Msoi thePost Numero 48

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Redazione Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole AUSTRIA 4 dicembre. Con il 53,3% dei voti si aggiudica la vittoria l’europeista Alexander Van Der Bellen, diventando così il 9° Presidente Federale della Repubblica d’Austria. È atteso alla Hofburg (residenza presidenziale) per il 26 gennaio. Altissima l’affluenza (73,9%) a testimoniare l’interesse per una sfida che dimostra come la politica, in un’epoca di crisi e sempre maggior sfiducia nelle istituzioni europee, si tinga sempre più di bianco e di nero, relegando il tradizionale grigio dei centrismi a quello di semplice spettatore. Numerose le reazioni internazionali: dal rammarico di Marie le Pen alle congratulazioni del presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz per un risultato chiaramente “pro Europa”. Nonostante la sconfitta il risultato raggiunto da Hofer rimane il più alto nella storia dell’FPOE a livello nazionale; con un 27% nei sondaggi si punta ad andare al voto quanto prima. La parola d’ordine è infatti molto chiara :”Dalle elezioni alle elezioni”. FRANCIA 5 dicembre. Manuel Valls si è dimesso dalla carica di Primo Ministro per candidarsi alle primarie del centrosinistra. Il ruolo è stato assunto dal ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve. Per la sinistra e, più nello specifico, per il partito socialista le primarie sono l’occasione per ricompattarsi in vista della corsa all’Eliseo. Corsa che si preannuncia ad ostacoli tra un centrodestra compatto ed una Marie le Pen che guadagna sempre più consensi, senza dimenticare alcuni outsider come il rampante 38enne Emmanuel Macron, ex Ministro dell’Economia, che con il suo 17% nei sondaggi rappresenta un’ardua sfida sia per la destra che per la sinistra, in quanto calamita

REFERENDUM COSTITUZIONALE: DOPO IL NO, LA CRISI DI GOVERNO Renzi si dimette dopo il trionfo del no al referendum costituzionale

Di Claudia Cantone Domenica 4 Dicembre più di 30 milioni di italiani (media nazionale di affluenza pari al 68,48%) si sono recati alle urne per votare al referendum costituzionale. Il risultato è stata una chiara bocciatura della riforma oggetto del quesito referendario: il 59, 9%, ovvero più di 19 milioni di votanti, ha respinto il testo di legge costituzionale che prevedeva il “superamento del bicameralismo paritario, riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”. Immediata conseguenza del successo del ‘no’ sono state le dimissioni del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, il quale già durante la notte del 4 dicembre ha annunciato, in conferenza stampa, l’intenzione di porre termine all’esperienza di governo da lui guidato, la cui nascita e tenuta erano legati all’approvazione della riforma costituzionale. Le dimissioni formali, dinanzi al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sono arrivate il 7 dicembre, subito dopo il passaggio finale in Senato della legge di bilancio.

L’8 dicembre sono iniziate le consultazioni: il Presidente della Repubblica riceverà durante il pomeriggio i due Presidenti di Camera e Senato ed, in seguito, il presidente emerito Giorgio Napolitano, mentre venerdì 9 sarà dedicato al confronto con i rappresentanti dei gruppi parlamentari e dei partiti. L’Italia è ora “alla ricerca di un Primo Ministro”, come intitola il quotidiano francese Le Monde, e al centro di una crisi politica. Gli scenari che si prospettano sono vari: l’idea di un immediato ritorno alle urne, come auspicano molti sostenitori del fronte del No, a partire dal Movimento 5 Stelle e Lega Nord; la possibilità di un governo tecnico o un eventuale governo di scopo per l’approvazione di una legge elettorale valida anche per il Senato, prima dello scioglimento delle Camere. Ulteriore dato che arricchisce il già complicato quadro politico è la necessità di attendere il giudizio di legittimità costituzionale sulla legge elettorale per la Camera dei Deputati, il cosiddetto Italicum: la Corte Costituzionale ha, infatti, annunciato che l’udienza per la discussione è fissata il 24 gennaio 2017. MSOI the Post • 3


EUROPA del voto moderato. GERMANIA 6 dicembre. Con 11 minuti di applausi e l’89,5% dei consensi viene riconfermata Angela Merkel alla guida della CDU. Una grande sfida si profila per i cristiano-democratici, dopo il disastroso risultato delle regionali 2016. Molti sono stati i temi affrontati al Congresso di Essen: dalle tasse ai migranti, dal patto di stabilità al ruolo della NATO nella difesa comune europea; si è insistito sulla digitalizzazione e sull’importanza sempre crescente dell’accesso ad Internet, dal cancelliere considerato “essenziale, come l’accesso all’elettricità ed all’acqua”. Sui rifugiati più rigore, con 500.000 richieste d’asilo respinte, di modo che non si giunga più ad una situazione congestionata come quella dell’estate 2015. Chiare anche le parole sul dibattito sull’Islam “la cultura tedesca resterà prioritaria, non ci saranno società parallele. E il velo che copre tutto il corpo sarà, dove e quando possibile, vietato”. UNIONE EUROPEA 8 dicembre. La Commissione Europea, nell’ambito dello scandalo Dieselgate, ha aperto una procedura d’infrazione nei confronti di 7 Paesi, in primis Germania e Regno Unito. L’accusa è di non aver introdotto o messo in atto, nei loro ordinamenti, quelle stesse penalizzazioni, volte a scoraggiare i produttori a violare le norme sulle emissioni, di cui Volkswagen è stata oggetto negli Stati Uniti. Gli è inoltre contestato il mancato invio dei resoconti sulle emissioni degli anni passati. Due sono i mesi concessi per rispondere delle accuse con argomentazioni solide, la cui mancanza o insufficienza permetterà di adire la Corte di Giustizia per stabilire le responsabilità in capo alle autorità nazionali. A cura di Fabio Saksida 4 • MSOI the Post

FRANCIA: BERNARD CAZENEUVE E’ IL NUOVO PRIMO MINISTRO L’ex Ministro degli Esteri, fedelissimo di Hollande, sostituisce Manuel Valls a Matignon.

Di Michele Rosso Il 6 dicembre Manuel Valls ha rassegnato le sue dimissioni da Primo Ministro. A motivare tale decisione è stata la sua volontà di concorrere alle primarie del partito socialista (che avranno luogo il 22 e il 29 gennaio 2017) dopo la rinuncia del presidente François Hollande a ricandidarsi per le elezioni presidenziali del 2017. La scelta di Hollande per la formazione del nuovo governo è ricaduta su Bernard Cazeneuve. Da sempre fedele di Hollande, Cazeneuve ha incominciato la sua carriera politica proprio nel primo governo del suo “quinquennato” (presieduto da Jean Marc Ayrault) in qualità di Ministro delegato agli Affari Europei, quindi di Ministro delegato al bilancio. Promosso a Ministro degli Interni a partire dal primo governo di Manuel Valls (aprile 2014), Cazeneuve ha avuto un ruolo di primo piano nella lotta contro il terrorismo promossa in reazione agli attentati del 2015, in particolare per quanto riguarda la gestione dello stato di emergenza. La sua azione è stata tuttavia criticata da più fronti. L’ala conservatrice lo ha, infatti, accusato di non aver fatto abbastanza per garantire una sicurezzasufficiente, soprattutto in relazione alla strage di Nizza del luglio scorso (per il quale è anche stato coinvolto in un procedimento giudiziario).

