MSOI thePost Numero 51

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Redazione Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA NEGOZIATI DI ADESIONE DELLA TURCHIA ALL’UE Uno stallo cinquantenario

Di Giulia Ficuciello Risalgono rispettivamente al 1963 ed al 1987 la firma dell’accordo di associazione tra l’allora Comunità Economica Europea e la Turchia, detto Accordo di Ankara, e la candidatura della Turchia per entrare a far parte della CEE, richiesta accettata nel 1999. A partire dal 2003, il primo ministro turco Erdogan ha avviato diverse riforme, tra cui l’abolizione della pena di morte, con l’obbiettivo di conformarsi ai parametri europei. Grazie a queste riforme, su impulso della Commissione Europea, il Consiglio dell’Unione Europea nel 2005 ritiene i tempi maturi ed avvia i negoziati per l’adesione della Turchia. Nel 2008 il Consiglio ha emanato, attraverso una decisione, la terza revisione al partenariato per l’adesione del 2001. Lo

scopo è quello di fissare i criteri, soprattutto politici, per l’adesione della Turchia. Nel 2013 tuttavia, a seguito della repressione violenta, che causò 9 morti, di una manifestazione contro il governo di Erdogan, Bruxelles ha deciso di arrestare i negoziati. A partire da tale occasione si è registrato, infatti, un susseguirsi di interventi della polizia sui civili caratterizzati da un utilizzo sproporzionato della forza. L’evento che però ha maggiormente diviso l’Unione Europea sulla questione dell’ingresso della Turchia è stato l’atteggiamento tenuto dal governo a seguito del tentato golpe del 15 luglio 2016. Durante la repressione il Premier turErdogan ha ordinato l’arresto di 120.000 persone (tra cui giornalisti ed avvocati), il dispiegamento di 1.800 uomini delle forze speciali a Istanbul e sorveglianza aerea del Paese.

Questa reazione ha suscitato subito le polemiche sia negli USA sia in Unione Europea. Da un lato il segretario di Stato Kerry ha dichiarato che la NATO avrebbe sorvegliato sul comportamento democratico del governo turco e dall’altro lato la volontà di reintrodurre la pena di morte per punire i golpisti ha indotto i vertici di Bruxelles a prendere una dura posizione. Quindi a distanza di pochi mesi dalla conclusione dell’accordo Turchia-UE sulla gestione dei flussi migratori lo stallo dei negoziati di adesione prosegue. Oggi, se l’Austria considera le violazioni dei principi democratici come un ostacolo insormontabile che impedirebbe alla Turchia di entrare in UE, Federica Mogherini rappresenta invece coloro che trovano rischioso chiudere i negoziati con la Turchia, si perderebbe così un importante canale di comunicazione.

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EUROPA ROMANIA, FIDUCIA AL GOVERNOSOCIALDEMOCRATICO Dopo le polemiche si insediailnuovoesecutivo

Di Daniele Reano “Auspico una Romania che torni alla normalità, una Romania in cui i giovani non siano costretti a partire per poter mantenere una famiglia”. Queste sono state le prime parole pronunciate da Sorin Grindeanu, eletto il 5 gennaio Presidente del Consiglio del nuovo governo socialdemocratico da parte del Parlamento di Bucarest con 295 voti a favore e 133 contrari. 43 anni, ex Ministro delle Comunicazioni e Presidente del Consiglio della provincia di Timis, Grindeanu è uno degli esponenti più in vista e più apprezzati dei socialdemocratici. La bocciatura, tra le polemiche, della candidata premier del PSD Sevil Shhaideh, donna di origine tatara e di fede musulmana, da parte del presidente Klaus Iohannis avrebbe potuto dare origine ad aspro scontro istituzionale. Ma nonostante le spiegazioni di Iohannis sulla sua decisione non siano state precise, avendo dichiarato unicamente di aver “valutato attentamente le argomentazioni favorevoli e contrarie a questa nomina” l’PSD ha deciso di evitare il conflitto con il Presidente e di puntare su un uomo di partito più conosciuto e meno controverso, includendo comunque Shhaideh

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nel governo in una posizione di primo piano. Dopo un anno di governo tecnico retto da una coalizione tra PSD e PNL (Partito Nazionale Liberale, centrodestra) a seguito delle dimissioni dell’ex Primo Ministro Victor Ponta (PSD) causato da una serie di accuse di corruzione, evasione fiscale e riciclaggio di denaro che avevano portato a grandi manifestazioni di piazza, i socialisti tornano alla guida del Paese con un mandato ampio ma con un’affluenza elettorale bassa, pari al 39% degli aventi diritto. Molti analisti hanno indicato come Klaus Iohannis sperasse che si giungesse all’indicazione di Dacian Ciolos, premier del governo tecnico su posizioni indipendenti ma vicino al Partito Popolare Europeo ed ex Commissario Europeo all’Agricoltura, ma le sue speranze sono rimaste deluse a seguito della sconfitta del fronte conservatore. “L’esecutivo deve fare tutti gli sforzi necessari per consolidare la posizione della Romania in seno alla Nato e all’Unione Europea” ha ribadito il Capo dello Stato alla squadra di Ministri freschi di nomina, ben consapevole che per il paese più povero dell’UE non sia facile tenere fede al programma

governativo di raggiungere un aumento del PIL del 5,5% all’anno nel 2020. Tra i vari punti del nuovo esecutivo è possibile trovare un pacchetto d’interventi sul lavoro, un ragionamento complessivo sulla questione migranti, nuove aperture sulla gestione dei fondi strutturali europei, l’aumento dello stipendio minimo da 280 a 320 euro, l’esclusione per tutti coloro che percepiscono una pensione inferiore ai 445 euro dall’imposta sul reddito. Grindeanu dovrà inoltre mettere mano all’approvazione della legge finanziaria per il 2017, non presentata dal governo precedente. Mentre i socialdemocratici superano l’impasse e incassano il sostegno dei liberali dell’ALDE, l’opposizione rimane divisa; il vistoso calo dei consensi del PNL, fermatosi ad appena il 20%, è stato solo parzialmente raccolto dal neonato partito populista Unione per la Salvezza della Romania guidato da Nicusor Dan. Il quadro politico si completa con l’Unione Democratica Magiara di Romania (UMDR, centro), forte nella regione della Transilvania, che si è attestato intorno al 6% e una serie di piccoli partiti che non hanno superato la soglia di sbarramento.


NORD AMERICA I DIRITTI UMANI VISTI DALL’AMERICA

Come gli USA hanno protetto i diritti umani nel corso degli ultimi anni e che cosa cambierà

Di Alessandro Dalpasso L’anno che verrà porterà in dote agli Stati Uniti una nuova amministrazione, che vorrebbe essere sotto molti aspetti, se non nella sua totalità, completamente diversa dalla precedente. Mentre Donald Trump si prepara a giurare come 45º Presidente, in molti temono che il futuro inquilino della Casa Bianca sarà contrario a logiche che mirano a difendere i diritti umani, sia per le amicizie con alcuni autocrati esteri, sia per tutti i suoi discorsi, dalla campagna elettorale in avanti, impregnati di una retorica offensiva per le minoranze e divisiva. Un rapporto che stride, se paragonato all’indirizzo programmatico dell’attuale presidenza: nel 2011 Obama affermò che il supporto statunitense per i diritti umani “non è di secondaria importanza, ma è una priorità che va tradotta in azioni concrete” e quindi “supportata con tutti i mezzi di cui disponiamo, siano essi diplomatici, economici o strategici”.

