MSOI thePost Numero 129

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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EUROPA ELEZIONI UE: TRA COLLOCAZIONI E NUOVE ALLEANZE

Riusciranno Popolari e Socialdemocratici a mantenere la maggioranza in Parlamento?

Di Federica Cannata

voti.

Le elezioni europee del prossimo 23-26 maggio costituiscono uno degli eventi politici più attesi del nuovo anno, perché presenta la duplice occasione di constatare in primis la credibilità dell’Europa agli occhi dei cittadini e di misurare, inoltre, la popolarità dell’ondata populista ed euroscettica che ha caratterizzato di recente il rinnovo di diversi parlamenti nazionali europei.

In Italia, il governo pentaleghista è anti-establishment e sembrerebbe correre diviso: in effetti, il Movimento 5 stelle, attualmente affiliato all’EFDD (euroscettici) di Farage, sembrerebbe voler diventare l’”apri fila” di un nuovo gruppo parlamentare, preferibilmente composto da nuovi partiti che condividono un programma comune su ambiente, lavoro e diritti; per contro, la Lega di Matteo Salvini, attualmente nel gruppo parlamentare dell’ENF (estrema destra), sembrerebbe voler creare un fronte unico dei popolari e sovranisti di destra. Tuttavia, se l’esito di queste elezioni confermasse il livello di gradimento di queste due forze politiche di governo, esse guadagnerebbero circa 2/3 dei seggi spettanti all’Italia (76).

La IX legislatura si caratterizza per alcune importanti novità, quali la riduzione del numero complessivo di seggi distribuibili, che scende a 705; e l’attribuzione di qualche seggio in più ad alcuni dei Paesi con il numero di più alto di abitanti, restanti nella membership dell’Unione, come conseguenza dell’uscita del Regno Unito dalle Istituzioni europee: il Parlamento europeo, infatti, ha deciso che solo 27 su 73 seggi spettanti all’Uk sarebbero redistribuiti, riservando la differenza a Paesi che in futuro potrebbero aderire all’Ue. In effetti, sono proprio gli Stati assegnatari del numero più alto di seggi - come l’Italia, la Germania, la Francia, la Spagna e la Polonia - i più “osservati” in termini di orientamento di

Anche in Germania, le recenti elezioni in Baviera sembrerebbero aver indebolito il consenso per i democristiani (CDU) e i socialdemocratici (SPD) e, per contro, rafforzato la preferenza per i Verdi. Tuttavia, se i risultati elettorali delle ultime elezioni dovessero essere confermati alle europee, e se i partiti che hanno vinto le elezioni tedesche riconfermassero la loro appartenenza agli attuali

gruppi parlamentari, il CDU di Annegret Kramp-Karrenbauer porterebbe più di 30 seggi al PPE (popolari), mentre l’SPD porterebbe circa 20 seggi all’S&D (socialdemocratici). Incerto è anche l’esito in Spagna, dove le elezioni di dicembre in Andalusia hanno segnato l’ingresso della destra estrema nel Parlamento regionale: i socialisti hanno ottenuto 1/3 dei seggi e questo non ha consentito loro di avere la maggioranza assoluta. Ancor più difficile è stabilire a quali esiti porterà per la Francia il movimento di protesta contro il governo, organizzato dai c.d. gilet gialli. La République en Marche! di Emmanuel Macron ha ottenuto il 32,3% dei voti alle elezioni del 2017 e costituirebbe un nuovo partito nel Parlamento europeo , che si collocherebbe potenzialmente nel gruppo parlamentare dei liberali dell’ALDE. Il “trend” che sembra farsi strada non appare sufficiente per scommettere su una rottura certa dello schema classico PPES&D, né sull’ipotesi che queste elezioni segnino sicuramente uno “spartiacque” rispetto al passato; tuttavia, sembrerebbe che questo tradizionale “asse” non goda di ottima salute in diversi angoli dell’Europa.

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EUROPA LA DERIVA AUTORITARIA DI ORBÁN La promulgazione di alcune leggi controverse accende le proteste nel paese, con le opposizioni che fanno fronte comune contro il governo

Di Francesco Pettinari Il mese di dicembre a Budapest è stato caratterizzato da veementi proteste contro il governo di Viktor Orbán e il suo partito, Fidesz. Il culmine della tensione si è raggiunto domenica 16 quando più di 10.000 manifestanti hanno sfilato per le vie della capitale. Successivamente, alcuni dei manifestanti hanno accerchiato la sede di MTVA, l’agenzia per il servizio pubblico radiotelevisivo. Il giorno seguente, un gruppo di parlamentari di opposizione si è introdotto nella sede della stessa emittente chiedendo di poter leggere un comunicato in diretta, richiesta negata. In seguito ad una breve “tregua” tra Natale e Capodanno, le manifestazioni sono riprese sabato 5 gennaio. A convincere migliaia di ungheresi a far sentire il proprio dissenso è stata l’approvazione della cosiddetta “leggeschiavitù”, avvenuta il 12 dicembre. I contenuti di questa legge consentono ai datori di lavoro di richiedere fino a 400 ore di straordinari all’anno, ben 150 in più di quelle ammesse in precedenza. Inoltre, la legge permette di posticipare le retribuzioni per tali prestazioni fino a 3 anni. Come ha infatti affermato dal parlamentare 4 • MSOI the Post

d’opposizione Bence Tordai, “la legge-schiavitù crea solidarietà tra gli ungheresi, in quanto essa può avere effetti su qualsiasi cittadino”. Un altro motivo alla base delle proteste è stata l’istituzione, avvenuta lo stesso 12 dicembre, di un nuovo tribunale presieduto dal Ministro della Giustizia con funzioni vagamente definite come relative ad “affari di governo”, quali la tassazione e i processi elettorali. Dalla società civile sono arrivate pesanti critiche, con la leader della ONG Hungarian Helsinki Committee, Marta Pardavi, che lo ha definito “il colpo di grazia all’indipendenza del potere giudiziario, ormai asservito a quello esecutivo”. Dal canto loro, esponenti di Fidesz hanno respinto le accuse, incolpando le opposizioni e i media esteri di dare informazioni erronee circa i contenuti delle leggi e di ingigantire i numeri dei manifestanti. Oltre alla legge-schiavitù e la creazione del nuovo tribunale vi sono anche altre ragioni alla base delle proteste. I manifestanti, infatti, hanno denunciato la mancanza di democrazia e l’autoritarismo dei quasi 9 anni consecutivi di governi guidati da Orbán, i quali sono stati contraddistinti

da toni conservatori, nazionalisti e antieuropeisti. Sfruttando ampiamente la larga maggioranza parlamentare, i governi hanno effettuato modifiche costituzionali di stampo conservatore e promulgato leggi che restringono l’accesso dei migranti nel paese. Inoltre, il Consiglio Superiore della Magistratura è stato subordinato all’organo esecutivo, ed è stata creata una commissione governativa per il controllo dei programmi televisivi. L’operato dei vari governi Orbán è stato spesso criticato dell’UE, richiami che sono culminati lo scorso settembre con l’avviamento della procedura d’infrazione, come previsto dall’Articolo 7 del Trattato di Lisbona. Un voto definito storico e dovuto alle “continue e reiterate violazioni dei principi cardine dell’Unione”. L’ultima ondata di proteste presenta un elemento di novità in quanto le opposizioni sono state in grado di superare enormi divergenze politiche e compattarsi. Alle manifestazioni dello scorso dicembre erano presenti parlamentari e sostenitori di tutti i partiti d’opposizione. I loro leader hanno infatti giurato che “il 2019 sarà l’anno della resistenza al despotismo di Orbán e del suo partito”.