A sinistra egli è, invece, criticato per il suo eccessivo autoritarismo e per taluni provvedimenti percepiti come una vera e propria minaccia alle libertà fondamentali. L’ultimo provvedimento controverso è stata l’adozione, il 28 ottobre scorso, di un decreto volto a creare una base di dati elettronica unica e centralizzata, che raggrupperebbe le informazioni dei detentori di documenti d’identità o di passaporti, al fine di lottare contro la falsificazione dei documenti. La decisione di sottrarre al dibattito parlamentare un tema così sensibile ha provocato innumerevoli polemiche, tanto che lo stesso Ministro ha ammesso di aver commesso un errore a non consultare prima la Camera dei Deputati. Cazeneuve si accinge verosimilmente a guidare l’ultimo governo della presidenza Hollande. Avendo un orizzonte temporale di 5 mesi di tempo sarà anche il governo più breve della Quinta Repubblica. È indetta per sabato 10 dicembre la prima riunione del Consiglio dei Ministri: si discuterà in particolare del prolungamento dello stato d’emergenza e dell’orientamento generale che intende dare al nuovo governo. Cazeneuve ha affermato di disporre di una maggioranza parlamentare sufficientemente solida per permettergli di proseguire “l’azione di cui il Paese ha bisogno”.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

TRUMP, TAIWAN E CINA, GAFFE O FINE DIPLOMAZIA?

La telefonata della discordia fra riavvicinamenti potenziali e sicure rotture

Di Alessandro Dalpasso STATI UNITI 3 dicembre. Il presidente eletto Donald Trump ha avuto un colloquio telefonico con il leader di Taiwan Tsai Yin-wen: è la prima volta che i due Paesi intrattengono contatti dal 1979. Si tratta di una provocazione per la Cina, dal momento che Pechino non riconosce Taiwan come uno Stato indipendente, ma soltanto come una provincia. La Casa Bianca ha risposto affermando che non ci sarà un cambiamento sulla politica tradizionale degli Stati Uniti, che riconoscono una sola Cina. 4 dicembre. Il presidente eletto Donald Trump ha annunciato la sua intenzione di punire severamente le imprese statunitensi che spostano la loro attività all’estero, ipotizzando l’introduzione di una tassa di confine la cui aliquota potrebbe arrivare alla soglia del 35%. 5 dicembre. Dopo mesi di proteste i Sioux sono riusciti a far bloccare dall’amministrazione Obama la costruzione di un oleodotto in North Dakota. Ma il presidente eletto Trump ha dichiarato che l’ultima parola sarà la sua, una volta insediatosi alla Casa Bianca. 7 dicembre. Il settimanale Time

Il 3 dicembre Trump ha fatto sapere che il presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen, l’ha chiamato per congratularsi della sua elezione. Non ci sarebbe nulla di strano o eccezionale nella notizia, che rispecchia una prassi comune fra capi di Stato nei momenti post elezione, se questo contatto non rappresentasse il primo “colloquio” ufficiale tra un Presidente statunitense e il suo corrispettivo taiwanese dal 1979. Questa situazione era dovuta al fatto che gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto la One-China policy ovvero il riconoscimento di una sola Cina (quella continentale). Quella che in un primo momento sembrava una gaffe del Presidente Eletto repubblicano si è rivelata invece una mossa preparata da mesi. Stando a quanto riportano alcuni documenti riservati, pubblicati dal New York Times nei giorni successivi all’accaduto, ci sarebbe stato un attivo lavoro di lobby, nei mesi di campagna elettorale, tra l’ex senatore Bob Dole e lo staff di Trump per pianificare questo evento di portata storica. Intervistato dal Wall Street Journal, Dole avrebbe detto che il suo lavoro di lobbying potrebbe aver avuto qualche influenza. Sembra, infatti, che venisse

pagato 20.000 dollari al mese dal governo di Taipei per questi suoi servigi. Secondo alcuni esponenti del futuro governo, la chiamata di Trump è stata un buon primo passo verso un ribilanciamento del rapporto trilaterale Cina-Stati Uniti-Taiwan. Non è stata percepita allo stesso modo, però, all’ombra della Grande Muraglia. Per Pechino la questione taiwanese è sempre stata sentita come di primaria importanza per la sicurezza nazionale, anche perché Formosa non è considerata altro che una provincia da riannettere al Paese. La Cina ha quindi accusato gli Stati Uniti di cercare di dettare la politica di un altro Stato sovrano e ha usato il pretesto di Taiwan per attaccare Trump, che non avrebbe capito la nuova politica monetaria. Egli, inoltre, a detta del governo cinese, non sta costruendo un “grande complesso militare nel mezzo del Mar Cinese Meridionale”, come ha dichiarato lo stesso Presidente Eletto. Considerando che Cina e Stati Uniti sono fra i primi partner commerciali a livello globale, frizioni del genere rischiano di raffreddare ulteriormente le relazioni tra i due colossi in un periodo in cui non sono certo distese. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA SONDAGGI E CANDIDATI VINCENTI

Storia dell’unico poll che ha previsto la vittoria di Trump

ha scelto Donald Trump come personaggio dell’anno. Nello stesso giorno, il presidente eletto ha scelto il nuovo ministro degli Interni: il generale dei marines John Kelly.

CANADA 7 dicembre. Il presidente Trudeau ha dichiarato che il governo introdurrà l’Indigenous Language Act. 7 dicembre. Il Canada, insieme a Francia, Usa, Germania e Italia, ha chiesto il cessate il fuoco su Aleppo. A cura di Lorenzo Bazzano

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Di Federico Sarri Hanno sbagliato tutti, tranne (in parte) loro. I sondaggisti dell’University of Southern California e del Los Angeles Times sono stati gli unici a prevedere la vittoria del candidato repubblicano Donald Trump. Vediamo come hanno fatto. L’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America ha sorpreso il mondo intero. I più autorevoli quotidiani e sondaggisti erano, infatti, convinti che il candidato con maggiori probabilità di vittoria fosse la democratica Hillary Clinton. I numeri, si diceva, erano tutti dalla sua parte. L’unico sondaggio in controtendenza, capace di anticipare il trend effettivo, è stato quello nato dalla partnership tra USC e Los Angeles Times: l’unico poll giornaliero che, secondo uno studio durato da luglio a novembre, ha dato maggiori possibilità di successo a Trump (il 46,8% contro il 43,6 della sfidante dem). Tale risultato, secondo gli esperti che stanno studiando il fenomeno, è frutto della metodologia utilizzata dai sondaggisti USC/LAT: un metodo che considera un campione definito di 3.200 persone e ne interroga, di settimana in settimana, solo un terzo. Nei sondaggi tradizionali il campione cambia di volta in volta, permettendo di eliminare eventuali errori di campionatura. La decisione dell’u-

niversità californiana è andata contro corrente: mantenere lo stesso campione si è rivelata una scelta vincente (anche secondo il noto sondaggista Nate Silver) per mettere in luce i reali cambiamenti di opinione dell’elettorato. A differenza di tutti gli altri, il sondaggio dell’USC chiedeva agli intervistati di rispondere a tre domande, fornendo una valutazione su una scala da 1 a 100: “Andrai a votare? Voterai per Clinton, Trump o un altro candidato? Vincerà Clinton, Trump o un altro candidato?”. Le risposte ottenute venivano poi ponderate in base al grado di sicurezza espresso dall’intervistato: così, un elettore che si dichiarasse sicuro al cento per cento di votare per Trump avrebbe ottenuto un “peso” maggiore di uno che avesse dichiarato una percentuale minore. A un giorno dal voto, il sondaggio USC/Los Angeles Times è stato l’unico a dare più possibilità di vittoria a Trump rispetto alla sfidante democratica, suscitando scalpore. L’unico dato che non è riuscito a preannunciare è stata la vittoria di Hillary Clinton nel voto popolare. Ora però si guarda a questa nuova metodologia, già utilizzata con successo nelle elezioni presidenziali del 2012, con grande interesse: che sia il futuro dei sondaggi elettorali? Staremo a vedere.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole ARABIA SAUDITA 1 dicembre. Il principe Alwaleed bin Talal, molto conosciuto e seguito, ha dichiarato su Twitter che in Arabia Saudita “è tempo che alle donne sia permesso di guidare”. 7 dicembre. La Corte Criminale Speciale Saudita ha condannato a morte 15 persone che erano state arrestate nel 2013 con l’accusa di essere spie iraniane.