Poi, però, molte cose sono cambiate: la comparsa e la presa di potere (in Siria e Iraq) del gruppo IS e la crisi umanitaria di Aleppo e delle altre città siriane hanno mutato molto dello scenario che il Presidente si era immaginato. Da quando la primavera siriana è iniziata, a fine 2011, l’amministrazione americana ha assistito a varie atrocità, tra cui la distruzione di interi quartieri e l’uso massiccio di bombe contenenti gas sarin. Le vittime sono state oltre 400.000. Il “cessate il fuoco” che è ora in vigore ha visto come assoluti protagonisti i russi e Washington ha avuto un ruolo più marginale nel negoziato. Oltre a ciò, altri problemi sorgono sulla gestione dei diritti umani operata dall’amministrazione Obama, che dopo tutti gli speranzosi annunci (e un premio Nobel) non si è fatta portatrice di tutti i cambiamenti auspicati. Tutte le azioni intraprese sono state portate avanti nell’ottica di contrastare il terrorismo e l’estremismo: si è cercato di limitare l’espansione del gruppo IS, di individuare nuove organizzazione terroristiche e gli indi-

vidui che ne facevano parte al fine di sanzionarli, di impedire a terroristi stranieri di entrare in Siria e Iraq per combattere al fianco degli uomini del Califfato. Il successo è stato però frequentemente inferiore alle aspettative. Quanto al rapporto tra diritti umanitari e nuova amministrazione, rimangono questioni aperte: la già citata crisi umanitaria siriana, il controverso uso dei droni, Guantánamo (nonostante ne fosse stata dichiarata la chiusura durante la campagna elettorale), l’ampliamento del programma di sorveglianza che era stato iniziato da George W. Bush (e per il quale era stato aspramente criticato) e anche la politica statunitense in Medio Oriente, spesso oggetto di critiche. Inoltre, il GOP sta scrivendo una mozione per ‘sospendere i fondi che il governo federale versa alle Nazioni Unite’. Se questa dovesse diventare legge, sarebbe un durissimo colpo per la protezione dei diritti umani, considerando che gli Stati Uniti sono tra i principali sovvenzionatori dell’ONU.

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NORD AMERICA IL MODELLO CANADESE

Accoglienza e integrazione ai tempi di Trudeau

Di Silvia Perino Vaiga Risalgono ormai a più di un anno fa le immagini del primo ministro canadese Trudeau che saluta sorridente un gruppo di rifugiati siriani appena atterrati all’aeroporto di Toronto. Era l’11 dicembre 2015 e in poche ore le foto avevano fatto il giro del mondo, non solo per la dolcezza dei gesti immortalati, ma anche per la peculiarità del fatto in sé. Di fronte a un’Europa che vacillava sotto i colpi dei flussi migratori, il Paese della foglia d’acero mostrava al mondo come politiche di accoglienza oculate potessero diventare un ottimo biglietto da visita e un’opportunità per una Nazione. Ma a un anno di distanza è tempo di bilanci: in che direzione è andato il Canada da allora? E che ne è stato dei rifugiati accolti? Partiamo dai dati. Secondo numeri forniti dalle Nazioni Unite, il governo canadese accoglie ogni anno 300.000 immigrati, dei quali più di un terzo sono rifugiati. Nello specifico, i rifugiati siriani ricollocati entro i confini canadesi sono in tutto più di 25.000. Questi trend sembrano confermati per il futuro: il ministro per l’Immigrazione McCallum ha infatti annunciato che anche per il 2017 il Canada punta ad 6 • MSOI the Post

accogliere 300.000 immigrati. Il ministro ha specificato poi come “i livelli di immigrazione stabiliti nel 2017 favoriranno la crescita economica e l’innovazione” nel Paese. Immigrazione come opportunità: è questa la linea del governo di Ottawa. Secondo l’amministrazione, gli immigrati avranno un ruolo fondamentale nel mantenere la competitività del Paese. I nuovi flussi avranno infatti il potere di compensare l’invecchiamento a cui la popolazione canadese sta andando incontro. Secondo il governo,“l’immigrazione rappresenterà presto la crescita netta della popolazione attiva” e questo basta a guardare al fenomeno con entusiasmo anziché apprensione. Inoltre, esiste anche un fattore culturale alla base del progetto canadese: il Paese sta infatti abbracciando una linea di multiculturalismo, che vede leader e comunità impegnati a creare un mosaico nella popolazione, nel quale le culture coesistono mettendo a frutto le loro differenze. Lo testimoniano le scuole, in cui in una classe tipo si parlano fino a 7 lingue e spesso metà degli alunni sono rifugiati o migranti. Ma passando alla seconda delle nostre domande, che fine hanno fatto i rifugiati accolti un anno

fa? In Canada le politiche di integrazione sono gestite in stretta collaborazione tra il governo centrale, le istituzioni locali, l’UNHCR e sponsor privati. Nella cornice del Refugee and Humanitarian Resettlement Program viene effettuato uno screening caso per caso, che include anche una verifica dei parametri di sicurezza, per evitare rischi legati a salute e criminalità. Grazie a questo programma, tutti i siriani arrivati a Toronto un anno fa hanno trovato un posto nelle comunità locali, che li hanno accolti col supporto delle Refugee Community Organizations, reti di enti pubblici e privati che si occupano di garantire livelli soddisfacenti di integrazione. Le famiglie ricollocate ricevono dal governo canadese anche un contributo mensile, per coprire parzialmente le spese per cibo, affitto e carburante. Un modello di accoglienza e integrazione che sembra quindi destinato al successo, ma che non manca di generare perplessità tra i suoi oppositori politici, quali le forze conservatrici di Kellie Leitch. Saranno dunque le prossime elezioni del 2019, lontane ma non troppo, a sancire il destino del Canada in termini di gestione dell’immigrazione.