NORD AMERICA MIKE POMPEO ALL’INSEDIAMENTO DI JAIR BOLSONARO

Il Segretario di Stato e il nuovo presidente brasiliano aprono un nuovo canale diplomatico

Di Nicolas Drago Il 31 dicembre 2018, Michael Richard Pompeo, Segretario di Stato statunitense e braccio destro del presidente Donald Trump, è decollato dall’aeroporto di Washington su un volo diretto a Brasilia per guidare una delegazione alla cerimonia di insediamento del neoeletto presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, programmata per il primo gennaio 2019. La partecipazione della delegazione presidenziale era finalizzata a mostrare il pieno sostegno al progetto politico della nuova leadership brasiliana, che sembra allinearsi alla perfezione a quella dell’amministrazione Trump, dallo scetticismo per il cambiamento climatico alla preoccupazione per i crescenti investimenti della Cina. Per di più, la visita in Brasile è indicativa dello sforzo volto a promuovere un futuro più sicuro e favorevole per gli Stati Uniti in America del Sud; difatti, all’inaugurazione presidenziale sono seguiti il colloquio a Palàcio do Planalto tra Pompeo e Bolsonaro, accompagnato dal suo ministro degli Affari Esteri Ernesto Araùjo. A dare avvio al confronto è stata la discussione afferente

alla necessità di inquadrare le priorità economiche, commerciali, e finanziarie bilaterali, per rinsaldare ulteriormente la cooperazione tra i due Paesi negli anni a venire. In fase di conclusione è stato dato ampio spazio agli affari regionali e internazionali: l’attenzione del presidente brasiliano e del Segretario di Stato è stata convogliata sulla presenza incalzante della Cina nella regione, nella quale, dal 2003, ha investito complessivamente 124 miliardi di dollari. I crescenti versamenti di denaro cinesi sono stati interpretati da entrambe le amministrazioni come una pratica predatoria e lesiva della sovranità del Brasile. Durante il dibattito attinente alla politica regionale, inoltre, è stato trattato il tema della promozione e della difesa dei valori democratici e dei diritti umani in Venezuela, in Nicaragua, e a Cuba, per supportare quei cittadini che stanno resistendo a questi regimi, considerati repressivi. All’inaugurazione ha presenziato anche il Presidente del Perù, Martin Vizcarra, con il quale Pompeo ha avuto un breve scambio per ringraziarlo della condanna al regime dittatoriale di Nicolàs Maduro e per lodarne l’impegno prodigato

nell’accogliere rifugiati e migranti venezuelani. Le tensioni intra-emisferiche stanno infatti aumentando, dal momento che Nicolàs Maduro ha recentemente accusato gli Stati Uniti di stare ordendo un colpo di Stato – con Brasile e Colombia complici - al fine di rovesciare il suo governo. In ultimo, il dialogo ha vertuto sulla determinazione reciproca di contrastare il crimine e il terrorismo transnazionali, e, conseguentemente, accrescere la sicurezza frontaliera. Relativamente alla strategia di politica internazionale, invece, Bolsonaro ha dichiarato di voler trasferire l’ambasciata del suo Paese in Israele, da Tel Aviv a Gerusalemme, imitando la scelta presa da Donald Trump nei mesi scorsi. Il quarto viaggio in America Latina del Segretario di Stato si è concluso il 2 gennaio con la visita a dopo l’incontro con il presidente colombiano Ivan Dùnque a Cartagena. Il vertice è servito a fare il punto sul successo del Trade Promotion Agreement, che ha raddoppiato il valore dell’export agricolo statunitense, e ad approfondire il dialogo con la Colombia in merito alla sua posizione sulla questione migratoria connessa al Venezuela. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA STATI UNITI-COREA DEL NORD: IL 2019 INIZIA ALL’INSEGNA DELL’INCERTEZZA

Kim Jong-Un ha lanciato messaggi contrastanti, tra distensione e un nuovo raffreddamento

Di Domenico Andrea Schiuma Se il 2018 si era chiuso con una apparente distensione nei rapporti tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord, il 2019 si apre con nubi all’orizzonte. Nel messaggio di fine anno ai nordcoreani, Kim Jong-un ha lanciato segnali contrastanti. Da un lato, si è infatti detto disponibile a incontrare di nuovo Donald Trump in qualsiasi momento, al fine di raggiungere risultati che ottengano il placet della comunità internazionale. Il leader della Corea del Nord sembra così voler proseguire sulla via del dialogo con gli Stati Uniti, culminata nel summit di Singapore del 12 giugno 2018. Così facendo, ha risposto, inoltre, alla sollecitazione a un nuovo incontro con Trump, arrivata il 24 dicembre 2018 dal profilo Twitter dello stesso presidente statunitense. Dall’altro lato, tuttavia, ha specificato che se gli Stati Uniti non interromperanno il regime sanzionatorio, la Corea del Nord si vedrà costretta a “cercare un nuovo percorso” per proteggere la sovranità, gli interessi e la pace dello Stato e dell’intera penisola coreana. Il che, verosimilmente, significherebbe un ritorno alla strada del nucleare. 6 • MSOI the Post

Strada che, in realtà, non sarebbe mai stata davvero abbandonata. L’incontro di Singapore si era infatti concluso con una dichiarazione congiunta in cui Kim affermava il proprio impegno per giungere alla “completa denuclearizzazione della penisola coreana”, ribadendo quanto già stabilito, insieme al presidente della Corea del Sud Moon Jae-in, nella Dichiarazione di Panmunjom del 27 aprile scorso. Dopo l’evento di Singapore, Trump aveva affermato che la Corea del Nord non rappresentava più una minaccia nucleare. In realtà, secondo fonti dell’intelligence statunitense e stando a un rapporto commissionato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, nei mesi successivi la Corea del Nord non ha rispettato i patti stipulati. Tutto ciò sarebbe coerente, stando alle opinioni dello studioso Evans J.R. Revere riportate dal New York Times, con la circostanza per cui, a Singapore, Stati Uniti e Corea del Nord hanno comunque espresso idee divergenti sul tipo di denuclearizzazione da portare avanti. Secondo i primi, la Corea del Nord dovrebbe dismettere tutto il suo arsenale. Nella visione della seconda, gli

Stati Uniti devono allo stesso modo dire addio alla possibilità di minacciare lo Stato di Kim con armi nucleari. Nel discorso di fine 2018, Kim ha inoltre aggiunto un ulteriore tassello al puzzle che si è delineato a partire dal summit di Singapore. Kim ha messo sul tavolo la sua disponibilità a non produrre, non usare e non diffondere più nel mondo armi nucleari, a condizione che gli Stati Uniti interrompano il regime sanzionatorio e ridimensionino la cooperazione militare con la Corea del Sud. Circostanza, quest’ultima, che rischierebbe invece di minare la relazione speciale che sussiste nell’area tra Stati Uniti e Giappone. Il Giappone vede, infatti, la presenza militare statunitense nella penisola coreana come un’importante garanzia di sicurezza nell’area. Il leader nipponico Abe Shinzo ha più volte suggerito a Trump di non fidarsi delle intenzioni e delle mosse di Kim. Se il presidente statunitense dovesse accondiscendere su questo punto alle condizioni avanzate dalla Corea del Nord (ipotesi che oggi appare improbabile), si aprirebbero dunque le porte per un indebolimento della relazione Stati UnitiGiappone.