L’IRAQ FRA GUERRA E GUERRE: IL TUTTI CONTRO TUTTI

Mentre la coalizione concentra i suoi sforzi contro Daesh, attori fino ad ora secondari si preparano....

Di Jean-Marie Reure

BAHRAIN 6 dicembre. Al summit annuale dei paesi del Golfo, le autorità del Bahrain vietano l’ingresso ai giornalisti di al-Jazeera, nonostante tutti i loro documenti fossero in regola.

Tutto iniziò il 24 giugno 2014 a Mosul. Quel giorno, Abu Bakr al-Baghdadi salí sul pulpito di una moschea e, dopo essersi scagliato duramente contro “l’invasore occidentale”, si dichiarò Califfo dello Stato Islamico del Levante. O forse questo è solo quanto ricordiamo dopo due anni di guerra contro “il Califfato”, due anni di brutali esecuzioni, di stragi, di barbarie. Ma la storia non inizia con Daesh, né, probabilmente, finirà con la sua distruzione.

7 dicembre. Al summit dei Paesi GCC, il primo ministro britannico Theresa May dichiara di voler approfondire la collaborazione con i governi del Golfo per rispondere alle minacce poste dal sedicente Stato Islamico e dall’Iran.

2012: Nouri al-Maliki è Premier di un Iraq incerto e traballante. Le ferite lasciate dall’invasione del 2003 faticano a rimarginarsi. Ingenti fondi affluiscono nello Stato, provenienti da donors internazionali: per ricostruire il Paese, per pacificare la popolazione, si dice. Il Premier è in balia di queste potenze estere e in patria gode di scarso consenso. Un problema di legittimità, certo, ma anche di etnia. AlMaliki, sciita, ha bisogno di rafforzare il proprio operato e per farlo sceglie la carta più ovvia: estromette lentamente l’opposizione sunnita. Nascono le prime contestazioni a base etnica dopo il 2003.

PALESTINA/ISRAELE 6 dicembre. Il Knesset approva una controversa legge, proposta da Netanyahu e dal Ministro dell’Educazione che, se arriverà all’approvazione finale, legalizzerà circa 4.000

Nel 2013 la grande coalizione sunnita al-Iraqyia è a brandelli: le differenti correnti interne e la politica di al-

Maliki hanno contribuito alla sua implosione. Il movimento popolare di protesta sunnita si trova ora privo di guida. La tensione sale e il governo risponde duramente. Jaysh Rijal al-Tariqa alNaqshbandia (JRTN) è uno degli attori che più rapidamente si fa strada in questo caos. A 60 chilometri da Baghdad un gruppo ha preso la città di Fallujah. Le bandiere che sventolano sulle mura della città sono le stesse che venivano agitate durante le proteste al campo profughi di Ramadi. Il vessillo è nero. La storia da qui in poi la conosciamo: l’ascesa del sedicente Califfato in Iraq e in Siria, la frettolosa ritirata delle forze locali addestrate dall’Occidente, gli attentati in Occidente, la politica dei “no boots on the ground”, il ruolo della Russia di Putin. Molti ignorano però che Daesh non sia il solo a canalizzare il malessere delle minoranze, a servirsi di una delle grandi narrazioni nel XXI secolo, il jihad. Ne esistono molte altre, sotto certi aspetti diverse, ma con una funzione analoga: dar voce alla sofferenza delle persone. Alcuni nomi, come Ba’th o al-Qaeda, tornano; altri nascono. Sarà tuttavia difficile immaginare un Iraq senza conflitti:eradicatolospauracchiodi Daesh, la minoranza sunnita si potrà dire soddisfatta?

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MEDIO ORIENTE insediamenti israeliani nei territori palestinesi della Cisgiordania. 8 dicembre. I membri della Joint List, i palestinesi del Knesset israeliano, sono pronti a denunciare Netanyahu per aver incitato alla morte di alcuni palestinesi durante un attacco delle forze israeliane in Cisgiordania. SIRIA 8 dicembre. Secondo il vice ministro degli Esteri Ryabkov, gli Stati Uniti e la Russia sono vicini ad un accordo sul conflitto siriano. TURCHIA 29 novembre. Erdogan ha dichiarato l’importanza per tutti i musulmani di unirsi alla causa palestinese, sostenendo che “proteggere Gerusalemme è un dovere comune per tutti i musulmani”. 2 dicembre. Dopo sei anni dai problemi con la flotilla di aiuti umanitari turchi colpita da Israele nelle acque di Gaza, i due Paesi si riavvicinano e Eitan Naeh è il primo ambasciatore israeliano ad arrivare in Turchia. A cura di Lucky Dalena

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THE OTHER SIDE OF ALEPPO Una città divisa in due

Di Martina Scarnato Ormai l’esercito siriano, alleato con le milizie russe, sembra vicino a quella che - secondo al-Jazeera - sarebbe “una delle più importanti vittorie in una disastrosa guerra di 5 anni”: la conquista di tutta la città di Aleppo. Dall’estate del 2012, infatti, la città è divisa in due parti: la parte est, in mano ai ribelli e ai gruppi armati, e la parte ovest, in mano alle autorità di Damasco. Tuttavia, mentre la parte orientale è stata ormai quasi completamente rasa al suolo dai bombardamenti, nella parte occidentale molti quartieri sono praticamente intatti. In un video di propaganda del regime, pubblicato da Reuters, un drone che sorvola la città mostra come la parte orientale sia ormai ridotta a un cumulo di macerie. Si stima che l’esercito abbia sganciato, solo fino al mese di ottobre, circa 2.000 bombe, uccidendo migliaia di civili. La strategia dell’esercito siriano è soprannominata “starve-or-submit”, morire di fame o sottomettersi, e prevede l’interruzione di tutte le vie di rifornimento di cibo e medicinali alla città. Il 19 novembre al-Jazeera annunciava che “tutti gli ospedali erano o ufficialmente fuori us ”, distrutti dai bombardamenti. La parte occidentale della cit-

tà, invece, sembrerebbe essere intatta: il drone mostra parchi rigogliosi, siti archeologici in perfetto stato e strade popolate. Ma la realtà è ben altra. Secondo il dottor Antaki, intervistato da France 24, ad Aleppo ovest muoiono ogni giorno da 5 a 20 persone, e, seppure i media non diano molta rilevanza agli attacchi dei ribelli, poiché non causano ingenti danni agli edifici, il numero delle vittime è comunque piuttosto alto. Inoltre, anche la parte ovest ha subito degli assedi, durante i quali non c’era possibilità di approvvigionamento di cibo né medicinali. Comunque, ammette, infine, Antaki, la situazione non è “paragonabile con quella della parte est della città”. Secondo i dati dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, soltanto durante l’ultima offensiva su Aleppo est, cominciata il 15 novembre scorso, sono morte 341 persone, di cui 44 bambini, mentre in seguito ai razzi lanciati dai ribelli sulla parte ovest sarebbero morte 81 persone e, tra queste, 31 bambini. La Russia ha annunciato dei colloqui di pace, che si terranno a Ginevra, ma Damasco ha ribattuto che non accetterà nessuna tregua senza una garanzia di resa dei ribelli. Tuttavia, questi ultimi hanno ribadito che non lasceranno mai la città e che lotteranno “fino all’ultima goccia di sangue”.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole

