ostile nei confronti delle attività di promozione di diritti umani operate da Soros.

FRANCIA 17 novembre. Circa 290 mila persone hanno manifestato in tutto il Paese contro i rincari della benzina voluti dal governo del presidente Emmanuel Macron. I manifestanti hanno ostacolato e bloccato la circolazione su strade, superstrade e autostrade e sono stati definiti “gilet gialli”, a causa dei giubbotti catarifrangenti indossati durante la manifestazione. Le proteste hanno causato 2 morti e molti feriti. GRECIA 17 novembre. In occasione dell’anniversario della rivolta studentesca del 1973 contro il regime dei Colonnelli, ad Atene e Salonicco si sono verificati duri scontri tra la polizia e un gruppo di 300 persone. I manifestanti hanno eretto barricate e lanciato bombe incendiarie contro le forze dell’ordine. Invece, la marcia di 15 mila persone terminata davanti dell’Ambasciata

THE IRISH QUESTION Timori e speranze di Dublino in vista della Brexit

Di Simone Massarenti La questione irlandese infervora ancora il dibattito in vista della Brexit. Il primo ministro irlandese, Leo Varadkar, ha infatti annunciato il suo sostegno alla configurazione post-Brexit dettata dalla Premier inglese Theresa May, ora in balia delle acque tempestose che lambiscono la porta di Downing Street. Stando a quanto riportato dalle testate irlandesi infatti, l’endorsement del Taoiseach sarebbe dettato da una volontà chiara, e cioè quella di preservare la stabilità dell’Isola. Parlando al British-Irish Council, tenutosi sull’isola di Man, Varadkar non ha assicurato una via d’uscita facile dai negoziati per la Brexit, ma ha confermato che l’operato di Dublino garantirà una soluzione che impedisca il ritorno al passato. Il rischio concreto, stando alle parole del Premier, sarebbe quello di incorrere in un rafforzamento dei confini fra Irlanda del Nord e Irlanda, mossa altamente controproducente e che potrebbe concretamente riaprire la tanto annosa questione conclusasi nel 1998. Citando testualmente tale “pace tra Gran Bretagna e Irlanda”, Varadkar ha posto in primo piano la necessità di preservare il così tanto combattuto equilibrio sull’isola, esplicitando come la collaborazione sia sempre più

stretta ed è necessario “evitare il pericolo di qualunque nuovo confine”. La preoccupazione però è tanta e il premier ha esplicitato come, in caso di mancato accordo, l’Irlanda del Nord rimarrà comunque soggetta alle normative europee per evitare problemi. L’accordo, che prevede che la totalità del Regno Unito rimanga all’interno dell’unione commerciale e mercantile, è la soluzione auspicata da tutti i governi, ma secondo Dublino “non deve avere una data di scadenza, deve essere legalmente operabile e deve essere bilaterale, senza possibilità di unilateralità”. Il trattato, se accettato dalla House of Commons, rappresenterebbe un trattato internazionale che comprenderebbe l’UE (Irlanda compresa) e il Regno Unito, rendendosi quindi irrevocabile anche nel caso di un cambio di leadership in uno dei Paesi. Le trattative sulla Brexit quindi sono divenute per l’Irlanda una sorta di “clausola di sicurezza” per il mantenimento del “Good Friday Agreement”. Non della stessa opinione invece l’opposizione che, dalla vivavoce di Pearse Doherty, leader dei deputati del Sinn Féin, reputa la posizione del DUP (Democratic Union Party) quella di un partito che “vive in una terra dei sogni”, reputando l’accordo “assolutamente scellerato”. MSOI the Post • 3


EUROPA degli Stati Uniti si è svolta pacificamente. 6000, i poliziotti impiegati durante la giornata di manifestazioni. ITALIA 21 novembre. La Commissione europea ha definitivamente rigettato il Documento Programmatico di Bilancio presentato dal governo italiano. Alla base della bocciatura vi sarebbe il mancato rispetto delle regole di bilancio, in particolare della raccomandazione dell’Ecofin risalente allo scorso 13 luglio. Per tali motivi sarà avviata, contro l’Italia, una procedura per “deficit eccessivo”. MALTA 19 novembre. Il quotidiano Times of Malta ha rivelato che gli investigatori impegnati nelle indagini, avrebbero identificato “più di due” cittadini maltesi come possibili mandanti dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia. Nessun nome, tuttavia, sarebbe stato rivelato. REGNO UNITO 16 novembre. Dopo le dimissioni di due ministri e due sottosegretari, a seguito dell’accordo raggiunto con Bruxelles, sono stati nominati i nuovi successori. Stephen Barclay prenderà il posto di Dominic Raab in qualità di ministro per la Brexit e Amber Rudd sarà il nuovo ministro del Lavoro in sostituzione di Esther McVey. 20 novembre. Il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, ha minacciato di porre il veto sulla Brexit se la trattativa su Gibilterra, territorio storicamente rivendicato da Madrid, non verrà negoziata separatamente. A cura di Giuliana Cristauro 4 • MSOI the Post

FRANCIA, I “GILET GIALLI” CONTRO IL GOVERNO

I manifestanti si scagliano contro l’aumento dei prezzi dei carburanti

Di Alessio Vernetti I “gilet gialli” hanno paralizzato il traffico francese sabato 17 novembre, in una mobilitazione senza precedenti volta a protestare contro l’aumento dei prezzi dei carburanti voluto dal governo. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono stati contati quasi 300.000 manifestanti, distribuiti su oltre 2.000 siti. A Parigi il corteo si è avvicinato anche all’Eliseo, dove la polizia ha usato i gas lacrimogeni. Domenica i “gilet gialli” (il cui nome deriva dal giubbotto catarifrangente in dotazione ad ogni veicolo) si sono riuniti di nuovo e – anche se erano meno numerosi rispetto al giorno precedente – sono riusciti comunque a bloccare le strade di diverse regioni del paese. Nella maggior parte dei casi non ci sono stati gravi incidenti, ma il bilancio finale dei due giorni di proteste è di un morto e di 400 feriti circa, dei quali 14 si trovano in condizioni serie (e tra loro ci sono anche poliziotti). Tenendo presente la specificità del movimento, nato spontaneamente sui social network e poco strutturato a livello nazionale, senza leader né affiliazioni partitiche, esso è definibile come una vera e propria jacquerie.

Oltre all’aumento della benzina e del gasolio, il Governo si era anche mosso per abbassare i limiti di velocità, aumentare i dispositivi per controllarne il rispetto e introdurre incentivi per le auto elettriche o ibride. Dopo un anno in cui il prezzo del gasolio è salito del 23 per cento e quello della benzina del 15 per cento, il Governo francese ha deciso di introdurre dal gennaio 2019 ulteriori tasse. Il prezzo del gasolio lieviterà quindi di 6,5 centesimi al litro e quello della benzina di 2,9: è questo, a detta del Primo Ministro Édouard Philippe e del Ministro per la transizione ecologica François De Rugy, il primo passo verso una conversione ecologica. I manifestanti denunciano però i rincari che andrebbero a pesare su chi già ha una situazione economica e difficil e il fatto che in pochi potrebbero comprare una auto nuova, elettrica o ibrida, perché il prezzo è ancora troppo elevato. “Nel 2017, di fronte al popolo francese, il Presidente della Repubblica si è impegnato in una direzione ben precisa – ha replicato domenica sera su France 2 il Primo Ministro Quindi ribadisco che il Governo proseguirà in questa direzione senza fare passi indietro”.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI 16 novembre. Il Dipartimento di Stato americano ha dichiarato “di essere fiducioso sul rispetto degli impegni presi dal leader nordcoreano in merito al processo di denuclearizzazione”. Le affermazioni giungono in seguito alla divulgazione delle informazioni concernenti le più recenti attività di Kim Jong-un, impegnato nella supervisione di una nuova arma “ad alta tecnologia”. 17 novembre. Duro scontro, avvenuto a margine del vertice APEC, tra il presidente cinese Xi Jinping, scagliatosi contro la politica commerciale attuata da Donald Trump, e il Vicepresidente degli Stati Uniti: “la linea non verrà cambiata se la Cina non modificherà il proprio atteggiamento”, ha dichiarato Mike Pence.

19 novembre. Donald Trump è tornato a parlare del caso Khashoggi. Dinnanzi al possibile e diretto coinvolgimento del principe saudita Mohammed bin Salman, il Presidente ha dichiarato che “gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita rimarranno alleati”. Alla base della dichiarazione, vi sarebbe la “tutala degli interessi del Paese”. 20 novembre. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha incontrato a Washington Mevlut Cavusoglu, ministro degli Esteri turco. Tra le tematiche affrontate vi sono state l’omicidio del giornalista

BETO O’ROURKE: IL PROSSIMO PRESIDENTE?

