MSOI thePost numero 130

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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EUROPA BREVE STORIA DELLA LEGGE DI BILANCIO 2019 Tra scontri, maxiemendamenti e decretoni

Di Rosalia Mazza La legge di bilancio approvata dal Governo italiano per il 2019 ha causato momenti di forte tensione, tanto in Italia quanto all’interno dell’Unione Europea. La Legge ha preso il via dalla ‘NaDef’ (la nota di aggiornamento al documento di economia e finanza). Presentata dai due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini il 27 settembre 2018, la nota venne approvata da Consiglio dei Ministri, ma contestata dalle opposizioni, dal presidente Sergio Mattarella e dalla Commissione Europea. Motivo della disputa fu lo sforamento del rapporto debito/PIL, previsto al 2,4% – ma richiesto non superiore al 2% dallo stesso ministro dell’Economia e delle Finanza Giovanni Tria e dall’UE – per coprire il reddito di cittadinanza, la flat tax al 15% per le imprese, la riduzione del numero delle aliquote IRPEF, il mancato aumento dell’IVA e la Quota 100. In seguito all’approvazione della NaDef in Parlamento (11 ottobre 2018) e la pubblicazione del Draft Budgetary Plan dell’Italia da parte della Commissione europea (15 ottobre 2018), il documento subisce una prima bocciatura da parte della Commissione (18 ottobre

2018). Di seguito, il Commissario europeo per gli Affari Economici e Monetari Pierre Moscovici e il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis indirizzano una lettera al ministro Tria, nella quale si richiamano le disposizioni dell’art. 7 del Regolamento UE n. 473/2013, evidenziando un distacco tra il Patto di Stabilità e Crescita dell’UE e la politica economica e finanziaria italiana. Il documento viene definitivamente bocciato il 21 novembre 2018: il Paese rischia la procedura di infrazione. Poiché i partiti di maggioranza non sembrano trovare accordi sulle coperture necessarie alla legge di bilancio, il premier Giuseppe Conte minaccia di ritirare la fiducia al Governo. La legge si presenterà dunque in Parlamento con un ‘maxiemendamento’, approvato il 23 dicembre al Senato e il 29 dicembre alla Camera: la revisione del documento programmatico di bilancio porta a una riduzione del rapporto del debito/PIL al 2,04%, mentre reddito di cittadinanza e quota 100 vengono rinviati a decreti attuativi ad hoc. Il 17 gennaio 2019 il Consiglio dei Ministri approva il cosiddetto ‘decretone’, in cui vengono stabilite le specificità del reddito

di cittadinanza e della quota 100 in materia di pensioni. Tra le principali misure delle due iniziative, che dovrebbero effettivamente entrare in funzione dal mese di aprile, il reddito di cittadinanza – volto a contrastare la povertà e a promuovere lavoro e formazione – prevede, per i beneficiari, un reddito che va dai 480€ ai 780€, legato a precisi percorsi di formazione e all’accettazione di proposte di lavoro offerte dai Centri per l’impiego (è obbligatorio accettare una delle prime tre proposte ricevute), oltre a sgravi fiscali per le imprese che assumono i beneficiari di tale iniziativa. La Quota 100 prevede la possibilità di pensione anticipata per coloro che raggiungono 62 anni d’età e 38 anni di contributi: tale misura sarebbe volta a favorire anche l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Tuttavia, anche se entrambi i ‘provvedimenti bandiera’ dei due partiti alla maggioranza siano stati definiti, la legge di bilancio non smette di spaccare l’opinione pubblica: se c’è chi vede in questi provvedimenti l’opportunità di un florido futuro economico per il Paese, c’è anche chi sostiene che la legge non faccia altro che rendere più prossima l’ombra della recessione.

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EUROPA UN OMICIDIO PREVEDIBILE

La morte del sindaco di Danzica è un segnale di tensioni profonde nel sistema politico polacco. costantemente, con linguaggio aggressivo, l’opposizione politica e chiunque la pensi diversamente. In più, la propaganda televisiva negli ultimi tre anni [da quando l’attuale governo è al potere, n.d.r.] ha ripudiato il sistema giudiziario, chiamandolo “dannoso per i cittadini”. Dalla sua cella, quest’uomo avrebbe recepito esattamente questi messaggi, incentrati sul bisogno di soluzioni radicali”. Di Luca Pons Nella notte di domenica 13 gennaio, Pawel Adamowicz, sindaco della città polacca di Danzica dal 1998, è stato accoltellato. Sebbene i medici abbiano cercato di salvarlo, lavorando per oltre cinque ore in camera operatoria, Adamowicz è deceduto il giorno dopo. Era un aperto e netto oppositore dell’attuale governo di estrema destra, deciso nella difesa dei diritti dei migranti e dei rifugiati, convintamente europeista. L’omicidio pare avere avuto motivazioni politiche, ma anche personali: l’uomo che ha colpito tre volte il cuore e l’addome di Adamowicz era uscito di prigione da pochi mesi, dopo aver scontato una condanna per diverse rapine. Subito dopo l’omicidio, l’assassino ha gridato con un microfono: “Mi hanno imprigionato ingiustamente per cinque anni. Piattaforma civica [partito di Adamowicz, al governo fino al 2015, n.d.r.] mi ha torturato. Per questo Adamowicz è morto”. Poiché la tragedia è avvenuta durante una grande manifestazione pubblica, migliaia di persone e diverse telecamere hanno assistito. 4 • MSOI the Post

Dopo essere stato per quasi un minuto indisturbato sul palco, con aria di trionfo, mentre la folla ancora non aveva capito cosa fosse successo, l’uomo è stato catturato dal servizio di sicurezza dell’evento. Per quanto sembri chiaro che l’afflato politico dell’omicidio non sia da ricondurre al disegno di una qualche organizzazione politica di segno opposto, molti hanno indicato il delitto come la naturale conseguenza di una violenta polarizzazione del dibattito politico, che in Polonia ha luogo da anni. Piotr Buras, intellettuale polacco, ha scritto pochi giorni fa sul Guardian: “Il dibattito pubblico in Polonia è ricolmo di contenuti tossici – diffusi così alacremente dal governo che è impossibile parlare di imparzialità. La televisione di Stato è diventata uno strumento di violenta propaganda, che sputa incitamenti all’odio e xenofobia ogni giorno”. Dalle pagine del New York Times, Olga Tokarczuk, romanziera e saggista, ha offerto una lettura analoga: anche se l’assassino ha un disturbo mentale, come sostenuto dalle autorità, “la televisione pubblica diffama

Lo stesso sindaco Adamowicz aveva affermato, in un’intervista a Repubblica del 15 novembre 2017, che la violenta retorica politica in Polonia avrebbe avuto conseguenze gravi: “L’abuso fisico è di solito preceduto dalla violenza verbale. Se il linguaggio delle élites viola i limiti della decenza, causerà sempre più violenza fisica. Non è teoria, purtroppo è realtà.”. Per quanto le divisioni politiche in Polonia restino profonde, la scomparsa di Adamowicz ha portato un attimo di stasi, se non di pacificazione. Poche ore dopo il decesso, il presidente della Repubblica Andrzej Duda, rappresentante del partito di governo, ha twittato: “Il sindaco Paweł Adamowicz se n’è andato. Mi unisco al dolore e alla preghiera con i suoi amici più cari e tutte le persone di buona volontà. Sto chiedendo a Dio sostegno per la famiglia. Ostilità e violenza hanno portato le conseguenze più dolorose e tragiche. Non possiamo accettarlo”. Alla cerimonia funebre del 19 gennaio hanno partecipato oltre 3.500 persone nella basilica di Danzica. Stando alla polizia locale, circa 45.000 persone erano all’esterno.