ALBANIA 7 dicembre. Nel 2017 l’Albania distruggerà i restanti componenti chimici per armamenti risalenti all’epoca dell’ex dittatore comunista Hoxha. Secondo i dati rilasciati dal Ministero della Difesa albanese, ad oggi sono state distrutte 300 tonnellate di agenti chimici militari. Il processo di distruzione dell’arsenale comunista si è intensificato in seguito alla tremenda esplosione del 2008 nella base di Gerdec; durante il fallito programma di distruzione di vecchio materiale di artiglieria morirono 26 persone e 400 rimasero ferite. BIELORUSSIA 6 dicembre. In seguito ad una visita di tre giorni in Lettonia, il ministro bielorusso della Difesa Andrei Ravkov ha annunciato che è previsto che la Bielorussia sigli un accordo di cooperazione di difesa con la Lettonia. Il Ministero della Difesa lettone ha aggiunto che l’accordo porterebbe alla “promozione della cooperazione” in campi come la sorveglianza aerea e del controllo degli armamenti. MACEDONIA 8 dicembre. In attesa delle elezioni anticipate, già rinviate due volte nel corso di quest’anno, l’Ufficio del procuratore speciale ha annunciato l’apertura di una nuova inchiesta. 10

L’UZBEKISTAN NON CAMBIA ROTTA Nelle elezioni presidenziali la politica del vecchio leader trova continuità

Di Daniele Baldo

te.

Il primo ministro e presidente ad interim dell’Uzbekistan Shavkat Mirziyoyev ha vinto le elezioni presidenziali domenica 4 dicembre, ottenendo l’88,6% delle preferenze.

L’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) ha per la prima volta impiegato un osservatorio su scala nazionale per monitorare l’andamento dell’elezione. Le osservazioni si sono tradotte in un report in cui si sottolinea la scarsità di norme democratiche nel Paese e si denuncia la mancata garanzia da parte delle autorità di un processo elettorale libero e trasparente. Seppur costituzionalmente garantite, molte libertà personali non sono state rispettate e i funzionari dell’OSCE hanno evidenziato l’assenza di una libera informazione nel corso della campagna elettorale.

Mirziyoyev diventa il secondo Presidente del Paese, succedendo ad Islam Karimov, che con il pugno di ferro governò l’ex Repubblica sovietica sin dalla sua indipendenza, nel 1991, e che è scomparso lo scorso settembre all’età di 78 anni. La vittoria non è arrivata inaspettata. Mirziyoyev divenne l’ombra di Karimov nel 2003, nella carica di Primo Ministro, ed al momento della morte del vecchio leader il Presidente del Senato si fece da parte, rinunciando al ruolo di Presidente ad interim a favore del Primo Ministro. Ora Mirziyoyev dovrebbe dimettersi dal suo precedente incarico, ma non è chiaro quando ciò avverrà, dal momento che non si è mai assistito ad un precedente simile nell’ordinamento uzbeko. Mirziyoyev, che ha alle spalle una reputazione simile a quella del repressivo Karimov, si è confrontato con tre rivali leali al regime dell’ex Presidente. La presenza di altri sfidanti è sembrata essere dunque uno strumento per dare una parvenza di democrazia in un Paese in cui la libertà di stampa e l’opposizione politica non sono tollera-

Il nuovo Presidente ha dato segnali di voler seguire le politiche del governo autocratico di Karimov, cercando allo stesso tempo di attuare riforme nel campo dell’economia, tra cui quella del rigido mercato di cambio valutario, e delle relazioni estere. Mirziyoyev ha già agito per placare le tensioni con gli stati vicini dell’Asia Centrale ed è possibile uno scenario che veda l’Uzbekistan avvicinarsi sempre di più alla Russia. Il primo leader straniero a congratularsi con Mirziyoyev è stato proprio Vladimir Putin, che ha auspicato un rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi e ha invitato il neo-eletto Presidente ad una visita in Russia. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI agenti ed ex agenti dei servizi segreti sono sotto inchiesta con l’accusa di aver partecipato alle intercettazioni illegali di quasi 6.000 cittadini tra il 2008 e il 2015. SERBIA 7 dicembre. Alan Tieger, procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja, ha richiesto l’ergastolo per l’ex generale Ratko Mladic, capo delle forze serbo-bosniache nel conflitto armato del 1992-1995. Tieger ha affermato che sarebbe “un insulto alle vittime, quelle viventi e quelle morte, ed un affronto alla giustizia qualsiasi sentenza diversa dalla più severa prevista dalla legge: una condanna a vita”.

UCRAINA 7 dicembre. Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, ha affermato che “seri problemi di sicurezza” minano gli sforzi di pace nell’Est dell’Ucraina e le continue violazioni fanno reggere a malapena il cessate il fuoco nella regione separatista del Donbass. Stoltenberg ha poi dichiarato che questa situazione “ostacola il progresso verso una soluzione politica” e le armi pesanti continuano a non essere ritirate dalla zona del conflitto, come richiesto dal trattato di pace di Minsk. A cura di Lorenzo Bardia

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IL SOGNO DEL GIORNALISMO INDIPENDENTE

In Serbia minacce e pressioni sui giornalisti sono all’ordine del giorno da condizionamenti, e ha invece sostenuto quei media utilizzati come mezzi di propaganda. Ha poi aggiunto che, in questo modo, non ha fatto altro che privare il Paese “del diritto costituzionale dei cittadini ad essere informati in modo tempestivo, obiettivo e corretto.”

Di Adna Camdzic Dal 21 al 23 novembre si è tenuto a Belgrado il Forum del SEEMO (South East Europe Media Organisation), la conferenza internazionale sul mondo dell’informazione. La sera di apertura è intervenuto il premier serbo, Aleksandar Vucic, a difesa della libertà di espressione e di stampa. Durante l’intervento è stato comunicato ai presenti che Vucic avrebbe risposto solo a 3 domande e solo da parte di giornalisti stranieri. La comunicazione ha suscitato la reazione di una decina di giornalisti serbi che hanno abbandonato la sala in segno di protesta. Tra questi i membri del Centro per il Giornalismo Investigativo della Serbia (CINS). Il direttore del CINS, Branko Cecen, ha rilasciato un’intervista all’Osservatorio Balcani e Caucaso, accusando Vucic di essere il maggior responsabile del fallimento dei media serbi. A detta di Cecen, il Premier ha sminuito il lavoro di quei giornalisti che hanno tentato di promuovere un’informazione libera

Oltre alle dichiarazioni rilasciate da Cecen, durante il forum altri giornalisti hanno avuto modo di denunciare le condizioni dell’ambiente in cui sono costretti a lavorare. Molti di loro sono sottopagati, vedono i loro diritti calpestati e sono spesso esposti a pressioni di vario genere, quali minacce e vere e proprie aggressioni. Recentemente è partita anche una segnalazione dal Human Rights Watch (HRW), che ha documentato gli impedimenti alla libertà di stampa in Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo, investigando i crimini perpetrati contro i giornalisti indipendenti. Per quanto riguarda la Serbia, l’Associazione dei Giornalisti Indipendenti della Serbia (NUNS) ha registrato nel Paese 57 incidenti nel 2015, e 33 nei primi 7 mesi del 2016. Questi includono 16 casi di attacco fisico, 41 minacce verbali, 28 casi di intimidazione e 5 pressioni relative a proprietà personali. Nonostante il progressivo avvicinamento all’Unione Europea, la situazione risulta perciò essere molto delicata in uno Stato in cui i media sembrano essere strumenti al servizio della politica e fare giornalismo indipendente appare un sogno irraggiungibile.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole INDONESIA 7 dicembre. Un terremoto di magnitudo 6,5 ha colpito il distretto musulmano di Jaya, nella provincia di Aceh sull’isola di Sumatra in Indonesia. I danni alle case, alle moschee e alle infrastrutture sono considerevoli, le autorità hanno per ora registrato la morte di circa 100 persone, con almeno il doppio dei feriti.