Come la sconfitta nel midterm lo può aiutare per la corsa alla Casa Bianca (rappresentante del Maryland) e Richard Ojeda (senatore del West Virginia).

Di Alessandro Dalpasso Dopo le elezioni di metà mandato, i Democratici sono riusciti a riconquistare la maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. Secondo alcune critiche interne mosse da esponenti del Partito Repubblicano, questo è dovuto anche al fatto che, dove lo Stato, o il seggio, si è colorato di blu (ndr, il colore dei Democratici) è stato per un’abilità dei Democratici di candidare il personaggio giusto al posto giusto, senza una strategia unica a livello nazionale. In ogni caso, nessun candidato Dem è emerso in modo chiaro, allo stato attuale delle cose, come plausibile concorrente dell’attuale presidente Trump in ottica delle general elections del 2020. Più che per il risultato elettorale in sé, erano dunque elezioni interessanti se osservate dal punto di vista della futura leadership del partito. Gli unici dati certi, a ora, sono che la Convention Democratica si terrà tra il 13 e il 16 luglio 2020 e che i candidati che hanno espressamente dichiarato la loro volontà di correre per il posto nello Studio Ovale sono solamente due: John Delaney

Ma, fra tutti i nomi che circolano (circa 30), la sorpresa potrebbe nascondersi tra gli sconfitti di quest’ultima tornata elettorale: Beto O’Rourke, che ha corso per il seggio del Senato in Texas. A sorprendere è stato il modo in cui O’Rourke ha colmato il divario con il suo rivale, Ted Cruz, rieletto per il partito Repubblicano. In modo progressivo e costante è riuscito a rimontare nei sondaggi, concedendo poi la vittoria all’avversario per circa 200.000 voti, in uno Stato che non elegge un Dem al Senato dal 1994. Ciò sorprende ulteriormente se si tiene conto che ha raccolto poco più di 4 milioni di voti, un numero maggiore rispetto alla cifra record di 3,87 milioni che aveva totalizzato Hillary Clinton alle elezioni del 2016. Hanno colpito soprattutto la sua facilità nel raccogliere fondi (circa 39 milioni di dollari negli ultimi mesi della campagna), l’entusiasmo che ha portato alla base del suo partito - che si è concretato in 800.000 donatori privati per la sua campagna e ha portato a eleggere altri Dem in alcuni distretti incerti -, nonché la sua abilità di crearsi la figura di “uomo di mezzo” tra la generazione a cui appartiene lui stesso e il vecchio establishment del partito. In una recente intervista a TMZ. com ha detto che non ha ancora deciso, ma la ‘Betomania’ potrebbe essere solo all’inizio. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA saudita Khashoggi e le possibili soluzioni al conflitto in Siria. 21 novembre. Si è fissato ad almeno 83 morti il bilancio delle vittime che hanno perso la vita a causa degli imponenti incendi ancora in corso in California. I dispersi sarebbero, invece, oltre 500. “La distruzione è catastrofica”, ha dichiarato il presidente Donald Trump. 22 novembre. Il capo di Gabinetto della Casa Bianca, John Kelly, avrebbe firmato un provvedimento che autorizzerebbe “all’uso della forza” i militari inviati al confine con il Messico per fronteggiare l’arrivo dell’ondata migratoria. La decisione sarebbe “ragionevole e necessaria per garantire la protezione degli agenti inviati al confine”, ha dichiarato John Kelly.

CANADA 18 novembre. Si è concluso l’itinerario in Papua Nuova Guinea del primo ministro Justin Trudeau, impegnato in 2 giornate di meeting con diversi rappresentanti dello scenario politico internazionale, presenti sul territorio in occasione del summit APEC. 21 novembre. Il premier Trudeau ha annunciato che l’imminente First Ministers’ Meeting (FMM) avrà luogo nella città di Montreal il prossimo 7 dicembre. In tale occasione “si discuterà dell’Accordo siglato tra Stati Uniti, Messico e Canada e sui metodi utili a diversificare il commercio internazionale”. A cura di Erica Ambroggio 6 • MSOI the Post

LA CANDIDATURA DI PELOSI A SPEAKER DELLA CAMERA È A RISCHIO Sedici deputati Democratici hanno firmato una lettera contro la sua nomina

Di Luca Rebolino La storica leader del Partito Democratico alla Camera Nancy Pelosi potrebbe non essere riconfermata. Infatti, 16 deputati del suo partito hanno pubblicato una lettera in cui annunciano di non sostenerla nella sua candidatura a Speaker. È la massima carica di questo ramo del Congresso e costituisce la terza carica dello Stato, secondo la Costituzione. Attualmente, il ruolo è ricoperto dal deputato Repubblicano Paul Ryan, che ha ricoperto tale ruolo dalle elezioni del 2016. Nancy Pelosi è una politica di grande esperienza, ha 78 anni ed è italo-americana. È la leader dei Democratici alla Camera da 16 anni: quando il suo partito era in minoranza, è stata capogruppo e quando in maggioranza, ha ricoperto appunto la carica di Speaker; diventando tra l’altro la donna che ha raggiunto il livello più alto di sempre nelle istituzioni federali. Quella di Speaker è una figura che rappresenta indubbiamente uno dei massimi ruoli per il proprio partito; assume, poi, un’importanza ancor più centrale se si trova all’opposizione rispetto al Presidente in carica, proprio come adesso. Dopo le elezioni di midterm, che hanno portato i Democratici alla maggioranza alla Camera,

si considerava la sua nomina come molto probabile. Ma, ora, potrebbe non raggiungere la maggioranza semplice dell’assemblea, necessaria per la sua elezione. La soglia è fissata infatti a 218 voti e i Dem al momento contano 232 seggi. Tolti, quindi, questi 16 deputati, l’obbiettivo per lei non sarebbe matematicamente raggiungibile; bisogna poi considerare che CNN calcola, secondo le sue fonti, ben 24 potenziali deputati contrari tra le fila del partito, mentre altri sono pronti ad astenersi. Questo gruppo di rappresentanti, deciso a votare contro di lei il 3 gennaio, quando la Camera dovrà rinnovare la sua Presidenza, è a favore di un cambio ai vertici del partito. Considerano, infatti, queste elezioni di midterm come un chiaro segno per imprimere una svolta e un rinnovamento interno, a cominciare proprio dai suoi livelli più alti. Quella di Pelosi è sempre stata però una figura di mediazione al Congresso; in molti, infatti, la considererebbero ancora in grado di evitare lo scontro aperti tra gli schieramenti, oggi polarizzati su numerose questioni aspramente divisive. A favore della sua candidatura, inoltre, vi è l’assoluta mancanza, a oggi, di alternative nel partito.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

#INSIDEOUTABAYA: LA PROTESTA DELLE DONNE SAUDITE Nuove proteste contro l’obbligo di indossare il velo in pubblico mai rispettati, e tra questi c’è senz’altro la libertà di scelta nell’abbigliamento.

ARABIA SAUDITA 21 novembre. Il ministro degli Esteri Adel al-Jubeir ha dichiarato che il principe Mohammed bin Salman rappresenterebbe la “linea rossa” che il popolo dell’Arabia Saudita non è disposto a superare. Le sue dichiarazioni si riferiscono al caso Khashoggi, dopo che il Congresso degli Stati Uniti ha richiesto l’apertura di un’indagine sulla responsabilità del Principe nell’assassinio del giornalista. Secondo Adel al-Jubeir, Mohammed bin Salman non avrebbe alcuna responsabilità nel caso e ha assicurato che i colpevoli verranno puniti. IRAN 20 novembre. Teheran ha chiesto a Bruxelles di accelerare il processo che porterebbe a un rafforzamento dei legami economici con l’Iran, nonostante le sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Infatti, secondo Bahram Ghasemi, portavoce del Ministero degli Esteri iraniano, “i Paesi dell’Unione Europea stanno procedendo troppo lentamente, anche se è chiaro che siano decisi a mantenere l’accordo sul nucleare”. IRAQ 17 novembre. Il Presidente iracheno si è recato in visita in Iran per fare chiarezza sui legami economici che uniscono i due Paesi. Le sanzioni imposte dagli Stati

