MSOI thePost Numero 128

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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EUROPA NESSUNO SCENARIO ESCLUSO PER BREXIT

I piani di emergenza della Commissione europea e del governo britannico

Di Federica Cannata Il voto tanto atteso del Parlamento britannico sull’intesa raggiunta dall’Unione europea e dal Regno Unito il 25 novembre scorso si è infranto nella decisione della premier britannica, Theresa May, di rinviarlo a metà gennaio, al fine di scongiurarne la bocciatura e tentare di strappare alla controparte condizioni migliori per la permanenza dell’UK – durante il periodo di transizione previsto dall’accordo – nel mercato unico e nell’unione doganale. Le speranze di Theresa May sono però state gelate dalle conclusioni del Consiglio europeo del 14 dicembre scorso, che ha stabilito che l’intesa raggiunta “non è aperta a rinegoziazione”. A pesare sul via libera all’accordo dal Parlamento di Westminster sono anche i 117 voti contrari all’operato della May, la quale è stata sottoposta al voto di censura su richiesta di 48 parlamentari dello stesso partito dei Tory, contrari appunto all’intesa raggiunta con l’Ue. Il verificarsi dell’ipotesi di una Brexit senza accordo non è da escludersi. In effetti, in questo clima di in-

certezza sulle modalità con cui si svolgerà il “divorzio”, la Commissione europea ha unilateralmente predisposto il proprio piano di emergenza, che entrerebbe in vigore il 29 marzo solo in caso di “no deal”. Il piano della Commissione consta di 14 misure temporanee volte a limitare i danni nei settori chiave della comunità che necessitano di continuità anche dopo la Brexit; tra questi i trasporti, la finanza, la protezione dei dati, le politiche ambientali. Sotto il profilo finanziario, in effetti, a garanzia della stabilità finanziaria in Europa e per aiutare gli operatori di alcune aree che non riuscirebbero a fronteggiare i rischi a partire dalla data del recesso, la Commissione ha stabilito l’equivalenza dei servizi finanziari britannici a quelli europei, per uno o due anni. Quanto al trasporto aereo, al fine di scongiurare una piena interruzione del traffico aereo tra Ue e UK, l’Unione consente per un anno ai vettori aerei provenienti dal Regno Unito di volare sul territorio Ue, a condizione che il Regno Unito riconosca lo stesso diritto ai vettori aerei europei. In base al programma, la legislazione Ue su importazione ed esportazione delle merci

sarà applicata dopo il recesso, il che implica la sottoposizione delle merci ai controlli e la riscossione dei dazi e delle tasse. Particolare attenzione è stata posta poi sugli articoli ad uso sia civile sia miliare: in effetti, rispetto a questi prodotti, la Commissione inserisce il Regno Unito nella lista dei Paesi verso i quali tali merci sono esportabili. Infine, rispetto ai diritti dei cittadini britannici nel territorio Ue, la Commissione europea invita i Paesi membri ad essere “generosi” , continuando a considerarli legalmente residenti dal 29 marzo. Anche il Regno Unito, dal canto suo, si prepara all’uscita senza accordo, invitando le aziende a prepararsi a questo scenario e fornendo loro informazioni sulle modalità da seguire. Sarebbe stato previsto altresì lo stanziamento di 3500 truppe per aiutare l’esecutivo a fornire ai cittadini i servizi essenziali. Tuttavia, il governo britannico continua ancora a lavorare anche su altri due fronti: l’ uscita con accordo – con la sottoposizione ai Commons del regime di circolazione post periodo di transizione – e sull’ipotesi di un secondo referendum. MSOI the Post • 3


EUROPA UNA SVIZZERA PIU’ EUROPEA Bocciato il Referendum proposto dall’Udc

Di Simone Massarenti Il 25 novembre scorso la Svizzera è tornata alle urne per un nuovo referendum sul primato della Costituzione confederale. L’iniziativa, promossa dal partito sovranista Udc, aveva posto sul tavolo la proposta di un “diritto svizzero anziché giudici stranieri”, rendendo la Costituzione la legge primaria del Paese a discapito dei trattati internazionali. La proposta, vista nel dettaglio, avrebbe reso la Costituzione di rango superiore rispetto ai trattati e, nel caso di contraddizione fra trattati e la suddetta, il Governo avrebbe potuto o rinegoziare l’accordo oppure denunciare il trattato. Fin dal primo momento, però, questa prospettiva ha trovato la ferma opposizione del governo di Berna (del quale fa parte anche l’Udc) dato che, stando alle dichiarazioni dei rappresentanti elvetici, una mossa simile avrebbe rischiato di minare la stabilità dei trattati economici, soprattutto tra Ue e Confederazione, nonché culturali, ambientali, sui diritti umani e di polizia, secondo quelle che sono le Convenzioni di Schengen. 4 • MSOI the Post

Il referendum non ha dunque sortito alcun effetto, dato che, già a metà scrutinio, la percentuale di preferenze per il no all’iniziativa si attestava a oltre il 67%, con i favorevoli alla “svolta sovranista” fermi al 33%. L’intento dell’Udc è però apparso molto chiaro: minare la stabilità dei rapporti con l’UE al fine di influenzare l’andamento dei negoziati fra la stessa UE e la Confederazione Elvetica. Bruxelles ha infatti richiesto a Berna un nuovo quadro di rapporti bilaterali, dopo la ferma opposizione circa l’adesione Svizzera alla UE; il timore dell’Udc è quello di una “mano invisibile” del tribunale arbitrale che imponga regole europee su suolo elvetico. Forte delusione trapela difatti dalle parole degli esponenti del partito, i quali reputano questa scelta un “prostrarsi alle volontà europee”. Tale pensiero e senso di delusione è stato inoltre avvalorato della presidente del Partito Céline Amaudruz, la quale, ai microfoni della tv elvetica, ha definito questo risultato una “enorme sconfitta”. Soddisfazione invece da parte degli altri Partiti di governo, con le parole del ministro della Giustizia elvetico Simonetta Som-

maruga che attestano la stabilità di un sistema di “checks and balances”, evidenziando come “gli elettori non vogliono un sistema rigido che potrebbe creare problemi con i trattati internazionali”. A tali dichiarazioni sono seguite le reazioni delle istituzioni europee che, attraverso un tweet del portavoce del Consiglio d’Europa, Daniel Holtgen, hanno espresso soddisfazione e sollievo, dicendosi “rallegrati dal risultato del referendum in Svizzera”. La Confederazione Elvetica, attraverso tale decisione, ha “onorato gli impegni e gli obblighi derivanti dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani”, mettendo in primo piano il rispetto per le Sentenze di Strasburgo. La Svizzera si dimostra ancora una volta un fondamentale partner nei rapporti bilaterali con l’Europa, nonché un alleato valido nella difesa dei valori fondamentali del Continente. D’altro canto, la maggioranza della popolazione elvetica ha dimostrato come l’Europa e i suoi principi fondamentali siano ancora oggi un cardine importante nella costruzione della società del futuro.