MEDIO ORIENTE

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MEDIO ORIENTE TRA LE FATICHE DELL’INVERNO E LA MARGINALIZZAZIONE I rifugiati siriani in Libano e le difficoltà della cooperazione internazionale

Di Anna Nesladek L’inverno è duro per tutti, ma per alcuni più di altri: è il caso dei rifugiati siriani che attualmente si trovano in Libano, dove le cattive condizioni atmosferiche rischiano di pregiudicare seriamente le condizioni di migliaia di persone. Di circa 1 milione di rifugiati registrati in Libano, 170.000 vivono in alloggi improvvisati estremamente precari. Già 66 insediamenti sono stati gravemente danneggiati dal maltempo, 15 dei quali sono andati completamente distrutti, e le previsioni sono di gran lunga peggiori. Sono state adottate misure d’emergenza e le Nazioni Unite distribuiscono generi di prima necessità. Come spesso accade in queste situazioni, le vittime si sentono abbandonate dalle autorità, che per vera impotenza o per mancanza di interesse non sono in grado di far fronte all’emergenza. In questo caso, il j’accuse è rivolto alle Nazioni Unite, ritenute assenti e incapaci di prestare l’aiuto necessario ai rifugiati, soprattutto perché per molti di essi è ormai l’ottavo inverno passato in condizioni a dir poco precarie. In realtà, gran parte della 8 • MSOI the Post

responsabilità è del governo libanese, che non permette all’ONU né ad alcun’altra organizzazione di costruire strutture permanenti. I rifugiati non solo rappresentano una sfida economica (il Libano è lo Stato con il più alto numero di profughi per numero di abitanti), ma sono anche percepiti come una minaccia agli equilibri politici di un Paese il cui assetto statale si regge su tre diversi gruppi religiosi. Per questo, la loro integrazione viene sistematicamente ostacolata, soprattutto per quanto riguarda la concessione dei permessi di lavoro e residenza: è infatti ancora vivo nei ricordi delle élite libanesi il ruolo dei rifugiati palestinesi nella guerra civile che ebbe luogo tra il 19751990 ed essi sono tutt’oggi comunemente ed erroneamente accusati di essere una delle principali cause del conflitto. La situazione dei rifugiati in Libano rappresenta un chiaro esempio di come siano sempre più necessari accordi internazionali che regolino i flussi migratori, soprattutto considerando che il Libano non ha firmato la Convenzione di Ginevra del 1951, pilastro dei diritti delle persone rifugiate. Anche se ancora nebuloso e

flebile, il Global Compact sull’immigrazione sottoscritto il 10 di dicembre a Marrakech rappresenta una speranza in questo senso, sebbene la firma del Compact e le negoziazioni precedenti abbiano dimostrato ancora una volta i limiti della cooperazione internazionale in materia di immigrazione. Un altro esempio è costituito dagli accordi firmati dall’Unione Europea per la gestione dei rifugiati siriani in Libano, il Compact del 2016 (che esiste anche per la Giordania), che rientra nella strategia di esternalizzazione della frontiera dell’Unione e che due anni dopo non ha affatto sortito l’effetto sperato. Il Compact, infatti, per il Libano prevedeva che il governo adottasse alcune misure per favorire l’integrazione dei rifugiati siriani, soprattutto facilitando l’ottenimento del permesso di residenza e l’accesso al mercato del lavoro, in cambio dell’invio di 400 milioni di euro tra il 2016 e il 2017. La cattiva situazione nella quale versa il Paese e l’instabilità politica hanno fatto sì che l’accordo non venisse applicato. Per citare un dato emblematico: nel 2017, solo 200 permessi di lavoro sono stati concessi.


RUSSIA E BALCANI GLI STUDENTI ALBANESI CHIEDONO UN CAMBIAMENTO DELL’UNIVERSITÀ

La recente tassa sui crediti è stata la scintilla cha ha dato inizio alle manifestazioni

Di Amedeo Amoretti Il 4 dicembre, a Tirana, hanno avuto luogo le prime manifestazioni studentesche, dove migliaia di giovani si sono dati appuntamento davanti al Ministero dell’Istruzione per far sentire la propria voce contro l’aumento delle tasse universitarie, in particolare della tassa sui crediti. Quest’ultima prevederebbe il pagamento di 670 lek (circa 5 euro) per ogni credito non superato durante l’anno. In un Paese colpito da un forte indice di povertà, dove il reddito medio mensile si attesta al di sotto di 400 euro, tale tassa risulterebbe piuttosto onerosa e favorirebbe un’ulteriore emigrazione, già presente a tassi notevoli. A inizio 2015, il governo Rama iniziò una riforma del sistema universitario. L’azione prevedeva un intervento differenziato a seconda delle università trattate: alcune proseguirono l’insegnamento sotto monitoraggio, altre subirono una sospensione di due anni durante i quali avrebbero acquisito i criteri legali necessari, altri, tra cui 18 istituti privati e 6 filiali di università statali, chiusero i battenti. Alcuni studenti di medicina, costretti al passaggio dall’insegnamento privato a quello pubblico, ritenendo

discriminatoria la riforma adottata, occuparono l’Università di Scienze di Tirana. Mentre la polizia interveniva per allontanare gli occupanti, il governo concesse lo status di idoneità ad alcuni istituti privati. Secondo quanto riportato da Osservatorio Balcani e Caucaso-Transeuropa, “si vociferava in quei giorni” che tali istituti fossero rimasti aperti grazie all’influenza politica dei loro direttori. Fu così che le proteste si calmarono e il Parlamento approvò il disegno di legge sulla riforma universitaria. Essa prevedeva, tra i vari obiettivi, la possibilità di accedere a finanziamenti pubblici per le università private, una valutazione degli istituti in base alle loro performance e un minor ruolo degli studenti nelle elezioni dei rettori. In seguito alle manifestazioni studentesche dello scorso dicembre, il governo ha cambiato spesso atteggiamento nei confronti dei manifestanti. Dapprima il premier Edi Rama si è opposto alle proteste, ma in seguito è stato costretto a cambiare parere. Mentre le proteste dilagavano, gli studenti hanno rifiutato qualsiasi negoziazione con il governo, chiedendo a gran voce 8 obiettivi: un aumento fino al 5% del PIL per gli investimenti sull’istruzione, una riduzione delle tasse

universitarie, un maggior potere di voto degli studenti nelle elezioni dei rettori e una maggior trasparenza delle politiche ministeriali. Edi Rama è stato costretto, così, ad andare incontro agli studenti procedendo con il licenziamento di 7 ministri, tra cui quello dell’istruzione, e del vicepremier. Lunedì 7 gennaio, gli studenti hanno invocato una mobilitazione generale chiamando a raccolta l’intera popolazione. Minatori di Puka e Mirdita si sono uniti alle proteste affermando di esserci “per sostenere gli studenti, ma anche per richiedere i propri diritti”. Sul piano della politica interna, la tensione si fa concreta. All’interno dell’aula parlamentare, mentre il Primo Ministro pronunciava il suo discorso sulla questione, un deputato del Partito Democratico (di destra, in Albania), Endri Hasa, si è avvicinato al podio lanciando uova verso Rama. A livello internazionale, non è mancata la voce dell’associazione degli studenti albanesi dell’università di Harvard, che ha sostenuto la rivolta studentesca ritenendo che sia arrivato “il tempo per un cambiamento strutturale”. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI INIZIA IL SEMESTRE EUROPEO DELLA ROMANIA

Bucarest punta sul pilastro della coesione per la sua presidenza di turno del Consiglio dell’Unione

Di Mario Rafaniello A partire dal 1° gennaio, per la prima volta nella sua storia, la Romania ha assunto la presidenza del Consiglio dell’Unione europea, ruolo che ricoprirà fino al 30 giugno 2019. Bucarest apre la turnazione semestrale che coinvolgerà anche Finlandia e Croazia, a completamento di un percorso che durerà un anno e mezzo. Membro dell’Unione dal 2007, la Romania raccoglie l’eredità del semestre di presidenza dell’Austria di Sebastian Kurtz: dovrà affrontare temi importanti quali il crescente euroscetticismo, l’uscita del Regno Unito dall’Unione il 29 marzo e le elezioni per il Parlamento europeo del 26 maggio. La Romania, inoltre, viene da un periodo di crisi politica, che ha portato nello scorso agosto a violenti scontri di piazza, causati dalle scelte del governo in materia di anticorruzione, già motivo di rimprovero da parte dei vertici di Bruxelles. Se da un lato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk fa gli auguri alla Romania e si dice fiducioso sui possibili risultati, dall’altro il presidente della Commissione Jean10 • MSOI the Post