Di Maria Francesca Bottura In una Arabia Saudita in cui sembra che, sul piano dei diritti, qualcosa si stia muovendo, ancora una volta le grandi protagoniste del cambiamento sono le donne, costrette da una cultura e una società che impedisce loro di esprimersi in piena libertà e sicurezza. È un corso storico che attraversa i secoli quello dei diritti delle donne: ovunque si guardi, nella storia di qualsivoglia Paese del mondo, c’è stato un momento in cui donne coraggiose hanno deciso di volere qualcosa di più, qualcosa di certo, qualcosa che le rendesse esseri umani prima che donne. A piccoli, anzi, microscopici passi (come è normale che sia per ogni cambiamento sociale che si rispetti), anche l’Arabia Saudita sembra volersi modernizzare, da più punti di vista. La riforma che ha concesso alle donne di mettersi alla guida degli autoveicoli è stata un notevole passo avanti, che fino a poco tempo fa non sarebbe stato possibile; ma a parte questa piccola vittoria, per le donne saudite rimangono tanti altri diritti mai posseduti o

Per la cultura islamica più conservatrice, infatti, le donne devono indossare indumenti che coprano quasi totalmente il loro corpo: l’abaya è uno di questi: una tunica nera che lascia scoperti solo piedi, mani e viso. Secondo il principe ereditario Mohammed Bin Salman, in un’intervista alla CBS, “Le leggi sono molto chiare e sono scritte nella Sharia: le donne devono indossare un abbigliamento rispettoso e decente, come gli uomini, […] ma questo non significa specificatamente che devono usare l’abaya nero. Sta alle donne decidere qual è l’abbigliamento decente e rispettoso”. Molte donne ripongono le loro speranze nel principe ereditario, il quale, a dispetto dell’atteggiamento autoritario suggerito dalle misure da lui ordinate più o meno clandestinamente per eliminare avversari e detrattori, fino ad oggi ha dimostrato in diverse occasioni la predisposizione a voler modernizzare e riformare il suo Regno. Sui social è nata quindi una vera e propria protesta. Moltissime donne saudite hanno pubblicato fotografie con l’abaya indossato al contrario, seguito dell’hashtag #insideoutabaya, simbolo della voglia di libertà, ma soprattutto della sicurezza di poter indossare un qualsiasi capo senza essere insultate o picchiate dagli uomini in strada, come è già accaduto in passato.

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MEDIO ORIENTE Uniti, infatti, rappresentano un problema rilevante per l’Iraq, la cui economia dipende in gran parte dalle importazioni da Teheran, che Baghdad spera di poter mantenere. Tuttavia, in caso di infrazione delle restrizioni imposte dagli USA, le ripercussioni sarebbero di ampia portata.

SALIH IN VISITA A TEHERAN

Discussi gli accordi commerciali nonostante le sanzioni

Di Martina Scarnato Sabato 17 novembre il presidente iracheno Barham Salih si è recato per la prima voltainvisitaufficiale in Iran,dove ha incontrato il suo omologo, il presidente Hassan Rouhani.

ISRAELE 16 novembre. Il ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, si è dimesso. Secondo quanto da lui dichiarato, la tregua concessa al movimento islamico palestinese Hamas rappresenterebbe una resa al terrorismo. Il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza, è stato, infatti, raggiunto grazie alle attività di mediazione operate da Egitto e Nazioni Unite. Hamas ha accolto le dimissioni di Lieberman definendole come un “traguardo politico”. YEMEN 17 novembre. L’inviato dell’ONU per lo Yemen, Martin Griffiths, ha dichiarato che “le parti in guerra nel Paese arabo, il governo e i ribelli Houthi, hanno accettato di partecipare alle negoziazioni di pace in Svezia”. A cura di Anna Nesladek

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Durante l’incontro, i due leader avrebbero discusso principalmente di questioni economiche, soprattutto concernenti il commercio di energia elettrica e il petrolio, sino ad annunciare la creazione in futuro di un’area di libero scambio sul confine tra i due Paesi. Inoltre, si sarebbe parlato di incrementare la cooperazione e favorire gli scambi commerciali, potenziando i collegamenti ferroviari. Il giorno precedente al meeting, Rouhani ha detto di aver intenzione di aumentare il fatturato del commercio tra le due nazioni per arrivare a circa $20 miliardi, superando così gli attuali $12. In una conferenza stampa tenutasi lo stesso giorno, Salih ha affermato di “tenere alla relazione con l’Iran” e che è necessario “trovare un nuovo sistema regionale”, nel quale l’Iran possa rivestire un ruolo di rilievo. Tali dichiarazioni giungono in un momento molto delicato non solo per Teheran, che deve fare i conti con le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, ma anche per Baghdad, che dal

2003 si trova sotto l’indiretta influenza del più potente vicino. Salih ha voluto intraprendere un viaggio istituzionale, cominciato un mese fa, che lo ha visto visitare diversi paesi del Golfo, passando però anche per Teheran: lo scopo del Presidente sarebbe proprio quello di migliorare quanto più possibile le relazioni politiche e commerciali con gli Stati della regione, incluso il vicino Iran. L’Iraq, infatti, ha un’economia strettamente legata a quella iraniana, essendo il secondo mercato di riferimento per lo stesso dopo quello cinese. I principali beni di importazione sono sia prodotti alimentari e agricoli che energia elettrica e gas naturale. Per questo motivo, una settimana fa il presidente iracheno aveva chiesto a Washington di permettere al suo governo di continuare a commerciare con l’Iran nonostante le sanzioni, permesso che però è stato accordato soltanto per un periodo limitato di 45 giorni. La situazione economica irachena è attualmente anche aggravata dal costo della ricostruzione delle infrastrutture nelle città precedentemente occupate dal Daesh, allontanato anche grazie alle milizie iraniane. Alla luce di ciò, è evidente che per Baghdad stringere un’alleanza più solida con il vicino appaia in questo momento storico di fondamentale importanza.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole BOSNIA ED ERZEGOVINA 16 novembre. Un duro scambio di battute si è verificato tra il primo ministro bosniaco, Denis Zvizdic, e la premier serba, Ana Brnabic. Quest’ultima ha affermato che i fatti di Srebrenica non sarebbero da considerarsi come un “genocidio”. La risposta di Zvizdic è stata chiara: “non è possibile costruire una moderna e prospera Serbia senza confrontarsi con il passato”. Egli ha, inoltre, sottolineato che la CIG si è già pronunciata per l’esistenza del genocidio. 20 novembre. I tre membri della Presidenza hanno prestato giuramento nel rispetto della Costituzione. Nei discorsi di apertura hanno, inoltre, sottolineato la condivisa volontà nel procedere verso l’integrazione europea e l’ammissione nella NATO. Inoltre, anche il rappresentante della comunità serba, Milorad Dodik, ha sottolineato il desiderio di ingresso nell’UE, ma, allo stesso tempo, mantenendo legami con la Russia. BULGARIA 18 novembre. Per le strade di diverse città bulgare, centinaia di persone, a piedi e in auto, hanno bloccatoiltraffico, manifestando. Motivi della protesta sarebbero stati il rincaro dei prezzi, in particolare quello della benzina, i bassi standard di vita e le richieste di dimissioni del governo.

MACEDONIA 19 novembre. Una folla radunata davanti al Parlamento di Skopje

ARRESTATO PER MOTIVI POLITICI

La CEDU si pronuncia sugli arresti subiti da Navalny

Di Davide Bonapersona Nel corso degli ultimi anni, Alexei Navalny, avvocato e attivista critico del Presidente Putin, nonché leader dell’opposizione russa, ha subito vari arresti ed è stato detenuto per un totale di 172 giorni per aver organizzato o partecipato a manifestazioni politiche non autorizzate e, nel 2013, anche per corruzione. Il dissidente russo si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per denunciare 7 arresti subiti tra il 2012 e il 2014, che a suo parere sono avvenuti per motivi politici. La Corte di Strasburgo si è pronunciata sulla questione il 15 novembre, accogliendo il ricorso di Navalny e riconoscendo illegittimi, in quanto avvenuti in violazione dell’art. 18 CEDU, gli arresti da lui subiti. La Corte ha più precisamente definito due arresti come “finalizzati a sopprimere il pluralismo politico” e gli altri cinque come “non necessari in una società democratica”. Per queste ragioni, la Corte ha condannato la Russia a versare oltre 63.000 € a Navalny, a titolo di risarcimento dei danni morali subiti. Va comunque ricordato che, nell’attesa di questa decisione Navalny ha subito altri arresti - 4 solamente nel 2018 - e, a causa di una condanna

per corruzione, non ha avuto la possibilità di partecipare alle ultime elezioni presidenziali. Tuttavia il ricorrente, che era presente in aula al momento della lettura del verdetto, ha esultato per la vittoria sui social e ha successivamente dichiarato “la Corte Europea ha riconosciuto che si è trattato di arresti e persecuzioni a fini politici. Questo è un giorno importante non solo per me, ma per tutte le persone che ogni giorno subiscono arresti per motivi politici in Russia”. Dato che la Russia nel 1998 ha ratificato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed è membro del Consiglio d’Europa, le sentenze della Corte di Strasburgo sono vincolanti per il Paese. Tuttavia, c’è chi dubita della pronta esecuzione della sentenza da parte della Russia. Infatti, in passato il Cremlino ha più volte temporeggiato nell’adempiere alle sentenze della Corte, definendole un’ingerenza nella sua sovranità giuridica. Inoltre, nel 2015, la Duma (il Parlamento russo) ha approvato una legge che consente alla Corte Costituzionale di cassare le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ciò nonostante, il Ministro della Giustizia ha fatto sapere che la Russia procederà al pagamento del risarcimento entro i termini stabiliti.