NORD AMERICA NUOVE TENSIONI TRA CANADA E CINA Il caso Huawei, fonte dell’attuale crisi diplomatica

Di Erica Ambroggio In occasione della consueta conferenza stampa di fine anno, svoltasi a Ottawa lo scorso 19 dicembre, il primo ministro Justin Trudeau ha guidato i cittadini canadesi tra gli eventi che hanno recentemente condotto il Paese al centro della scena politica internazionale, fornendo una chiara panoramica del turbolento e vivace anno trascorso. Il premier canadese si è, così, espresso su alcune cruciali tematiche del momento, rendendo protagoniste del proprio discorso le lotte politiche interne, le crisi diplomatiche e le nuove guerre commerciali. Passati in rassegna i traguardi raggiunti dal proprio governo, si sono, successivamente, resi inevitabili i riferimenti ai fatti più controversi dell’anno. In risposta alle domande dei giornalisti presenti, Justin Trudeau ha, infatti, commentato alcuni episodi cruciali della politica interna e interazionale. In particolare, ha preso atto del grande, quanto prevedibile, clamore generato dall’attuale instabilità delle relazioni con la Cina. A partire dal 1° dicembre, infatti, lo scontro tra i due Paesi non mostra segni di attenuazione. Arrestata a Vancouver su richiesta degli Stati Uniti e

successivamente rilasciata su cauzione, Meng Wanzhou, CFO del colosso della telefonia cinese Huawei, è diventata il simbolo della disputa in corso. Accusata dagli Stati Uniti di violazione delle sanzioni imposte contro l’Iran e di “attività illecite ai danni della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, Lady Huawei è attualmente sottoposta all’obbligo di non lasciare il territorio canadese, dove il prossimo 6 febbraio dovrebbe svolgersi il processo per la sua estradizione negli Stati Uniti. Dal momento dell’arresto, l’inevitabile disputa ha, dunque, dominato le relazioni tra Cina e Canada. Il Ministero degli Esteri cinese, ha, infatti, immediatamente accusato lo Stato nordamericano di aver violato il protocollo consolare operante tra i due Paesi, “non notificando tempestivamente all’ambasciata cinese l’avvenuto arresto di Meng Wanzhou”. Successivamente, il Viceministro degli Esteri cinese avrebbe convocato l’ambasciatore canadese a Pechino, John McCallum, presentando ulteriori critiche nei confronti dell’operato del Canada, che avrebbe determinato, secondo quanto affermato dalle autorità cinesi, una violazione dei diritti umani della dirigente di Huawei.

Ad aumentare le tensioni e a rendere ancora più incerti gli esiti di tale vicenda, si è aggiunta una serie di arresti avvenuti ai danni di tre cittadini canadesi. L’ex diplomatico Michael Kovrig, l’imprenditore Michael Sparov, e un terzo soggetto d’identità ancora ignota, sarebbero stati, infatti, arrestati in Cina con l’accusa di compiere attività considerate “una minaccia alla sicurezza nazionale cinese”. Interpretabili come una possibile rappresaglia cinese al ‘caso Huawei’, tali detenzioni avrebbero infiammato la politica interna del Canada, concentrata ormai da settimane sull’accaduto e in attesa di risposte dal premier Trudeau. Nonostante non sia stato ancora confermato il collegamento tra gli arresti avvenuti in Cina e il ‘caso Huawei’, le polemiche sembrano, tuttavia, destinate ad aumentare. Accusate di avere compiuto un’azione premeditata, le autorità canadesi continuano a sottolineare come l’arresto di Meng Wanzhou sia da considerarsi “un caso giudiziario e non politico”, ma l’incertezza sugli sviluppi di tale vicenda sembrerebbe destinata a proseguire. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA IT’S TIME TO BRING OUR GREAT YOUNG PEOPLE HOME! President Donald Trump announces on Twitter the withdrawal of US troops after historic victories against Daesh

Di Paolo Santalucia Trump’s statements arrive after the years-long presence of United States’ troops in Syria, which began in late 2015. At that time, American troops landed in Syria with a small contingent of Special Operations forces, with the intent of trying to form alliances with local militias and rebel groups that could help in the fight against the self-proclaimed Islamic State’s forces before starting the actual ground-war phase. Years after, nearly all the territory that ISIS militias had captured, throughout eastern Syria and northern Iraq, has been recaptured by local forces, many of whom were helped by American or other foreign troops. This is probably what has led President Trump to come up with the plan of the withdrawal of over 2,000 US troops that are still deployed in Syria. Trump’s decision caused strong reactions around the globe, starting from his own party and ending in Defense Secretary James Mattis’ resignation, which came a day after Trump’s decision, through a letter that was hand-delivered to the Com6 • MSOI the Post

mander in Chief, on December the 20th. Amongst the variety of reactions that Trump’s latter choice in foreign policy received, there was also a decent amount of praises. In fact, Kremlin’s leader Vladimir Putin, despite his obvious skepticism about the actual intentions of the U.S. to step back from Syrian grounds, has backed up the decision of the American president to weigh down its presence. In contrast with Putin’s praises, American allies were definitely not as positive about the whole situation. Even though U.K. is yet to make a clear statement about it, on the other end France has made clear its position on the issue, stating that its forces will remain in Syria. About the actual effectiveness of Trump’s withdrawal from Syria, many have criticized its hastiness, since the mere fact that most physical space has been recaptured by US troops and their allies doesn’t necessarily mean that Daesh’s forces have been permanently defeated. On the contrary, what could truly guarantee a long-lasting supremacy on Daesh would be: “staying on Syrian grounds as long as needed to maintain

the stability in these areas”, according to Brett McGurk, Special Presidential Envoy for the Global Coalition to Counter the Islamic State of Iraq and the Levant. The many doubts regarding the whole situation don’t seem to particularly bother President Donald Trump since, in the last hours, he seems to have advanced the possibility of a withdrawal of American troops from Afghanistan’s grounds as well, announcing that more than 7,000 American troops (half of the total of 14,000) will begin to return home from Afghanistan in the coming weeks. A move that has been firmly criticized by Republican Senator Lindsey Graham, who stated on the issue: “The conditions in Afghanistan - at the present moment - make American troop withdrawals a high risk strategy. If we continue on our present course we are setting in motion the loss of all our gains and paving the way toward a second 9/11”. All that seems to be left to do now is to wait and see how Trump’s decisions will impact the international assessment and, more in general, how they will affect US involvement in the fight against terrorism.


MEDIO ORIENTE LA SFIDA DI MBS

Il ritratto dell’uomo che da più di un anno sconvolge l’opinione pubblica internazionale

Di Anna Filippucci Guardando al 2018, una delle notizie che ha fatto più scalpore nell’opinione pubblica internazionale è stato senza dubbio il delitto Kashoggi, l’uccisione del giornalista saudita dissidente per mano del regime di Mohammed bin Salman. Ciò che colpisce di più è sicuramente la spregiudicatezza con cui avrebbe agito il principe ereditario, il quale si è dimostrato spietato e noncurante dei possibili effetti sul piano diplomatico e politico. Per riuscire a cogliere l’evoluzione della politica del regime saudita occorre tornare al momento della salita al potere di MBS, quando questi è stato salutato con ottimismo da parte degli osservatori internazionali. Per comprendere cosa sia cambiato da allora, il Post ha deciso di raccontare nel suo podcast #WeeklyPost, attraverso le parole di Elena Zacchetti, l’ascesa di Mohammed bin Salman al trono saudita. Il podcast presenta un profilo del principe: un ambizioso trentatreenne che, prima di diventare erede al trono, aveva già ricoperto incarichi di rilievo. Mohammed bin Salman fa parte di quella schiera di giovani principi dell’élite saudita che si oppongono alla fascia più conservatrice del regime.