NORD AMERICA THE SHUTDOWN

Le divergenti posizioni politiche sull’immigrazione paralizzano le attività federali statunitensi

Di Erica Ambroggio “I promised I would fix this crisis, and I intend to keep that promise one way or the other”. Con queste parole, il presidente Donald Trump ha voluto rimarcare la propria risolutezza in merito allo sconvolgimento politico protagonista della cronaca nordamericana dell’ultimo mese. Immersi in una parziale, ma prolungata, paralisi, gli Stati Uniti continuano, infatti, a subire le inevitabili conseguenze generate dallo shutdown più lungo della storia degli Stati Uniti. Manifestazione della mancata approvazione, da parte del Congresso, del bilancio relativo ai fondi destinati alle attività federali, lo shutdown continua a produrre le proprie conseguenze da più di un mese, generando, dallo scorso 22 dicembre, un’inevitabile incertezza politica ed economica in tutto il Paese. Un quarto delle attività federali statunitensi è, infatti, rimasta bloccato per mancanza di fondi, con successiva sospensione delle attività dei dipendenti e delle loro retribuzioni. A causare l’attuale stallo, l’ennesimo snodo di discordia sul tema dell’immigrazione. In particolare, sarebbe stato

il diniego alla richiesta di un finanziamento del valore di 5,7 miliardi di dollari, avanzata dal Presidente per affrontare la costruzione del muro di confine tra Stati Uniti e Messico, a portare al punto di rottura tra Trump e l’opposizione. I Democratici, disposti a incrementare i finanziamenti destinati alla sicurezza dei confini escludendo, tuttavia, la previsione di fondi a vantaggio della barriera con il Messico, sono, infatti, intenzionati a non cedere alle pretese del Presidente, continuando a considerare l’opera “inutile e costosa”. Una fermezza non accettata, tuttavia, dal leader del Paese, ormai ossessionato dalla ricerca dei finanziamenti necessari a tale costruzione e disposto a protrarre la paralisi federale fino al raggiungimento di tale scopo. Il dibattito politico, infatti, prosegue senza imminenti soluzioni, con un Presidente fermo a tal punto sulla propria posizione da minacciare di ricorrere all’emergenza nazionale, al solo scopo di scavalcare il Congresso e ottenere, così, il finanziamento tanto desiderato. Le stesse proposte di accordo presentate da Donald Trump non contengono margini di

miglioramento. Durante un discorso tenuto lo scorso 19 gennaio, il Presidente si è definito “disposto a estendere, di ulteriori 3 anni, la protezione a 700.000 giovani entrati negli Stati Uniti da bambini al seguito di genitori irregolari”, noti come Dreamers e fonte di stalli governativi precedenti. In cambio di tale ‘concessione’, Donald Trump avrebbe richiesto “l’immediato finanziamento” alla costruzione della barriera, generando l’ennesimo rifiuto nei confronti di una linea politica ormai nota e ritenuta “inaccettabile dall’opposizione. Lontani, per ora, da un avvicinamento politico, lo shutdown prosegue, dunque, la propria corsa, insieme ai danni da esso generati. In tale scenario, rimangono incerte le prossime mosse di Donald Trump, ormai costretto a fare i conti con gli esiti della propria strategia politica. Ritenuto, da più della metà degli americani, il principale colpevole dello stallo federale, il Presidente ha, infatti, intrapreso una strada politica considerata, dal 64% dei cittadini statunitensi, “inappropriata”; numeri che, forse, potrebbero rinviare o modificare le attuali, quanto impellenti, esigenze del tycoon. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA IL CANADA ACCOGLIERÀ UN MILIONE DI IMMIGRATI ENTRO IL 2021 Una decisione volta a rendere l’economia del Paese più competitiva sulla scena globale

A cura di Jennifer Sguazzin Il parlamento canadese ha annunciato la decisione di accogliere un milione di immigrati entro il 2021, un obiettivo ambizioso presentato dal ministro dell’immigrazione Ahmed Hussen nel piano triennale del governo. Oltre 286.000 immigrati sono stati accolti in Canada nel 2017 e, secondo i piani dell’attuale governo canadese, i nuovi ingressi saranno suddivisi in frange annuali da 350.000 immigrati per il 2019, 360.000 per il 2020 e 370.000 per il 2021. Queste cifre corrispondono a un ingresso annuale pari all’1% della popolazione del Paese. “Gli ingressi graduali permetteranno al nostro sistema di processare questi cambiamenti, che le comunità possano integrarli e le partnership locali sull’immigrazione possano fare il proprio lavoro”, ha dichiarato Hussen. Ahmed Hussen, egli stesso immigrato dalla Somalia, ha sottolineato come tale decisione sia stata presa alla luce del calo del tasso di natalità e dell’invecchiamento della popolazione canadese. Secondo i dati ufficiali, i livelli di 6 • MSOI the Post

natalità degli immigrati sono 4 volte più alti rispetto a quelli dei canadesi e contribuiscono ai tre quarti della crescita demografica totale. Gli immigrati che il Canada si prepara ad accogliere saranno così suddivisi: il 58% sarà riservato ai migranti economici; a seguire, il 27% destinato ai ricongiungimenti familiari; infine, il 14% sarà rivolto ai rifugiati e ai richiedenti asilo. Si tratterebbe, dunque, in maggioranza di “skilled migrants”, persone istruite e pronte a essere inserite nel tessuto lavorativo del Paese. Una manovra che sembra essere in linea con le politiche migratorie precedenti che hanno contribuito a portare il Canada a essere considerato dal Global Competiteveness Report 2018 del World Economic Forum tra i Paesi che possono vantare una delle forze lavoro più diversificate e competenti. “È in gran parte grazie alle persone che abbiamo accolto nella nostra storia che il Canada è diventato un Paese solido e vivace” ha dichiarato il Ministro dell’immigrazione alla CNN. La politica immigratoria annunciata non è però stata

esente da critiche. Michelle Rempel, parlamentare canadese del Partito Conservatore, ha sottolineato che tale decisione va contro i desideri dei canadesi, citando il rapporto pubblicato dalla fondazione no-profit Angus Reid nel 2018. L’ultimo sondaggio pubblicato ha rivelato che il 49% dei canadesi vorrebbe che il Paese riducesse il numero di immigrati accolti; si tratta della percentuale più alta mai raggiunta dall’inizio delle indagini. La scelta di aprire le porte del Paese a una cifra così ingente di immigrati è stata accompagnata da uno stanziamento elargito dal governo pari a 5,6 milioni di dollari per sostenere iniziative di reinserimento globale. Nonostante le possibili critiche, il Canada sta lanciando un messaggio che va controcorrente rispetto molti Paesi che stanno adottando politiche migratorie sempre più restrittive, soprattutto se confrontato con i vicini Stati Uniti. Il Canada, di fronte a problematiche quali il calo delle nascite e le lacune lavorative, ha voluto rispondere investendo nel proprio futuro economico e in quello delle persone che verranno accolte.


MEDIO ORIENTE IRAN E ISRAELE: UN ODIO CHE AUMENTA

Israele conferma di aver bombardato obiettivi sensibili iraniani in Siria

Di Andrea Daidone

di forze iraniane in Medio Oriente potrebbe portare la regione all’escalation”.

Giunge inusuale la conferma da parte delle autorità israeliane di un’azione militare offensiva ai danni di alcuni obiettivi iraniani nel territorio siriano. La notte del 20 gennaio scorso, infatti, secondo fonti governative siriane e russe, il sistema di difesa aerea siriano ha intercettato e distrutto più di 30 missili e bombe teleguidati che Israele aveva lanciato con l’intento di distruggere obiettivi sensibili iraniani sul territorio siriano, e che Tel Aviv ritiene essere ostili. Un solo attacco ha centrato l’obiettivo, un aeroporto militare a sudest di Damasco, uccidendo 4 soldati e ferendone 6.

L’odio profondo che separa questi due nemici va avanti da tempo e la Siria è senz’altro il terreno di scontro in cui si nota maggiormente. Il motivo risiede nel fatto che l’esercito iraniano ha consolidato da tempo la sua posizione nel Paese, dove spalleggia il regime di Bashar-Al-Assad e collabora a combattere contro i ribelli che stanno cercando di spodestarlo ormai da anni.