Claude Juncker non nasconde un certo scetticismo riguardo le reali capacità di guida della nuova Presidenza del Consiglio UE: “Le tensioni interne sarebbero un possibile motivo di distrazione dal compito che attende Bucarest”. “Ho dei dubbi riguardo alla ferma volontà di mettere le proprie preoccupazioni in secondo piano” ha dichiarato al quotidiano tedesco Die Welt, riconoscendo anche come la Romania sia “tecnicamente ben preparata” a portare avanti un certo numero di progetti durante il semestre di presidenza. Critiche che fanno sentire la Romania trattata “come un Paese di serie B”, sottolineano dal PSD, il partito della premier Viorica Dancila. L’impegno del governo rumeno a fronte delle sfide che lo attendono è racchiuso nello slogan scelto: “Coesione, un valore comune in Europa”. Un chiaro segnale in un momento così delicato negli equilibri europei, per il quale la premier Dancila promette “l’affidabilità della Romania come partner per consolidare il progetto europeo e la sua coesione”. Saranno quattro le aree d’interesse su cui l’Unione concentrerà i propri sforzi: crescita, sicurezza, rafforzamento sulla scena

mondiale e valori comuni quali solidarietà e diritti umani. L’esecutivo di Bucarest ha più volte dichiarato di voler svolgere il mandato europeo ponendosi come “ponte” tra Est e Ovest, garantendo stabilità all’interno dell’Unione, così da perseguire realmente gli obiettivi legati al pilastro della coesione europea. In agenda anche i negoziati con Vietnam e Singapore per giungere ad accordi di libero scambio, la questione delle quote obbligatorie sull’immigrazione, la riforma dell’eurozona e il budget a lungo termine (2021-2017) dell’Unione (MMF-Multiannual Financial Framework). La Brexit sarà la maggiore sfida per Bucarest, viste le incertezze sui negoziati e le difficoltà di dialogo tra Londra e Bruxelles sui termini dell’accordo, laddove ve ne sarà uno. Infatti, c’è la possibilità di un “no deal” per l’uscita, nel caso in cui il Parlamento di Westminster a metà gennaio bocci l’accordo negoziato dalla premier Theresa May. Il 9 maggio è previsto proprio in Romania, a Sibiu, un vertice informale tra i leader europei, il primo senza il Regno Unito e l’ultimo prima delle elezioni europee, altro punto cruciale del semestre rumeno.


ASIA E OCEANIA DIPLOMATICO NORDCOREANO DISERTA IN ITALIA Molti dettagli circa la fuga di Jo Song-gil restano ignoti

Di Fabrizia Candido Jo Song-gil, 48 anni, era Chargé d’Affaires della Repubblica Democratica Popolare di Corea: il funzionario diplomatico più alto in grado della rappresentanza nordcoreana in Italia. Dal 2015 ha ricoperto il ruolo di Primo Segretario e nell’ottobre 2017 ha preso il posto del suo superiore Mun Jong-Nam, espulso da Roma per sanzionare il sesto test nucleare ordinato da Kim Jongun, in violazione delle risoluzioni ONU. Il mandato di Jo sarebbe dovuto terminare il 20 novembre 2018, ma, secondo quanto riferito dal parlamentare sudcoreano Kim Min-ki, il diplomatico è fuggito dall’ambasciata insieme alla sua famiglia nei primi di novembre. L’agenzia Yonhap riporta che Jo Songgil ha presentato richiesta di protezione personale al governo italiano a inizio dicembre: una procedura diplomatica necessaria ad evitare che venisse rimpatriato. Secondo il quotidiano sudcoreano Joongang Ilbo, Jo Song-gil avrebbe successivamente presentato domanda di asilo in un Paese occidentale non meglio identificato. Sulla base di questa ricostruzione, le autorità italiane starebbero quindi temporaneamente nascondendo

Jo e la sua famiglia in un luogo sicuro. La Farnesina, in ogni caso, ha reso noto che non risulta alcuna richiesta di asilo a suo nome. Quello di Jo Song-gil non è certo il primo caso di diserzione da parte di un diplomatico nordcoreano. Nel 2016, Thae Yong-ho ha clamorosamente abbandonato il suo incarico di Vice Ambasciatore a Londra, ma già nel 1991 Ko Young-hwan, di stanza nella Repubblica Democratica del Congo, era fuggito in Corea del Sud, seguito dal terzo segretario in Zambia Hyon Song-il nel ‘96 e, l’anno successivo, da Chang Sung-gil, in servizio in Egitto e scappato a Washington. Con la notevole eccezione di Thae, questi disertori non miravano tanto a ribellarsi, offrendo ad esempio informazioni ai servizi segreti o collaborando con governi rivali, quanto piuttosto a sfuggire al regime e far perdere ogni traccia di sé. Al fine di scoraggiare le defezioni, i diplomatici nordcoreani impiegati all’estero sono spesso tenuti a lasciare in patria diversi membri della famiglia. Jo è però riuscito a trasferirsi a Roma nel 2015 con moglie e figli, probabilmente in virtù della sua appartenenza a una famiglia privilegiata. Neanche dalla Corea del Sud (in cui vivono circa 30.000 disertori

provenienti dal nord della penisola) arrivano informazioni certe. A Seul, la ‘Casa Blu’, sede della presidenza, ha fatto sapere di non avere notizie sulla defezione di Jo Song Gil, ma può sempre darsi che il diniego sia stato, per così dire, strategico e volto a non disturbare i prossimi negoziati che si terranno tra il regime nordcoreano, gli Stati Uniti e la comunità internazionale per l’abbandono definitivo del programma nucleare di Pyongyang, in cambio della progressiva demilitarizzazione della penisola coreana Negli USA la notizia ha avuto forte eco: secondo il Washington Post, se davvero si trattasse di diserzione, la fuga di un alto funzionario potrebbe gettare un’ombra sui progressi finora raggiunti per il ripristino del dialogo e della diplomazia. La legazione a Roma, nello specifico, è tra le più importanti della rete estera nordcoreana, con due diplomatici provenienti dal ministero degli Esteri e due legati alla FAO, che spesso assiste la Corea del Nord per far fronte alle carenze alimentari. L’Italia, inoltre, è stato il primo Paese del G7 a stabilire relazioni diplomatiche con Pyongyang, ufficialmente aperte nel gennaio del 2000 grazie a Lamberto Dini, ex ministro degli Esteri. MSOI the Post • 11


ASIA E OCEANIA IL PRINCIPIO DI UN’UNICA CINA: TAIWAN ALLE STRETTE

Le dichiarazioni di Xi riaccendono la disputa sull’annessione della “provincia ribelle”

Di Daniele Carli Il 1° gennaio, a Pechino, si è svolta la cerimonia celebrativa del 40° anniversario del Messaggio ai Compatrioti di Taiwan, che sancì la distensione dei rapporti tra la Cina Comunista ed il Governo Nazionalista taiwanese. In questa occasione, il presidente cinese Xi Jinping è tornato a parlare della questione della riunificazione. In seguito alla vittoria del Partito Comunista Cinese (PCC) nella Guerra Civile (1927-1936; 1946-1950), i nazionalisti del Kuomintang (KMT) si rifugiarono presso l’isola di Taiwan, dove nacque quella che è oggi conosciuta come la Repubblica di Cina. Ciononostante, attraverso l’accettazione della “One China Policy”, il governo di Pechino impone ai propri partner diplomatici che si riconosca l’esistenza di una sola Cina, sottintendendo la Repubblica Popolare Cinese, di cui Taiwan costituirebbe la ventitreesima provincia. Pur ribadendo che la transizione dovrà avvenire in maniera pacifica, il Presidente ha precisato che la Cina potrebbe comunque ricorrere alla forza per portare a compimento un processo definito “inevitabile”. A tal proposito, Xi Jinping ha sottolineato che le tendenze 12 • MSOI the Post