Due eventi hanno portato quest’uomo all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Il primo è la presentazione del programma “Vision 2030”, un complesso di riforme economiche molto innovative con l’obiettivo di mostrare una faccia alternativa del Paese, meno conservatrice e più aperta; il secondo è la nota decisione da parte del Consiglio di fedeltà – organo ufficiale che designa il successore al trono saudita – di scegliere MBS per questo ruolo. Al momento della sua ascesa a capo del governo, MBS comincia a mettere in atto una serie di misure “liberali”: in tutto il mondo si parla della concessione della patente di guida alle donne saudite, dell’apertura dei cinema, degli eventi culturali, e s’inizia a credere in una progressiva apertura, grazie alla quale le libertà di stampa ed espressione sarebbero finalmente riconosciute nel Paese. Tuttavia, l’idillio è presto interrotto. Prima la politica interna: il 6 novembre 2017, il principe ordina una purga violentissima di tutti i funzionari pubblici e i ministri considerati oppositori del governo. Poi la politica estera, dove prima del delitto Kashoggi due altri eventi annunciano la sfrontatezza del principe nelle relazioni internazionali: l’embargo imposto al Qatar, Paese accusato di eccessiva vicinan-

za all’Iran e avversario storico dell’Arabia Saudita, e il teatrale sequestro del primo ministro libanese, sospettato di avere un legame troppo stretto con Hezbollah. Il caso Kashoggi non è che il vertice di questa escalation: ma come ha potuto il principe ereditario agire in maniera così disinvolta sotto gli occhi di tutti? Per rispondere a questo interrogativo occorre volgere lo sguardo al maggior alleato dell’Arabia Saudita oltreoceano: gli Stati Uniti. Trump ha da sempre mostrato nei confronti di MBS un atteggiamento a dir poco accomodante: il Presidente ha deciso di organizzare ile suo primo viaggio ufficial in Arabia Saudita, un Paese non proprio esemplare dal punto di vista del rispetto delle libertà fondamentali. Lo scopo di Trump è di discostarsi il più possibile dall’ostilità di Obama e, per farlo, si mostra negligente – se non addirittura connivente – con le azioni di MBS. Persino dopo le rivelazioni della CIA riguardo la responsabilità saudita della morte di Kashoggi, Trump ha pubblicamente preso le difese del principe. E se la progressiva escalation di MBS non fosse altro che un modo per mettere alla prova il sostegno degli Stati Uniti e l’intera opinione pubblica internazionale? MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE GLI ULTIMI CENTO METRI DI BEIRUT Per Natale un nuovo governo per il Paese dei Cedri?

Di Martina Scarnato Dopo sette mesi dalle elezioni, il Libano ancora non ha un governo. Per questo motivo, domenica 16 dicembre centinaia di persone sono scese per le strade di Beirut per protestare principalmente contro lo stallo politico. Secondo quanto riportato da Associated Press, la manifestazione sarebbe stata organizzata dal Partito Comunista, ma avrebbe attratto anche persone non affiliate a esso. Pochi gior ni prima delle proteste, il primo ministro designato Saad Hariri aveva dichiarato che il governo si sarebbe formato entro la fine dell’anno e che le negoziazioni non fossero che nei loro “ultimi cento metri”. I motivi per i quali il Libano si trova in una situazione di impasse sono legati, come già avvenuto in passato, alla difficoltà di distribuire i ministeri e i seggi ai vari partiti che rappresentano interessi molto diversi. La consuetudine vuole, infatti, che le cariche di governo vengano attribuite in maniera proporzionale a tutti gli esponenti delle numerose confessioni religiose presenti nel Paese: musulmani (sia sciiti sia sunniti), cristiani, drusi, armeni e greco-ortodossi. 8 • MSOI the Post

A questo quadro occorre aggiungere gli interessi di Paesi del calibro di Israele, Iran e Arabia Saudita, legati alle differenti fazioni. Alle elezioni del 6 maggio scorso è risultata vincente la coalizione “8 marzo” formata, tra gli altri, dal partito sciita filo-iraniano degli Hezbollah, dalla Corrente Patriottica Libanese (CPL) fondata dal cristiano maronita Michel Aoun (attuale Presidente della Repubblica), e dal Partito Comunista, che insieme avrebbero conquistato 70 seggi su 128. Grande sconfitta, invece, è stata l’“alleanza del 14 marzo”, composta principalmente dal Movimento il Futuro con a capo l’attuale primo ministro Hariri, il quale, alleato con vari partiti – tra cui le filo-saudite ma cristiane Forze Libanesi –, resta comunque il leader dei sunniti libanesi. Tre gli ostacoli principali alla formazione del governo. In primo luogo, le Forze libanesi non erano disposte a spartire parte dei seggi riservati ai cristiani con la CPL ma chiedevano almeno tre o quattro ministeri. Allo stesso tempo, la vittoria della coalizione con a capo il “Partito di Dio” aveva sollevato timori in Paesi come l’Arabia Saudita, poiché si temeva che alcuni dei ministeri

di maggior importanza (come quello della Difesa o dell’Interno) andassero in mano agli sciiti. Infine, sei deputati sunniti sostenuti da Hezbollah, definiti “sunniti indipendenti”, avevano chiesto l’attribuzione di un ministero, richiesta alla quale inizialmente Hariri si era sottratto. Finalmente, però, sembra che si sia giunti a un accordo: già alla fine di ottobre scorso le Forze Libanesi avevano accettato di condividere i seggi con la CPL, mentre i sunniti alleati di Hezbollah avrebbero accettato un ministro scelto da “una lista di nomi graditi”, senza però che questa provenga dalle loro fila. In questo clima di indecisione, certo è che il Paese ha bisogno di un governo il prima possibile data la situazione economica piuttosto grave, anche a causa degli effetti della guerra in Siria. Se il solo debito pubblico libanese, infatti, ammonterebbe al 150% della somma del Prodotto Interno Lordo, non è da sottovalutare, dopo la scoperta dei quattro tunnel degli Hezbollah sul confine israeliano, che Beirut dovrà essere in grado di presentare come interlocutore un governo unito per gestire una situazione che potrebbe sfociare in un conflitto.


RUSSIA E BALCANI BATTAGLIA AMBIENTALE PER LA SALVAGUARDIA DEI FIUMI Bloccata la costruzione di mini-centrali idroelettriche in Serbia

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia A inizio mese, la Suprema Corte di Cassazione serba ha bloccato la costruzione di una mini-centrale elettrica (SHPP) a Paklestica, sulle sponde del fiume Visovika. La decisione di bloccare il progetto era stata presa dal Ministero della Protezione ambientale, che aveva rilevato enormi differenze tra lo studio d’impatto ambientale degli investitori e la situazione reale del terreno emersa da un’analisi dell’Istituto per la conservazione della Natura. Le mini-centrali non possono produrre più di 10MW e per il loro funzionamento non necessitano di dighe o di laghi artificiali. Tuttavia, la loro costruzione comporta, tra le altre cose, anche la canalizzazione e la diversione delle acque. La conseguenza inevitabile è una notevole riduzione della portata dei fiumi con il rischio di un completo prosciugamento nei mesi più caldi, mettendo in pericolo la sopravvivenza della flora e della fauna autoctona. Il primo catasto ufficiale che definisce il piano di sviluppo risale al 1987. Il progetto iniziale prevedeva la costruzione di 857 SHPP, ma ne sono state realizzate solamente 60. A seguito di una

ricerca svolta dalla compagnia elettrica Srbijavode, è emerso che almeno un quinto dei 600 posti in cui sarebbero sorte le centrali è all’asciutto. Inoltre, solamente 60 di questi sarebbero adatti alla costruzione di dighe, mentre i restanti si troverebbero all’interno di parchi nazionali o di proprietà private. Il ministro per i Trasporti e le Infrastrutture Mihajlovic, determinato a rilanciare il piano, ha previsto la redazione di un nuovo catasto, che dovrebbe essere pubblicato nel mese di febbraio prossimo. Non solo il nuovo catasto dovrà tenere conto dei siti considerati inadeguati, ma conterrà anche le linee guida per l’ottenimento dei necessari permessi. L’Unione europea ha chiesto alla Serbia di aumentare la percentuale di energia prodotta da fonti rinnovabili. Tuttavia, la decisione di investire nelle mini-centrali come fonti rinnovabili è contestata: non solo il contributo delle SHPP alla produzione nazionale di energiaè di circa il 5%, ma vengono inoltre trascurate soluzioni più sostenibili con minore impattosul territorio. Goran Tokić, ingegnere elettronico, sostiene che “la Serbia ha bisogno di produrre 5000MW: se venissero costruite tutte le SHPP si copri-

rebbe solamente il 2% dei bisogni nazionali; la Serbia potrebbe facilmente produrre elettricità in altri modi. Ma tutte le altre opzioni sostenibili, quali l’energia solare e quella eolica, hanno costi più elevati”. Prima della decisione della Corte Suprema, a settembre scorso, ci sono state molte proteste popolari con migliaia di partecipanti a Pirot. Le persone scese in piazza chiedono l’abolizione del progetto delle SHPP poiché mette a serio rischio i fiumi incontaminati,con forti conseguenze non solo per la flora e la fauna, ma anche per la popolazione. I partecipanti alle proteste hanno creato l’organizzazione Difendiamo i Fiumi di Stara Planina con lo slogan “Nessun altro deciderà della sopravvivenza dei nostri fiumi se non coloro che vi abitano le sponde”. Il 30 novembre scorso, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sulla Serbia, per cui il governo viene invitato ad “adottare le necessarie misure di conservazione delle aree protette, tenendo conto dello sviluppo di centrali idroelettriche in aree sensibili”, anche attraverso l’esecuzione della valutazione di impatto ambientale in linea con gli standard dell’Unione europea. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI LE CONSEGUENZE DELLA CRISI IN UCRAINA: SANZIONI E CONTRO SANZIONI