Il presidente dello Stato d’Israele, Reuven Rivlin, impegnato a Gerusalemme in colloqui di Stato con il presidente ucraino Petro Poroshenko, ha tenuto un breve discorso in cui ha precisato che l’attacco sferrato nottetempo era una risposta al lancio di due missili terra-terra, da parte dell’Iran ai danni di Israele avvenuto nella giornata di domenica. Il Presidente ha poi proseguito affermando come l’attacco agli obiettivi siriani non fosse che “una risposta diretta ad un missile inaccettabile lanciato su di noi” e che “la comunità internazionale deve capire che la concentrazione

Israele, per questo motivo, a più riprese cerca di bombardare non soltanto gli obiettivi iraniani in Siria, ma anche quelli delle milizie alleate, fra cui gli Hezbollah, stavolta però senza reclamarne la responsabilità. La motivazione è da trovarsi nel fatto che i missili intercettati da Israele sono stati lanciati dagli Altipiani del Golan, occupati dalle forze iraniane, ma altresì vicini al confine con il Libano degli Hezbollah, partito sciita spalleggiato da Teheran. Per rendere chiaro il messaggio, Israele non ha tentato di colpire obiettivi qualunque, bensì le Forze Quds, un’unità d’élite a capo della sezione Operazioni d’Oltremare delle Guardie della Rivoluzione iraniane. La notizia non è stata accolta di buon grado a Teheran, dove

il capo dell’aeronautica, Brigadier-Generale Aziz Nasirzadeh, ha affermato che “l’Iran è pienamente pronto ed impaziente di confrontarsi con il regime Sionista e di eliminarlo dalla faccia della Terra”. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, nel tardo pomeriggio di lunedì 21 gennaio, ha denunciato le affermazioni del generale iraniano aggiungendo che “stiamo operando sia contro l’Iran sia contro le forze siriane che stanno favoreggiando l’aggressione iraniana. Attaccheremo chiunque proverà a danneggiarci. Chiunque minaccia di eliminarci, ne dovrà sopportare la piena responsabilità”. Infine, ha poi riservato un messaggio alla Siria, affermando: “Mettiamo in guardia le Forze Armate Siriane dal danneggiare le forze o il territorio di Israele”. Come osservato dal professor Nikolay Surkov dell’Istituto Statale degli Affari Esteri di Mosca, la situazione è sulla via dell’escalation e Israele attaccherà nuovamente, poiché è fermamente convinto che gli iraniani stiano avanzando e, nondimeno, che stiano fornendo armi ad elevata potenza distruttiva agli Hezbollah libanesi. Israele è definitivamente convinto di dover fare qualcosa. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE GLI STATI UNITI HANNO DIMENTICATO I CURDI?

L’annuncio del ritiro delle truppe americane dalla Siria apre scenari inaspettati nel Paese

Di Fiorella Spizzuoco Le prime pagine del 2019 sono state dominate, ancora più del solito, dalle notizie provenienti dagli Stati Uniti di Trump. Mentre le news sullo shutdown provenienti da Washington preoccupano i mercati e i lavoratori americani, quelle che giungono dalla Siria accrescono l’apprensione del Pentagono e degli osservatori internazionali. Durante le ultime settimane di dicembre, alcuni portavoce del Dipartimento della Difesa statunitense hanno annunciato il possibile inizio delle operazioni di ritiro delle truppe impegnate nella lotta al Califfato, il sedicente Stato Islamico, in Siria. Questa voce si era già diffusa spesso nel corso degli anni, ma era sempre stata smentita dai vertici del Pentagono che insistevano sulla necessità di mantenere le truppe sul suolo siriano, per continuare a combattere le ultime sacche di resistenza di Daesh che, seppur indebolito, non è stato del tutto sconfitto. Non è della stessa opinione 8 • MSOI the Post

però, a quanto pare, il presidente Trump. Nonostante la reticenza dei suoi più vicini collaboratori nel Dipartimento della Difesa, primo fra tutti l’ex Segretario della Difesa, Jim Mattis, il Presidente più discusso nella storia degli Stati Uniti ha dato il via al ritiro delle truppe. Immediata la reazione di Mattis, il quale ha presentato le dimissioni dichiarando che Trump “merita un Segretario della Difesa con idee allineate alle sue”. L’opinione pubblica internazionale si è subito schierata a favore di un ritardo delle operazioni per evitare un rincalzo delle attività del Califfato ma, soprattutto, per non abbandonare i primi e più fedeli alleati degli Stati Uniti nella regione, i Curdi siriani. Questi giocarono un ruolo fondamentale nella liberazione di Raqqa nel 2017 e da allora occupano il Nord-Est del Paese protetti dai soldati statunitensi. La vera paura dei Curdi, però, arriva dal confine con la Turchia: il presidente Erdoğan ha

infatti minacciato spesso di attaccarli in quanto alleati delle forze del rivale Pkk, il Partito dei lavoratori Curdi di Turchia. Nonostante la fortissima ondata di solidarietà nei confronti della causa curda, nessun dietrofront è arrivato dal lato di Trump: il ritiro procede e la Turchia ha subìto solo un lieve ammonimento, ancora una volta via Twitter: “devasteremo economicamente la Turchia se colpisce i Curdi”. Se la dichiarazione non sembra affatto averlo preoccupato, Erdogan si è reso invece disponibile a collaborare con gli Stati Uniti per continuare ad arginare le azioni dei terroristi del sedicente Stato Islamico: uno strano ed inaspettato avvicinamento tra Ankara e Washington, arrivati a paventare l’idea di una zona cuscinetto tra il confine turco e le aree dove persiste il Califfato, in Siria. Il che equivarrebbe, molto probabilmente, ad un’occupazione del suolo controllato dai Curdi da parte di soldati turchi.


RUSSIA E BALCANI NASTYA RYBKA: LA MODELLA CHE AVEVA LE PROVE SU RUSSIAGATE Arrestata la modella che ha fatto tremare Russia e USA

Di Davide Bonapersona Anastasia Vashukevich, anche nota come Nastya Rybka, modella bielorussadivenuta famosa per le sue dichiarazioni relative al Russiagate, è stata arrestata il 17 gennaio all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca, insieme al sex-guru (e suo mentore) Aleksandr Kirillov e ad altre 2 persone, con l’accusa di favoreggiamento della prostituzione. Nastya Rybka era balzata agli onori della cronaca internazionale quando, nel febbraio 2018, l’attivista e oppositore russo Alexei Navalny aveva pubblicato una serie di video e foto che ritraevano la modella bielorussa, insieme all’allora vice primo ministro russo Sergei Prikhodko, sullo yacht di Oleg Deripaska. Deripaska è uno dei più potenti oligarchi russi, molto vicino a Vladimir Putin e amico di Paul Manafort, ex consigliere della campagna elettorale di Donald Trump. Nei documenti pubblicati da Navalny, Vashukevich dichiarava di aver avuto una relazione con Deripaska e, soprattutto, sosteneva di avere delle registrazioni nelle quali il tycoon russo ammetteva l’interferenza russa nelle elezioni americane del 2016. Oleg Deripaska ha sempre negato le accuse e, a sua volta, ha

accusato la modella di essersi inventata tutto, compresa la loro relazione. Successivamente, Deripaska ha anche citato in giudizio Anastasia e Kirillov per aver postato un video suo e di Prikhodko insieme senza il suo consenso. A luglio, il tribunale ha dato ragione al magnate russo, condannando i due a pagare una somma di denaro. Nel frattempo, Nastya Rybka e Aleksandr Kirillov sono stati condannati in Thailandia a 9 mesi di carcere per favoreggiamento della prostituzione. Durante la permanenza nel carcere thailandese, i due hanno senza successo chiesto asilo politico negli Stati Uniti, attraverso una lettera diretta all’ambasciata americana nella quale affermavano di avere dei segreti importanti per gli USA. Dopo aver scontato la pena, sono stati espulsi dalla Thailandia e imbarcati su un aereo diretto a Minsk. Nel corso dello scalo a Mosca, Anastasia e Kirillov, insieme ad altre due persone, sono stati arrestati dalla polizia russa con l’accusa di aver indotto delle persone alla prostituzione e sono stati condotti in carcere. Dimitri Zatsarinsky, avvocato di Anastasia, ha denunciato le modalità attraverso le quali è avvenuto l’arresto, e ha anche pubblicato un video su Instagram

dove ne viene mostrato una parte. Zatsarinsky ha affermato che la sua assistita è stata presa nella zona doganale di transito dell’aeroporto e trascinata in territorio russo per poter essere arrestata. Navalny ha immediatamente manifestato il proprio sostegno via social. Dopo essere stata arrestata, Anastasia si è proclamata innocente e ha dichiarato ai giornalisti: “Chiedo per favore che le mie scuse vengano trasmesse a Oleg Deripaska e Sergei Prikhodko. Sono molto dispiaciuta per come siano andate le cose e mi vergogno per ciò che è successo. Non voglio aggravare la situazione e mi scuso personalmente con Oleg. Ho fatto tutto questo solamente per attirare la sua attenzione”. Il 19 gennaio, l’arresto dei 4 indagati è stato prolungato di ulteriori 3 giorni, per permettere il completamento delle indagini. Il 22 gennaio Anastasia e gli altri sono stati rilasciati. Tuttavia, durante un’intervista, Svetlana Sidorkina, avvocato di Kirillov, ha precisato che essi rimangono sospettati per le accuse a loro carico e che hanno già ricevuto la convocazione per un interrogatorio futuro. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI “LA REPUBBLICA DI MACEDONIA DEL NORD”: LA FINE DI UNA LUNGA CONTROVERSIA