GIAPPONE 5 dicembre. Shinzo Abe sarà il primo Premier giapponese che si recherà con un Presidente degli Usa a Pearl Harbour, dopo 75 anni dall’attacco perpetrato contro la flotta statunitense nel Pacifico. Il 26 e 27 dicembre, infatti, Shinzo Abe soggiornerà alle Hawaii e presenzierà alle cerimonie assieme all’ormai ex Presidente Barack Obama. Mentre i media giapponesi si interrogavano su quale potesse essere il discorso che sarebbe stato tenuto dal Primo Ministro giapponese, il capo del gabinetto Yoshihide Suga ha dichiarato che la visita è per consolare le anime perse della guerra e che non ha come obbiettivo le scuse agli Stati Uniti. PAKISTAN 7 dicembre. La Pakistan International Airlines ha confermato che nessuno dei 48 passeggeri a bordo del volo Pk661 partito da Chitral e diretto ad Islamabad, sia sopravvissuto.

LUTTO IN TAILANDIA

L’eredità di un grande personaggio

Di Alessandro Fornaroli Il 2 dicembre scorso Maha Vajiralongkorn Bodindradebayavarangkun, il nuovo re tailandese, ha fatto la sua prima apparizione pubblica in occasione di una cerimonia per i 50 giorni dalla morte del padre, Bhumibol Adulyadej. Questi, definito la ‘’Forza del Paese’’, aveva assunto la carica nel 1946, dopo la morte del fratello, e ha retto il Paese per 70 anni. Durante il suo regno era riuscito a fondare l’identità thai sul trittico di nazione, religione e monarchia, rimanendo una delle ultime figure a essere venerate dal suo popolo come divinità. Rama IX, questo il suo nome regale, era diventato un punto di riferimento per il potere conservatore, riuscendo a coniugare esercito, alta burocrazia e borghesia affaristica. Il Re, oltre a godere di un consenso diffuso, aveva saputo mantenere rapporti stabili con la giunta, strumentalizzando sapientemente la sua divisa militare durante le apparizioni pubbliche. L’erede ha accettat ufficialmentela carica soltanto nei primi giorni di dicembre, dopo un interregno senza precedenti nella storia del Paese. Con la sua ascesa al trono si apre un’epoca incerta per la Tailandia, privata di una figura capace di stabilizzare l’assetto politico interno.

I legami con il ceto militare avevano, infatti, permesso a Bhumibol di gestire le tensioni culminate nel 2014 con la presa di potere dei Generali. In questa occasione vennero sostituite le principali cariche nell’esecutivo del regno e venne dichiarata la legge marziale. La nuova guida del Paese, invece, lascia già presupporre una potenziale virata in tema di politica interna. Avrebbe, infatti, congedato metà dei membri del Consiglio Privato voluto dal padre e nominato 11 nuovi componenti dell’organo consultivo, molti dei quali sono ex capi militari. In seguito a questa scelta, secondo alcuni, potrebbe verificarsi un’erosione del potere tradizionale, tenuto sempre saldo dal carisma di Bhumibol. La Costituzione, intanto, ha subito una proposta di revisione che sarà sottoposta a referendum nel 2017 e che mira a riflettere i mutamenti avvenuti de facto nell’ordinamento tailandese. Si prevede una Camera interamente eletta dalla giunta militare, che godrebbe del diritto di veto sull’operato del Parlamento. Come già sottolineato dal segretario di Stato statunitense John Kerry nel 2014, le incertezze istituzionali generano instabilità politica e mettono in crisi le relazioni estere: un pericolo che ora torna a proporsi con l’arrivo al potere di Maha.

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ORIENTE La causa del disastro potrebbe essere la perdita di uno dei motori, l’aereo avrebbe perso quota per poi finire tragicamente contro la regione collinare a Nord di Islamabad.

NUOVA ZELANDA 5 dicembre. Il primo ministro John Key ha annunciato le dimissioni nella notte di lunedì. Al potere dal 2008, Key ha comunicato che la decisone non è politica ma personale, non si ricandiderà quindi alle elezioni del 2017, ed essendo considerato il Primo Ministro più popolare di sempre, secondo i media neozelandesi, per il Labour Party questa notizia inaspettata potrebbe porre le basi per una possibile vincita alle prossime elezioni. Il successore sarà il cattolico conservatore Bill English, dopo che il suo rivale ha ritirato la candidatura mercoledì. INDIA 7 dicembre. Migliaia di persone hanno partecipato ai funerali di Jayalalithaa Jayaram in Chennai, dopo che la governatrice della regione Tamil Nadu è spirata nell’ospedale Apollo. Molto amata dal suo popolo, i media indiani l’hanno definita la “Iron Lady di Tamil Nadu” e le autorità durante il funerale hanno dovuto contenere la folla. A cura di Emanuele Chieppa

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MYANMAR: L’IRRISOLTO CASO DEI ROHINGYA Due mesi di violenze nei confronti della minoranza musulmana in Birmania.

Di Tiziano Traversa Da un paio mesi la popolazione Rohingya, una minoranza musulmana stanziata nell’estremo ovest del Myanmar, è coinvolta in una situazione di tensione e violenza. L’esercito e le milizie armate stanno compiendo nei confronti di questa popolazione violenze che troppo spesso sconfinano nella barbarie: si parla di stupri e torture e finora i morti sono stati più di 90. I militari bruciano i villaggi e avanzano con una campagna di terra il cui scopo è quello di “spingere” i Rohingya fuori dal territorio nazionale. La storia di questo gruppo è complessa da ricostruire. I Rohingya si definiscono una popolazione autoctona, insediatasi nello Stato di Rakhine – l’antico regno di Arakan – prima dell’unificazione (XVIII secolo). Sono di fede islamica e il loro ceppo linguistico appartiene a quello della lingua bengalese. Il governo birmano, invece, li considera stranieri, in quanto discendenti di popolazioni contadine originarie del Bangladesh. I primi scontri tra l’esercito del Myanmar e la minoranza Rohingya si sono verificati nel 2012. A seguito di tensioni tra i bud-