Il Consiglio europeo prolunga le sanzioni nei confronti della Russia durante un summit a Bruxelles

Di Lucrezia Petricca Il 13 dicembre scorso il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha comunicato con un tweet che le sanzioni contro la Russia sono state prolungate poiché “non ci sono stati progressi nell’attuazione degli accordi di Minsk”. Il Consiglio europeo, riunitosi a Bruxelles, ha votato all’unanimità per l’ottava proroga consecutiva delle sanzioni. Le prime sanzioni vennero imposte nel 2014, a seguito del conflitto in Donbass e dell’annessione russa della Crimea. Ogni sei mesi il Consiglio europeo è chiamato a rinnovare le sanzioni, che sono legate all’attuazione degli accordi di Minsk. Sottoscritti nel 2015 da Russia, Ucraina, Francia e Germania, tali accordi hanno l’obiettivo di porre fine alla guerra in Ucraina, ma non sono mai state veramente implementati. Tra i 13 punti che li compongono, degno di nota è il cessate il fuoco nelle regioni di Donetsk e Lugansk. Le misure sanzionatorie colpiscono il settore economico-fi10 • MSOI the Post

nanziario russo. E’stato infatti limitato l’accesso ai mercati europei ad importanti istituti finanziari russi (come Svervbank e VTB) e a tre società del settore energetico. E’ inoltre imposto il divieto di importazione ed esportazione di armi, così come quello di esportazioni di beni a uso civile per scopi militari. Ad essere stato colpito è il settore di produzione e prospezione del petrolio, con limitazioni per l’utilizzo di alcune tecnologie. Sono state adottate anche sanzioni individuali: 164 persone e 44 entità sono soggette al congelamento dei beni e al divieto di viaggio, in quanto responsabili di aver minato l’integrità territoriale dell’Ucraina. In particolare, il congelamento dei beni era già previsto per soggetti responsabili dell’appropriazione indebita di fondi statali ucraini nel 2014, e rimarrà in vigore fino al 6 marzo 2019. Ultime ad essere aggiunte alla lista sono 9 persone, colpite dalle sanzioni per aver “compromesso l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina” in ragione del loro coinvolgimento nelle elezioni della regione

di Donetsk e Lugansk, che l’Ue considera “illecite” e “illegittime” in violazione del diritto internazionale. Ma le risposte della Russia alle sanzioni non sono tardate ad arrivare. A partire dal 2014, il Cremlino ha reagito con le cosiddette contro sanzioni, adottando la decisione di sospendere il pagamento delle quote al Consiglio d’Europa e di bloccare gli scambi commerciali, in particolare nel settore agroalimentare, con altri Stati. Queste contro sanzioni hanno avuto le loro conseguenze dirette sulle economie degli altri Stati membri come l’Italia, che, come la Grecia e l’Ungheria, si è spesso mostrata contraria al rinnovo delle sanzioni contro la Russia, senza pur tuttavia mai metterle davvero in discussione. Reazioni contrarie sono giunte in Italia da parte della Coldiretti, che ha precisato che l’embargo russo ha provocato dannose conseguenze per l’economia italiana, come, ad esempio, la costante crescita “di un mercato russo di prodotti di imitazione che non hanno nulla a che fare con il Made in Italy”.


ASIA E OCEANIA INDIA’S FIRST ‘ALL-WOMEN’ PARTY

The National Women’s Party fights for more representation

By Kevin Ferri Women in India have been able to participate in the political sphere since 1950. In fact, that same year, the Indian Constitution officially granted women’s suffrage. From there on, women have been able to enjoy basic political and electoral rights. Thus, they were integrated into the public administration and in political activism, but with a marginal relevance compared to that of men. Indian women were also substantially involved in the strenuous fight for independence from Britain. The fission between the two countries brought gender equality in the form of constitutional guarantees, however, women’s participation has always been rather low. In order to solve this schizophrenic phenomenon, the Indian Parliament passed the so-called ‘Women’s Reservation Bill’ in 2008, whereby 33% of the Lower House seats are assigned to women only. Today, the right-wing party Bharatiya Janata and the centre-left Indian Congress Party have been increasing the extent of women participation in order to develop their agendas. So, looking from

the outside, it would seem as though women would actually be included in the political life of the Republic, irrespective of the political orientation. Formally, they enjoy constitutional rights and reserved seats in institutions, as established by law. Unfortunately, in practice, women encounter challenges to their participation. To put it in Hema Lata Swamp’s words “Indian women’s lives are circumscribed by 5 P’s: Patriarchy, Productive resources access inadequacy, Poverty, Promotion advancement insufficiency and powerlessness”. To surpass these shortcomings, Shweta Shetty, a 36 years-old doctor and social activist, has launched an ‘all-women’ political party. The party is called National Women’s Party (N.W.P.) and aspires to follow the footsteps of the American homonymous party created in 1916. Back then, the U.S. N.W.P. was advocating for the adoption of the 19th Amendment to the Constitution (namely, prohibiting the federal government from denying the right to vote on the basis of sex). 102 years have passed and universal suffrage has certainly been achieved. However, the Indian N.W.P. is on a new mission. That is to obtain 50% reserva-

tion in the Parliament. This should come as no surprise. The Indian Parliament is composed of only 64 women in the 560-member lower chamber and 28 in the 244-member higher chamber. “The creation of the all-women party came only after we tried everything else to have at least 33% reservation for women in election seats from approaching political parties politely, going to the courts or putting pressure at grassroots level,” said Shetty. The party’s objectives are dedicated to creating a democratic, secular and socialist State of India while endorsing the Beijing Declaration on Women’s Rights and the United Nations Charter. The N.W.P. does not permit more than two mandates for each elected individual in the Parliament and Assembly or the Councils. It also promises to assist young leaders throughout the institutional path and legislation, in the hope to reduce leadership crisis in the party or organisation. In conclusion, the framework of the N.W.P. focuses on a women/youth empowerment agenda which should respect international agreements and propose a continuous renewal of its political representation. MSOI the Post • 11


ASIA E OCEANIA L’AUSTRALIA PROMUOVE LEGGE CONTRO LA CRITTOGRAFIA Sarà scontro tra Canberra e le imprese