indipendentiste, tanto quanto l’intromissione straniera nella questione, sono da considerarsi “intollerabili”. Il piano di Pechino è quello di perseguire una riunificazione sulla base del principio costituzionale “one country, two systems”, formulato da Deng Xiaoping nel 1980 e già applicato per Hong Kong. Con le parole di Xi,“la proprietà privata, le regioni, le credenze ed i diritti legittimi della popolazione di Taiwan saranno totalmente garantiti”, nè saranno minati gli interessi economici di investitori stranieri sull’isola. D’altro canto, anche Hong Kong ha la sua parte di dissidenti. Nel corso della Marcia di Capodanno, migliaia di attivisti democratici ed indipendentisti locali sono scesi in piazza per protestare contro l’erosione di diritti e libertà associati all’autonomia della provincia cinese, alimentando le preoccupazioni di quanti, a Taiwan, già dubitano della genuinità delle rassicurazioni del leader cinese. Il 5 gennaio è arrivata la risposta della presidente taiwanese Tsai-ing Wen, ferma nel rimarcare l’impossibilità che un simile progetto possa essere accettato da qualsiasi rappresentante politico di Taiwan: “Chiediamo alla Cina che

accetti la realtà dell’esistenza della Repubblica di Cina. Devono rispettare la devozione di 23 milioni di taiwanesi alla libertà ed alla democrazia”. Le dichiarazioni di Xi hanno permesso alla Presidente taiwanese di consolidare la sua posizione di paladina della democrazia, fondamentale sia nell’ottica dell’appoggio della comunità internazionale alla situazione dell’isola, sia per quanto riguarda il supporto dell’elettorato taiwanese in vista delle elezioni del prossimo anno. La questione di Taiwan costituisce un tassello particolarmente importante nella composizione del mosaico geopolitico odierno e va a posarsi in uno degli interstizi in cui si incontrano le vaste ed articolate figure della Cina e degli USA. Con il Taiwan Relations Act del 1979, gli Stati Uniti si sono impegnati a difendere l’isola nel caso di attacco militare da parte della Cina, a condizione che lo stesso non sia seguito ad una provocatoria dichiarazione di piena indipendenza da parte della Repubblica di Cina. Le assertive dichiarazioni di Xi Jinping, dunque, rischiano di complicare ancor di più i rapporti tra i due Paesi, già incrinati dalla corrente guerra dei dazi.


AFRICA STANCHI DI COMBATTERE

La riapertura del confine tra Etiopia ed Eritrea inaugura un periodo di pace nella regione

Di Federica De Lollis La città di Zalambessa, visitata dal giornalista Eyder Peralta per NPR, è lo scenario di una estenuante guerra ultraventennale da poco giunta al termine: l’inviato descrive con minuzia di dettagli un centro abitato in cui nessun muro, cartello stradale o finestra sono stati risparmiati dai proiettili piovuti fino a poche settimane prima. Ma negli ultimi mesi, a Zalambessa e nelle altre località che versano nelle stesse condizioni, si respira finalmente un’aria diversa. Del conflitto rimangono soltanto i segni evidenti sugli edifici e le ferite profonde di chi ha perso la casa o i propri cari. Lo dimostrano i primi caffè che sorgono dove si estendevano le trincee e, soprattutto, la ritirata delle rispettive truppe, ordinata, per la parte etiope, dal maggiore Asrat Denero. Anche i traffici commerciali sembrano gradualmente riprendere, per ora senza brusche inversioni di marcia. In passato, Eritrea ed Etiopia erano un unico Stato. Nel 1993 l’Eritrea ha ottenuto pacificamente la secessione, ma poco tempo dopo è scoppiata la guerra, che si è protratta fino

ad oggi. Nel 2000, le parti hanno stipulato un accordo di pace informale che, tuttavia, non è mai stato onorato. Per tempo, il conflitto è stato definito una “guerra per un pugno di pietre”, incentrato principalmente sul controllo di un territorio desertico intorno alle città di Badme e Shiraro, ma si è rapidamente diffuso lungo l’intero confine. Gli attacchi avvenivano per lo più mediante incursioni violente, ma mai eccessivamente profonde. Inoltre, gli Accordi di Algeri hanno stabilito il dispiegamento dei caschi blu sulla linea di confine e l’insediamento di tre commissioni internazionali, che avrebbero, rispettivamente, deciso sui confini e sulla quantificazione dei danni della guerra e individuato le cause scatenanti. Lo scorso giugno, è avvenuta la svolta: il primo ministro Abyi ha dichiarato che l’Etiopia era disposta ad implementare l’accordo firmato nel 2000 e alle sue parole è seguita la ratifica del trattato di pace di luglio. Gli scopi prettamente commerciali della pace non sono segreti: l’Etiopia, che sta conoscendo una significativa crescita economica grazie ad

ingenti investimenti esteri (tra questi, il gruppo Calzedonia), nutre un forte interesse verso il porto di Assab, in Eritrea, che consentirebbe di aprire un nuovo canale di esportazione sul Mar Rosso, più efficace di quello passante per il Gibuti, dal quale transita attualmente il 90% dei beni in uscita. Se in Etiopia le ultime amministrazioni hanno favorito il rilancio dell’economia, la situazione in Eritrea è completamente capovolta: il regime di stampo poliziesco soffoca ogni tentativo tentativo di crescita, lasciando il Paese in uno stallo permanente. Una prospettiva più rosea per i due Paesi è certamente quella della libera circolazione dei cittadini. È già presente la prima rete stradale che attraversa il confine, passando proprio per la città di Zalambessa. Dalla prima, ufficiosa, apertura dei confini a settembre, numerosissime famiglie hanno avuto la possibilità di ricongiungersi dopo anni di separazione forzata. Le popolazioni e i governi si aspettano una pace duratura e una ricostruzione rapida. Dopo anni di guerra infruttifera, è tempo di ricominciare. MSOI the Post • 13


AFRICA LA CONTROTENDENZA ECONOMICA DEL SUDAN Una crisi economica nel momento dello sviluppo?

Di Corrado Fulgenzi Come si è ben potuto osservare negli ultimi anni, l’economia del continente africano è in continuo sviluppo: un primo passo decisivo è stata la costituzione dell’Unione Africana nel 2002, che ha permesso, nel marzo del 2018, la conclusione dell’importante accordo per l’eliminazione dei dazi doganali, ossia l’African Continental Free Trade Area Agreement. Infatti, secondo i dati riportati dalla Banca Mondiale, è previsto che l’andamento crescente, avvenuto durante il 2018 nella maggior parte del continente, continuerà anche nel triennio successivo 201921. In particolare, la regione subsahariana ha avuto una crescita del PIL del 3.1% nel 2018, mentre per il 2019 raggiungerà il 3.5%. Sono presenti tuttavia Stati che non godono, nè, sembra, godranno in un futuro prossimo, di tale progresso economico, poiché afflitti da crisi economiche e finanziarie. Un esempio è il Sudan di Omar Hasan Ahmad al-Bashīr. Al potere dal 1989, su al-Bashīr pendono, dal 2008, una condanna e un mandato di cattura della Corte penale Internazionale per crimini di guerra nel Darfur. 14 • MSOI the Post