dhisti e la minoranza musulmana, la leadership birmana aveva inviato l’esercito, il cui intervento brutale ha costretto molti Rohingya – in quella e altre occasioni – a fuggire oltreconfine. Da quel momento, molti di coloro che erano rimasti sul territorio birmano hanno dovuto adattarsi a condizioni durissime, vivendo spesso in baracche e accampamenti improvvisati. Gli sviluppi degli ultimi mesi, durante i quali i militari hanno nuovamente attaccato la popolazione e costretto alla fuga decine di migliaia di persone, hanno attirato l’attenzione delle Nazioni Unite. L’ex segretario generale dell’ONU Kofi Annan, che dall’estate 2016 presiede una commissione d’inchiesta sulla situazione nello Stato di Rakhine, si è dichiarato preoccupato e ha chiesto ai militari di agire nei limiti della legge. Annan ha inoltre sottolineato che la popolazione civile deve essere difesa a ogni costo. Il 4 dicembre il governo birmano ha annunciato che una commissione militare svolgerà accertamenti al fine di comprendere la causa delle violenze. Per il momento non ci sono dichiarazioni ufficiali in merito e non si riesce a chiarire una situazione che dai primi di ottobre ha causato quasi cento morti e 30.0000 sfollati.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole CIAD 6 dicembre. Nelle prime ore del giorno la polizia ha disperso una manifestazione di donne sindacaliste, che avevano scelto la data del 6 dicembre per organizzare una giornata di mobilitazione contro la gestione da parte del governo della crisi che attraversa il Paese. I sindacati rappresentati dalle manifestanti, l’UST e la CIST, sono in sciopero da diversi mesi. Le vetture delle forze dell’ordine, per impedire lo svolgersi della manifestazione, hanno bloccato l’entrata della Borsa e delle sedi sindacali coinvolte nello sciopero, impedendo così lo svolgimento della marcia. Le leader sindacali hanno dichiarato l’intenzione di continuare la loro battaglia.

GHANA 6 dicembre. Alla vigilia delle elezioni presidenziali ghanesi, un sostenitore del principale partito d’opposizione è stato ucciso durante dei disordini avvenuti in seguito ad un meeting elettorale nel nord est del Paese. Ken Yeboaf, commissario di polizia della regione, ha confermato l’accaduto. Secondo la sua testimonianza, durante il meeting elettorale, fra diversi gruppi di giovani ci sono state tensioni; la situazione è poi degenerata in violenze che hanno portato a 14 feriti, di cui 6 gravi, e un morto. Il leader del partito per cui simpatizzava la vittima ha messo in guardia le forze politiche ghanesi affinché non ci siamo ulteriori tensioni in concomitanza del voto.

NUOVO PRESIDENTE IN GAMBIA DOPO 22 ANNI

Colpo di scena nella politica gambiana: l’opposizione batte l’ex presidente Yahya Jamme

Di Sabrina Di Dio 2 dicembre 2016: un giorno funesto per Yahya Jammeh, ex leader di uno dei regimi più oppressivi al mondo. Le elezioni recentemente tenutesi in Gambia, piccolo Stato dell’Africa occidentale, hanno visto l’affermarsi di Adama Barrow, candidato a capo dell’unica opposizione riconosciuta dal governo precedente. L’esito delle elezioni, però, non è certo altrettanto funesto per i cittadini gambiani, che sono stati vittime delle repressioni di Jammeh per ben 22 anni. Dalla proclamazione della Repubblica indipendente del Gambia, nel 1965, essi hanno visto solo due Presidenti: il primo, Dawda Jawara, è stato spodestato con un colpo di Stato e costretto all’esilio dal secondo, l’ex campione di wrestling Yahya Jammeh. Da quel momento, Jammeh ha messo in moto la sua macchina autoritaria per insediarsi sempre più saldamente al governo. In una prima fase del suo regime, il leader gambiano aveva promesso una svolta in senso democratico e, dopo essere stato legittimamente eletto nel 1996, aveva concesso una Costituzione approvata dal popolo. In realtà, però, già dal 2000 egli iniziò a concentrarsi sulla va-

riazione di quegli articoli che rendevano impossibile la repressione dei suoi oppositori. Infatti, con una legge modificata nel 2001, venne sancita la non colpevolezza dell’esercito per atti commessi durante lo stato di emergenza. L’apparato militare venne in questo modo legittimato a ricorrere a torture ed esecuzioni sistematiche. In un tale quadro politico, i dissidenti diminuirono velocemente a causa di minacce, arresti ed esecuzioni. A partire dal 2012, il leader gambiano ha adottato molteplici misure in senso anti-occidentale, come l’uscita dal Commonwealth nel 2013 e la coeva adozione dell’arabo come lingua e ufficial a scapito dell’inglese, parlato dalla stragrande maggioranza dei cittadini. Inoltre, l’anno scorso, il Gambia è diventato una nazione islamista, che segue la legge del Corano. Un ulteriore elemento di divisione con l’Occidente è stato la seria minaccia di morte rivolta agli omosessuali, considerati dal Presidente “una pestilenza peggiore della malaria”. Ma come ha fatto una tale autocrazia a sopravvivere così a lungo nel XXI secolo, sebbene il Gambia sia uno Stato di scarso interesse strategico per il mondo occidentale? MSOI the Post • 13


AFRICA SUD AFRICA 7 dicembre. La Corte suprema sudafricana ha ribaltato una sentenza risalente al 2015 in cui il tribunale di Pretoria aveva riconosciuto ad un malato di cancro il diritto al suicidio assistito. Il governo aveva immediatamente fatto appello in quanto temeva che altri tribunali seguissero l’esempio di Pretoria, giudicato scorretto dalla Corte Suprema. L’eutanasia resta quindi una pratica proibita nel Paese.

UGANDA 6 dicembre. Si è aperto il processo all’ugandese Dominic Ongwen presso la Corte penale internazionale. Ongwen è un ex comandante dell’Armata di Resistenza del Signore (LRA), una milizia creata alla fine degli anni ‘80 che aveva come obiettivo di imporre un regime basato sulla stretta osservanza dei dieci comandamenti biblici. I 30 anni di combattimenti la LRA è stata dichiarata colpevole della morte di 100.000 persone e dl rapimento di almeno 30.000 bambini. Tra i 61 capi d’accusa a carico di Dominic Ongwen spiccano quelli per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, che egli respinge dichiarando di aver solamente eseguito gli ordini imposti dai vertici della LRA, in particolare da Joseph Kony, che sfugge tuttora all’arresto da parte delle autorità. A cura di Francesca Schellino 14 • MSOI the Post

LE OPPOSIZIONI PROCLAMANO LA DISOBBEDIENZA CIVILE IN SUDAN Il Paese, devastato dalla crisi economica, chiede le dimissioni di Omar al-Bashir

Di Arianna Papalia Il Partito Nazionale Umma, il Partito Comunista Sudanese e altri partiti della coalizione nazionale delle forze di opposizione hanno proclamato lo scorso 27 novembre tre giornate di disobbedienza civile. Lo scopo è quello di contestare le misure di austerità varate lo scorso novembre dal governo di Omar al-Bashir. Il Sudan versa da diverso tempo in una grave crisi economica e la popolazione, già sofferente, sarà costretta con queste misure a subire ulteriormente l’aumento del prezzo della benzina, dell’elettricità e dei beni di prima necessità, tra cui anche le medicine. È stata inoltre svalutata la sterlina sudanese. Il 40% della popolazione ha aderito alla protesta contro i provvedimenti del governo: un cospicuo numero di sudanesi non si è recato sul posto di lavoro, scuole e università non hanno tenuto lezioni, negozi e farmacie sono rimasti chiusi e anche le più affollate piazze di Khartoum e di altre città del Sudan si sono visibilmente svuotate. Il presidente Omar al-Bashir ha risposto alla disobbedienza civile ordinando agli uomini del NISS (National Intelligence and Security Services) di requisire le copie di cinque quotidiani

di opposizione, colpevoli di aver diffuso informazioni sulle giornate della disobbedienza. L’emittente televisiva Omdourman è stata chiusa e circa 20 attivisti sono stati arrestati e sottoposti a fermo. Il primo dicembre scorso la coalizione nazionale delle forze di opposizione ha chiesto ufficialmente le dimissioni del Presidente. Nel tentativo di consegnare la richiesta al palazzo presidenziale, però, le 20 forze politiche sono stata bloccate. Esse chiedono ad al-Bashir di restituire il potere al popolo attraverso l’organizzazione di nuove elezioni libere e trasparenti. Chiedono, inoltre, l’insediamento di un nuovo governo, che metta fine alla crisi economica e al deterioramento delle condizioni di vita della popolazione. Omar al-Bashir, tuttavia, difficilmente lascerà il governo. È al potere da 27 anni e il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, che gli attribuisce le responsabilità del genocidio in Darfur di circa 300.000 persone, non sembra aver influito sulla sua attività di governo. Il Presidente, che ha inoltre recentemente richiesto il ritiro dei Caschi Blu insediati nella regione dal 2007, continua a respingere ogni accusa e a ricorrere alla forza per chetare qualsiasi forma di opposizione.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