MEDIO ORIENTE LE DONNE LIBANESI CONTRO LA LEGGE 522 Per la criminalizzazione dello stupro e l’eliminazione della grazia

Di Lucky Dalena Il velo, la gonna, il tulle, le scarpe bianche. Il sangue, le bende. Una decina di donne libanesi, per un evento promosso dall’organizzazione Abbad, si sono riunite a dicembre, indossando abiti da sposa e finte ferite, davanti ai palazzi del governo, per protestare contro il discusso articolo 522. In vigore dagli anni ‘40, la legge prevede una diminuzione della pena per gli stupratori nel caso in cui sposino la vittima. Norme simili sono applicate anche in molti altri Stati del Medio Oriente. Secondo i difensori della legge, la ragione che sta dietro a questa scelta riguarda il mantenimento dell’onore della donna e della propria famiglia. Non sono disponibili dati (e sarebbe molto li) per determinare su quante donne la legge abbia avuto impatto. Ciò che è certo, però, è che in Libano la rete sociale ristretta e composta da legami famigliari fa sì che siano molto diffusi gli stupri perpetrati da membri della famiglia allargata, amici, vicini di casa. A causa di ciò è comune che, per evitare vergogne o litigi, si fac-

cia pressione sulla vittima affinché sposi il suo carnefice. L’attuale legge prevede una pena di 5 anni per lo stupro, senza però indicare lo stupratore come criminale e senza tenere in considerazione i danni psicofisici a cui una donna vittima di violenza può andare incontro. Al trauma psicologico per la violenza, a cui può accompagnarsi per la donna un totale rifiuto per il sesso e la necessità di terapie, si aggiunge spesso la pressione per il matrimonio. In molti casi, inoltre, la verginità violata della giovane donna non le permette di convolare a nozze con altri uomini: la vittima si vede quindi costretta a sposare il suo carnefice per non restare sola per sempre. Abaad, l’organizzazione in prima linea per l’abolizione di questa legge, si impegna da anni con numerose campagne, che includono cartelloni pubblicitari, difficile raccoglier video virali, eventi come quello dei mesi scorsi e campagne online con l’hashtag #undress522. Secondo gli esponenti dell’organizzazione, il cambiamento deve arrivare su più fronti: non solo dal punto di vista politico, ma anche nelle forze di polizia, a cui spesso è difficile riportare casidiviolenza,enellasocietàstessa, per far sì che queste azioni smettano di essere accettate.

Nella sezione che comprende gli articoli dal 503 al 522 vi sono però numerosi altri problemi, che le donne libanesi stanno cercando di affrontare: lo stupro coniugale, per esempio, non è ancora compreso nella definizione generica di stupro. Anche per questo articolo numerose organizzazioni, inclusa la commissione delle Nazioni Unite CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination Against Women), si sono mosse per garantire una giusta condanna. Ad oggi, tuttavia, pochi risultati sono stati raggiunti: la violenza domestica non è ancora considerata un crimine ed è punita con una sanzione finanziaria e qualche mese di reclusione. Anche alcuni atti come l’aborto sono ancora criminalizzati secondo il codice, nelle ultime settimane le donne libanesi hanno ottenuto un grande traguardo con la raccomandazione da parte di una commissione parlamentare per la revisione della legge. Se dovesse essere approvata, rappresenterebbe probabilmente un segno di speranza per tutte quelle madri che hanno visto e subito violenze, ma che sperano di non rivederle sulle loro figlie.

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MEDIO ORIENTE LA CONQUISTA DI MOSUL RALLENTA

Le forze speciali irachene (ICTS) possono sostituire un esercito “assente”?

Di Samantha Scarpa

lioni di abitanti.

La campagna per la liberazione di Mosul ha rallentato la sua corsa a causa di problemi tattici ai quali le truppe irachene non possono, da sole, porre rimedio.

Il problema alla ritirata “annunciata” dei gruppi curdi è il mancato rimpiazzo delle loro unità. Le oltre 5.000 unità americane attualmente impiegate nella zona, infatti, contribuiscono come “military advisors” indirizzati all’addestramento delle truppe irachene. Sulla possibilità che le truppe americane possano contribuire via terra all’interno della città, tuttavia, il colonnello Sylvianon non ha lasciato trapelare alcuna indiscrezione. Pur non negandolo, l’unica dichiarazione è stata: “Non abbiamo mai avuto una embedded policy di questo calibro con le truppe irachene”. Truppe irachene che, al tempo stesso, fronteggiano uno scompenso rilevante: di fronte a una mancanza di esperienza e di addestramento, la cosiddetta Golden Division, la ICTS (completamente equipaggiata e formata dal corpo statunitense), è stata sottoposta a oltre 60 giorni continui di combattimenti in prima linea. Sebbene il primo ministro Al-Abadi, al quale le truppe direttamente rispondono, abbia tentato di non mostrare le stime esatte, si parla di una perdita di uomini che varia dal 35% al 50%.

L’operazione Qadimun, Ya Nainawa (“Arriviamo, Niniveh”), iniziata il 16 ottobre 2016, prevede la riconquista della città da parte dell’esercito iracheno e della coalizione alleata. Dopo le prime settimane di rapidi avanzamenti, tuttavia, oggi solo un quarto della città è completamente nelle mani alleate. Uno dei problemi più importanti per le truppe irachene e alleate è, senza dubbio, il numero sempre più esiguo di uomini da dispiegare in campo. Il primo ostacolo presentatosi è stato il distaccamento delle forze curde: una volta occupati alcuni settori di Mosul, queste hanno preferito concentrarsi sulla protezione e fortificazione dei propri possedimenti nel nord-ovest del Paese. Le ragioni di tale ritirata non risiedono esclusivamente nelle priorità strategiche sopracitate. Un avanzamento di gruppi sciiti o curdi nel cuore della città avrebbe comportato il rischio di serie rappresaglie da parte della popolazione sunnita, che, ad oggi, conta oltre 1,5 mi-

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Le ragioni di questa disfatta sono

molteplici, ma le cause principali risiedono, essenzialmente, in un contesto da fronteggiare del tutto diverso rispetto a quello di cittadine spoglie e deserte come Fallujah o Ramadi. A Mosul, infatti, la popolazione e i centri urbani non facilitano né gli attacchi aerei né le offensive frontali. Solo il mese scorso, dopo un assalto contro un ospedale a sudest della città, alcuni militanti dello Stato Islamico hanno teso un’imboscata alle unità presenti dell’esercito regolare iracheno. L’ICTS è stata, ancora una volta, chiamata in un’operazione di salvataggio in un ambiente completamente estraneo alle sue competenze. Perché questa divisione è tanto importante? Dalla rivolta del 2014, l’esercito iracheno ha dimostrato un enorme progresso e un alto livello di ricostituzione e training. Nonostante ciò, allo stato attuale esso non è in grado di fronteggiare le necessità politiche in gioco nell’area. Tuttavia, un esercito prematuro non può essere sostituito dalle “migliori Forze per Operazioni Speciali (SOF) del mondo arabo” (così sono state ribattezzate all’indomani delle imprese di Fallujah), quali la Golden Division.