Di Alessandro Fornaroli All’inizio di dicembre, il governo di Canberra ha varato una proposta di legge che, se approvata, costituirebbe un precedente significativo in ambito internazionale. La bozza in questione obbliga le aziende tech a fornire le chiavi di accesso alle conversazioni tra gli utenti iscritti. Non è chiaro se il testo, criticato anche perché troppo vago e lacunoso, sia indirizzato solo alle applicazioni di messaggistica istantanea o se si riferisca in maniera più generale anche ai vari sistemi operativi. Per essere convertito in legge, tuttavia, l’emendamento avrebbe dovuto ricevere un placet reale, previsto per Natale, finora non pervenuto. L’Assistance and Access Act imporrebbe alle imprese legate al settore delle Information Technologies (IT) una forma di collaborazione, pur sempre protetta da alcune garanzie, con gli agenti e i servizi di informazione australiani, fornendo loro la possibilità di controllare i contenuti scambiati nei loro prodotti. Si tratterebbe, potenzialmente, di una rilevante limitazione della privacy nelle comunicazioni digitali, attraverso il sorpasso del 12 • MSOI the Post

sistema di crittografia end-toend, che permette di tutelare le informazioni persino dai fornitori del servizio. L’Australia è stata la prima fra i ‘Five Eyes’, i 5 Paesi firmatari dell’Intelligence Sharing Pact, comprendenti USA, Gran Bretagna, Canada e Nuova Zelanda, ad attuare una riforma di questo tipo. Già a settembre scorso, i membri del gruppo avevano avvertito le imprese che, se non ci fosse stato un adeguamento su tale fronte, avrebbero affrontato conseguenze legali. Nel caso australiano, le multe in caso di mancata conformità alla norma possono arrivare fino a $10 milioni per le imprese e a $50.000 per i privati cittadini che interferiscono con le attività d’indagine. Il Partito di opposizione Laburista, per difendersi dalle critiche sulla mancata proposta di modifica, ha sottolineato come, in seguito all’ultima seduta del Parlamento, avvenuta il 6 dicembre scorso, ogni modifica del disegno di legge avrebbe spostato il dibattito al prossimo anno. Il leader di partito, Bill Shorten, ha affermato di non aver voluto compromettere la sicurezza dei suoi concittadini di fronte a ipotetici attacchi terroristici durante l’intermezzo.

L’obiettivo dichiarato dell’atto è infatti quello di facilitare il lavoro delle forze dell’ordine, concedendo un accesso a materiale prima riservato, ove sembrasse loro opportuno per motivi di sicurezza. Un elemento cruciale consiste nel fatto che tale controllo non sarà limitato solo al suolo nazionale, ma, basandosi su dati online, verrà applicato a prescindere dall’ubicazione del trasgressore controllato, travalicando i confini e assumendo potenzialmente una dimensione globale. È probabile, peraltro, che un simile meccanismo di sorveglianza, già suggerito dal Partito conservatore statunitense e da Londra, col tempo venga adottato anche in altri Paesi. Le grandi imprese americane, tuttavia, tra cui Apple, Microsoft e Google, avranno più convenienza a delocalizzare i propri uffici in altri Stati piuttosto che accondiscendere alle richieste del governo di Canberra. Questi colossi, infatti, si basano in gran parte sulla fiducia dei loro clienti circa la protezione dei loro dati, come testimoniato dall’attuale GDPR e, probabilmente, un cambiamento di questa portata porterebbe più svantaggi ai provider rispetto ai vantaggi che potrebbero derivare dal relativamente piccolo mercato australiano.


AFRICA MOGADISCIO ANCORA SOTTO ATTACCO

Lo scoppio di un’autobomba conferma le infiltrazioni degli Al-Shabaab

Di Barbara Polin La liberazione della capitale somala Mogadiscio dal gruppo terrorista Al-Shabaab è avvenuta nel 2011, ma la paura scorre ancora lungo le sue strade. Un’autobomba è esplosa il 22 dicembre scorso vicino al palazzo presidenziale, uccidendo 16 persone e confermando l’infiltrazione dei terroristi all’interno di un perimetro dichiarato libero dalla loro presenza. GliShabaab,affiliati locali di Al-Qaeda, controllano le zone interne della Somalia e rappresentano una delle forze dalla maggiore capacità eversiva rispetto alla stabilità regionale del Corno d’Africa e degli Stati vicini. Le loro ramificazioni sul territorio potrebbero essere confermate se si dimostrassero fondati i sospetti circa il loro coinvolgimento nel rapimento in Kenya della cooperante italiana Silvia Romano, la cui sorte è ancora incerta. L’esistenza degli Shabaab e la vita politica somala sono legate a doppio filo. Da una parte, i suoi guerriglieri provengono dalle forze armate giovanili dell’Unione delle Corti Islamiche, al potere a Mogadi-

scio dal 2006 al 2011, e ne ricordano il passato turbolento. Dall’altra, rappresentano una grave minaccia alla stabilità dell’attuale assetto politico della Somalia, in quanto non ne riconoscono la legittimità e ambiscono a rimpiazzarlo grazie al sostegno informale di altri gruppi terroristici, come il nigeriano Boko Haram e il mediorientale Al-Qaeda, al quale ha giurato fedeltà. Oltre che dalle ragioni ideologiche, il pervicace assedio allo stato somalo è motivato anche dalla propria posizione strategica rispetto al continente africano e alla regione mediorientale, una qualità che lo rende un ‘monitorato speciale’ anche dal distaccamento locale dell’esercito statunitense. La Somalia si affaccia infatti sul Golfo di Aden, attraverso il quale transita il traffico marittimo tra il Mar Mediterraneo e l’Oceano Indiano. A questo proposito, l’importanza economica della Somalia per gli Al-Shabaab è stata confermata dalle gravi conseguenze in termini di capacità di azione legate alla perdita del porto di Kismayo nel 2012, il cui commercio di carbone permetteva delle entrate considerevoli nelle casse del gruppo terrorista.

Allo stesso tempo, la vicinanza con la penisola arabica la rende un trampolino di lancio ideale per un’eventuale proiezione di influenza verso una regione dalla quale dipendono la maggior parte degli equilibri politici mediorientali. Tornando alla dimensione africana, l’assalto del 19 dicembre è solo l’ultimo dei numerosi attacchi volti a indebolire il precario equilibrio raggiunto a livello della Somalia e dell’intera regione. La minaccia degli Shaabab non passa solo per Mogadiscio, dove i kamikaze si sono infiltrati, ma si estende anche al vicino Kenya, la cui economia, bisognosa di stabilità interna, è indebolita dalle frequenti incursioni del gruppo terrorista. Oltre al già citato caso della cooperante Romano, gli Shaabab sono stati i responsabili dell’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi, avvenuto il 21 settembre 2013, e della strage al college universitario di Garissa, compiuta il 2 luglio 2015. Gli attacchi in territorio keniano sono indotti dall’impegno militare di Nairobi contro gli Shaabab nei territori somali ancora sotto il loro controllo, e dal sostegno attivo dato all’attuale governo che ha sede a Mogadiscio.

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AFRICA LA BLUE ECONOMY AFRICANA

Opportunità, criticità e sfide di un settore fonte di ricchezza per l’intero continente

Di Valentina Rizzo Parlare di sviluppo dei Paesi africani, significa parlare anche di ‘blue economy’. Sebbene non vi sia una definizione univoca, la si potrebbe qualificare come l’insieme di tutte le attività imprenditoriali e, più in generale, di tutti i settori economici che hanno un legame diretto o indiretto con oceani, fiumi e laghi. L’economia blu africana è quindi un ambito vasto, che comprende diversi settori produttivi: dalla pesca, al turismo, ai trasporti, fino all’estrazione di risorse. Tutte queste ramificazioni, così interconnesse tra loro, finiscono inevitabilmente per entrare in contatto con diverse tematiche sociali, quali ad esempio la sicurezza alimentare e dell’acqua, la riduzione della povertà, la creazione di posti di lavoro e la produzione della ricchezza. Obiettivo della blue economy è assicurare un utilizzo ed una gestione delle risorse marittime affinché non solo gli Stati africani e le loro popolazioni possano effettivamente beneficiarne, ma che sia sostenibile nel lungo periodo, proteggendo e mantenendo la biodiversità 14 • MSOI the Post