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RUSSIA E BALCANI ha richiesto le dimissioni del governo, lo scioglimento immediato del Parlamento ed elezioni anticipate. Alla base delle proteste, vi sarebbe la criticata procedura avviata dal governo macedone per il cambio del nome della Repubblica, in seguito all’accordo raggiunto con la Grecia. RUSSIA 15 novembre. La Corte EDU ha condannato la Federazione Russa al risarcimento di una somma di 63 mila euro ad Aleksej Navalnyj, leader del Partito del Progresso. L’attivista era stato arrestato più volte tra il 2012 e il 2014, negandogli la candidatura alle presidenziali dello scorso marzo. La Corte ha riconosciuto la violazione dell’articolo 18 della CEDU da parte del governo russo, accusato di “arresti per ragioni politiche”. Il Ministero della Giustizia russo ha affermato la volontà di procedere al pagamento.

UCRAINA 18 novembre. Una manifestazione transgender, tenutasi a Kiev, è stata bloccata dal lancio di fumogeni da parte di estremisti di destra. Sembrerebbe che anche le forze dell’ordine siano intervenute, spostando di forza i manifestanti all’ingresso della metro. Kateryna Zelenko, portavoce del Ministero degli Affari Esteri, ha affermato che “qualsiasi manifestazione di intolleranza e violenza è considerata inaccettabile”. A cura di Amedeo Amoretti 10 • MSOI the Post

LA FUGA DELL’EX PRIMO MINISTRO MACEDONE

Nikola Gruevski ha chiesto asilo politico in Ungheria

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia Il 9 novembre alla prigione di Shuto Orizari era atteso l’ex primo ministro della Macedonia Nikola Gruevski, il quale avrebbe dovuto iniziare a scontare una pena di 2 anni di carcere. Gruevski non si è presentato, facendo perdere le sue tracce. Gruevski è stato Primo Ministro macedone dal 2006 al 2016 e capo del Partito Democratico per l’unità nazionale (VmroDpmne), il più importante partito di centrodestra del Paese. Nel 2016 ha dovuto dare le dimissioni a causa di una crisi politica che ha visto come protagonisti lui e il suo partito. A maggio è giunta la condanna per aver convinto, nel 2012, il ministro dell’Interno, Jankulovska, ad acquistare per suo uso personale un’auto con 600.000€ di fondi statali. Il 9 novembre, Gruevski ha perso in appello. Dopo diversi giorni di ricerca, Gruevski ha fatto sapere di trovarsi a Budapest per chiedere asilo politico al presidente ungherese Orbán. Un dirigente di Fidesz, il partito di Orban, ha motivato l’accoglienza di Gruevski dichiarando che è stato minacciato di morte dall’attuale governo macedone. Orbán si è trovato costretto a prendere una decisione complicata: se avesse accettato la richiesta d’asilo, avrebbe potuto incrinare

ulteriormente i rapporti con l’Unione Europea; se non lo avesse accolto, però, avrebbe perso un importante alleato politico. Il 20 novembre l’Ungheria ha accettato la richiesta di Gruevski. Una questione che rimane ancora aperta è come il fuggitivo abbia raggiunto l’Ungheria. Secondo la polizia albanese Gruevski ha attraversato il confine tra Albania e Montenegro a bordo di un’auto dell’ambasciata ungherese. Ma l’Ungheria dichiara di non averlo aiutato a scappare. Sono in corso delle indagini per capire se l’ex Primo Ministro avesse dei complici. Questa vicenda s’inserisce in una situazione già complessa per il Paese balcanico. Il 19 ottobre, il Parlamento di Skopje ha approvato la mozione per avviare l’iter parlamentare per la riforma della Costituzione volta a modificare il nome del Paese: Repubblica della Macedonia del Nord, in accordo con quanto previsto dall’accordo Prespa, siglato il 17 giugno dal premier macedone Zaev e da quello greco Tsipras. Per aprire la procedura era necessario un voto favorevole dei dueterzi dei deputati, soglia raggiunta grazie al sostegno di 8 parlamentari dell’opposizone. Quella del 19 ottobre è stata considerata una giornata storica: la Macedonia ha fatto un passo verso l’integrazione europea e atlantica.


ASIA E OCEANIA 7 Giorni in 300 Parole

APEC PAPUA NUOVA GUINEA 2018

Lo stallo di posizione tra le grandi potenze paralizza l’incontro

Di Alessandro Fornaroli

MALDIVE 17 novembre. Ibrahim Mohamed eSolih ha assunto ufficialment l’incarico di Presidente delle Maldive. Durante il suo giuramento, avvenuto di fronte a 12 mila persone, il nuovo leader si è impegnato a porre fine alla corruzione e ad indagare sulle presunte violazioni dei diritti umani commesse dall’ex presidente, Abdullah Yameen. 19 novembre. Il nuovo governo guidato da Ibrahim Mohamed Solih ha affermato di voler abbandonare il Free Trade Agreement (FTA) firmato, con Pechino, lo scorso dicembre, dall’ex presidente Abdullah Yameen. Mohamed Nasheed, consigliere di Solih, ha dichiarato che il Parlamento non avrebbe comunque approvato le modifiche di legge richieste per l’entrata in vigore dell’accordo sostenendo, inoltre, che “lo squilibrio commerciale tra la Cina e le Maldive è così grande che nessuno potrebbe pensare ad un accordo di libero scambio tra le due parti”. MALESIA 21 novembre. Il primo ministro pakistano, Imran Khan, è stato accolto in Malesia da Mahathir Mohamad. I due leader hanno dichiarato congiuntamente di voler intensificare la loro cooperazione in materia di

Sabato 17 e domenica 18 novembre si è svolto a Port Moresby il congresso dell’Asia Pacific Economic Cooperation (APEC). È la prima volta che la Papua Nuova Guinea ospita tale evento, mostrandosi aperta a collaborazioni economiche su più fronti. A tal proposito l’Australia, che storicamente cura gli interessi dei Paesi affacciati sul Pacifico, ha coperto un terzo dei costi destinati all’aspetto logistico e alla sicurezza. Quanto agli assenti, significative sono state le mancate partecipazioni del presidente americano Trump e del corrispettivo russo Vladimir Putin. Gli attriti persistenti tra gli USA e la Cina, inoltre, hanno impedito di trarre conclusioni significative in termini di manovre economiche. Il vice presidente statunitense Mike Pence, rimarcando la linea del suo governo, ha ribadito come non saranno rimosse le tariffe fino a che la Cina non cambierà la sua politica. L’Alto Funzionario ha inoltre esortato gli altri presenti a non partecipare al Belt and Road Program, voluto dal governo di Beijing all’inizio del 2013, sostenendo come la manovra sia uno strumento per compromettere la loro sovranità, incastrandoli in una “trappola del debito”.