Il voto dell’11 gennaio accende le speranze per un accordo definitivo tra Grecia e Macedonia

Di Lucrezia Petricca L’11 gennaio il Parlamento macedone ha approvato i 4 emendamenti che aprono le porte alla risoluzione della controversia tra Grecia e Macedonia, durata più di 25 anni. Si è infatti riusciti a raggiungere la maggioranza dei 2/3 necessaria per attuare delle modifiche al testo costituzionale: esse riguardano il nome dello Stato balcanico, il rispetto della sovranità, il principio dell’integrità territoriale e il principio della non ingerenza negli affari di Paesilimitrofi. L’intera fase di votazione si è contraddistinta per le lunghe trattative politiche. Per ottenere gli otto voti utili per la maggioranza, il primo ministro Zaev è dovuto scendere a compromessi con alcuni parlamentari del partito d’opposizione VMRO-DPMNE. Secondo alcuni osservatori, ci sarebbe dietro l’ombra dell’amnistia per i fatti legati all’assalto all’Assemblea del 2017. La disputa tra i due paesi è iniziata nel 1991, anno dell’indipendenza della Macedonia. Per questioni culturali, storiche e nazionali, la penisola ellenica non ha mai apertamente riconosciuto la sovranità macedone, contestando, in particolare, l’u10 • MSOI the Post

tilizzo del nome costituzionale “Repubblica di Macedonia”.Di fronte a questo impasse, l’ONU ha tentato di dirimerela controversia, riconoscendo la Macedonia membro delle Nazioni Unite con il nome FYROM (Former Yugoslav Republic of Macedonia). Un importante compromesso è stato raggiunto nel giugno scorso, con la sottoscrizione dell’Accordo di Prespada parte del presidente greco Tsipras e del primo ministro macedone Zaev con la modifica del nome in “Repubblica di Macedonia del Nord”. All’accordo ha fatto seguito un lungo iter parlamentare di ratifica, segnato da forti opposizioni e votazioni contrarie, che è stato necessario a causa del fallimento del referendum indetto il 30 settembre 2018. Il voto dell’11 gennaio costituisce un nuovo capitolo delle relazioni fra Macedonia e Grecia. Ora il Parlamento greco dovrà esprimersi a maggioranza semplice sulla ratifica di tale accordo, ponendo fine alla questione del nome della Macedonia. Oltre ad alcuni dissensi manifestati all’interno della stessa coalizione di governo, decine di migliaia di cittadini greci sono scese in piazza domenica 20 gennaio per opporsi all’accordo, rivendicando la loro identità nazionale e

affermando che “la Macedonia è greca”. Ci sono stati diversi scontri tra la polizia e i manifestanti, che hanno provocato un centinaio di feriti. Sul fronte internazionale, invece, molto positive sono state le reazioni dell’Alto Rappresentante dell’UE, Federica Mogherini, e del Commissario europeo per la politica di vicinato, Johannes Hahn, che hanno definito l’accordo come “un’opportunità unica e storica nel risolvere una delle più antiche controversie nella regione”. Infatti, grazie a tale accordo, potrà avanzare il processo di adesione all’UE da parte della Macedonia, che aveva già ottenuto lo status di candidato nel 2005. Tuttavia, la mancanza di un accordo tra Macedonia e Grecia aveva indotto quest’ultima a porre un veto a tale adesione. Altra importante conseguenza sarà che la Macedonia potrà diventare membro della NATO, possibilità che era stata preclusa al Paese a causa del veto posto dalla Grecia. Molto favorevole è stata infatti la reazionedel Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg, il quale ha dichiarato che “la NATO sostiene fermamente la piena attuazione dell’accordo”.


ASIA E OCEANIA CONDANNA A MORTE PER IL GIOVANE CANADESE DETENUTO IN CINA

Tensioni tra i due Stati per un processo che Amnesty International ha definito “altamente politicizzato” programmazione del nuovo processo, al quale è stata anche eccezionalmente invitata la stampa estera, e l’annuncio della condanna di morte dopo solo un’ora dalla conclusione di questo. Infine, stando alle dichiarazioni dell’avvocato difensore, risulta insolito che una sentenza di secondo grado Di Francesca Galletto sia più pesante rispetto a quella di primo. Il 14 gennaio la Corte del Popolo Intermedia di Dalian Il primo ministro canadese ha emesso in appello la Justin Trudeau ha dichiarato sentenza di morte per traffico estrema preoccupazione per del viaggio in vista dell’arbitraria di droga nei con fronti l’applicazione, da lui definita detenzione di un cittadino del cittadino canadese Robert “arbitraria”, della pena di cinese nel Paese. È un chiaro Lloyd Schellenberg. morte. In seguito alla sentenza, riferimento a Meng Wanzhou, infatti, il Canada ha emesso direttrice finanziaria di Huawei, Il giovane era stato arrestato un avvertimento di viaggio nei arrestata a Vancouver lo scorso nel 2014, accusato di aver confronti dei propri cittadini in dicembre. pianificato il contrabbando di Cina, invitandoli ad esercitare L’arresto di Meng rappresenta più di 200 kg di metanfetamina un alto grado di cautela a causa un punto chiave all’interno e condannato a 15 anni di del rischio di applicazione dell’escalation di tensione detenzione e ad una multa arbitraria della legge. tra i due Paesi. In seguito al suo di 150.000 yuan a novembre arresto e alle invane richieste di 2018. In seguito alla richiesta La reazione di Pechino in Pechino per la sua liberazione, della Corte della Provincia seguito a tali affermazioni sono stati infatti arrestati in del Liaoning di rivedere la non si è fatta attendere, Cina due cittadini canadesi: il sentenza giudicata troppo il Ministero degli Esteri diplomatico Michael Kovrig e il leggera, la Corte di Dalian ha cinese ha asserito di essere consulente Michael Spavor, con imbastito un nuovo processo “fortemente insoddisfatto” delle l’accusa di minare alla sicurezza dichiarando la sentenza di dichiarazioni di Trudeau, le nazionale. morte. Il ministro degli esteri quali dimostrerebbero scarsa Sebbene la Cina neghi qualsiasi canadese Chrystia Freeland ha conoscenza del sistema legale collegamento tra gli eventi, formalmente chiesto clemenza cinese, ed ha esortato il Canada sembra evidente che la condanna per Schellenberg senza però a rispettare la sovranità a morte di Schellenberg altro avere successo. della Cina. “Trudeau dovrebbe non sia che uno strumento di smettere di fare commenti pressione nei confronti dello La Cina applica leggi molto irresponsabili” ha affermato la Stato canadese. severe contro il traffico di droga portavoce del Ministero degli e dal 2009 al 2015 sono state 19 Esteri Hua Chunying. Lo specialista in diritto cinese condanne a morte eseguite su della George Washington stranieri per crimini di droga. A seguire, anche il Ministero University, Donald Clarke, ha Alcuni elementi del processo degli Esteri cinese ha emesso dichiarato che la condanna di di Schellenberg sono un avvertimento di viaggio Schellenberg “sembra essere un stati però definiti insoliti nei confronti dei propri cittadini passo senza precedenti nella dall’avvocato difensore Zhang diretti in Canada, invitandoli a diplomazia cinese”. Dongshuo, come la rapida valutare attentamente i rischi MSOI the Post • 11


ASIA E OCEANIA PAKISTAN: NUOVO PRESIDENTE DELLA CORTE SUPREMA Il giudice che ha segnato un’epoca di attivismo giudiziale passa il testimone