tramite l’utilizzo di tecnologie pulite ed energie rinnovabili. L’Unione africana vede nella blue economy la ‘nuova frontiera della rinascita africana’. In effetti, 38 Stati africani su 54 hanno uno sbocco sul mare. A livello commerciale, oltre il 90% degli scambi avviene via mare. La dipendenza delle comunità costiere dai diversi ecosistemi marini è molto alta: il settore ittico contribuisce infatti alla sicurezza alimentare di più di 200 milioni di africani, e costituisce una fonte di reddito per circa 10 milioni di persone. Sul fronte degli impegni internazionali, sebbene nel mondo, negli ultimi anni, sia notevolmente cresciuto rispetto al passato l’interesse per queste tematiche, sono ancora molti i progressi necessari per arrivare alla definizione di impegni concreti da parte di Stati e organizzazioni internazionali, con il relativo stanziamento delle risorse economiche necessarie. Lo scorso novembre, ad esempio, si è tenuta in Kenya l’International Blue Economy Conference, con l’obiettivo di formulare strategie ampiamente condivise per sviluppare i potenziali benefici che non solo i Paesi africani, ma dell’intero pianeta, potrebbero trarre

da un’economia marittima sostenibile. La conferenza, organizzata da Kenya, Canada e Giappone ha visto la partecipazione di 184 Paesi, diverse organizzazioni internazionali, esponenti della società civile e ricercatori da tutto il mondo. Nonostante l’enorme potenziale, ad oggi gran parte delle ricchezze di questo ambito sono scarsamente sfruttate o non adeguatamente tutelate. La domanda da porsi è, quindi: quali sono le criticità nell’implementazione di queste strategie di sviluppo e quali le sfide che i Paesi africani devono affrontare? Indubbiamente, le sfide sono tanto numerose quanto diversificate, e richiedono un approccio globale. L’elevato tasso di corruzione e l’instabilità politica, l’inquinamento, i cambiamenti climatici, la mancanza di risorse per affrontare interventi che interessano aree così vaste, la lotta a fenomeni transnazionali come la pesca illecita e il depauperamento delle risorse marine, rappresentano zone d’ombra con le quali bisognerà fare i calcoli.


AMERICA LATINA JAIR BOLSONARO E L’OMBRA DELLA CORRUZIONE Accuse per il “Trump brasiliano” e i suoi collaboratori all’inchiesta Lava Jato che ha colpito anche l’ex Presidente della Repubblica, Lula da Silva, condannato in primo grado a nove anni di carcere, per corruzione e riciclaggio di denaro. Il Stf brasiliano analizzerà ora la richiesta di “habeas corpus”, avanzata dalla difesa di Lula per dichiarare nulla la sentenza, in quanto emessa dal giudice Sergio Moro, neo ministro della Giustizia del Governo Bolsonaro, che avrebbe quindi “agito per fini politici”. Bolsonaro aveva costruito la sua campagna elettorale proprio sul discredito che le inchieste anticorruzione hanno gettato su Lula e sui partiti tradizionali; per questo motivo le accuse rivolte all’entourage del Presidente hanno causato ancora più sconcerto.

Di Stefania Nicola Il prossimo Presidente della Repubblica del Brasile, che si insedierà ufficialmente il primo gennaio, ha scelto i 22 ministeri che comporranno il nuovo governo, ma alcuni nomi hanno acceso forti polemiche nel Paese. Il Supremo Tribunale Federale brasiliano (Stf), su richiesta della Procura generale, avrebbe infatti aperto un’inchiesta nei confronti di Onyx Lorenzoni, uomo di fiducia di Bolsonaro. Le accuse riguardano un presunto finanziamento illecito, ricevuto dal designato Ministro dell’interno da parte della multinazionale JBS (leader brasiliana nel settore alimentare) per finanziare il partito Social-Liberale e la campagna presidenziale di Bolsonaro. Questo

caso

si

intreccia

Numerose polemiche riguardano inoltre il tema ambientale. Inizialmente, l’intenzione espressa dal neo Presidente di unire il ministero dell’Ambiente e quello dell’Agricoltura, sebbene poi ritrattata, confermava le affermazioni di Bolsonaro, secondo cui la protezione dell’ambiente non sarà prioritaria in agenda. La questione diventa ancora più decisiva se si considera che il Brasile è lo Stato con la più estesa foresta tropicale al mondo. Inoltre, la ministra designata all’agricoltura, Tereza Cristina, al momento unica donna ad aver ricevuto un’investitura dall’ex militare, è uno dei nomi ad aver suscitato proteste. Denominata da alcuni come la “Musa del veleno”, per aver presentato una legge che consentiva l’uso di sostanze tossiche nei raccolti per

aumentare la produzione e le vendite, nel 2013 sarebbe anche stata al centro di uno scandalo per aver favorito un’impresa brasiliana in cambio di denaro. Le accuse di corruzione, sottolineate fino ad ora, sono particolarmente gravi, dal momento che Bolsonaro si era presentato agli elettori come “l’uomo contro il sistema”, giusto e incorruttibile. Egli, infatti, era riuscito a vincere una campagna elettorale a cui fisicamente non aveva preso parte, oltre che con un uso sapiente e provocatore dei social. Aveva proprio sfruttando il già menzionato scandalo di corruzione Lava Jato, che aveva colpito non solo lo storico leader del Partido dos Trabalhadores, ma anche i partiti di centro e centro destra. Le elezioni hanno evidenziato le fratture che attraversano il Paese, facendo temere una futura escalation della tensione sociale, in uno Stato tristemente noto per l’elevato tasso di omicidi. Dal 2017 infatti, secondo i dati del Forum Brasileiro de Seguranca Publica, si è superata la soglia delle 60.000 morti violente che, in altri termini, significa un omicidio ogni 7 ore. A seguito di questi avvenimenti e di nuove minacce di morte riferite dal neo eletto Presidente, l’attuale ministro per la Sicurezza istituzionale Sergio Etchegoyen ha annunciato che saranno adottate “misure speciali di sicurezza”. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA LA CRISI IN NICARAGUA CONTINUA

Scontro tra il governo e la Commissione Interamericana per i Diritti Umani

Di Elisa Zamuner Si chiude un altro anno molto turbolento per il Nicaragua: il dissenso nei confronti del presidente Daniel Ortega continua a crescere e le proteste non sembrano avere fine. Le prime manifestazioni, partite ad aprile, erano volte a contestare il progetto di riforma del sistema pensionistico e delle politiche di assistenza per il popolo nicaraguegno; il governo aveva represso duramente queste proteste e le denunce delle violenze perpetrate dalla polizia avevano iniziato ad aumentare. A fine maggio, la Commissione interamericana per i diritti umani (IACHR) aveva accusato il governo di Ortega e le forze di sicurezza di aver violato i diritti fondamentali utilizzando in modo eccessivo la forza e facendo uso sistematico di detenzioni arbitrarie e illegali e di pratiche di tortura. La IACHR segnalava che il numero di morti e feriti era rispettivamente di 76 e 878 solo tra aprile e maggio. Ortega ha fortemente negato le accuse rivoltegli, sostenendo che le violenze non fossero provocate dalla polizia ma da gruppi di vandali e da estremisti di destra. Secondo il governo infatti non vi sarebbe stata alcuna violazione dei diritti umani durante la repressione 16 • MSOI the Post

delle varie manifestazioni e le forze di sicurezza avrebbero fatto del loro meglio per mantenere l’ordine pubblico. Nel frattempo, però, sempre più cittadini sono scesi per le strade per chiedere le dimissioni di Ortega ed il numero di morti e feriti ha continuato ad aumentare. Questo clima di tensione ha spinto la polizia nazionale a rilasciare una dichiarazione ufficiale il 28 settembre con la quale rendeva di fatto illegale questo tipo di manifestazioni, asserendo che fossero motivo di grande turbamento e di minaccia per la sicurezza dei cittadini. La decisione ha provocato forti reazioni, perché di fatto si proibiva il diritto alla protesta, tipico di un paese democratico; l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (OACNUDH) su Twitter ha definito questo provvedimento “contrario alle norme sulla responsabilità penale e al diritto alla libera riunione pacifica”. La crisi nicaraguegna ha avuto anche conseguenze internazionali; gli USA hanno infatti imposto delle sanzioni nei confronti di Rosario Murillo, vicepresidente della Repubblica del Nicaragua, nonché moglie del presidente Daniel Ortega, accusandola di corruzione e violazione dei diritti umani;