RUSSIA E BALCANI I DUE VOLTI DI VUCIC

Storia del Premier giano bifronte, un po’ russofilo e un po’ europeista

Di Adna Camdzic Nel 2014 l’Unione Europea avvia formalmente i negoziati per l’adesione della Serbia, riconoscendole i progressi compiuti nella normalizzazione dei rapporti con il Kosovo. Sembra però che ultimamente il Premier serbo, Aleksandar Vucic, sia in difficoltà, incastrato tra le richieste di Bruxelles e le sempre maggiori pressioni esercitate da Mosca sul Paese. A partire dal 2008, infatti, si sono intensificate le iniziative russe in Serbia. In quell’anno Mosca si schiera dalla parte dello storico alleato serbo, non riconoscendo l’indipendenza di Pristina. Viene poi siglato un accordo energetico tra i due governi e Gazprom acquista buona parte della compagnia petrolifera serba NIS. Dopo essersi assicurata il controllo delle estrazioni di gas e petrolio, Mosca tenta di rafforzare la propria posizione nella società serba tramite il supporto a istituzioni e gruppi promotori di interessi russi. Contemporaneamente, favorisce la diffusione di una visione distorta delle organizzazioni occidentali (UE e NATO), accusandole di operare contro gli interessi serbi e sottolineando, invece, la prossimità tra le due culture slave e l’importanza del-

la Russia nel processo di sviluppo serbo. In questo quadro Aleksandar Vucic si ritrova in una “posizione scomoda”, in bilico tra la necessità di attuare riforme, perseguendo l’adesione all’UE, e quella di mantenere buoni rapporti con Mosca. Recentemente, in occasione della sua visita a Palazzo Balbi, a Venezia, egli ha dichiarato: “La nostra strada va verso l’Europa, ma, nel contempo, vogliamo proteggere i nostri interessi nazionali. Il nostro Paese è un amico tradizionale [...] della Russia e vogliamo continuare a mantenere questi rapporti”. Tuttavia, l’atteggiamento di Vucic sembra fin troppo passivo e si guarda con molta attenzione all’evolversi delle relazioni russo-serbe. Belgrado mantiene, infatti, rapporti militari e politici stretti con la Russia e rifiuta di aderire alle sanzioni UE imposte a Mosca dopo l’annessione della Crimea e il coinvolgimento nel conflitto in Ucraina. L’agenda, poi, è fitta: essa comprende l’invio di aiuti umanitari serbi in Siria, con aerei russi in partenza da aeroporti serbi; la visita di una delegazione della Crimea in Serbia; la visita ufficiale di Petrusev (capo dei servizi segreti russi) e Andrej Kartapolov (vice capo di

Stato maggiore russo) a Belgrado. Inoltre, il 21 dicembre, Vucic si è recato a Mosca per concludere l’acquisto di velivoli russi: ciò è segno di un’intensa cooperazione militare tra i due Paesi. Nemmeno la Russia, in realtà, sembra vedere di buon occhio le azioni di Vucic. Lo Stato sta cercando di sfruttare l’insoddisfazione della popolazione serba e dei gruppi ultranazionalisti, sempre più euroscettici, per rafforzare la propria presenza nella regione. Vucic viene criticato perché, tra le altre cose, contrariamente a quanto si aspettava Mosca, ha agevolato il dialogo con il Kosovo. Il Premier, inoltre, è coinvolto in una battaglia interna per il potere. Gli sono ostili il presidente serbo Nikolic e l’ex primo ministro Dacic, che criticano la sua apertura verso l’Occidente. Si aggiungono, infine, le recenti tensioni a Belgrado, dovute ai ritrovamenti, nei pressi della casa dei genitori di Vucic, di armi riconducibili a un possibile attentato da parte di ultranazionalisti. Il tutto fa presagire una situazione poco stabile, in cui l’attitudine da “Giano bifronte” del Premier non sembra essere di grande aiuto. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI CAUCASO, INSTABILE CROCEVIA TRA ORIENTE E OCCIDENTE L’UE può risolvere le ostilità nelle regioni caucasiche?

Di Ilaria Di Donato Sebbene spesso sottovalutata dagli analisti di politica internazionale, la regione caucasica vanta un’importanza strategica nel panorama degli equilibri mondiali, soprattutto dopo la dissoluzione dell’URSS e l’indipendenza delle regioni del Caucaso meridionale; le popolazioni del nord restarono, invece, sotto il dominio russo. L’ambizione di Mosca di preservare la propria egemonia nel territorio meridionale del Caucaso dovette scontrarsi con la crescente competizione di Turchia, Iran e USA. Tale contrapposizione di attori internazionali determinò vari conflitti interni che flagellarono la regione caucasica nei recenti anni ‘90 e 2000. Il più noto conflitto nel Caucaso del Nord riguardò la Cecenia, unica tra le repubbliche della regione caucasica a proclamarsi indipendente nel 1991. Nel 1994, l’invasione russa della Cecenia rappresentò l’esplosione di una guerra rovinosa, che conobbe una parziale tregua due anni dopo, con un accordo sottoscritto da ambo le parti. Tuttavia, tale precaria indipendenza fu interrotta da una seconda occupa10 • MSOI the Post

zione. L’epilogo del conflitto fu l’estremizzazione di entrambe le parti: i ceceni islamici volevano istituire uno Stato di ordinamento musulmano al nord del Caucaso mentre Mosca perseguì la violenta repressione dei “terroristi”. Ne derivò il collasso economico del Caucaso settentrionale, a tutt’oggi tra le aree più depresse dell’ex URSS. Dal canto suo, il Caucaso meridionale si risvegliò all’indomani dell’indipendenza con una serie di annose questioni dovute a motivi etnici, religiosi ed energetici. Armenia e Georgia furono i primi Stati a proclamarsi cristiani, mentre l’Azerbaijan rimase islamico, pur ospitando al suo interno le due fazioni sciita e sunnita. In particolare, la Georgia strizza da sempre l’occhio all’Occidente, seppur con la necessità di non scontrarsi con il vicino russo, più forte militarmente e da cui dipendevano le proprie forniture energetiche. La più recente evoluzione del Paese è avvenuta con il sostegno degli Stati Uniti, decisi a fare della Georgia lo Stato chiave della loro influenza nel Caucaso.

L’Armenia, a causa delle sue ridotte dimensioni e della sua posizione, soffrì della rottura delle relazioni economiche con Mosca. Inoltre, la vicinanza della Turchia determinò il sanguinoso conflitto per l’Alto Karabakh, regione contesa tra l’Armenia e il turco-musulmano Azerbaijan. Dopo l’11 settembre 2001, la situazione dell’Armenia divenne ancor più complessa: i buoni rapporti con l’Iran incrinarono quelli con Washington; in più, negli ultimi anni, Mosca ha esteso la sua penetrazione economica in Armenia, impedendo quella degli Stati Uniti. In questo scenario, un ruolo di spicco può essere assunto dall’Unione Europea. Da circa un decennio Bruxelles ha incluso le regioni del Sud del Caucaso nella Politica Europea di Vicinato, sulla spinta della crescente preoccupazione per l’affidabilità delle forniture energetiche provenienti da tali territori. Il rinnovato interesse dell’Unione Europea potrebbe avere risvolti positivi, considerando che la stessa agirebbe in un’ottica di mediazione tra i vari attori internazionali.


ORIENTE CHI HA PAURA DEL PRESIDENTE?

Forte della supermaggioranza, Duterte continua la sua guerra.