Di Virginia Orsili Si apre una nuova era per la giustizia pakistana sotto l’egida di Asif Khan Saeed Khosa, 26° Presidente della Corte Suprema. Khosa occuperà il seggio per un periodo di 11 mesi. ha prestato giuramento venerdì 19 gennaio, di fronte alle massime cariche dello Stato, inclusi il presidente Arif Alvi e il primo ministro Imran Khan. Dopo aver cominciato la sua carriera nel 1979 come avvocato dell’Alta Corte di Lahore, nel 1985 Khosa ha ottenuto il patrocinio di fronte alla Corte Suprema, finché, nel 2010, è stato nominato giudice della stessa. Molti si aspettano dal nuovo Presidente un cambio di rotta rispetto al predecessore Mian Saqib Nisar. Sotto il controllo di Nisar, la Corte Suprema si è infatti distinta per un’importante serie di interventi mirati a stanare ed estirpare ogni forma di corruzione insinuatasi all’interno delle istituzioni più importanti del Paese. Il risultato più rilevante di questa politica risale al luglio del 2017, quando il primo ministro Nawaz Sharif fu rimosso dal suo incarico in seguito allo scandalo Panama Papers. Lo scorso ottobre, un altro caso di attivismo giudiziale ha fatto notizia: la Corte Suprema ha 12 • MSOI the Post

deciso di assolvere Asia Bibi, la giovane donna cristiana condannata a morte per l’accusa di blasfemia contro il profeta Maometto. Se da un lato, però, in molti hanno apprezzato il leitmotiv dell’intolleranza all’ingiustizia e del rinnovamento delle istituzioni, dall’altro, l’atteggiamento interventista ha suscitato diverse critiche. Nisar è stato infatti accusato di aver agito al di fuori del campo di azione riservato alla Corte Suprema e in particolare di ingerenza negli affari del Governo. La sua leadership si è in effetti contraddistinta per un ampio utilizzo dei poteri ‘suo motu’, che, sulla base dell’Art. 184, comma 3 della Costituzione, consentono alla Corte di esercitare la propria giurisdizione d’ufficio circa questioni che riguardino diritti fondamentali. Saroop Ijaz, uno degli avvocati di Human Rights Watch ricorda Nisar come “senza precedenti nella misura del suo attivismo e noncuranza per le procedure giuridiche formali”. Inoltre, in seguito alla rimozione di Sharif, a cui è succeduto Imran Khan, vicino all’Esercito, Nisar è stato accusato di servire gli interessi dell’élite militare. Egli è stato poi contestato per aver trascurato problematiche

interne allo stesso sistema giudiziario, tra cui il carico arretrato di 40.000 casi innanzi la Corte Suprema e 1,9 milioni di cause in sospeso presso altre Corti. Khosa in passato ha invero affiancato Nisar in tante battaglie. Tuttavia, il nuovo Presidente suggerisce un profilo più classico e contenuto, lontano dall’attitudine del suo predecessore. Nel discorso di addio all’ex Presidente, Khosa ha chiamato Nisar “un amico sincero, un confidente affidabile, un saggio consigliere e un giudice erudito ed affermato”, ma non ha esitato a prenderne le distanze; sotto la nuova presidenza, le procedure “suo motu” saranno utilizzate “con moderazione” e l’obiettivo principale sarà “l’introduzione di cambiamenti sistematici e strutturali al fine di minimizzare controversie, eliminare ritardi non necessari e razionalizzare il lavoro (…) per rendere il sistema giudiziario semplice ed efficac ”. e Questa nuova pagina della giustizia pakistana non si presenta quindi meno intraprendente della precedente, ma sarà di certo più improntata all’autoanalisi e ad un rinnovamento che parta innanzitutto dal sistema giudiziario stesso.


AFRICA L’EX PRESIDENTE DELLA COSTA D’AVORIO GBAGBO È IN LIBERTÀ La Corte Penale Internazionale lo ha prosciolto dalle accuse di crimini contro l’umanità

Di Jessica Prieto Il 15 gennaio l’ex Presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, è stato prosciolto dalle accuse di crimini contro l’umanità. Tali accuse risalgono agli anni 2010-2011, quando, all’indomani delle elezioni presidenziali, Gbagbo si era rifiutato di accettare la sconfitta ed erano scoppiati violenti scontri tra i suoi sostenitori e quelli dell’avversario Alassane Ouattara. Laurent Gbagbo aveva per la prima volta assunto la carica di Presidente nel 2000. In quell’occasione Gbagbo aveva perso le elezioni contro il leader militare Robert Guéï, ma quando quest’ultimo aveva proclamato la sua vittoria, nel Paese si era scatenata una rivolta a favore dell’ex presidente che aveva costretto Guéï a fuggire e a lasciare il potere a Gbagbo. L’ex leader ivoriano ha mantenuto ininterrottamente la carica di Presidente fino al 2010, quando la Costa d’Avorio si è trovata divisa tra due Presidenti e sull’orlo di una guerra civile. Quell’anno infatti, si svolsero le elezioni presidenziali; dopo aver vinto al primo turno Gbagbo era risultato sconfitto al ballottaggio contro

Ouattara. L’ex presidente però, con l’appoggio della Corte Costituzionale, aveva diffuso un altro risultato che annullava 7 sezioni elettorali, corrispondenti al 13% degli aventi diritto al voto, ottenendo così una vittoria falsata. Il 4 dicembre del 2010, Gbagbo aveva prestato giuramento per il suo nuovo mandato, scatenando le proteste degli oppositori, che a loro volta avevano indetto una cerimonia per celebrare l’investitura di Ouattara. Le violenze e gli scontri, tra dicembre 2010 e aprile 2011, causarono più di tremila vittime. Solo l’11 aprile, grazie all’intervento delle forze speciali francesi su mandato dell’ONU, Gbagbo è stato arrestato nella sua residenza-bunker ad Abidjan. Nella sera dello stesso giorno l’ex presidente aveva rivolto un appello ai suoi sostenitori affinché deponessero le armi. In quello stesso appello Ouattara aveva dichiarato l’apertura di “una procedura giudiziaria contro il presidente uscente, sua moglie e suoi collaboratori”. Il processo contro Gbagbo presso la Corte Penale Internazionale (Cpi) si è aperto ufficialmente nel 2016. Da subito l’ex presidente e il suo ex

ministro della giustizia, Charles Blé Goudé, si sono dichiarati innocenti. La procuratrice capo della Corte, Fatou Bensouda, al tempo dichiarava di aver prove sufficienti per poter condannare entrambi, in particolare affermava: nell’autoproclamarsi presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo ha utilizzato le Forze di difesa e sicurezza ivoriane, la FDS e dei mercenari per attaccare i civili. Ha usato gruppi giovanili e miliziani, galvanizzati dal co-imputato, Charles Blé Goudé, che, con una retorica odiosa, ha esortato ad attaccare i civili. I capi d’accusa che gli venivano imputati erano quindi quattro: omicidio, stupro, altri atti inumani/tentato omicidio e persecuzione. Il 23 luglio 2018 tuttavia, la difesa di Gbagbo ha presentato una mozione per l’assoluzione e l’immediato rilascio dell’ex Presidente. La settimana scorsa la Cpi ha rilasciato gli imputati perinsufficienzadiprove.Marie-Evelyne Petrus Barry, direttrice di Amnesty International per l’Africa occidentale e centrale ha dichiarato “L’assoluzione di Gbagbo e Blé Goudé è una grande delusione per le vittime delle violenze post-elettorali […] che devono ancora ricevere giustizia e riparazione per il danno che hanno subito”.