in particolare, si sostiene che Murillo abbia finanziato in modo illecito l’organizzazione giovanile Frente Sandinista de Liberación, accusata di aver fatto ricorso ad esecuzioni extragiudiziali e torture nell’ambito di queste proteste. Il governo, nel corso dei mesi, ha continuato a respingere tutte le accuse e le denunce, denigrando le organizzazioni umanitarie coinvolte. Il 19 dicembre Ortega ha annunciato la sospensione di tutte le visite dei membri della IACHR, i quali stavano indagando proprio sull’illegale e sistematica repressione dell’opposizione. Denis Moncada, ministro degli Esteri, ha dichiarato che queste misure rimarranno in vigore fino a quando non verranno ripristinate “le condizioni di rispetto della sovranità e la cessazione delle interferenze nei confronti degli affari interni del Nicaragua” da parte della IACHR. La Commissione interamericana per i diritti umani ha replicato a questa decisione affermando che “la situazione in Nicaragua rimarrà una priorità” e ha ribadito il suo impegno a “continuare a monitorare il rispetto da parte dello Stato nicaraguense dei suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani”.


ECONOMIA ROSSO NATALE A WALL STREET

I mercati crollano alla Vigilia di Natale, additata la FED da Donald Trump

Di Michelangelo Inverso Il 24 dicembre è stata una Vigilia di Natale tra le più nere che Wall Street abbia avuto il dispiacere di affrontare. Tutti gli indici e, in particolare, quelli maggiormente legati ai colossi dell’innovazione tecnologica si sono trovati davanti a perdite milionarie, inducendo gli analisti di mezzo mondo a presagire il temuto ‘shutdown’. E shutdown, a ben vedere, è stato davvero. In questo contesto, com’era prevedibile accadesse, non sono mancate le accuse reciproche: sul banco degli imputati, da una parte, la Federal Reserve, accusata dal presidente Trump di ‘pazzia’ per aver rivisto al rialzo i tassi d’interesse in un momento di recessione globale e di grande sofferenza dei mercati mondiali; dall’altra, lo stesso presidente statunitense, additato da più parti per aver scatenato, con le proprie dichiarazioni, il panico tra gli investitori. Non è bastato l’impegno del Segretario di Stato per ricondurre alla normalità la situazione. Nonostante i fitti contatti intrapresi fin dalla mattinata del 24 con le maggiori banche statunitensi, è stato possibile soltanto tamponare le ingenti perdite borsistiche.

Tentando di sbrogliare il groviglio di dichiarazioni incrociate che in queste ore rimbalzano qua e là, si può certamente notare come la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina sia ben più di una cornice contingente degli eventi. È indubbio, infatti, come le tensioni che da qualche mese caratterizzano i rapporti tra Pechino e Washington stiano iniziando a mostrare i primi, deleteri effetti sui mercati azionari. Il continuo botta e risposta tra le due maggiori economie globali ha logorato lentamente ma inesorabilmente la fiducia degli investitori, ben più di quanto possano aver fatto le estemporanee dichiarazioni di Trump sulla Fed. D’altro canto, è pur vero che il rialzo dei tassi d’interesse da parte di quest’ultima abbia ulteriormente scoraggiato investitori già largamente circospetti. Tuttavia, era inevitabile che, dopo il profluvio di dollari riversati sui mercati dal 2008 a oggi, sarebbe giunto il momento per la Federal Reserve di dare una stretta significativa, anche per evitare effetti ancora più destabilizzanti. Ciò che in pochi, tuttavia, hanno preso in considerazione, è il ruolo della Cina in questo scenario. Xi Jinping ha adottato

politiche economiche estremamente espansive dall’inizio del suo mandato, per poter sostenere lo sforzo titanico delle sue nuove Vie della Seta: investimenti plurimiliardari in colossali progetti infrastrutturali che costringono all’indebitamento i Paesi che ne beneficiano nei confronti della Cina. E l’indebitamento della stessa Repubblica Popolare Cinese è schizzato alle stelle negli ultimi dieci anni, raggiungendo un rapporto deficit/PIL al 300% in valore reale. Adesso, anche dalle parti di Pechino è giunta l’inevitabile stretta all’espansione monetaria. Sarà complicato riuscire a gestire la transizione verso una politica monetaria più restrittiva dopo aver sommerso l’economia mondiale con una pioggia di dollari e renminbi durata un decennio. Si può solo sperare che The Donald - che di tutto può essere accusato, fuorché di mancanza di pragmatismo - metta da parte le sue ruggini verso la Fed, e che quest’ultima attui le sue pur giuste politiche restrittive con maggior gradualità. In fin dei conti, un conflitto istituzionale nella più grande economia del pianeta è ciò di cui, davvero, non abbiamo bisogno. MSOI the Post • 17


ECONOMIA INDIA V CINA: L’ORA DEL SORPASSO?

Nel 2019 l’India potrebbe affermarsi come prima potenza economica asiatica

Di Alberto Mirimin Per tutti noi, quando un anno volge al termine, è sempre tempo di bilanci e resoconti finali, da cui scaturiscono inevitabilmente previsioni su quello che il futuro potrà riservare. Nel caso dell’Asia, il cambiamento che l’anno venturo potrebbe portare con sé è uno spostamento geoeconomico, e quindi geopolitico, molto rilevante: l’India si prepara a diventare la prima potenza economica in via di sviluppo del continente. Infatti, nel 2018, per la prima volta, l’India ha attratto più investimenti diretti nelle sue imprese rispetto alla Cina: 39,5 miliardi di dollari contro i 32,8 della Cina, secondo quanto riferito dalla società britannica di analisi finanziarie Dealogic. Questo dato può essere visto da una duplice prospettiva. Da un lato, denota l’ottimo rendimento dell’economia indiana, che, non a caso, già nel 2016 era stata definita dal FMI come un “punto luminoso” nella debole economia globale, dopo la crescita del 7,5% fatta registrare al termine di quell’anno. In particolare, dal quarto trimestre del 2017, la crescita economica dell’ex-colonia britannica è superiore a quella cinese, pari all’8,3% nel terzo 18 • MSOI the Post

trimestre di quest’anno e al 7,1% nel quarto, contro rispettivamente il 6,7% e il 6,5%, secondo quanto reso noto dall’Ufficio Centrale di Statistica. D’altro canto, il passaggio degno di nota è il contemporaneo rallentamento finanziario della Cina, che si attesta attorno al 25% dall’inizio del 2018. La guerra commerciale in atto con gli Stati Uniti di Donald Trump, oltre che da una serie di squilibri interni e dalla caduta della Borsa di Shanghai, hanno indubbiamente influenzato questo risultato. Ma quali sono le ragioni di questa straordinaria crescita e a che cosa è dovuta la differenza nelle tempistiche con la Cina? Innanzitutto, i cinesi hanno impiegato meno tempo ad affermarsi per via del sistema a partito unico, mentre in India le riforme sono dovute passare dal consenso elettorale. Gautam Chikermane, vicepresidente dell’ORF, primo think tank indiano, ha affermato che “sono 70 le leggi che, a partire dall’indipendenza del 1947, anno dopo anno, hanno trasformato l’India in un’economia da 2.500 miliardi di dollari”. Il Paese possiede diversi punti di forza. Due terzi del mercato mondiale dei servizi IT in outsourcing appartengono

all’India, che ne è il primo esportatore al mondo. È, inoltre, il quinto produttore mondiale di automobili, nonostante ne possieda solo 18 ogni 1.000 abitanti. Il Paese è poi il più grande produttore di cotone al mondo, con 45 milioni di persone impiegate nel settore tessile e dell’abbigliamento. Infine, è il più grande esportatore di farmaci generici, con esportazioni in 200 Paesi, per un valore di 15,5 miliardi di dollari nel 2014. Ovviamente, come sempre in questi casi, non è tutto oro quello che luccica: secondo i dati ufficiali del governo, 270 milioni di persone (22% della popolazione) vivono in condizioni di povertà estrema; dato comunque in miglioramento se si considera che nel 2005 corrispondeva al 35% della popolazione. L’eventuale sorpasso indiano è in ogni caso rilevante perché indicherebbe un cambiamento di sentimento negli investitori internazionali: il sistema democratico indiano potrebbe issarsi a modello di riferimento per le potenze in via di sviluppo, a discapito del ‘modello cinese’, che a quel punto potrebbe essere spinto, anche solo in una qualche misura, a una revisione interna.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO CORTE EDU: L’AVVIO DI UNA FASE NON CONTENZIOSA

La Corte di Strasburgo inizia la sperimentazione di una nuova forma di risoluzione delle controversie: si raggiungeranno i risultati sperati?