Di Giusto Amedeo Boccheni La guerra alla droga di Duterte va avanti ormai da circa 6 mesi. Rappler.com tiene il conto delle persone uccise dalla Polizia Nazionale Filippina: 2.174 in operazioni di polizia, 4.049 in omicidi extragiudiziali e operati da vigliantes a partire dal 1 luglio 2016, per un totale di 6.223 vittime. Quasi 6 milioni di case sono state visitate dalla polizia e oltre 1 milione di persone si è arreso alle forze dell’ordine, tra consumatori (92%) e spacciatori (8%). Il Presidente, provocatore per vocazione, tende a gonfiare le cifre. In ottobre ha affermato che ogni giorno 2 poliziotti cadono per combattere la piaga della droga. In realtà, dopo 4 mesi di “guerra”, il conto ufficiale ammontava a 7. Un altro dato controverso riguarda la quantità di individui dipendenti da sostanze illegali, i quali per Duterte sarebbero tra i 3 ed i 4 milioni. Le stime ufficiali, invece, arrivano appena a 1,8 milioni. Le misure e le drastiche affermazioni del Presidente sono state accolte con diffidenza e sdegno in Occidente e persino da membri della Corte Penale Interzazionale.

In patria, però, Duterte gode di amplissimo consenso. Le critiche sono state poche e poco efficaci. Chito Gascon, Presidente della Commissione sui Diritti Umani, ha denunciato l’abuso del nanbalan, la resistenza all’arresto, come pretesto per giustificare l’uccisione dei sospetti. Ha inoltre avviato indagini contro Duterte quando, a dicembre, questi ha affermato di avere ucciso personalmente, come sindaco di Davao, tre sospetti criminali. La senatrice Leila De Lima, ex-Presidente della stessa Commissione e Segretario di Giustizia sotto Aquino, si è opposta a Duterte, suggerendone l’impeachment. Il Presidente ha risposto accusandola di corruzione e prossimità a trafficanti di alto profilo. Lo scontro con la De Lima ha messo in luce quanto la dottrina dell’immunità presidenziale, sancita durante il regime di Marcos e formalmente abbandonata con esso, sia de facto sopravvissuta, anche se priva di un fondamento costituzionale. Opposizioni, garanti istituzionali e comunità internazionale si sono dimostrati poco tempestivi, finora, nell’ostacolare l’operato presidenziale. Il sistema giudiziario filippino è lento e, secondo l’opinione

pubblica, corrotto; tuttavia, la Corte Suprema ha, dalla caduta di Marcos, goduto di un’ottima reputazione. Ad ogni modo, Duterte ha potuto mettere subito in chiaro il suo atteggiamento nei confronti dell’organo, accusando quattro suoi componenti di essere coinvolti o nel traffic di stupefacenti. A queste accuse, lasciate cadere per assenza di prove, ne sono seguite altre, altrettanto infondate, nei confronti di altri 40 membri della magistratura. Con un’ultima stoccata, Duterte ha minacciato di dichiarare la legge marziale, proposta già avanzata agli albori della guerra alla droga, quando ancora le vittime erano poche centinaia. La Costituzione, però, richiede l’approvazione del Parlamento e della Corte Suprema. Cambiare questa clausola ha perciò presto assunto particolare importanza nel programma del Presidente, il quale sostiene che, laddove Corte e Congresso non si trovassero d’accordo, il potere passerebbe automaticamente nelle sue mani, onde evitare una crisi costituzionale. La Corte è però un argine sottile e, nel corso del suo mandato, Duterte potrà nominare ben 12 dei suoi 15 componenti – due già nei prossimi mesi. Per lui, quindi, è solo una questione di tempo.

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ORIENTE AUSTRALIA: SEGGIO AL CONSIGLIO ONU PER I DIRITTI UMANI? L’Australia e i diritti umani

Di Luca De Santis La richiesta da parte dell’Australia di ottenere un seggio al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite ha sollevato non poche proteste. Portando avanti la candidatura del Paese per il 2018-2020, il governo promette di promuovere in modo efficace la garanzia dei diritti umani per tutti, per dare l’esempio soprattutto nella difesa delle minoranze vulnerabili ed emarginate. Il governo australiano è in competizione con la Francia e la Spagna per ottenere un seggio per il 2018-2020 e la votazione, a scrutinio segreto, avrà luogo nel 2017. Il ministro degli Esteri Julie Bishop ha dichiarato, in un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che l’Australia adotterebbe un approccio “di principio e pragmatico” nel Consiglio dei Diritti Umani. Tuttavia, alcune voci critiche – tra cui numerosi governi esteri e anche svariate organizzazioni australiane – hanno messo in luce i trattamenti spesso inumani posti in essere dalla politica governativa nei confronti dei richiedenti asilo. 12 • MSOI the Post

L’Australia è stata criticata più volte da innumerevoli organismi internazionali in relazione al suo programma di detenzione off-shore e alle turn-back-boat policies. Ad esempio, migranti privi di documenti, tra cui donne e bambini, vengono detenuti a Nauru o Manus Island per un tempo indefinito; il governo ha dichiarato – senza mezzi termini – che “non potranno mai essere accolti in Australia”. Molti hanno vissuto in queste isole per anni e continueranno a farlo in futuro. La questione all’ordine del giorno è quindi se il governo australiano possa veramente essere in grado di guidare la comunità internazionale nei diritti umani, quando il proprio “cortile di casa” è in uno stato di caos. Nel novembre 2016, un gruppo di australiani di origine etiope è stato arrestato nel corso di una manifestazione pacifica contro le severe pratiche di detenzione ai danni dei migranti. Inoltre, tra le accuse mosse contro le forze di polizia di Nauru figurano minacce, trattamenti discriminatori e perfino violenze sessuali, che hanno visto tra le vittime anche alcuni bambini. L’Australia ha più volte fatto ri-

ferimento alle leggi antiterrorismo istituite a difesa dell’ordinamento, conferendo al diritto alla sicurezza il ruolo di controlimite rispetto ai diritti normalmente tutelati. Tuttavia, lo Human Rights Watch ha sottolineato come spesso la Nazione abbia anche dimostrato alcune gravi mancanze, sia in materia di garanzie a favore delle minoranze etniche interne sia in materia di tutela delle disabilità. L’organizzazione ha dunque messo in atto una serrata critica alle parole del primo ministro Malcolm Turnbull, che lo scorso settembre ha definito la politica australiana sull’immigrazione “la migliore al mondo”. Alexandra Lancaster, ricercatrice all’Università di Harvard, afferma che il governo continua a promuovere politiche disumane e ritiene improbabile che qualcuno possa sostenere la candidatura dell’Australia, pubblicamente o privatamente. Il governo ha due anni per smantellare le politiche che lo mettono sotto accusa nella comunità internazionale. In caso contrario, rischierebbe di non ottenere un seggio al Consiglio dei diritti umani.