Il presidente cinese Xi, nel suo discorso antecedente l’intervento americano, ha sottolineato come il progetto mira solamente a migliorare il collegamento terrestre delle infrastrutture, insistendo sul fatto che “non esclude nessuno. Non creerebbe un club esclusivo chiuso ai non facenti parte, non rappresentando nemmeno una trappola come viene dipinta da altri”. Il primo ministro australiano Scott Morrison ha mostrato la sua vicinanza agli Stati Uniti e al Giappone attraverso una partnership congiunta, mirata ad aiutare i Paesi nella regione a costruire infrastrutture alternative all’iniziativa varata dalla Repubblica Popolare. Insieme agli USA, inoltre, l’Australia finanzierà la PNG, punto d’approdo dei marines nel secondo conflitto bellico, nella costruzione di una base per la marina militare. Il meeting, in conclusione, ha messo in risalto la spaccatura esistente, e paralizzante, tra i membri APEC, rivelata da determinati appelli a favore di cambiamenti radicali del sistema commerciale da un lato, e richieste di ritorno a uno status quo della globalizzazione dall’altro. Per un’evoluzione della situazione si attende comunque l’incontro tra Trump e Xi che avrà sede questo mese nel G20 argentino. MSOI the Post • 11


ASIA E OCEANIA anticorruzione e turismo, accogliendo favorevolmente l’istituzione della consultazione bilaterale tra i due Paesi. Quest’ultima si terrà per la prima volta nella capitale pakistana Islamabad il prossimo anno. Inoltre, è stato riaffermato il Malaysia-Pakistan Closer Economic Partnership Agreement (MPCEPA), siglato l’8 novembre del 2007. SINGAPORE 20 novembre. Si è tenuta a Singapore la dodicesima riunione del Consiglio di cooperazione SingaporeJiangsu, finalizzata ad approfondire il partenariato economico e a promuovere l’iniziativa Belt and Road (BRI). Inoltre, sono stati firmati 13 memorandum d’intesa relativi al commercio, alla logistica e ai servizi finanziari. 21 novembre. Il ministro dell’Ambiente e delle Risorse Idriche di Singapore Masagos Zulkifli e Sigrid Kaag, ministro olandese per il Commercio Estero e la Cooperazione allo Sviluppo, hanno firmato, al Prodock di Amsterdam, un accordo per rafforzare le attività congiunte in materia di gestione ambientale e idrica. L’intesa mira a facilitare lo scambio di conoscenze e competenze nel settore della gestione delle risorse idriche e a sostenere gli sforzi dell’industria per lo sviluppo di tecnologie e capacità nella produzione di acqua. A cura di Francesca Galletto

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ASIA BIBI: LA FINE DI UN CALVARIO?

Condannata a morte per blasfemia e assolta dalla legge, ma non dalla comunità

Di Virginia Orsili Dopo 8 anni passati in isolamento, lo scorso 31 ottobre la Corte Suprema pakistana ha annullato la sentenza che condannava Asia Bibi, una donna cristiana accusata di blasfemia contro l’Islam, alla pena di morte. La donna resta sotto protezione del governo a causa delle minacce mosse dalla comunità musulmana, che si estendono anche alla sua famiglia, al suo avvocato, e ai membri della Corte Suprema che hanno deciso la sua assoluzione. L’accusa ha subito presentato due istanze, una per mettere alla prova la costituzionalità del verdetto emesso dalla Corte Suprema, un’altra per inserire la donna nella lista dei pakistani che non possono lasciare il Paese. Entrambe hanno scarse possibilità di successo, dal momento che la decisione sembra essere perfettamente compatibile con la Costituzione e perché solamente ai giudicati colpevoli si può impedire di lasciare il Paese. Numerose proteste hanno paralizzato il Pakistan per 3 giorni. Bersaglio privilegiato è la capitale Islamabad, dove si trova la Corte. Il governo di Imran Khan ha scelto di firmare un accordo con il partito di estrema destra Tehreek-eLabbaik Pakistan (TLP) e altri gruppi musulmani radicali che prevede la cessazione delle proteste in cambio della garanzia che Asia Bibi non

lasci il Pakistan fino a un nuovo verdetto. La vicenda risale al 14 giugno del 2009, quando Asia Bibi si trovava nei campi assieme ad altre compagne musulmane. Lì scoppiò una lite durante la quale la donna cristiana avrebbe espresso parole offensive nei confronti del Profeta Maometto. Asia si è sempre dichiarata innocente. Ad oggi, la donna si vede contesa da tutto l’Occidente. Tra i primi Paesi disposti a concedere l’asilo politico ad Asia Bibi e alla sua famiglia, c’è l’Olanda, dove si trova attualmente il suo avvocato Saif-ul-Malook. Dopo Francia, Italia e Germania, è il primo ministro canadese Justin Trudeau a farsi avanti. Tra gli assenti degni di nota c’è il Regno Unito, che tenta in questo modo di evitare mobilitazioni di gruppi musulmani estremisti. Il caso punta nuovamente i riflettori sulla controversa legge di blasfemia, di sovente utilizzata come strumento di persecuzione della minoranza cristiana. Secondo The Economist, dal 1990 sarebbero 62 le persone uccise con l’accusa di blasfemia, di cui 40 ufficialmente condannate a morte. Le richieste di riformare la legge sulla blasfemia hanno portato nel 2011 all’assassinio, da parte della sua stessa guardia del corpo, di Salman Taseer, il governatore della provincia del Punjab. Anch’egli aveva chiesto la liberazione di Asia Bibi.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

KENYA 19 novembre. Nairobi ha istituito il primo corpo di Guardia costiera della sua storia nazionale. Progettato per contrastare la pesca illegale, aumenterà l’autonomia nazionale nei confronti della Marina statunitense, che continuerà, tuttavia, ad occuparsi della sicurezza marittima e militare delle coste keniote.

21 novembre. Silvia Romano, una volontaria italiana di 23 anni, è stata rapita da un commando di probabile matrice islamista. Il sequestro è avvenuto in seguito all’assalto di un villaggio della contea di Kilifi, dove l’aiuto delle Onlus si è reso necessario a causa delle gravi condizioni di povertà dell’area. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 16 novembre. Almeno 7 peacekeepers ONU e 12 soldati congolesi hanno perso la vita durante uno scontro a fuoco avvenuto con il gruppo islamista Allied Democratic Forces (ADF). I miliziani sarebbero, infatti, particolarmente attivi nel Congo orientale in seguito alla scoperta di un nuovo focolaio di Ebola. Secondo gli osservatori locali il

IL RUSH INIZIALE

I candidati alle presidenziali svelano i loro programmi e la tensione sfiora la violenza per l’assegnazione di blocchi petroliferi, privatizzazione delle raffinerie dello Stato ed emissione di licenze per investire in nuove raffinerie.

Di Federica De Lollis Ad Abuja l’atmosfera è già incandescente, nonostante manchino circa tre mesi alle prossime elezioni presidenziali. Tra domenica e lunedì i due candidati maggiormente accreditati, l’attuale presidente Muhammadu Buhari, del gruppo All Progressives Congress (APC), e Atiku Abubakar, del Peoples Democratic Party (PDP), hanno rivelato i punti dei rispettivi programmi. Il primo mira all’elaborazione di un piano anticorruzione, sulla scia di quanto fatto nel mandato che sta per concludersi, ma i suoi rivali non si sono dispensati dall’insinuare che la strenua lotta alla corruzione celi l’obiettivo di affossare i suoi rivali. Il secondo punta invece alla crescita economica del Paese, al centro di accese critiche nei confronti dell’attuale Presidente, accusato di dedicarvi scarsa attenzione. Il programma economico del principale candidato di opposizione, nonché la sua intera campagna elettorale, sembrano ruotare intorno al petrolio. Infatti, dedicati all’oro nero sono 3: indizione di gare d’appalto

La nota dolente del programma di Abubakar è che se questo venisse attuato, l’economia della Nigeria resterebbe ancorata alla produzione e vendita di petrolio, che continua a costituire la prima fonte di ricchezza del Paese, nonostante le ormai numerose promesse inadempiute sulla diversificazione economica. E proprio alla diversificazione sembra ambire Buhari, che propone la creazione di nuovi posti di lavoro non legati alle raffinerie, facilitazioni nell’accesso al credito per imprenditori e artigiani ed investimenti nell’istruzione, che includono la messa a norma degli edifici scolastici e la fissazione di programmi di insegnamento specificamente incentrati sulle scienze, sulla matematica e sulla tecnologia. Non si hanno tuttavia notizie circa le coperture per la realizzazione del programma del Presidente. Il governo, infine, sta affrontando una vicenda che potrebbe minare la rielezione del suo attuale vertice. Domenica 12 novembre, l’avversario di Buhari è stato fermato all’aeroporto di Abuja, dove gli sono stati confiscati alcuni documenti del programma elettorale. Sebbene la campagna sia appena iniziata, è evidente che i due politici saranno i veri protagonisti della campagna, a dispetto delle 78 candidature presentate. MSOI the Post • 13


AFRICA gruppo ostacolerebbe il lavoro delle squadre di soccorso.