Di Pierre Clément Mingozzi Anno nuovo vita nuova? Forse non in questi termini, ma senza dubbio l’anno che sta per cominciare sarà certamente importante per il sistema Convenzionale. Infatti, il 2019 inizierà subito con una grande novità alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Come riportato dal comunicato del 18 Dicembre 2018, a partire dal 1° gennaio 2019 la Corte di Strasburgo avvierà in via sperimentale una nuova forma di risoluzione delle controversie disponibili sotto la propria giurisdizione, aggiungendo, di fatto, la possibilità di una modalità amichevole alla tradizionale forma conteziosa valida per tutti gli Stati contraenti. La procedura, sebbene ancora da constatare in pratica, appare piuttosto lineare in quanto “there are essentially two aspects to this new practice. Firstly, the Court’s Registry will usually make a friendly settlement proposal when respondent governments are given notice of applications. Secondly, there will be two distinct phases in the procedure: a 12week friendly settlement phase (non-contentious), and a further 12-week observations phase (contentious with an exchange of observations)”.

È partendo da questo punto di vista che le differenze con il sistema attualmente in vigore appaiono subito più rilevanti. Infatti, “currently these two procedures run in parallel; Governments are given 16 weeks to submit their observations on the admissibility and merits of a case. Within the first eight weeks of that period they are also required to inform the Court whether they are prepared to conclude a friendly settlement”. Tuttavia, “under the new practice, the Registry will not make a proposal for friendly settlement in each and every case”. É importante notare che questo procedimento non potrà essere valido per tutti i casi in cui la Corte sarà chiamata a giudicare. A tal proposito sono state previste delle eccezzioni, per esempio: “cases raising novel issues which have never been examined by the Court or cases where for any specific reason it may be inappropriate to propose a friendly settlement”. La ratio può essere rintracciata nella necessità, da parte della Corte, di continuare a garantire l’accertamento giudiziario in tutti i casi meritevoli affinché la nuova pro cedura non venga utilizzata per eludere le garanzie di protezio-

ne del sistema Convenzionale. La Corte, inoltre, si riserva la possibilità, alla fine di un anno di prova, di proseguire o meno con questo tipo di risoluzione amichevole delle controversie: molto, evidentemente, sarà diretta conseguenza di come gli Stati membri della Convenzione interagiranno con la nuova procedura di pari passo ai reclami delle vittime. L’obbiettivo prefissato dalla Corte nell’introduzione di questa procedura è quello di stimolare e implementare alternative valide alla classica via giudiziale di risoluzione delle controversie, invogliando le parti a trovare una soluzione conciliante prima di avviare una fase giudiziale. Questa volontà sembra oggi marcare il percorso evolutivo della Corte europea, sempre alla ricerca di nuove soluzioni e strumenti che possano essere il più possibile in linea con un corretto funzionamento del sistema di protezione sia per quanto riguarda gli Stati parte sia i ricorrenti. Certamente il progetto è ambizioso e non privo di rischi. Constateremo nel corso dell’anno nuovo, ormai prossimo se, e in quale misura, la Corte avrà vinto la sua sfida. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO SUGAR TAX

La tassa sulle bibite zuccherate in Italia e nel mondo

Di Chiara Montano Al fine di arginare l’obesità e ridurre il rischio di contrarre malattie cardiovascolari, le aziende operanti nel settore alimentare propongono ormai da diversi anni la riduzione dei quantitativi di grassi, zuccheri e sale su base volontaria. Tuttavia, la strategia più efficace sembra quella di emanare provvedimenti più incisivi, diretti contro quei generi alimentari che sono la principale causa dei disturbi sopra citati. A tale scopo, alcuni Paesi hanno introdotto una tassa sulle bibite zuccherate. In particolare, il 6 aprile 2018 in Gran Bretagna è entrata in vigore la Soft Drink Industry Levy (SDIL), la tassa sulle bevande analcoliche o poco alcoliche, il cui contenuto di zuccheri supera una soglia determinata. L’importo della tassa è direttamente proporzionale al quantitativo di zuccheri della bevanda. Alcuni produttori hanno deciso di modificare le ricette dei prodotti “incriminati”, mentre altri non hanno introdotto variazioni sui prodotti originali e dovranno quindi pagare la cosiddetta “sugar tax”. Anche in Francia esiste già una tassa di questo tipo, introdotta 20 • MSOI the Post

nel 2012 e modificata nel 2018, che coinvolge, a differenza di quella inglese, anche le bibite “light”. Tra i Paesi che hanno introdotto la sugar tax nel 2018 ci sono anche Norvegia, Filippine, Estonia, Sudafrica e Irlanda, mentre negli Emirati Arabi e in Portogallo la tassa è in vigore dal 2017, in Belgio dal 2016 e negli Stati Uniti dal 2015. Tuttavia, proprio questi ultimi hanno omesso di emanare una legge su base nazionale, sicché solo alcune città hanno adottato provvedimenti specifici in riferimento alle bevande zuccherate. In Messico e in Cile, dove la sugar tax è in vigore dal 2014, degli studi condotti da gruppi di ricercatori nazionali ed internazionali hanno dimostrato che l’acquisto delle bevande zuccherate è notevolmente diminuito. Lo stesso è accaduto in Ungheria, dove la tassa è stata introdotta nel 2011. Sono ancora molti gli Stati in cui l’introduzione della sugar tax è tutt’ora in discussione, tra cui anche l’Italia, dove i diabetologi non si sono limitati a sostenere l’introduzione della tassa sulle bevande zuccherate, ma si sono anche appellati al fatto che i proventi derivanti da essa vengano reinvestiti nelle misure di prevenzione e utilizzati per finanziare iniziative per la

salute e la nutrizione. L’Organizzazione mondiale della sanità invita i Paesi ad applicare una tassa del 20% sulle bibite e su alcuni alimenti zuccherati. L’attuale governo italiano sembra favorevole all’introduzione della sugar tax, ma persistono alcune perplessità. Infatti, sembra che il Ministro delle Politiche Agricole abbia proposto di escludere dalla tassazione i prodotti contenenti zucchero italiano. Una tale affermazione, però, sarebbe contraria non soltanto alla principale finalità della tassa, ovvero di ridurre l’obesità, ma anche a diversi principi del commercio internazionale, basti pensare alla regola del “trattamento nazionale”, secondo il quale i prodotti importati non devono essere assoggettati né direttamente né indirettamente ad un’imposizione fiscale o a costi più gravosi rispetto a quelli previsti per i beni nazionali similari. Tale principio è sancito dall’art. III dell’Accordo WTO, a cui l’Italia ha aderito. È ancora da vedere, quindi, se la sugar tax approderà anche nel nostro Paese e, se sì, con quali modalità e come verranno reinvestiti gli eventuali proventi.


MSOI the Post • 21


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