AFRICA IN MISSIONE

L’Africa come principale palcoscenico delle missioni UE e UN

Di Jessica Prieto Le Nazioni Unite e i Paesi membri dell’Unione Europea sono tra i principali promotori delle iniziative di peacekeeping. Nel caso dell’ONU, tali operazioni vengono approvate dal Consiglio di Sicurezza e, in seguito, programmate dal Dipartimento per le operazioni di mantenimento della pace. L’Unione Europea, dal canto suo, agisce nel quadro della Politica di Sicurezza e Difesa Comune seguendo il modello della “sicurezza inclusiva”, con la volontà non solo di porre fine ai conflitti, ma anche di prevenirli. Con la Joint Declaration, siglata tra Unione Europea e Nazioni Unite nel 2003, le due istituzioni hanno iniziato a collaborare nel campo del crisis management. Nonostante differiscano per membri e funzionamento, esse presentano caratteristiche comuni: entrambe si fondano sul diritto internazionale e su una visione multilaterale della politica globale, entrembe aspirano a svolgere un importante ruolo nella gestione delle crisi, cercando una loro pacifica risoluzione. Le prime operazioni congiun-

te si svolsero prima in Bosnia Erzegovina e poi in Repubblica Democratica del Congo, con la missione ARTEMIS. Quest’ultima fu un esempio di uno dei 2 modelli di cooperazione tra UE e ONU in ambito militare, il bridging model, che consiste nel dispiegamento di una forza autonoma UE di breve durata che permetta all’ONU di organizzare una nuova missione. A questo si aggiunge lo stand-by model, che prevede il dispiegamento di una missione UE contemporaneamente a una missione ONU. Attualmente l’Africa, insieme al Medio Oriente, rappresenta una delle aree con il maggior numero di missioni attive, sia congiunte tra UE e ONU, come EUROFOR in Congo, sia condotte singolarmente. Sono, infatti, presenti missioni in Sahara occidentale, Liberia, Costa d’Avorio, Darfur, Sud Sudan, Mali, Somalia e Repubblica Centrafricana. Nella maggior parte dei casi si tratta di missioni che durano diversi anni e sono volte a proteggere i civili, a mantenere la sicurezza nazionale o a sorvegliare eventuali elezioni. Per esempio, l’operazione in Darfur, chiama-

ta UNAMID, è iniziata nel 2007 e ha come scopi principali la facilitazione della fornitura di assistenza umanitaria e la mediazione con il governo del Sudan. I finanziamenti per queste importanti missioni provengono dagli Stati aderenti alle organizzazioni internazionali. Le Nazioni Unite hanno concordato un budget di 7 bilioni di dollari, che viene diviso tra ogni singola operazione e deve coprire tutti i costi: quelli relativi ai trasporti, all’equipaggiamento e al salario dei militari impiegati. Nel 2004, invece, il Consiglio Europeo ha creato ATHENA, un meccanismo per la gestione del finanziamento delle operazioni militari. Nonostante tali attività congiunte incontrino diversi ostacoli, negli ultimi 10 anni i due principali attori della sicurezza globale hanno dimostrato una seria volontà di elaborare politiche comuni e di istituzionalizzare la loro cooperazione. È questo il segno che, in un mondo sempre più globalizzato, l’emergere di nuove minacce transnazionali rende necessaria una più stretta collaborazione, che vada aldilà dei confini nazionali.

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AFRICA AFFRONTARE IL PASSATO

Gli sforzi di un continente verso un futuro migliore

Di Fabio Tumminello Ogni nazione ha i suoi demoni, ereditati da un passato di violenza, oscurantismo e repressione. Sono demoni che possono macchiare la reputazione di un intero popolo, ridimensionando anche le possibilità che esso ha di relazionarsi con il resto del mondo. L’Africa conosce fin troppo bene questa realtà, ma conosce anche il modo per rinascere da un passato tormentato. Con la fine dell’apartheid, il Sudafrica ha dovuto fare i conti con i crimini e le persecuzioni perpetrati dal governo nel secondo dopoguerra ai danni della popolazione di origine bantu. Fu per questo motivo che Nelson Mandela, nel 1995, creò la Truth and Reconciliation Commission (TRC), una commissione ideata per punire gli autori dei gravi crimini commessi durante l’apartheid e per dare “sollievo” alle vittime e ai loro familiari, promuovendo l’unità nazionale, l’armonia e la concordia tra le varie etnie presenti nel Paese. Il Sudafrica guadagnò nuova popolarità proprio negli anni ‘90, presentandosi al mondo, anche grazie al lavoro della Commissione, come una delle poche nazioni africane progressiste

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e liberali, un luogo in cui popoli, etnie e religioni diverse potessero coesistere pacificamente. Il “modello sudafricano” venne presto imitato e commissioni simili vennero istituite in tutto il mondo (in particolare in Sud America e Asia sud-orientale) per mediare tregue civili tra parti della popolazione in conflitto. L’esempio sudafricano non è però l’unico nel continente. Nel 2001 la Sierra Leone fu la prima a istituire, dopo la firma del Trattato di Pace di Lomè, una Commissione per la verità e la riconciliazione, affinché si indagasse sulle violazioni dei diritti umani e delle regole del diritto umanitario compiute nell’arco della guerra civile che aveva diviso il Paese nel corso degli anni ‘90. In Ghana, nel maggio del 2004, il governo Kufuor, a seguito di violenti scontri tra le tribù Konkomba e Nanumba, fu costretto a istituire una Commissione per la riconciliazione nazionale con il compito di mettere fine a un conflitto etnico che insanguinava il nord del Paese da quasi 10 anni. Un anno dopo, la Liberia, uscita devastata e divisa da una lunghissima guerra civile, istituì a sua volta una Commissione

per la verità e la riconciliazione chiamata a sanare le fratture interne al Paese. Questo nuovo organo, insieme al governo di transizione e alla nuova Assemblea Costituente, voleva far sì che “si creasse un’opportunità, sia per le vittime sia per gli autori di violazione del diritto, di condividere le loro esperienze, al fine di ottenere un ritratto chiaro del passato e facilitare una guarigione e riconciliazione genuine”. Le commissioni, pur pensate per riportare la pace e la stabilità all’interno delle varie nazioni, non furono esenti da critiche. La principale debolezza, strutturale, riguardava la loro mancanza a di efficaci : il mandato conferito ad alcuni di questi organi (come quello della Liberia) era limitato a una semplice opera di mediazione, lasciando sostanzialmente impuniti i fautori dei crimini più violenti. Le delibere delle commissioni vennero quindi accolte in modo totalmente opposto: con entusiasmo dalla comunità internazionale, che vedeva in queste pronunce una presa di coscienza da parte delle nazioni africane; con freddezza dai diretti interessati che, al netto dei grandi proclami, difficilmente ottenevano giustizia e soddisfazione per i torti subiti.