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AFRICA SCIOPERO E MANIFESTAZIONI IN ZIMBABWE Il presidente Mnangagwa interrompe il suo tour internazionale

Di Francesco Tosco Da due settimane ormai, il Paese è in subbuglio. Tra la notte di sabato 12 e domenica 13 gennaio, i cittadini hanno visto alzare il prezzo del carburante di più del doppio, passando da 1,24 a 3 dollari al litro. La misura annunciata dal presidente Emerson Mnangagwa infierisce su di una popolazione che già versa in una situazione di crisi economica decennale. Il tasso di inflazione, salito alle stelle, ha reso impossibile l’accesso a molti beni, causando une vera e propria penuria di prodotti base come l’olio, il riso ed il sale. Il presidente, succeduto al vecchio capo di stato Robert Mugabe, sostiene di aver attuato tale misura per far fronte alla più grave penuria di carburante del paese. Emerson Mnangagawa, ricordiamo, salito al potere nel 2017 per lottare contro la crisi economica che affama la popolazione da più di due decenni, si è trovato a confrontarsi con una situazione economica difficile da gestire. Dopo l’annuncio della manovra, la più importante confederazione sindacale del Paese, la ZCTU, ha indetto uno sciopero generale di tre giorni a partire da lunedì 14 gennaio. 14 • MSOI the Post

Le due città più importanti del paese, Harare e Bulawayo, si sono bloccate completamente in sciopero. Barricate e copertoni in fiamme hanno persuaso il governo a dispiegare l’esercito per le strade, a tagliare completamente la copertura di internet ed a reprimere le proteste con la forza. L’intera durata dello sciopero ha visto molti scontri tra forze di polizia e manifestanti. In alcune occasioni la polizia avrebbe anche usato armi da fuoco per disperdere la folla facendo salire il numero delle vittime. Il bilancio finale è di 12 morti, centinaia di feriti e circa 600 persone arrestate. La violenza della repressione ha causato anche non pochi richiami da parte di partner internazionali autorevoli, come quelli dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. In occasione dei giorni di sciopero, secondo alcune testimonianze, dopo aver disperso la folla, le forze di polizia sarebbero andate a cercare gli attivisti e gli organizzatori della manifestazione nelle loro abitazioni. Tra le persone attualmente in custodia delle forze di polizia, ci sarebbe anche Ewan Mawarire, il leader delle manifestazioni antigovernative nel 2016. Molti altri attivisti invece sono riusciti a lasciare il paese o a nascondersi per evitare di finire nelle mani della polizia.

Nonostante le violente repressioni, il governo giustifica le misure sulla base di un presunto complotto in atto per rovesciare il governo. Lo stesso presidente che, dopo l’annuncio dell’aumento del carburante, era partito per un tour internazionale in cerca di investitori stranieri, ha dovuto ridimensionare la propria strategia; il tour, che dopo Russia e Kazakistan, sarebbe dovuto terminare al vertice di Davos, in Svizzera, è stato interrotto in anticipo. Il presidente Mnangagwa ha fatto ritorno nel Paese in vista della nuova ondata di proteste annunciate per la seconda settimana consecutiva, a partire da lunedì 21 gennaio. La presenza al vertice economico, uno tra i più importanti al mondo, sarebbe stata un’ottima occasione per il paese alla disperata ricerca di capitali stranieri. Dopo che le richieste di prestito a Russia e Sudafrica non hanno portato a nessun accordo, il vertice avrebbe rappresentato una discreta occasione per l’agenda del Presidente. In definitiva, l’episodio ha messo in mostra tutte le fragilità politiche dello Zimbabwe e porta a riflettere sulle enormi difficoltà del Paese a trovare una propria stabilità economica.


AMERICA LATINA MADURO AL SECONDO MANDATO, MA CONTINUA LA FUGA DEI CITTADINI

L’esodo del popolo venezuelano ha causato grosse difficoltà di gestione dei flussi migratori

Di Tommaso Ellena Nicolas Maduro ha ufficialmente iniziato, con l’arrivo del nuovo anno, il suo secondo mandato da presidente del Venezuela, carica che ricoprirà fino al 2025. Tra le principali problematiche che dovrà affrontare spicca il tema della migrazione: è infatti in continuo aumento il numero di venezuelani che fuggono dal Paese alla ricerca di una vita dignitosa. Secondo i dati di novembre 2018 più di un milione di venezuelani è ora emigrato in Colombia e mezzo milione ha raggiunto il Perù. A queste due mete principali si aggiungono altri Paesi dell’area latinoamericana, tra cui Ecuador, Argentina e Cile. La regione sta affrontando dal 2014 un aumento sempre maggiore di rifugiati e ciò rischia di portare al collasso il sistema di accoglienza. La prima misura attuata dal governo colombiano dell’ex presidente Santos è stata la creazione di una carta migratoria che permettesse di stabilire il numero esatto degli arrivi dal Venezuela. Questa carta garantisce ai rifugiati l’accesso al sistema sanitario, all’istruzione e al mercato del lavoro. Come afferma Dany Bahar, giornalista di Brookings Institution Press, la necessità della regione latinoamericana è

quella di instaurare un dialogo e un coordinamento tra i vari Paesi coinvolti nell’accoglienza dei migranti. Per evitare che la fuga dei propri cittadini continui, Maduro dovrà cercare, durante il suo secondo mandato presidenziale, di interrompere la crisi economia. Secondo l’opinione di Asdúbal Oliveros, direttore di Ecoanalítica, le problematiche che affronta oggi il Venezuela hanno origine “nell’imposizione di un modello in cui lo Stato ha sostituito il ruolo dei cittadini e dei mercati come meccanismo di organizzazione sociale”. Sempre secondo Oliveros, i cambiamenti da attuare in futuro sono molteplici: occorre puntare a una maggiore decentralizzazione, trasparenza fiscale e diminuzione della dipendenza nei confronti del petrolio. Durante tutto il 2018, a causa della caduta del prezzo del greggio sui mercati internazionali, Maduro ha cercato di diversificare i guadagni provenienti dalle esportazioni intensificando l’attività estrattiva delle riserve d’oro del Paese; nei primi nove mesi dell’anno appena concluso il Venezuela ha esportato più di 23 tonnellate d’oro verso la Turchia, per un valore che si aggira intorno ai 900 milioni di dollari.

La decisione di Donald Trump, fortemente contrario al governo di Caracas, è stata quella di imporre ulteriori sanzioni, in questo caso legate all’esportazione di oro venezuelano. Il segretario della sicurezza nazionale John Bolton ha spiegato come questa misura proibirà sia a gruppi che a singoli investitori statunitensi di essere coinvolti in vendite corrotte di oro proveniente dalle riserve venezuelane. Questa decisione si somma alle sanzioni attuate da Washington nell’agosto del 2017, con le quali erano state proibite transazioni con titoli di debito ed azioni emesse da parte del governo di Maduro e da parte della compagnia petrolifera statale PDVSA. Un altro problema che il Paese si trascina da anni è l’aumento inarrestabile del debito: secondo Luis Vicente León, economista e direttore di Datanálisis, la somma del debito di stato e del PDVSA è pari a circa 125.000 milioni di dollari. A questo dato occorre sommare i debiti bilaterali, contratti soprattutto con Cina e con la Russia ed i debiti con organismi multilaterali come la Banca Mondiale. Saranno necessarie ulteriori misure per interrompere la crisi e il conseguente flusso migratorio, visto che l’aumento dell’attività estrattiva e l’introduzione della criptomoneta Petro non hanno ancora dato risultati significativi.

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AMERICA LATINA IL MOVIMENTO ZAPATISTA COMPIE 25 ANNI

I guerriglieri messicani nel 2019 non hanno intenzione di dimenticare la lotta momento storico. Oggi, nello Stato più meridionale del Messico, i membri dell’EZLN, per lo più di origine Maya, si sono radunati a fianco del Subcomandante Galeano, diventato noto con lo pseudonimo ora abbandonato di Subcomandante Marcos, per ricordare l’iniziativa intrapresa un quarto di secolo fa.

Di Davide Mina Il 26 dicembre scorso sono iniziati i festeggiamenti per i 25 anni dall’inizio della “guerra zapatista”. Molte macchine senza targa sono state viste percorrere le strade dissestate e i sentieri meno battuti del Messico in direzione del Chiapas, il territorio rivendicato dall’EZLN, Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, per unirsi alle celebrazioni che si sono protratte fino all’anno nuovo. Fu proprio il 1 gennaio 1994 il giorno in cui il movimento recuperò dalla storia messicana il nome di Emiliano Zapata, leader della Rivoluzione del 1910, e dichiarò guerra allo Stato, con l’obiettivo di rivendicare la lotta indigena, combattere contro l’oppressione economica e le disuguaglianze sociopolitiche imperanti in quel 16 • MSOI the Post