Uno dei motivi principali del crollo economico del Paese, è l’inflazione scoppiata nel novembre 2017, ossia un mese dopo la decisione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump di revocare le sanzioni economiche poste nel 1997 dall’amministrazione Clinton, con cui si voleva punire il sostegno sudanese al terrorismo. Per il Sudan, il 2018 è stato un anno, dal punto di vista economico, in controtendenza rispetto al continente. Oltre a dover affrontare la costante crisi nel Darfur e le conseguenze belliche dovute alla secessione del Sud Sudan, ricco di giacimenti di petrolio, l’impatto della svalutazione della moneta non è stato lieve: con picchi inflazionari del 68% a settembre e 69% a dicembre, si è innescato un aumento vertiginoso dei prezzi dei beni di prima necessità, come farina, carne e patate; inoltre, la popolazione si è trovata impossibilitata a ritirare cartamoneta, essendo terminate anzitempo le scorte per l’altra richiesta agli sportelli. La contrazione dell’output del Paese è netta: stando ai dati sulla crescita del PIL, si è passati dal 4.906% del 2015 al 2.586% del 2018. Per quanto infine un leggero rialzo sia stato previsto per il biennio successivo, non si

può dire che sarà sufficiente a ristabilire le finanze. A dicembre, nel pieno del dissesto economico, le proteste nel Paese si sono amplificate, per poi intensificarsi all’inizio del nuovo anno. In poco tempo, si sono susseguiti una protesta provinciale per l’innalzamento del prezzo del cibo, un blocco governativo dei social media per impedire la mobilitazione dei protestanti e gli arresti del 6 gennaio, ai danni di giornalisti e accademici dall’università di Khartoum. È importante soffermarsi sul fatto che, per la prima volta, dei professori abbiano preso parte ai cortei anti-governativi. L’azione di rappresaglia da parte della polizia è stata presumibilmente intrapresa per bloccare la diffusione di ideali nocivi per il regime. Si può affermare con una certa confidenza che la responsabilità per lo stato attuale in cui versa il Sudan pesi considerevolmente sulle spalle di al-Bashīr, campione del cosiddetto leader’s survival. In tal senso, le sue prossime mosse saranno decisive per conservare suo pluriennale mandato. Di questo passo, però, secondo gli osservatori, una “primavera araba” sudanese non è un’ipotesi poi tanto remota.


AMERICA LATINA CUBA A 60 ANNI DALLA RIVOLUZIONE Il lascito della rivoluzione castrista: ancora controverso, dopo più di mezzo secolo

Di Sabrina Certomà “Dentro de la Revolución, todo; contra la Revolución, nada”. Allo scoccare del 2019 la rivoluzione cubana è giunta al suo 60° anniversario. Sebbene le considerazioni sull’eredità che questo evento epocale ha lasciato nel mondo siano tra le più controverse, è certo che per più di mezzo secolo abbia influenzato gli ideali di milioni di persone. La Revolución si affermò, inizialmente, grazie all’appoggio di tutte le classi sociali cubane, dai contadini agli intellettuali, dagli operai ai partiti politici, fino alla media e piccola borghesia. La crisi economica che colpì l’isola negli anni ‘50 e la mala gestione di Fulgencio Batista provocarono, infatti, l’incremento degli oppositori al regime. Tra questi, si distinse in particolare la figura del giovane avvocato Fidel Castro. Condannato a 15 anni di reclusione con l’accusa di “attentato ai poteri costituzionali dello Stato e insurrezione”, Castro pronunciò le parole che diedero inizio alla vera e propria rivoluzione cubana: «Nascemmo in un Paese libero

che ci lasciarono i nostri padri e sprofonderà l’Isola nel mare prima che acconsentiremo ad essere schiavi di qualcuno […]. Condannatemi, non importa, la storia mi assolverà». Dopo il ritorno clandestino a Cuba, Fidel e i suoi guerriglieri – tra i quali Ernesto Guevara, Raul Castro e Camilo Cienfuegos – ottennero alcune vittorie contro l’esercito di Batista e, la notte di capodanno del 1959, il dittatore fuggì e la capitale fu conquistata. Castro prese, così, il potere e nel 1961 Cuba fu proclamata Stato socialista. Da quel momento, numerosi eventi hanno caratterizzato la storia di questo Paese e hanno contribuito a crearne il mito: l’inizio delle restrizioni da parte degli Stati Uniti, l’avvicinamento all’Unione Sovietica, la vicenda della Baia dei Porci, l’embargo, la crisi dei missili e le nuove sanzioni statunitensi. Nel 2006, Fidel si ritirò dalla scena politica in favore del fratello Raúl, che man mano prese ad attenuare l’isolamento del Paese. Al momento della sua rielezione, Raúl Castro annunciò che nel 2018 si sarebbe sottratto alla vita pubblica, preparando Cuba a un cambiamento fondamentale.

Alla morte di Fidel, nel novembre 2016, numerosi leader politici intervennero per ricordarlo, come il presidente russo Vladimir Putin, seguito dall’omologo venezuelano Nicolás Maduro, Enrique Peña Nieto dal Messico e Rafael Correa dall’Ecuador. Al contrario, la comunità cubana statunitense definì la morte di Fidel “la fine di un lungo e spaventoso capitolo” e la deputata Ileana Ros Lehtinen affermò: «è morto un tiranno e finalmente può cominciare una nuova era. Dobbiamo cogliere il momento e aiutare a scrivere un nuovo capitolo della storia di Cuba, una Cuba libera, democratica e prospera». La rivoluzione andrebbe forse ricordata come la rivolta di una borghesia che tentò di introdurre la democrazia in uno stato tradizionalmente governato da dittature, alimentando sollevazioni in tutto il Sud America e consentendo sviluppi positivi nel miglioramento della formazione scolastica e universitaria. D’altra parte, l’influenza sovietica ha modificato enormemente l’isola e l’ideologia dei suoi abitanti. La negazione di certe libertà fondamentali, l’ateismo e l’assistenzialismo di Stato si sono per molti risolti nell’oppressione della popolazione. Va sottolineato che anche gli USA hanno avuto il loro ruolo nel crollo dell’economia del Paese: con l’embargo, ne hanno causato l’isolamento, assecondando l’ostilità verso le democrazie liberali già affermate e lasciando il campo libero all’URSS. MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA VIOLENZA DI GENERE IN AMERICA LATINA: URGE UN CAMBIAMENTO

Una donna su tre subisce violenza, ma si combatte per la parità di genere

Di Natalie Sclippa Dei 25 Paesi al mondo che contano il maggior numero di donne uccise per questioni di genere, ben 14 si trovano in America Latina. Qui, ogni singolo giorno, vengono uccise 12 donne, due all’ora. A ricordarlo è stata la vicesegretaria generale delle Nazioni Unite Amina Mohammed, a cui si possono affiancare i dati della Comisión Económica para América Latina y el Caribe (CEPAL), organo regionale dell’ECOSOC, che afferma che gli omicidi di donne dai 15 anni in su nei Paesi del continente sudamericano e dei Caraibi sono stati 2559 nel solo 2017. Continuando con i dati, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in media una donna su tre ha subito violenza fisica o psicologica durante la sua vita. Il numero aumenta poi esponenzialmente durante i conflitti, quando l’abuso diventa strumento di umiliazione e oppressione. I Paesi del Sudamerica, per quanto non siano dichiaratamente in guerra, portano le ferite di anni di ostilità molto spesso irrisolte. La convivenza della popolazione con bande armate che si sostituiscono allo Stato, 16 • MSOI the Post

dettandone le leggi, continua ad essere difficile. Il 2018 ha visto un aumento dei femminicidi in numerosi Stati della regione. L’omicidio della giornalista Karla Turcio, in particolare, ha scosso l’Uruguay: numerose prove portarono all’arresto del marito della vittima, dando inizio a una serie di proteste e iniziative nel Paese volte a mettere in luce quanto la violenza sulle donne fosse diffusa. Così, da un episodio drammatico, è sorto un movimento. Non fu molto diverso per Ni Una Menos (Non una di meno): nato come slogan per una marcia di protesta che ebbe luogo in Argentina nel 2015, è ora tra i movimenti femministi più conosciuti e diffusi a livello globale, attualmente presente in Uruguay, Ecuador, Perù, Bolivia, Colombia, Venezuela, Cile e Paraguay, nonché fortemente attivo in Europa, in particolare in Spagna e in Italia. D’altronde, non è l’unico: Somos Muchas in Honduras, Comando Colibrí in Messico, Movimiento de Mujeres de Chinandega in Nicaragua, No es hora de callar in Colombia sono solo alcuni esempi di iniziative locali nate spontaneamente che promuovono i diritti delle donne e che non di rado intraprendono

una lotta trasversale che unisce le rivendicazioni di genere a vari altri aspetti connessi a oppressione e privilegio. La risposta delle istituzioni internazionali comprende a sua volta numerose campagne di sensibilizzazione, come l’Iniziativa Spotlight, lanciata dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea, che si propone di potenziare il ruolo della donna nella società, promuovendo la parità di genere. Eliminare la violenza, la disuguaglianza e la discriminazione è un passo essenziale per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030. L’Iniziativa venne lanciata nel settembre 2017 per cambiare le politiche, educare alla convivenza, aumentare i servizi di appoggio ai sopravvissuti e assicurare giustizia, condannando i colpevoli. Punta a sviluppare un lavoro sinergico e duraturo con i ministeri della Salute, della Giustizia e della Sicurezza, per rafforzare la loro capacità di misurare e riportare i casi di violenza sessuale e di genere, per studiare il fenomeno e trovare soluzioni adatte. I governi di Argentina, El Salvador, Guatemala, Honduras e Messico hanno già accettato la proposta e professato devozione alla causa.