LE LEGGI COLONIALI MINACCIANO ANCORA MILIONI DI AFRICANI Un sistema di permessi imperialista minaccia la sicurezza alimentare e lo sviluppo

TANZANIA 17 novembre. Il presidente John Magufuli ha smentito le voci sulla revoca di un prestito strutturale da 300 milioni di dollari da parte della Banca Mondiale. Qualora questa ipotesi si realizzasse, una delle possibili cause della mancata erogazione sarebbe da identificare nella presenza di una normativa locale che vieta alle donne in gravidanza e alle neomamme di frequentare gli istituti di formazione. 19 novembre. A seguito dell’incontro con Magufuli, il vicepresidente della Banca Mondiale per l’Africa, Hafez Ghanem, ha dichiarato che “il prestito è stato subordinato alla modifica dell’attuale normativa locale” con lo scopo di agevolare l’educazione femminile. ZIMBABWE 19 novembre. Alcuni medici hanno accusato il corpo di polizia di aver esercitato pressioni in modo che le vittime degli scontri a fuoco, avvenuti con le forze dell’ordine, venissero identificate come “morti per accoltellamento”. I disordini si sono verificati nel corso delle ultime elezioni, le prime a svolgersi senza l’ex presidente Robert Mugabe. A cura di Barbara Polin

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Di Valentina Rizzo L’accesso alle risorse idriche in alcuni Paesi africani è legato ad un sistema di autorizzazioni antiquato e discriminatorio risalente all’era coloniale. Uno studio condotto dall’International Water Management Institute ha esaminato il sistema delle autorizzazioni idriche in Malawi, Kenya, Sud Africa, Uganda e Zimbabwe, che venne instaurato dalle potenze coloniali agli inizi del ‘900, ma che rimane tutt’oggi in vigore. Il sistema prevede che le autorizzazioni siano secondo la legge un provvedimento necessario per rendere lecito l’uso dell’acqua. Il problema è che i contadini o le piccole imprese agricole, che per via delle ridotte dimensioni sono esentati dal dover richiedere il permesso in questione, vengono posti legalmente su un piano diverso rispetto alle grandi aziende, che godono invece delle autorizzazioni statali. Regolarmente, le compagnie ottengono i provvedimenti necessari per fare i propri interessi, senza che sia previsto un qualche strumento per opporvisi. I piccoli proprietari terrieri invece, che formalmente dovrebbero fare richiesta per ottenere un’autorizzazione (perché ad esempio possiedono

diversi ettari), nella realtà non riescono ad ottenerli per via delle proprie ridotte capacità e delle inefficienze delle autorità statali. Fino al 2016, le autorizzazioni in Zimbabwe ammontavano a 10.799, il 90% delle quali risalivano all’epoca coloniale. Coloro che quindi dovrebbero avere un permesso, ma non riescono ad ottenerlo, non possono utilizzare neanche un sistema a piccole pompe per irrigare pochi ettari; secondo la legge, potrebbero essere multati o finire in prigione. Dall’altra parte, coloro che sono esentati dal dover richiedere un permesso non hanno gli strumenti per difendersi da eventuali espropri dell’acqua da parte delle grandi aziende autorizzate. Conseguentemente, l’accesso lecito alle risorse idriche rimane nelle mani di poche grandi aziende agricole o industriali, che possono permettersi le spese per chiedere le autorizzazioni. Questo sistema produce disuguaglianze, emarginando i piccoli produttori e minacciando non solo la possibilità di crescita economica, in Paesi dove il settore agricolo è ancora predominante, ma anche la sicurezza alimentare di queste popolazioni.


AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole

CUBA SI RITIRA DAL PROGRAMMA “MÁS MEDICOS” IN BRASILE

ARGENTINA 19 novembre. L’Argentina vuole competere con Cile e Uruguay nel processo di conversione all’energia rinnovabile. Il governo Macri prosegue, dunque, l’azione del proprio predecessore e, attraverso il programma RenovAr, ha dimostrato di volere aumentare la produzione di energia pulita dal 3 al 20% entro il 2025. Un progetto ambizioso, che sfrutta la geografia locale, dove nel Sud del Paese si avrebbe il vento costante della Patagonia e nel Nord, il sole.

Di Tommaso Ellena

20 novembre. Dilma Rousseff, Cristina Kirchner si sono incontrate a Buenos Aires, prima del G20 sudamericano, alla sua prima edizione e fissato per il prossimo 30 novembre e 1 dicembre. Ai microfoni de EL MUNDO, il senior producer dell’evento, Claudio Albornoz, ha commentato: “si vogliono cogliere le diverse visioni a proposito di lotta per l’eguaglianza, la giustizia sociale e la democrazia, in un mondo complicato come quello che stiamo vivendo.”

Il neo presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha spiegato attraverso Twitter il motivo del rifiuto cubano a proseguire il programma: “abbiamo chiesto che per proseguire il programma Más Médicos venissero attuati del test di capacità, un salario completamente a disposizione dei professionisti cubani, mentre oggi la maggior parte dei fondi sono destinati alla dittatura, e la libertà di portare in Brasile le famiglie dei medici. Sfortunatamente, Cuba non ha accettato”. Già in campagna elettorale Bolsonaro si era dichiarato contrario alle modalità di gestione di tale programma e aveva criticato il fatto che soltanto il 25% del salario venisse percepito direttamente dai medici, mentre il 75% era destinato allo Stato cubano. Si era poi focalizzato sul caso di una dottoressa che lavorava in Brasile ma i cui figli erano rimasti nell’isola caraibica e si era chiesto: “possiamo mantenere relazioni diplomatiche con un Paese che tratta la sua gente in

HAITI 20 novembre. Scontri a Port au Prince e nelle principali città haitiane per manifestare contro la corruzione. Lo scandalo dei fondi Petrocaribe ha travolto, infatti, non solo 14 esponenti del precedente governo, ma ha coin-

La decisione implica il rimpatrio di circa 8000 medici cubani questo modo?”.

Il 14 novembre il ministero della sanità pubblica cubana ha annunciato la decisione di sospendere il programma Más Médicos in Brasile. Ciò implica il ritiro di più di 8.000 medici che hanno lavorato in Brasile dall’agosto del 2013, anno in cui è stato lanciato il programma.

Come conseguenza dell’abbandono cubano del programma, circa 610 città brasiliane rischiano di restare senza medici nei prossimi mesi. Il presidente del Consiglio Nazionale delle Segreterie Municipali della Salute (Conasems), Mauro Junqueira, ha dichiarato che il Paese difficilmente riuscirà a sostituire con personale locale tutti gli 8332 medici cubani che abbandoneranno il Brasile. Junqueira ha poi spiegato come i medici cubani siano stati gli unici ad aver accettato di lavorare nelle città più povere ed isolate del Paese, mentre i medici brasiliani preferiscono cercare lavoro nelle grandi città. Anche per Cuba questo strappo avrà delle conseguenze negative: con la fine dell’accordo, iniziato nel 2013 durante il governo della presidente Dilma Rousseff, il Paese subirà la perdita di 332 milioni di dollari all’anno, più di quanto guadagna annualmente l’isola dall’esportazione di tabacco. Secondo l’economista cubano Mauricio Parrondo, per coprire il vuoto lasciato dai ricavi legati al programma Más Médicos il turismo cubano dovrebbe crescere del 10%, un obiettivo difficilmente raggiungibile. Cuba dovrà quindi cercare nuove fonti di entrata per compensare questa dura perdita e per ovviare alla crisi che perdura da vari anni e che colpisce settori cardine per l’economia cubana come quelli legati alla produzione di zucchero e di nickel. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA volto anche quello attuale. Richieste, dunque, con forza le dimissioni del presidente Jovenel Moise, accusato di non aver identificato i responsabili. Durante le manifestazioni sono morte almeno 10 persone. MESSICO 21 novembre. Una rappresentanza di giornalisti messicani ha chiesto aiuto, presso il Parlamento europeo, nella lotta alla difesa della libertà di stampa, denunciando lo stato critico in cui vivono e lavorano. Intimidazioni e agguati sarebbero, infatti, costanti e testimoniati da alcuni corrispondenti arrivati in Europa insieme a gruppi che si occupano di diritti umani. Leopoldo Maldonado, vicedirettore regionale di Artículo 19, ha dichiarato: “La stampa ha davanti due possibilità, che appartengono alla logica del sicariato: la plata o el plomo”.