La rivolta iniziò proprio il giorno dell’entrata in vigore del NAFTA, il Trattato di libero commercio dell’America del Nord, considerato uno dei maggiori successi del presidente Carlos Salinas de Gortari. Per questo motivo, il movimento dell’EZLN fu salutato con simpatia dai movimenti no-global e contrari alla narrativa neoliberista sparsi in tutto il mondo. Il 1 gennaio 1994 indigeni di distinte etnie del Chiapas si coprirono il volto e ben presto entrarono armati nei municipi di San Cristobal de las Casas, Altamirano, Las Margaritas, Ocosingo. L’opinione pubblica mostrò dapprima scetticismo nei confronti delle potenzialità dell’EZLN, ma ben presto si rese conto dell’errore commesso nel prendere sotto gamba questo esercito irregolare. Il Messico non era nuovo all’insurrezione di masse popolari, prevalentemente rurali, che organizzavano operazioni di guerriglia, ma non aveva mai fronteggiato un gruppo militare che potesse confrontarsi alla pari con l’Esercito messicano, grazie all’abilità strategica e comunicativa dei suoi comandanti e soprattutto del suo Subcomandante. Il Subcomandante Marcos, di fatto all’apice della gerarchia

dell’EZLN, cercò un grado che rimarcasse la sua subordinazione al popolo e assunse il ruolo di voce carismatica, pur senza mostrare il volto, o forse proprio grazie all’anonimato che gli garantiva la maschera: un passamontagna nero con un taglio per gli occhi e uno per la pipa, sempre accesa. La sua immagine, identificativa del personaggio rivoluzionario, si è diffusa in tutto il mondo, arrivando ad essere definito un Che Guevara post-moderno. Fin da subito volle collocare la lotta al di fuori dei recinti ideologici tradizionali: la Dichiarazione della Selva Lacandona, il documento che accompagnava la dichiarazione di guerra allo Stato, era un testo di narrativa sociale e indigenista che si discostava dal classico discorso del guerrigliero latinoamericano socialista o comunista. Nessun riferimento a Marx, Engels, Fidel Castro o Che Guevara, né alla conquista del potere, ma alla transizione dal sistema presente a un nuovo più egualitario. I delitti di terrorismo, eversione, sommossa, ribellione e cospirazione che erano stati attribuiti al subcomandante Marcos sono caduti in prescrizione nel 2016: la legge messicana ha dimenticato, mentre l’EZLN ha deciso di inaugurare il 2019 in modo che nessuna azione cada nell’oblio. E il mondo sembra dar loro ragione, se non sulle risposte, almeno sulle domande che hanno saputo porre, contestando il NAFTA, i trattati di libero commercio e il concetto stesso di neoliberismo.


ECONOMIA L’ERA GIALLOVERDE

I due provvedimenti, che coinvolgeranno più di 5 milioni di cittadini, divengono legge

Di Michelangelo Inverso
 Comincia l’era del Reddito di Cittadinanza e di Quota 100. Dopo numerosi confronti, tensioni e ritorsioni, i due provvedimenti cardine delle forze di governo, rispettivamente Movimento 5 Stelle e Lega, dal 17 gennaio sono infine leggi dello Stato. Esaminiamo innanzitutto il provvedimento più complesso, il Reddito di Cittadinanza, ossia un reddito integrativo per coloro che versano in condizioni di disoccupazione e povertà. La platea a cui si rivolge è di circa 5 milioni di italiani per cui sussistono tre requisiti: ISEE inferiore a €9.360, un patrimonio immobiliare inferiore a €30.000 (esclusa la prima casa) e un patrimonio finanziario inferiore a €6.000. Lo stanziamento di risorse previsto è di circa €6 miliardi e verrà strutturato in modo diverso a seconda dei casi. Come anche riportato dal Blog delle Stelle, organo di informazione ufficiale del M5S, si andrà da un minimo di €780 di reddito, (€500 più €250 di integrazione al canone di locazione o mutuo) a un massimo di €1.280 per famiglie in affitto e con figli disabili per una durata massima di tre anni. Inoltre, entro aprile,

dovranno essere pronti i centri per l’impiego, che saranno i centri operativi attraverso cui il Reddito si trasformerà da misura di assistenza passiva a strumento di politica attiva nei confronti dei disoccupati.

lavoro viene effettuata, salvo alcune eccezioni, come nel caso in cui si abbiano parenti affetti da disabilità. Alla terza offerta si dovrà essere disponibili per un lavoro proveniente dall’intera Italia.

Una delle principali osservazioni ribadite dalle opposizioni riguardava il rischio di disincentivare la ricerca di lavoro da parte dei percettori del Reddito. Per minimizzarlo, si è ideato un meccanismo per far incontrare l’offerta (i disoccupati) con la domanda di lavoro (i posti disponibili). A questo proposito, si è scelto di affidare ai centri per l’impiego questa operazione molto complessa e tuttora incerta. Per quanto riguarda la richiesta e l’erogazione, saranno rispettivamente l’INPS e Poste Italiane a farsene carico, con grande vantaggio per queste ultime, che beneficeranno delle classiche commissioni bancarie per le operazioni finanziarie.

Quanto, invece, al provvedimento caro alla Lega, la Quota 100, consisterà in una riforma del sistema pensionistico che interesserà solo gli “iscritti all’assicurazione generale obbligatoria e alle forme esclusive e sostitutive della medesima, gestite dall’INPS, nonché alla gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 335/1995”, con collegato divieto di cumulo di retribuzioni da altri fondi o redditi privati. Essa coinvolgerà solo coloro che hanno 62 anni di età e 38 anni di contributi versati all’INPS, una platea di quasi 300.000 lavoratori, di cui i due terzi dipendenti pubblici e privati, oltre ai lavoratori autonomi.

I soggetti interessati dovranno quindi confluire nel cosiddetto ‘patto per il lavoro’, un documento che impegna ad accettare una tra tre proposte di lavoro offerte. Ogni offerta di lavoro successiva alla prima aumenta il raggio di distanza dal luogo in cui la domanda di

Viene così riportato in vita il sistema delle quote (età anagrafica + anni di contributi) abolito dalla riforma Fornero. Tuttavia, questa riforma sarà “sperimentale”, ossia valida solo fino alla fine del 2021 e partirà da quest’anno, ma con tempistiche differenti a seconda del settore pubblico o privato di riferimento.

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ECONOMIA DUE ANNI DI TRUMP: COME STANNO GLI USA?

Fra crescita e guerre commerciali, un’analisi economica del primo biennio del tycoon

Di Alberto Mirimin 20 gennaio 2017: alla Casa Bianca è l’Inauguration Day, che celebra e ufficializza la nomina di Donald J. Trump a 45° Presidente degli Stati Uniti d’America. Un’elezione, quella del tycoon newyorkese, avvenuta su uno sfondo economico-sociale di scarsa crescita, di salari reali fermi da anni e crescenti diseguaglianze economiche, su cui lo stesso Trump ha fatto leva durante la campagna elettorale per attirare le preferenze degli scontenti della middle-class statunitense. I due anni appena trascorsi, facilmente collocabili sotto un’ideologia isolazionista ed economicamente protezionista, ricchi di decisioni estreme e tweet non convenzionali, non possono essere definiti ‘pacifici’ nemmeno internamente alla stessa amministrazione: secondo le stime della Brookings Institution, tra i principali consiglieri di Trump, il turnover è stato del 65%, con 13 membri del Gabinetto sostituiti (in confronto, erano stati sette con Obama). La politica economica applicata è stata quella classica Repubblicana, centrata su tagli fiscali che privilegino 18 • MSOI the Post

le imprese (dal 35% al 21% l’imposta sugli utili) e redditi più alti. Infatti, tra le prime iniziative di Trump c’è stata la riforma fiscale nota come Tax Cuts and Jobs Act del 2017: i tagli hanno sostenuto gli investimenti delle imprese e determinato una crescita su livelli mai visti dal 2014, sopra il 4% del PIL nel secondo trimestre 2018. Ciò ha contribuito a migliorare le condizioni del mercato occupazionale: per la prima volta da 20 anni sono più i nuovi posti di lavoro che i disoccupati, ora sotto il 4% della forza lavoro, dato reso ancor più solido dal recupero dei salari, +3,2%. Infine, la Borsa di New York ha indici superiori del 30% rispetto al 2017. Tuttavia, la combinazione creata dal taglio delle tasse, l’aumento delle spese militari e il rialzo dei tassi di interesse, ha incrementato il debito pubblico. Secondo i dati del Bilancio federale 2019, si prevede che Trump lascerà a fine mandato nel 2020 un debito attorno ai $25.000 miliardi, avendone ereditato da Obama uno di poco superiore a $20.000 miliardi. Questi due anni sono stati caratterizzati, però, anche da altri elementi, primo su tutti le guerre commerciali. Da un lato, la discussione sul NAFTA, che