ECONOMIA IL GIAPPONE APRE LE PORTE AI MIGRANTI

I lavoratori provenienti dal Sud-Est asiatico salveranno l’economia nipponica

Di Vittoria Beatrice Giovine La nuova politica sull’immigrazione varata dal governo giapponese nel dicembre 2018, ma che entrerà in vigore ad aprile, si è posta agli occhi del mondo come un tentativo di salvataggio di un’economia sofferente per via della crescente carenza di manodopera interna, dovuta all’invecchiamento della popolazione. Per un Paese come il Giappone, fondato su una forte industria manifatturiera, il deficit di forza lavoro, soprattutto in campo edile, agricolo, infermieristico e dell’assistenza agli anziani, ha comportato un forte rallentamento dell’economia, lasciando presagire l’avvento di un più grave declino, non solo economico, ma anche demografico. Attraverso l’adozione di una serie di misure, volte a favorire l’arrivo nel Paese di lavoratori stranieri, è stata stanziata una somma pari a €50 milioni per finanziare i programmi d’integrazione dei nuovi arrivati in un centinaio di comunità e per garantirne l’assistenza burocratica, medica e l’accesso ai corsi di lingua. L’obiettivo finale è l’assunzione di circa 340.000 lavoratori entro cinque anni. Attualmente, la maggior parte dei lavoratori proviene da diversi Paesi dell’Asia,

tra cui Vietnam, Filippine, Indonesia, Cambogia, Cina, Thailandia e Myanmar. Con l’entrata in vigore della nuova legislazione, gli stipendiati stranieri saranno divisi in due categorie: una per coloro che possiedono competenze nei settori attualmente a corto di manodopera, che non potranno portare con sé le loro famiglie; l‘altra per coloro in possesso di competenze più avanzate che, oltre alla possibilità di portare con sé i propri cari, potranno ottenere visti a tempo indeterminato e richiedere la residenza permanente. Un cambiamento radicale per Tokyo, che già agli inizi del giugno scorso aveva visto il Consiglio di politica economica e fiscale, presieduto dal primo ministro Abe Shinzō, accogliere i migranti provenienti dal Sud-Est asiatico, per mezzo dell’introduzione di un nuovo visto per i lavoratori immigrati non professionisti. In precedenza, il Giappone disponeva di due canali d’ingresso per i lavoratori esteri poco qualificati. Il primo era il sistema di tirocinio tecnico, creato nel 1990, con cui le piccole imprese nipponiche potevano assumere giovani a basso costo e provenienti dai Paesi in via di sviluppo dell’Asia, per un massimo di cinque anni. Il secondo, invece, era il

sistema d’istruzione: avviato un decennio fa dall’allora primo ministro Yasuo Fukuda, esso era finalizzato ad attrarre circa 300.000 studenti stranieri entro il 2020, così da garantire al Giappone una migliore competizione a livello internazionale. La nuova riforma, tuttavia, non è stata risparmiata dalle critiche da parte dei partiti di opposizione e dei sindacati, preoccupati dal fatto che consentire ai lavoratori di provenienza estera una lunga permanenza nel Paese, in assenza di un’efficace politica cheassicurilaloroperfettaintegrazione nella società, possa rivelarsi controproducente e ledere, quindi, gli interessi dei lavoratori locali. In risposta, Abe si è dichiarato intenzionato a non abbandonare l’originaria politica immigratoria restrittiva giapponese, invitando l’opinione pubblica a non fraintendere la sua decisione: “Non stiamo intraprendendo una politica immigratoria convenzionale” ha affermato il primo ministro, precisando che la maggior parte dei lavoratori rimarrebbe in Giappone per un periodo limitato. “Sarebbe scorretto imporre i nostri valori agli stranieri. Invece, è importante creare un ambiente nel quale le persone possano convivere felicemente”.

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ECONOMIA DOPO IL TRACOLLO IN BORSA E LA CRISI DI FATTURATO, APPLE GUARDA OLTRE L’IPHONE Il 2019 si preannuncia in salita per il gigante di Cupertino

Di Giacomo Robasto Il significativo calo del fatturato, relativo all’ultimo trimestre del 2018, rappresenta solo una delle molteplici fonti di preoccupazione per i vertici della ‘regina’ della Silicon Valley. Il crollo verticale del titolo Apple alla borsa di Wall Street registrato il 3 gennaio scorso, infatti, testimonia ancor più nettamente il periodo di crisi senza precedenti che l’azienda statunitense sta attraversando. Basti pensare che, per ritrovare azioni Apple dal valore di 142,19 dollari l’una, come la settimana scorsa, bisogna riportare il calendario a marzo del 2016, quando il valore del titolo sfiorò i 143 dollari ad azione. Rispetto ai valori massimi del 2018 toccati il 3 ottobre scorso, la perdita del titolo ammonta a quasi il 40%, pari a circa 430 miliardi di capitalizzazione in meno. E così, da società più capitalizzata al mondo e prima ad avere sfondato la barriera dei 1.000 miliardi di dollari, Apple si ritrova ora superata in borsa non solo dai titoli di Google e Microsoft, ma anche da Amazon. Visti questi numeri, l’amministratore delegato del gruppo e successore di Steve 18 • MSOI the Post

Jobs, Tim Cook, non ha esitato a indirizzare una lettera agli investitori, in cui ha lanciato il cosiddetto ‘profit warning’ per i conti finali del 2018. Il fatturato del gruppo, inizialmente previsto per il 2018 tra gli 89 e i 93 miliardi di dollari, è assai probabile che a consuntivo si attesti a circa 84 miliardi. Tim Cook ha, inoltre, giustificato il ribasso con il calo di vendite nel mercato cinese, il terzo al mondo per volumi di vendita del gruppo, segnalando che, come evidenziano anche i dati della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale relativi al primo semestre del 2018, la crescita della seconda economia mondiale è in rallentamento. Dato che avvalora la tesi dell’ad di Apple, visto che i consumatori cinesi hanno contribuito, nel solo 2017, per ben il 15% ai ricavi del gruppo californiano, corrispondente a circa 52 miliardi di dollari. Tim Cook, sin dal 2011, ha avuto il merito di affrontare senza timore le rigorose politiche economiche, nonché sociali della Cina, dove esistono tuttora innumerevoli restrizioni in materia di libertà di stampa e accesso a Internet. Tuttavia, la sfida che ora si potrebbe rivelare più complessa,

soprattutto nei rapporti con Pechino, è posta dalle possibili mosse dell’amministrazione statunitense. Donald Trump, infatti, sin dal suo insediamento a gennaio 2017, non ha mai celato la combinazione di ostilità e timore che nutre nei confronti della Cina, concretizzatasi nel luglio scorso con l’introduzione di dazi sull’importazione di migliaia di prodotti di origine cinese. Fortunatamente, le misure restrittive sull’import dalla Cina non hanno coinvolto i prodotti di punta della Apple, gli iPhone, perlopiù prodotti e assemblati proprio nel gigante asiatico. Tuttavia, con le vendite di iPhone ormai stabili in molti Paesi occidentali sin dal 2016 e in ribasso in Cina, anche per effetto dell’agguerrita e ed efficac concorrenza di Huawei, Apple sembra dover guardare ormai oltre il melafonino: se il lancio di prodotti inediti, come l’Apple Watch nel 2015, non ha avuto il successo dell’iPhone nel lontano 2007, l’alternativa può essere offerta dai servizi e dei contenuti audiovisivi, sulla linea di Netflix e Amazon. A Tim Cook l’ultima parola. Di certo, pochi avrebbero immaginato, per Apple, un inizio d’anno così in salita.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO STX-FINCANTIERI: LA COMMISSIONE EUROPEA ESAMINA L’ACCORDO