SUD AMERICA SE SIENTE, SE SIENTE, PERÓN ESTÁ PRESENTE La storia del peronismo, dalla nascita alla modernità

Di Sara Ponza Il peronismo, detto anche giustizialismo, fu una corrente creata da Juan Domingo Perón nel secondo dopoguerra. I suoi sostenitori venivano chiamati anche descamisados, in quanto il movimento era nato tra gli strati più modesti della società argentina. Il fenomeno peronista, che iniziò a manifestarsi nei primi anni ‘40, ha origine nella conformazione stessa della società argentina. Essa, fino agli anni ‘20, era stata altamente controllata da imprese britanniche e statunitensi ed era caratterizzata da un’elevata immigrazione interna ed europea. Questa situazione incoraggiò l’instaurarsi di diversi orientamenti politici, soprattutto socialismo, comunismo e anarchia. L’assetto creatosi dalla mescolanza e dall’incompatibilità di questi sistemi rappresenta sia il fondamento dello sviluppo del peronismo sia la causa del suo fallimento. L’iniziale successo di Perón si basava sull’appoggio della maggioranza della popolazione, dovuto alla presenza di riserve d’oro, all’affluenza di valuta straniera e a un’economia interna in crescita. Nonostante la

rosea situazione economica, la società argentina fu in seguito minata dall’acceso dibattito tra peronisti e anti-peronisti. Perón attuò diverse riforme, come la nazionalizzazione del Banco Central e delle aziende responsabili dei servizi pubblici e l’alfabetizzazione degli strati più poveri della società. Esse provocarono l’allontanamento dei gruppi di potere britannici e statunitensi e la creazione di un’unione tra industria nazionale e lavoratori (una terza via tra capitalismo e comunismo). L’assetto politico creatosi, tuttavia, portò all’inizio degli anni ’50 a un’ampia crepa nel sistema: venne meno l’appoggio da parte dei principali sostenitori di Perón, tra cui quello della Chiesa cattolica (per via dell’approvazione della legge sull’aborto) e quello dei potentati economico-finanziari. Contemporaneamente, l’economia argentina conobbe una fase di recessione. Nel 1955, la situazione socio-economica argentina degenerò e Perón, a seguito di un golpe organizzato dalla Marina Militare, fu costretto a emigrare nella Spagna franchista. Iniziò quindi il “peronismo della resistenza”. All’interno del mo-

vimento si formarono due filoni: un’ala socialista nazionale, ispirata ai movimenti rivoluzionari sudamericani, e una di orientamento conservatore. Ciò portò a nuove elezioni, che videro, nel 1973, la vittoria di Camporà, candidato di orientamento peronista. Questi si dimise nel luglio dello stesso anno e indisse un’ulteriore votazione, a cui partecipò anche Perón, che divenne Presidente argentino per la terza volta. Nel 1974, dopo la morte di Perón, si ebbe un nuovo vuoto di potere, che provocò un nuovo colpo di Stato militare. “Si informa che da oggi, 24 marzo 1976, il Paese è sotto il controllo operativo della Giunta di Comandanti Generali delle Forze Armate”. Fu questo l’annuncio che 40 anni fa gli argentini sentirono a ripetizione. Era l’inizio della fine del peronismo. Nel 1976, l’ondata di autoritarismo che aveva portato al potere Geisel in Brasile, Pinochet in Cile e Banzer in Bolivia toccò così anche l’Argentina. Nel 1983, dopo il ripristino della democrazia, il partito socialista vinse le elezioni, ma rimase comunque vivo lo spirito peronista, che portò il movimento peronista nuovamente al potere nel 1989.

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SUD AMERICA LA CRISI MONETARIA DEL VENEZUELA Il crollo del bolivar e la dipendenza dal petrolio

Di Daniele Ruffino

rio dell’America Latina.

Il Venezuela sta vivendo quella che si potrebbe definire la peggior crisi economico – finanziaria della sua storia. Il Paese, che per anni ha avuto una delle monete più stabili e forti di tutto il continente latino, sta subendo un’iperinflazione che ha portato a una svalutazione enorme del bolivar.

La crisi del 2008 ha però modificato le carte in gioco, obbligando la Nazione a svalutare il bolivar e a introdurre un doppio tasso di cambio con il dollaro americano: 2,60 bolivar a dollaro americano per le importazioni prioritarie e 4,30 a 1 per il rimanente.

L’economia del Paese si è basata per decine di anni (e lo fa tutt’ora) sull’esportazione di petrolio, scelta che aveva permesso di mantenere ottimi tassi di cambio-valuta e una generale stabilità. Il presidente Hugo Chàvez, infatti, aveva adottato politiche economiche volte a detassare e incentivare il mercato energetico (in particolare di gas e petrolio). La manovra, che si scoprì successivamente vantaggiosa, creò però forti scompensi nel settore agricolo e delle piccole e medie imprese. Nel 2003 il cambio dollaro US/ bolivar era di 1 a 1.600. Nel 2007 il bolivar venne ulteriormente valutato (cambiando nome valuta in bolivar fuerte) e il cambio fu portato a 1 a 1.000: il Venezuela fu incoronato come uno degli attori principali del panorama economico – finanzia-

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Nel 2013, con l’insediamento di Nicholas Maduro, succeduto a Chavez, la moneta nazionale ha dovuto subire un’ulteriore svalutazione e il doppio cambio è stato rincarato. Ciò ha gettato l’economia venezuelana in pasto ai falchi finanziari, dediti alla speculazione, e al mercato nero, gestito in gran parte dalle mafie locali. L’inflazione è schizzata a un tasso mai visto finora: 720%. Essa è scesa poi al 511%, ma è rimasta comunque la più alta del mondo. Le risposte del governo di Caracas non sono state repentine e utili. Il Presidente ha inizialmente imputato la colpa della destabilizzazione monetaria a USA e Colombia e ha poi delegato la responsabilità alla criminalità organizzata, rinominata “mafia monetaria”, rea di introdurre illegalmente moneta per destabilizzare la già gravosa situazio-

ne finanziaria del Venezuela. Successivamente, la risposta è stata quella di ritirare le banconote da 100 bolivar e di introdurre un nuovo corso di biglietti da 500, 1.000, 2.000, 5.000, 10.000 e 20.000. Infine, sono state temporaneamente chiuse le frontiere con Colombia e Brasile, onde evitare la fuoriuscita di denaro, ed è stata imposta una cifra massima da poter portare con sé all’estero. Il Venezuela, oltre a questa questione, dovrà affrontare un altro grande problema: la sua sospensione (fortemente voluta da Brasile e Argentina) dal Mercosur. Confermata a inizio dicembre dopo ripetuti avvertimenti, questa esclusione potrebbe incrinare ancora di più la difficile situazione commerciale del Paese, in particolare per quanto riguarda le esportazioni, dato il tragico crollo del bolivar. Anche il recente aumento del prezzo del petrolio, salito a 50 dollari dopo un importante accordo tra i Paesi OPEC circa il taglio del numero di barili giornalieri, potrebbe non bastare per risanare le finanze e dare respiro all’economia di un Paese che sta paradossalmente pagando la propria costante dipendenza dal greggio.