VENEZUELA 19 novembre. Gli Stati Uniti stanno discutendo sulla possibilità di includere il Venezuela tra gli Stati sponsor del terrorismo, vista l’escalation di violenza nel Paese sudamericano. Il senatore repubblicano, Marco Rubio, in un’intervista al The Washington Post, avrebbe sostenuto che ci sarebbero legami con Hezbollah, con le Forza Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), con l’Ejercito de Liberación Nacional (ELN) e altri gruppi terroristici. A cura di Natalie Sclippa 16 • MSOI the Post

L’EX PRESIDENTE GARCIA CHIEDE ASILO DIPLOMATICO IN URUGUAY Le inchieste sulla Odebrecht continuano a travolgere la classe politica peruviana

Di Elisa Zamuner L’operazione Lava Jato, iniziata nel 2014 in Brasile dalla polizia federale, ha portato alla luce uno dei più grossi casi di corruzione all’interno di tutta l’America Latina; in particolare, le indagini sulla società edile brasiliana Odebrecht hanno rivelato una vastissima rete di contatti e tangenti, travolgendo alcune delle più importanti cariche dei vari Stati del Sud America. Tra i Paesi più colpiti dallo scandalo della Odebrecht c’è sicuramente il Perù; la società ha infatti ammesso di aver interagito in modo illecito con i vari governi peruviani che si sono succeduti tra il 2005 ed il 2014, arrivando a pagare circa 29 milioni di tangenti in cambio di contratti e appalti; gli ex presidenti Pedro Pablo Kuczynski, Alejandro Toledo e Ollanta Humala sono stati tutti e tre indagati e gli ultimi due condannati a pene detentive. Anche Alan García Pérez, presidente del Perù per due mandati (1985-1990, 20062011), è finito sotto processo per presunta corruzione; è infatti accusato di aver ricevuto dei pagamenti illeciti per affidare alla Odebrecht la realizzazione di un’importantelineametropolitana a Lima. García ha fermamente negato l’accusa, dichiarandosi

innocente e sostenendo che le indagini contro di lui siano di mera natura politica. “Le indagini devono essere fatte senza odio e senza umiliazioni” ha scritto l’ex Presidente su Twitter. Sabato 17 dicembre un tribunale peruviano ha emesso un’ordinanza con la quale ha vietato a García di lasciare il Perù per i prossimi 18 mesi, proprio per consentire un corretto svolgimento delle indagini. La stessa sera, questi si è recato presso la residenza dell’ambasciatore uruguaiano a Lima per richiedere asilo diplomatico in Uruguay. La vicenda ha provocato diverse reazioni; il partito Peruanos Por el Kambio (PPK) ha duramente criticato il comportamento di García: “In Perù non esiste la persecuzione politica; esiste una crociata contro la corruzione”. Con una nota diplomatica consegnata al governo dell’Uruguay, il viceministro peruviano degli Esteri Hugo de Zela ha ribadito che in Perù “prevalgono la democrazia, lo Stato di diritto e la separazione dei poteri” e che “il Pubblico Ministero e la magistratura hanno piena autonomia e indipendenza per l’esercizio delle loro funzioni”.


ECONOMIA LA BCE CONSIDERA LA FINE DEL QUANTITATIVE EASING La cessazione del QE prevista per dicembre potrebbe avere significative ripercussioni sull’acquisto dei titoli di Stato europei

Di Vittoria Beatrice Giovine La decisione di porre un termine alla politica monetaria espansiva, adottata nel marzo 2015, sembrerebbe esser stata nuovamente messa in discussione da parte della Banca Centrale Europea. Se, dalla sua data d’avvio sino al settembre scorso, il Quantitative Easing (QE) ha portato la BCE a impegnare tra i 30 e i 60 miliardi di euro mensili nell’acquisto di titoli di Stato e asset finanziari, è anche vero che, secondo i piani originari, la fine del QE dovrebbe sopraggiungere per dicembre 2018. Attraverso un sistema di ‘smantellamento progressivo’, la somma spesa dalla BCE dovrebbe essere ridotta a 15 miliardi mensili a partire da ottobre, per poi essere del tutto azzerata entro gennaio 2019. A giugno, il presidente della BCE Mario Draghi aveva annunciato che, anche dopo la fine del QE, l’azione della Banca Centrale sarebbe proseguita tramite la sostituzione dei titoli giunti a scadenza con altre obbligazioni di pari importo. La rimozione del QE era stata approvata dal board all’unanimità a seguito di un’accurata valutazione dei progressi fatti, la cui conclusione aveva portato a definire ‘sostanziale’ l’aggiu-

stamento dell’inflazione attorno all’obiettivo del 2%. Infatti, le stime riguardanti l’inflazione dell’Eurozona erano state interpretate al rialzo per il triennio 2018-2020 e le previsioni avevano confermato una crescita costante dell’1,7%. La BCE si era, quindi, dichiarata pronta a “rivedere i propri strumenti di politica monetaria” e a concludere il QE per dicembre, pur mantenendo i programmi di acquisto dei titoli in caso di necessità. Nel corso degli ultimi mesi, il consiglio direttivo sembrerebbe aver avuto un ripensamento sia in merito al termine del QE sia alla tabella di marcia per il rialzo dei tassi di interesse, quest’ultimi attesi invariati fino all’estate 2019. Lo scorso 16 novembre, durante il suo intervento a Francoforte, Draghi ha dichiarato che “l’inflazione di base dell’Eurozona continua a oscillare intorno all’1% e deve ancora mostrare una tendenza al rialzo convincente”, evidenziando come una simile situazione potrebbe avere ripercussioni sul Quantitative Easing. Restano, dunque, da considerare le previsioni macro di fine anno per determinare quale sia la migliore linea d’azione da

intraprendere. In ogni caso, la politica monetaria rimane strettamente legata ai dati e un eventuale calo della liquidità o un peggioramento dell’andamento dell’inflazione potrebbero determinare “un aggiustamento del percorso previsto per l’aumento dei tassi”. All’interno dell’Eurozona, in Germania il PIL è diminuito dello 0,2% per via del crollo della produzione automobilistica; la Francia rischia la recessione in assenza di un miglioramento del quadro esterno, nonostante il suo PIL sia aumentato dello 0,4% nel terzo trimestre; nel caso italiano, invece, lo spread BTP-Bund ha superato i 300 punti base per la scadenza a 10 anni e le tensioni finanziarie minacciano di aggravare la precaria situazione dell’economia. Inoltre, l’appetibilità dei titoli di Stato italiani si è notevolmente ridotta e si teme che la decisione della BCE di porre fine al QE, sommata ai segnali di sfiducia dei mercati e agli allarmi delle agenzie di rating, possa dar luogo a una nuova ‘tempesta finanziaria’ sull’Italia. L’unica certezza, per il momento, rimane il fatto che, cessato il QE, l’Italia si troverebbe ad affrontare da sola gli investitori internazionali per le aste in cui vengono collocati i titoli. MSOI the Post • 17


ECONOMIA SUICIDIO EUROPEO

L’UE boccia la manovra e sanziona l’Italia

Di Michelangelo Inverso Tanto tuonò che piovve. Il 21 novembre la Commissione Europea ha bocciato la ‘manovra del popolo’. Decisione ampiamente prevista da tutti i commentatori politici, ma non per questo meno straordinaria. Innanzitutto, bisogna capire perché tutti i commentatori avevano ampiamente previsto la bocciatura e poi occorre chiarire gli effetti economici ed extraeconomici di questa bocciatura. La Commissione ha giustificato l’applicazione della misura, per la prima volta nella storia dell’UE, in ragione di “una deviazione particolarmente grave dagli impegni presi dal governo precedente”, a cui invece era stata concessa flessibilità sui numeri di deficit e debito. Perché, dunque, in questo caso no? Si è scelto di aprire una procedura, molto lunga e incerta, contro un Paese membro e fondatore, perché le misure contenute nella manovra italiana non garantirebbero una traiettoria di riduzione del debito. Questo perché, secondo gli economisti della Commissione, tali misure i sarebbero inefficac per la crescita. Ma questa è un’opinione economicamente poco fondata, poiché anche i consumi e non solo gli investimenti o il taglio delle tasse fanno crescere il PIL. 18 • MSOI the Post