NARCOTRAFFICO A GUERRER Uno sguardo alla violenza messicana

Di Giulia Botta Guerrero, situato a sud ovest del Paese, è il secondo dei 32 Stati del Messico attualmente considerati l’epicentro della violenza criminale; nel 2016 sono stati conteggiati 1.832 omicidi, contro i 1.893 registrati nell’intero Paese.

BOLIVIA 7 dicembre. È stato arrestato in Bolivia il comandante Gustavo Vargas, direttore della compagnia aerea LaMia, con l’accusa di diserzione. La squadra di calcio del Chapecoense ha utilizzato i servizi dell’azienda nella Lo Stato messicano si trova al tragedia di Medellin costata la vita a centro di una fitta rete di orga71 persone. nizzazioni criminali ed è stato BRASILE 5 dicembre. La Confederazione Sudamericana di Calcio (CONMEBOL) assegna a tavolino la Coppa del Sud America alla società calcistica del Chapecoense dopo la tragedia che ha colpito la squadra titolare prima della disputa della finale.

spesso teatro di scontri tra cartelli del narcotraffico. Gli attriti tra le gang riguardano, infatti, il controllo dell’area, che ospita il 98% della produzione nazionale di oppio. Oggi un’escalation di criminalità sta travolgendo lo Stato, in cui omicidi, sequestri, estorsioni e faide sono all’ordine del giorno. La situazione è particolarmente allarmante ad Acapulco, considerata la città più pericolosa di Guerrero. Durante il primo weekend del dicembre di quest’anno vi si sono registrati 27 omicidi, a cui si aggiunge il bilancio di sangue del precedente fine settimana, quando in sole 48 ore si sono verificati 11 omicidi. Le vittime si sommano a una lista che già a settembre aveva raggiunto il livello record di 733 morti.

PERÙ Dietro all’elezione di Kuczynski spunta un campaing manager italiano: “Senza la campagna web avrebbe perso”. A essere investite

dall’ondata di violenza dei sicarios sono anche altre zone, come Iguala,

nota per l’eccidio di 43 studenti nella scuola Raúl Isidro Burgos nel 2014, Tixtla e Teloapan, nel centro dello Stato, dove è avvenuto il macabro ritrovamento di 12 corpi decapitati e gettati nelle fosas clandestinas. La violenza, connessa agli interessi del traffico di droga, è segnale della difficoltà delle autorità nel contrastare e contenere gli scontri. Eppure, già nel 2006 l’ex presidente Felipe Calderón aveva lanciato una “guerra contra el crimen”, che ha portato tuttavia a più di 200.000 morti. Con il suo successore Enrique Peña Nieto la situazione non è migliorata: dal 2012 al giugno 2016, secondo l’ultimo rapporto della polizia federale, gli omicidi connessi al crimine organizzato sono stati in Messico più di 43.000. Diversi tentativi sono stati fatti per arginare lo scontro tra i gruppi criminali di Los Rojos e Los Ardillos, quello tra il cartello Beltrán-Leyva e il cartello di Sinaloa e quelli tra altre numerose gang minori sulla plaza di Acapulco. Gli sforzi sono stati vani, nonostante un battaglione dell’esercito e sei corpi di polizia controllino la zona. Il governo ha quindi dichiarato di voler implementare le forze militari e di polizia nei luoghi in cui la violenza è maggiore. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA IL CASO DEL MERCOSUR Il Venezuela con le spalle al muro.

VENEZUELA 1 dicembre. Per via del mancato raggiungimento della carta comune del Di Daniele Ruffino Mercosur, Argentina e Brasile hanno votato a favore del declassamento di Il 31 luglio 2012 il Venezuela, Caracas a Stato osservatore. dopo 6 anni di attesa e osteggiato dal Paraguay, era riuscito a entrare timidamente tra i membri a pieno titolo del Mercado Comùn del Sur (MerCoSur). Ci è rimasto fino a pochi giorni fa, quando i tre Paesi membri (Argentina, Brasile e Uruguay il Paraguay era già stato sospeso per via del “Golpe bianco” contro Lugo) hanno deciso di declassare Caracas a membro associato.

Le motivazioni del declassamento riguardano per lo più il presidente Maduro e la sua politica economica non all’altezza degli standard decisi dal Mercosur (il Brasile concorre a produrre il 77% del prodotto economico del gruppo, l’Argentina il 20%). Le manovre di politica interna di Maduro, inoltre, sarebbero troppo assolutiste nei confronti dell’opposizione: il Venezuela si trova in una situazione molto delicata, con un Parlamento mozzato e imbavagliato dal Presidente.

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La risposta di Caracas è arrivata tramite Delcy Rodriguez, ministro venezuelano degli Affari Esteri: “Non vogliamo uscire, né usciremo”, ha detto martedì scorso. All’interno del Paese, invece, si urla al “colpo di Stato”, poiché prima dei cambiamenti di verti-

ce in Brasile e Argentina la produzione e le politiche del Paese non avevano in nessun modo compromesso la permanenza del Venezuela tra i membri a pieno titolo. La svolta liberista dei due colossi del Mercosur ha, infatti, stravolto l’ideale del gruppo. Esso nacque nel 1991 per supportare l’economia e il traffico di merci in America Latina (i dazi doganali furono aboliti nel 1995) e non per creare una macchina di produzione di PIL. Inoltre, bisogna tener conto che tra i membri a pieno titolo il Venezuela era l’unico che ormai manteneva un governo di ispirazione socialista. Il Venezuela aveva già ricevuto tre mesi fa un ultimatum da parte di Temer, il più accanito tra i “nemici” di Maduro, supportato volta per volta dagli altri membri (compresi gli associati), che all’alba del 2012 erano alleati di Caracas - sotto il governo di Hugo Chavez - ma che ora, per cambi di governo e realpolitik, si trovano a schierarsi con Brasile e Argentina. Da oggi, a guidare il Mercosur saranno quindi solamente Argentina e Brasile: l’Uruguay, a causa del suo scarso apporto al prodotto economico (2%), non possiede ampia voce nella direzione. I due Stati gestiranno le modalità di esportazione di ben 11 Paesi, per un quantitativo di quasi 1 miliardo di persone.