Trump ha voluto sostituire con un nuovo accordo con Canada e Messico. Dall’altro la guerra a colpi di dazi in atto con la Cina: secondo le proiezioni di Oxford Economics, il conflitto Stati Uniti-Cina ha già ridotto il PIL statunitense del 2018 dello 0,2%, mentre per Tax Foundation i dazi cancelleranno oltre 94.000 posti di lavoro nel lungo periodo. Altro punto cardine sono state le migrazioni. Il divieto imposto dal tycoon ai cittadini provenienti da alcuni Stati di fede musulmana ha influenzato negativamente la spesa dei visitatori esteri sul territorio nazionale, come confermato da Moore, campaign advisor di Trump. Anche gli investimenti esteri diretti negli USA sono diminuiti drasticamente nel 2017 e diventati negativi nel secondo trimestre del 2018. Il deficit con l’estero, poi, è passato dai $40 miliardi del settembre 2016 ai circa $53 del settembre 2018. In conclusione, il dibattito sull’operato di Trump è oggi più che mai aperto. Se, da un lato, è evidente che l’economia statunitense vive oggi un periodo felice, dall’altro, le incertezze politiche e il debito pubblico minano la comprensione di quello che questa legislatura realmente lascerà ai posteri.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL TEMPO INCALZA E IL “NO DEAL” FA SEMPRE PIU’ PAURA La Brexit attende un piano ‘c’

Di Debora Cavallo 24 giugno 2016: il Primo ministro conservatore, David Cameron, sostenitore della permanenza nell’Ue, annuncia le dimissioni. 13 luglio 2016: Theresa May, euroscettica ma che aveva votato contro la Brexit, diventa Prima Ministra. 17 gennaio 2017: nel discorso“di Lancaster”, Theresa May espone i suoi piani per una “hard Brexit”. Per la premier, “il Regno Unito non può continuare a far parte del mercato unico”, incompatibile con la priorità di Londra: la gestione dell’immigrazione europea. 29 marzo 2017: Theresa May attiva l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che così prevede “Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. [..] l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso”. L’iter di uscita dall’Ue scatta dunque e ufficialment . Il divorzio è previsto per il 29 marzo del 2019; l’8 dicembre 2017 il presidente della Commissione Ue Juncker insieme con la premier britannica Theresa May annunciano di avere raggiunto un accordo iniziale sui tre dossier principali: il conto di uscita, i diritti dei cittadini e le sorti della frontiera tra l’Ir-

landa e la provincia britannica dell’Irlanda del Nord. L’accordo regolamenta in particolare la questione del conto di uscita che Londra dovrà pagare all’Ue, stimato fra 40 e 50 miliardi di euro, e prevede la controversa disposizione del “backstop”. La May invita i deputati britannici a sostenere l’accordo di divorzio in un voto fissato per l’11 dicembre, ma il 10 dicembre annuncia il rinvio del voto, vista la bocciatura quasi certa proprio per il “backstop”. Bocciatura che, il 15 gennaio 2019, ha preso piede nell’aula Parlamentare con 432 voti contrari, tra cui molti parlamentari dello stesso partito di Theresa May, i voti favorevoli sono stati solo 202: per il governo significa una grave e storica sconfitta. L’opzione di default è il no deal, ossia un divorzio disastroso senza nessun accordo paracadute. La Gran Bretagna infatti – salvo dilazioni concesse dalla Ue in caso di elezioni anticipate, o se Londra ritirasse l’art. 50 – si staccherà dall’Unione alla mezzanotte del 29 marzo. Domenica, al termine di intense trattative, la May in una conference call con i Ministri ha spiegato che un piano alternativo è quello di negoziare un trattato bilaterale con la Repubblica d’Irlanda bypassando così la Ue. Da Dublino, tuttavia, hanno risposto che “non c’è speranza” che

tale accordo possa aiutare ad escludere dalla Brexit l’articolo sul back-stop, ovvero la permanenza dell’Irlanda del Nord all’interno dell’Unione doganale dell’UE e il mercato unico europeo dopo la Brexit. Altra strada, che potrebbe percorrere la May, per scongiurare un no deal, è quella di ottenere un appoggio ampio non solo dal suo partito, ma anche dall’opposizione. Per farlo potrebbero essere rivisti alcuni aspetti dell’accordo e mantenuti in prospettiva di legami più stretti con la Ue. Uno scenario questo, che non spiacerebbe a numerosi Stati membri dell’Ue. Una soluzione a Brexit sembra ancora lontana. Il «piano B» che Theresa May ha presentato il 21 gennaio in Parlamento è già stato respinto prima ancora di essere annunciato. Intanto, il leader del partito laburista, Jeremy Corbyn, apre l’ipotesi di un nuovo referendum sulla Brexit, finora sempre negato, avendo prima indicato come unica alternativa al fallimento dei piani A e B di May le nuove elezioni politiche. I laburisti hanno presentato, infatti, un emendamento per costringere il governo a dare al Parlamento il tempo di considerare e votare sulle opzioni possibili al fine di impedire un’uscita “no deal”, sarebbe una hard Brexit, che fa paura a tutti a cominciare dagli operatori economici.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO RELAZIONI COMMERCIALI INTERSTATALI: LA PRATICA DELLO SPIONAGGIO ECONOMICO C’è spazio per il diritto internazionale?

Di Luca Imperatore Il termine “spionaggio economico” viene spesso impiegato per designare l’azione di uno Stato che sfrutta la propria posizione di preminenza per “sottrarre” informazioni confidenziali riguardanti imprese straniere, passandole a quelle nazionali con il fine di incrementare la loro competitività. Tale azione, come sostiene Russell Buchan, ha lo scopo di rafforzare l’economia nazionale dello Stato in questione a danno delle aziende “spiate”. Lo spionaggio economico rappresenta un costo calcolato in svariati milioni di dollari per anno e si considera un rischio crescente con l’avvento e la diffusione della cyber-criminalità. Recentemente – dicembre 2018 – la Cina è stata oggetto dell’accusa di condurre sistematicamente un’azione di spionaggio economico nei confronti delle aziende straniere che operano sul suo territorio. La domanda che sorge automatica è: come possono gli Stati reagire a queste minacce per la loro sicurezza nazionale? Trascurando volutamente l’apporto dato dal diritto penale nazionale, il ruolo del diritto internazionale in materia è stato oggetto, finora, di scarsa attenzione. Ciononostante, qualora considerassimo 20 • MSOI the Post

lo spionaggio economico come una forma indebita di concorrenza, risulterebbe applicabile – secondo alcuni – la Convenzione di Parigi sulla protezione della proprietà industriale, del 1967 (che crea la c.d. Paris Union). In particolare, la norma di cui all’articolo 10bis (2) sancisce: “Any act of competition contrary to honest practices in industrial or commercial matters constitutes an act of unfair competition”. Se sia lecito o meno considerare lo spionaggio economico quale forma di concorrenza sleale è oggetto di dibattito. Occorre, comunque, rimarcare che la Convenzione adotta volutamente criteri definitori piuttosto ampli, in ipotesi, in grado di includere detta pratica nel novero degli “atti di concorrenza contrari alle pratiche commerciali oneste”. Inoltre, la stessa interpretazione letterale della norma convenzionale lascia pochi dubbi circa la portata della stessa: all’articolo 1(3) si legge che la proprietà industriale “shall be understood in the broadest sense”. Preso atto dell’estendibilità della norma in esame al caso dello spionaggio economico, un ulteriore problema sorge all’orizzonte: quello della sua applicabilità extraterritoriale. Benché

non vi sia alcuna disposizione chiara circa l’applicazione della Convenzione al di fuori del territorio di uno Stato della c.d. Paris Union, la stessa formulazione dell’articolo 10bis(1) chiarisce: “The countries of the Union are bound to assure to nationals of such countries effective protection against un fair competition”. Così facendo, la Convenzione pare porre l’accento non tanto sulla posizione geografica dello straniero coinvolto, quanto sulla sua nazionalità. Non pare, dunque, eccessivo ritenere che detta norma imponga – quantomeno – l’obbligo negativo di astenersi da condotte di concorrenza sleale nei confronti di cittadini di Stati parte della Paris Union. Potrebbe essere interessante, a questo punto, indagare su quale possa essere l’organo giurisdizionale competente a dirimere una controversia connessa alla Convenzione di Parigi, posto che la stessa non è assorbita all’interno del WTO. Indipendentemente da ciò, comunque, la quesitone mostra come il diritto internazionale sia, oggi più che mai, in grado di permeare situazioni un tempo prettamente nazionali, ampliando la portata dei diritti e – forse – delle tutele.


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