ECONOMIA SOCIAL LENDING E NEW MOBILE PAYMENT Nuove frontiere delle start-up del fintech italiano

Di Francesca Maria De Matteis “Applicazione gratuita per inviare denaro ai contatti della propria rubrica telefonica e pagare nei negozi convenzionati fisici e online” si legge sulla homepage del sito di Satispay. Operativa sul mercato dal 2015, è una start-up del fintech molto promettente fondata nel 2013 e con sede a Milano. È un canale di credito alternativo che consente di pagare una cena o un semplice caffè, fare donazioni e acquistare online senza dover utilizzare contanti o carte. Scaricata l’app sul cellulare, bastano un documento di identità, l’IBAN e il codice fiscale per registrarsi sulla piattaforma. Non viene applicato alcuna commissione alle transazioni tra privati, mentre ammonta a 20 centesimi per una spesa superiore ai 10 euro nelle attività commerciali: è l’assenza di intermediari finanziari a ridurre i costi. Le istituzioni italiane - come quelle europee -, ormai da qualche anno, cercano di dare impulso allo sviluppo di metodi di pagamento alternativi ai contanti, utilizzabili quotidianamente. Anche in Italia il mobile payment sta registrando un trend positivo, determinando cambiamenti profondi nei modelli di consumo. Già nel 2015,

avevano raggiunto i 21 miliardi di euro, incrementando del 22% i risultati raggiunti nel 2014. Il 2016 ha registrato una crescita del 24% degli investimenti italiani in start-up per un valore di 182 milioni di euro. Quello del fintech è, infatti, un settore in rapido sviluppo che comprende oggi tutte le innovazioni tecnologiche in ambito finanziario. Attrae investitori e minaccia i servizi tradizionali, rappresentando per l’industria bancaria un forte stimolo verso la crescita. Dalla crescente necessità di credito degli utenti e dalla sempre più scarsa propensione della banche a concederlo a imprese e famiglie, si è sviluppato il social lending. Fondato nel marzo 2005 in Inghilterra dalla Zopa Ltd (società che, ad oggi, detiene una quota del 2% sul mercato dei prestiti personali), è decollato con la crisi finanziaria del 2008. Questo fenomeno, traducibile in italiano come “prestito tra privati su Internet”, è una pratica alternativa ai servizi da sempre svolti da apposite società finanziarie. Ad attrarre clienti sono principalmente un più favorevole tasso di interesse e la velocità e sicurezza che caratterizzano i finanziamenti. L’incontro

diretto di domanda e offerta determina il tasso, richiedenti e prestatori interagiscono senza intermediari e i flussi di denaro tra loro avvengono attraverso i loro conti di pagamento, tutelati per legge. Le rate del prestito vengono restituite mensilmente per addebito su conto corrente bancario e l’importo del prestito messo a disposizione da un utente della piattaforma viene diviso in più parti, ciascuna attribuita a un diverso richiedente, per differenziare il rischio dell’operazione. Il profilo di credito di chi richiede il prestito determina la sua assegnazione ad una delle classi di merito creditizio: sarà il prestatore a valutarne la convenienza e l’affidabilità. Esiste, comunque, un fondo di garanzia che tutela il creditore in caso di ritardo prolungato. Nel mondo, oggi sono 40 le piattaforme attive di P2P lending (peer-to-peer lending). In Italia, invece, le uniche piattaforme autorizzare da Bankitalia risultano essere Smartika e Prestiamoci. Le regioni che al momento hanno permesso di riscontrare una risposta positiva a questo fenomeno sono la Lombardia, con 2.8 milioni di euro erogati, seguita Emilia Romagna e Lazio. MSOI the Post • 17


ECONOMIA VINCITORI E VINTI Dal dopoguerra ad oggi: come si è sviluppata l’economia mondiale

Di Michelangelo Inverso Nel secondo dopoguerra, ciò che più di ogni altra cosa aveva caratterizzato il sistema economico occidentale, era stata l’attività economica diretta dello Stato nell’economia, il keynesismo. Vi erano alcuni pilastri su cui tutto il sistema si reggeva. Il primo era la monolitica impresa fordista, che assicurava al settore manifatturiero intesi livelli di occupazione e ai sindacati un grande potere di contrattazione. Gli alti salari garantivano i consumi privati e questi, a loro volta, l’espansione della produzione e quindi degli investimenti. Il secondo pilastro era rappresentato dagli accordi di Bretton Woods, un complesso di trattati che: regolavano gli scambi internazionali, istituivano la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale come organismi finanziari globali con il compito di mantenere la stabilità e l’equità tra e all’interno degli Stati. Il tutto fondato sul gold standard, la parità aurea tra oro e dollaro. Grazie a questi accorgimenti si disinnescava la possibilità di un nuovo ‘29. Dal 1945 al 1975, le principali economie europee crebbero 18 • MSOI the Post

a ritmi stupefacenti. L’Italia aumentò il proprio PIL pro capite di quasi il 400%, la Germania di quasi il 500%. Questo circuito virtuoso lungo cui si era avviato il blocco capitalista, però, si interruppe bruscamente negli anni ‘70, periodo nel quale furono rapidamente e volontariamente smantellati alcuni dei suoi capisaldi. Anzitutto, venne abolito il gold standard, permettendo così alle valute di fluttuare liberamente e trasformandole in merci. Vennero, poi, deregolamentati i mercati finanziari, lasciando la possibilità ai capitali di muoversi senza limiti tra i confini nazionali. Infine, alla crisi dell’impresa fordista, la presidenza Reagan rispose incarnando i principi di quello che è divenuto il nuovo paradigma economico, il neoliberismo. Quest’ultimo predicava il non-interventismo dello Stato in favore di un unico meccanismo di allocazione delle risorse: il Mercato. Fu così che il keynesismo, fondato sul controllo, la regolazione e la legittimità dell’intervento nell’economia da parte delle autorità pubbliche venne progressivamente abbandonato. Capitanate soprattutto dai grandi e grandissimi gruppi industriali e finanziari che avevano visto ridurre i propri profitti a causa degli shock petroliferi e degli aumenti salariali agganciati

all’inflazione, le politiche che ne seguirono portarono a quel processo che viene definito come “globalizzazione”. Negli ultimi 30 anni, il commercio internazionale è cresciuto a tassi doppi rispetto PIL mondiale, gli investimenti esteri ad un tasso doppio rispetto ai tassi di crescita del commercio internazionale e, quindi, quadrupli rispetto al PIL nominale. Tuttavia, questo ha portato con sé una diffusa e sempre più veloce dei deindustrializzazione Paesi occidentali, in favore di quelli in cui il costo del lavoro è nettamente più conveniente, rendendo così perverso il meccanismo competitivo, comprimendo i salari e devastando il mercato del lavoro. La fine della manifattura in Europa e negli USA, accompagnata ad un ruolo sempre più insignificante dello Stato come istituzione perequatrice delle condizioni economiche della società ha reso strutturale sia la disoccupazione a doppia cifra sia il fenomeno della sottoccupazione. Osservando la Brexit o vittoria di Donald Trump - forse il paladino per eccellenza dei delusi dal Mercato - viene da chiedersi: sono stati di più i vincitori o vinti della globalizzazione?


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