ECONOMIA WikiNomics BASILEA 4: DA WORK IN PROGRESS A POSSIBILE STOP AI LAVORI? Una rivolta endemica che coinvolge 17 mila banche

Di Martina Unali Fundamental review of the trading book. È questo il tecnicismo utilizzato dagli operatori del settore per definire il set di riforme, noto al pubblico come Basilea 4, responsabile di polemiche nel mondo bancario. Vediamo, in breve, l’evoluzione degli accordi di Basilea. 1988. Con l’accordo sul capitale, detto anche Basilea 1, si tentò di superare le distorsioni tra le diverse normative nazionali, stabilendo un sistema condiviso di requisiti patrimoniali minimi obbligatori a garanzia della solvibilità delle banche. Al fine di raggiungere questo obiettivo, venne introdotto un coefficiente di solvibilit à , per il quale il patrimonio di vigilanza doveva essere pari almeno all’8% delle Rwa, alias le attività ponderate per il rischio di credito. 2007. Per ovviare ai limiti del sistema precedente, riconducibili soprattutto all’eccessiva rigidità con cui veniva attribuito il rischio di credito e alla mancata considerazione di altri fattori di rischio, venne introdotto il nuovo accordo di Basilea 2, basato su tre pilastri

I NUOVI AGRICOLTORI: L’INNOVAZIONE AFFIANCA LA TRADIZIONE Cresce la cooperazione nel settore agroalimentare

Di Francesca Maria De Matteis Nel 2015, erano quasi 10.700 le cooperative agricole italiane iscritte al Registro delle imprese che quest’anno, insieme alle imprese di capitale, hanno registrato un export di 6.6 miliardi. Da sole, invece, rappresentano il 23% del fatturato dell’industria alimentare italiana, traendo il 19% dei propri ricavi dalla vendita di prodotti sul mercato internazionale. E se la creazione di nuove realtà aziendali si sta rivelando più consistente nel Mezzogiorno, il Nord del Paese sta dimostrando di possedere un modello mutualistico più evoluto e una maggior capacità di innovazione e riorganizzazione interna. Queste ultime detengono, infatti, il 77% del fatturato cooperativo agroalimentare di Veneto, Trentino Alto Adige, Lombardia ed Emilia Romagna. L’Osservatorio della cooperazione agricola italiana, nel rapporto del 2016 presentato pochi giorni fa, ha evidenziato come la mutualità tra gli imprenditori sia volta alla determinazione delle condizioni di ripresa e alla costruzione di relazioni industriali costruttive. Già il rinnovo del Contratto collet-

tivo nazionale di lavoro della Cooperazione agricola, sottoscritto il 3 agosto scorso, aveva portato ad un miglioramento dei rapporti tra e con i lavoratori, all’ampliamento delle tutele dei dipendenti e alla difesa del potere d’acquisto degli stessi. Nel secondo trimestre del 2016, più di tremila aziende agricole sono state fondate da giovanissimi imprenditori. Tutti sotto i 35 anni, molto spesso laureati, affermano di aver compiuto una scelta consapevole, non obbligata. Che siano partiti da zero o che abbiano ricevuto l’azienda in eredità, con fantasia e innovazione stanno rapidamente rivoluzionando il primo settore. Droni, biomasse, fotovoltaico e visibilità sui social affiancano la tradizione e risollevano l’agroalimentare. Adeguandosi alle nuove normative europee per la determinazione del PIL, Coldiretti afferma che l’agricoltura è la sola a garantire una crescita del Prodotto interno lordo italiano. Attività come agricoltura sociale, fattorie didattiche e farmers market, infatti, ampliano le prospettive di sviluppo e offrono sempre più possibilità occupazionali.

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ECONOMIA (requisiti patrimoniali, vigilanza prudenziale e disciplina di mercato). Le principali novità, riguardavano l’inclusione del rischio di mercato e del rischio operativo nel calcolo dei requisiti patrimoniali, l’introduzione di un approccio standardizzato più dettagliato e la facoltà, concessa alle banche, di adottare metodi basati su modelli interni per la misurazione della ponderazione per il rischio. 2010. A seguito della crisi del 2008, venne pubblicata la nuova disciplina di Basilea 3. Questo accordo prevedeva un rafforzamento qualitativo del patrimonio di vigilanza, mediante la nozione di common equity, una riduzione della prociclicità delle misure adottate attraverso l’adozione di “buffer” di capitale in funzione anticiclica, una migliore misurazione del rischio di liquidità ed un maggiore contenimento della leva finanziaria. Tale normativa, entrata in vigore nel 2014, sarà applicata a pieno regime solo a partire dal 2019, proprio in concomitanza con l’introduzione di Basilea 4. E nel 2019? Negli ultimi giorni, circa 17 mila banche hanno accusato il Comitato di Basilea per eccessi regolatori e per l’architettura normativa sviluppata. L’applicazione di Basilea 4 costringerebbe le banche europee a ricapitalizzazioni per 850 miliardi euro: una cifra irrilevante solo per i colossi di Wall Street, che potrebbero approfittare della situazione per conquistare più quote di mercato in Europa. Stando così le cose, la partita è ancora tutta da giocare.

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LO SCANDALO MPS - PARTE III Il nuovo piano di salvataggio

Di Edoardo Pignocco Dopo la catastrofica gestione degli anni precedenti, culminata con l’acquisizione della fallimentare Banca Antonveneta, il nuovo top management di MPS sta cercando di voltare pagina tramite la realizzazione di un nuovo piano industriale. E così è stato. Un piano che, forse un po’ a sorpresa, non è dispiaciuto ai mercati e alla Commissione europea. Vediamolo nel dettaglio. In tutti questi anni di mala gestio, si sono generati crediti deteriorati (i famosi Npl) pari al 34% del totale crediti di MPS. Una cifra monstre! Come ripianarli, dunque? Se MPS li svalutasse, come risultato otterrebbe una perdita di circa 47 miliardi di euro (corrispondenti appunto al 34% dei crediti). Operazione, questa, impensabile. Di conseguenza, MPS deve cercare di ricavarci almeno qualcosa. Allora ecco la soluzione: di quei 47 miliardi, MPS ne vuole cedere 27. Ovviamente, non può permettersi di ricavare quella cifra, ma dovrà - di fatto svenderli data la loro illiquidità. La banca senese ha previsto un “ricavo” da cessione pari al 33% del loro valore. Ad acquistarli sarà un’entità giuridica costruita ad hoc (Special Purpose Vehicle). Per finanziarsi l’acquisto, lo SPV emetterà note senior per un totale di 6 miliardi. Emissione,

tra l’altro, garantita dallo Stato (GACS). Successivamente, l’entità giuridica trasformerà gli Npl in titoli ABS, i quali verranno poi offerti agli investitori. Ma, attenzione! Il buon esito dell’operazione dipenderà sempre dall’effettivo incasso dei crediti deteriorati, che serviranno poi per remunerare il gain e gli interessi degli investitori. E non è scontato che avvenga. Quando si intraprendono operazioni di cartolarizzazione, soprattutto di attivi junk, non bisogna mai dimenticare quello che accadde qualche anno fa in America e nel mondo intero. In parallelo a questa operazione, vi sarà un contestuale aumento di capitale pari a 5 miliardi di euro, il quale sarà garantito da un consorzio di collocamento, che vede come banche leader JP Morgan e Mediobanca. Tale incremento di capitale servirà a: finanziare gli Npl rimasti a MPS (2.2 miliardi); aumentare le coperture sulle sofferenze (1 miliardo); ricapitalizzare la bad bank, concludendo lo spinoff con le attività negative (1.6 miliardi). La formulazione di questo piano sta effettivamente producendo utili sani per MPS, nonostante le forti oscillazioni in borsa. Una piccola curiosità però c’è. Il piano è stato redatto a luglio, ma verrà attuato il giorno dopo il referendum costituzionale. Chissà perché...


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