Anche il celebre economista Fitoussi intervistato a La Verità si è duramente scagliato contro questa valutazione: “Per me la Commissione farebbe meglio a stare zitta. Se rimpiange o se non le piace il risultato elettorale in Italia, dovrebbe riflettere sul fatto che quel risultato è stato anche dovuto al fatto che le politiche europee di austerità e di sacrificio sono state sbagliate”. Si tratta, dunque, di una decisione prettamente politica e non tecnica ed è tanto più palese quanto più questa era attesa da tutti i commentatori politici e probabilmente da tutti gli operatori economici. Si era già detto nei mesi passati, anche da questa stessa rivista, che l’attuale dirigenza europea avrebbe molto probabilmente scelto lo scontro con l’Italia al fine di colpire il Paese europeo in cui più si incarnano i timori delle derive nazionaliste e/o populiste. Un modo per dare un segnale di forza a tutti gli altri Membri UE, come è accaduto all’Ungheria di Orban. Si apre così una procedura di infrazione per debito eccessivo, un processo dall’iter lungo. In primo luogo, perché ogni decisione dovrà essere convalidata all’Ecofin e, poi, ogni accordo politico potrebbe farla rientrare. Se si arrivasse in fondo a questo

processo, potrebbero attivarsi diverse sanzioni economiche per Roma, tra cui una multa pari allo 0,2% del PIL italiano, il blocco dei fondi strutturali trasferiti dall’UE (74 miliardi di euro) e lo stop ai prestiti della Banca Europea degli Investimenti. Questa decisione ‘politica’ della Commissione, che di fatto si arrocca dietro al solo rispetto formale delle regole, pone le basi definitive per uno scontro durissimo alle prossime elezioni europee, di cui il tema, a questo punto, non sarà più semplicemente una riforma delle regole comuni, ma anche della matrice politica che guida le scelte profonde della UE. Inoltre, quella della procedura d’infrazione è un’arma spuntata, perché avrà un iter molto lento e le sanzioni sono del tutto ipotetiche, specialmente se, come probabile, le forze politiche pro-establishment verranno annichilite a maggio. A quel punto, con una nuova Commissione e un nuovo Parlamento, a spuntarla potrebbe proprio essere l’Italia, mentre a perdere sarebbe tutto il fronte dei pro-austerity e quasi sicuramente il fronte filo-europeo che ha cercato lo scontro. Un vero e proprio ‘suicidio europeo’.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO YEMEN: LA GUERRA DIMENTICATA

Un grido di speranza: gli Houthi sospendono gli attacchi contro la coalizione Araba

Di Debora Cavallo Lo sguardo assente di Amal Hussain ha rotto il muro di silenzio sulla guerra civile in Yemen. Il suo corpo e il suo volto scarno a causa di malnutrizione e stenti sono diventati il simbolo di una crisi umanitaria gravissima e dimenticata dal mondo. La propria morte, una settimana dopo la pubblicazione dell’articolo che l’aveva esposta allo sguardo internazionale, ha dimostrato con grande nitidezza che commuoversi non basta. Da quasi 3 anni nello Yemen si combatte una guerra tra la minoranza sciita Houthi e il governo (Hadi) che rappresenta l’ala sunnita, vicino all’Arabia saudita. In Yemen, in queste ultime settimane è in corso una violentissima battaglia per la conquista della città portuale di Hodeidah. Il porto è una delle poche vie d’accesso per gli aiuti umanitari che alleviano le sofferenze di una popolazione costretta alla fame, dall’embargo della coalizione a guida saudita. Hodeidah, infatti, si trova sotto il controllo dei ribelli Houthi dal 2014. La coalizione guidata dall’Arabia Saudita ha iniziato diversi giorni fa una nuova offensiva contro i ribelli a Hodeidah, con operazioni via terra e con numerosi attacchi aerei. Dall’inizio di novembre, gli scontri in città hanno provo-

cato l’uccisione di almeno 600 persone. Nelle ultime 48 ore i morti sono più di 150, inclusi i civili. Secondo l’ONU ci sono 14 milioni di persone in condizioni di carestia, di questi, 2 milioni sono bambini. L’aviazione saudita e quella dei suoi alleati dovrebbero interrompere immediatamente i bombardamenti a strutture ospedaliere, mercati e centri abitati e rispettare le norme internazionali, già troppe volte ignorate. Norme ben precise all’interno del diritto internazionale. Nello specifico, si applica l’art. 48 del I Protocollo aggiuntivo alla Quarta Convenzione di Ginevra “I civili e la popolazione civile”. L’art. 48 è considerato una regola fondamentale, l’architrave della logica del sistema di protezione. Ovvero,“Ha lo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le parti in conflitto dovranno fare in ogni momento distinzione tra la popolazione civile e i combattenti nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari. E di conseguenza dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari”. Se lo scopo dichiarato è di rispettare e proteggere la popolazione civile e i beni di carattere civile, allora, l’obbligo è distinguere la popolazione civile dai combattenti e, ancora, i beni civili

dagli obiettivi militari. L’UNICEF ricorda che “in oltre 3 anni di conflitto almeno 6.000 bambini sono stati uccisi o gravemente feriti dai combattimenti” e che “oltre 11 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere”. Secondo dati forniti nel febbraio 2018 dall’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, dal marzo 2015 ad oggi in Yemen sono stati uccisi almeno 5.974 civili e ne sono stati feriti otre 9.000. A peggiorare un quadro già drammatico c’è il fatto che il Paese sia afflitto da una gravissima epidemia di colera che, nel 30% dei casi, riguarda bambini di età inferiore ai 5 anni e versi sull’orlo di una drammatica carestia. Il risultato è che attualmente 8 milioni di yemeniti rischiano di morire di fame e due milioni di bambini sono gravemente malnutriti, tanto che alcuni di essi hanno a stento la forza di respirare. Si adombra nelle ultime ore un barlume di speranza: arriva dall’annuncio di Mohammed Ali Al Houthi, alla guida del Comitato Rivoluzionario Supremo degli Houthi. Gli attacchi missilistici e l’utilizzo dei droni contro l’Arabia Saudita sembra verranno sospesi, così come quelli contro gli Emirati Arabi Uniti. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA CEDU CONDANNA LA RUSSIA PER LA VIOLAZIONE DEI DIRITTI DEL DISSIDENTE POLITICO NAVALNY

Con la decisione del 15 novembre, la Corte EDU dichiara che i numerosi arresti di Navalny hanno violato i suoi diritti e sono stati dettati da ragioni politiche

Di Federica Sanna La Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso la propria sentenza nel caso Navalny v. Russia sancendo all’unanimità la violazione dei diritti dell’oppositore politico di Putin, Aleksey Navalny, arrestato sette volte negli anni tra il 2012 e il 2014 per ragioni di tipo politico. Il cittadino russo è un avvocato, blogger, leader della campagna anti-corruzione e attivista politico, a capo del partito di opposizione russo, il Partito del Progresso. I suoi numerosi arresti sono stati generalmente dovuti all’aver organizzato e preso parte a manifestazioni non autorizzate dal governo. Nel 2017, inoltre, Navalny aveva annunciato la sua candidatura alle presidenziali russe, poi bloccata dall’amministrazione russa a causa delle sue vicende giudiziarie. L’attivista ha lamentato davanti alla Corte europea la violazione dei suoi diritti in occasione dei sette arresti, in quanto frutto di una decisione arbitraria e illegale e privi di un giusto processo. La corte EDU, con 20 • MSOI the Post

la sentenza di pochi giorni fa, ha dichiarato la violazione da parte della Russia dell’art. 5.1, l’art. 6.1, l’art. 11 e l’art. 18 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Gli articoli 5 e 6, con i quali la Convenzione sancisce il diritto alla libertà e alla sicurezza e il diritto a un equo processo, sono stati secondo il parere dei giudici violati in diverse occasioni perché il caso di Navalny non è stato esaminato prontamente da un giudice e perché la Corte russa ha in seguito basato la propria decisione unicamente sulla base del racconto degli eventi fornito dalla polizia in occasione dell’arresto. L’art. 11 definisce la libertà di riunione e di associazione. Trattandosi di un diritto fondamentale, questo può essere limitato dalle autorità nazionali solo in caso di misure necessarie alla prevenzione dei reati e dei disordini e alla tutela dei diritti altrui. La Corte europea rileva l’assenza di tali giustificazioni alla restrizione del diritto di associazione, così come la “necessità in una società democratica” delle misure adottate dalle autorità russe. I giudici hanno inoltre invitato il governo di Mosca

a dimostrare “un certo grado di tolleranza nei confronti delle assemblee pacifiche, anche quando queste non sono state autorizzate”. Infine, l’art. 18 CEDU statuisce il limite all’applicazione delle restrizioni ai diritti. La Corte ha verificato come Navalny sia stato arrestato diverse volte: nelle prime occasioni il cittadino aveva avuto un ruolo centrale nelle manifestazioni, mentre negli ultimi episodi è stato arrestato pur detenendo un ruolo marginale nelle proteste in corso. Di conseguenza, è evidente come le autorità abbiano adottato un atteggiamento di sempre maggior severità nei confronti di Navalny. I giudici europei hanno quindi rilevato come l’obiettivo di tale condotta sia da ricercare nell’obiettivo di “sopprimere il pluralismo politico tipico di un regime politico effettivamente democratico”, riferendosi ai principi citati nel preambolo della Convenzione stessa. La Russia è stata quindi condannata dalla Corte a risarcire ad Aleksey Navalny con la somma di 63.000 euro per le azioni in violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.


MSOI the Post • 21


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