Accettata la richiesta di Francia e Germania di esaminare la proposta di acquisizione italiana

Di Federica Sanna L’accordo sulla fusione tra l’italiana Fincantieri e la francese STX sembrava essere stato raggiunto a fine 2017. Dopo mesi di difficili negoziazioni protrattesi più a lungo di quanto pronosticato a causa del cambio di governo in Francia e del cambiamento di linea da parte di Macron -, i governi dei due paesi si erano infatti accordati per dividersi le quote al 50%. Il compromesso raggiunto era stato salutato come una ‘soluzione win-win’. Da una parte, il presidente francese poteva rivendicare di aver ottenuto la voluta modifica dell’accordo iniziale, in base al quale Fincantieri avrebbe ottenuto il 66% delle quote di STX. “Abbiamo raggiunto un accordo alla pari, 50 e 50”, dichiarò a tal proposito Macron. Allo stesso modo, il Primo Ministro italiano poteva vantare l’effettivo controllo acquisito sull’industria francese: “Fincantieri avrà la disponibilità diretta del 51% e quindi un pieno controllo su STX”. La Francia , infatti, avrebbe prestato l’1% della propria quota all’Italia per un periodo transitorio di 12 anni, durante il quale la gestione italiana sarebbe stata sottoposta a un

regolare controllo. Allo scadere del termine previsto, Parigi avrebbe poi potuto reclamare la quota mancante delle sue azioni e riacquistare quindi il controllo sul colosso dell’industria navale. Quasi un anno e mezzo dopo la conclusione dell’accordo, la Francia ha presentato una richiesta alla Commissione Europea, ai sensi del Regolamento CE 139/2004, noto come il Regolamento comunitario sulle concentrazioni (EU Merger Regulation). In base all’art. 22.1, infatti, uno o più Stati membri possono chiedere alla Commissione di esaminare qualsiasi concentrazione che non ha dimensione comunitaria (ai sensi dell’art. 1 dello stesso regolamento), ma che tocca il commercio tra gli Stati membri e rischia quindi di incidere in misura significativa sulla concorrenza nel territorio dello Stato o degli Stati membri interessati. Alla questione presentata dalla Francia si è inoltre unita la Germania, certamente preoccupata che la nascita di un colosso della cantieristica navale possa mettere in difficoltà la tedesca Meyer Wreft. La Commissione ha deciso di accogliere la richiesta presentata da Francia e

Germania, pur ammettendo che l’acquisizione dell’ex STX (oggi chiamata Chantiers de l’Atlantique) da parte di Fincantieri “non raggiunge le soglie di fatturato previste dal Regolamento UE relativamente alle concentrazioni che devono essere notificate alla Commissione a causa della loro dimensione europea”. Nonostante tale ammissione, la Commissione ha deciso di procedere comunque nell’esame dell’acquisizione perché l’operazione, come previsto dal regolamento europeo, “rischia di incidere in misura significativa sulla concorrenza”, non solo nei territori degli Stati interessati, ma a livello europeo e globale. In particolare, l’autorità europea è preoccupata delle conseguenze dell’operazione sul mercato delle navi da crociera. Di conseguenza, gli sforzi di compromesso economico, ma soprattutto diplomatico, dimostrati dai governi italiano e francese negli anni passati oggi trovano un nuovo motivo di stallo. La tenuta dell’accordo non è infatti garantita e la decisione finale della Commissione potrebbe certamente rappresentare un ostacolo per il completamento dell’acquisizione di STX da parte di Fincantieri.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO ANOTHER BREACH IN THE WALL La minaccia dei Data Breach

Di Stella Spatafora Cybersecurity e Data Protection sono espressioni che riecheggiano sempre più frequentemente. Altrettanto ricorrenti sono gli eventi di Data Breach, ovvero di violazione e “fuoriuscita” di dati. Dati spesso personali e sensibili, dal momento che, in una società che utilizza i dati in maniera costante e continua, i rischi sono molteplici e tutt’altro che remoti. Il nuovo Regolamento europeo sulla protezione dei dati (GDPR) si fonda su un approccio basato sul rischio e prevede un’adeguata valutazione del rischio di cui all’art. 24, sancendo il dovere per il titolare del trattamento, colui che determina le finalità di utilizzo dei dati, di definire in maniera preliminare a ogni trattamento tutte le misure di sicurezza tecniche e organizzative. Si tratta di un’accurata valutazione degli impatti, da analizzare tenendo conto, da un lato, di tutti i possibili rischi e, dall’altro, delle misure da adottare per fronteggiare e minimizzare l’eventualità degli stessi. Ad esempio, l’adozione di registri dei trattamenti (previsti dall’art. 30, GDPR) ha lo scopo di stimolare una vigilanza costante, 20 • MSOI the Post

consentendo all’Autorità di controllo di conoscere gli utilizzi in atto. Relativamente ai rischi legati al Data Breach, rilevano l’art. 32, GDPR sulla sicurezza del trattamento, e gli artt. 33 e 34, che riguardano rispettivamente la notifica all’Autorità di controllo di una violazione dei dati personali entro 72 ore dall’evento e l’eventuale comunicazione della violazione all’interessato, nel caso in cui possa esserci un rischio elevato per i diritti e le libertà della persona fisica. In particolare, il contenuto dell’art. 32 esprime il bisogno di mettere in sicurezza direttamente i servizi e le tecnologie utilizzate, andando ben al di là della tutela dei singoli trattamenti. Dal canto suo, anche l’art. 34 va oltre il dovere di comunicare la violazione del dato solamente all’autorità di controllo, sancendo il dovere di informare dell’eventuale Data Breach anche all’individuo. L’art. 34 è tuttavia portatore di un bilanciamento tale per cui, se da un lato risulta sempre necessaria la comunicazione tempestiva all’Autorità di controllo, in modo da salvaguardare la società nel suo complesso, dall’altro, onde evitare la diffusione massiccia dell’informazione negativa,

sussiste l’obbligatorietà della comunicazione al diretto interessato solo qualora vi sia stretta necessità di scongiurare un grave pericolo per i diritti e le libertà delle persone fisiche. Inoltre, tale comunicazione non è richiesta nel caso in cui, pur essendo presente l’elemento dell’‘high risk’, il titolare abbia dimostrato di aver già provveduto a porre in essere misure volte a contrastarne l’emergere. Il GDPR cerca di garantire sicurezza alla circolazione dei dati. Allo stesso tempo, però, le minacce e i rischi nel cyberspazio sono sempre più elevati (e costantemente aggiornati). Basteranno, dunque, le multe salate previste dal GDPR a incentivare controlli più efficienti e maggiori responsabilità nel trattamento dei dati nell’ambito dell’Unione Europea? L’attacco hacker di pochi giorni fa che ha consentito la pubblicazione di dati sensibili di politici tedeschi su una piattaforma social è solo uno dei tanti eventi che rivelano la vulnerabilità di numeri di telefono, indirizzi e-mail e dettagli personali, usati come nuovi bersagli da colpire ed esporre come trofei digitali, magari per scopi politici.


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