MSOI thePost Numero 52

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Redazione Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


LA NUOVA STAGIONE DELL'EUROPA Le regole del gioco, i candidati e l'elezione del Presidente del Parlamento europeo

Di Daniele Reano Con la decisione di Martin Schulz di presentare le dimissioni da Presidente del Parlamento Europeo per candidarsi all’interno delle liste dell’SPD in Germania alle prossime elezioni politiche, sono iniziate le consultazioni e le discussioni tra i vari partiti presenti nel PE per l’elezione del suo successore. Il Presidente viene eletto da parte dei membri del Parlamento per un mandato totale di due anni e mezzo, ha funzioni di rappresentanza del Parlamento stesso nei consessi internazionali, apre, disciplina e chiude i lavori dall’Assemblea e nomina i 14 vicepresidenti. A partire dagli anni ‘80, con la sola eccezione del 19°, il Presidente è il risultato dell’accordo tra i due partiti più grandi e con più rappresentanti all’interno del Parlamento: • S&D (Alleanza P r o g r e s s i s t a dei Socialista e Democratici): il partito di centrosinistra che

include tutti coloro che si riconoscono nel socialismo europeo e nella socialdemocrazia; • PPE (Partito Popolare Europeo): il partito che include il centrodestra e i cristiano-democratici europei. L’accordo stabilisce che in ogni legislatura ciascuno dei due raggrupamenti esprime uno dei due Presidenti del Parlamento, facendo in modo che questi venga eletto con maggioranze molto ampie. Le regole dell’elezioni sono semplici: i candidati vengono annunciati all’assemblea e tutti i membri del Parlamento hanno diritto di voto. Se nessuno dei candidati ottiene la maggioranza assoluta dei voti dopo i primi tre scrutini si procede con un ballottaggio tra i due candidati che hanno ricevuto il più alto numero di voti al terzo scrutinio. Nel caso in cui il ballottaggio si concluda in parità viene eletto il candidato più anziano. Accantonata l’ipotesi di una candidatura unitaria di PPE ed S&D sono stati 7 i candidati alla

presidenza del PE:

• Antonio Tajani Giornalista professionista, dopo aver iniziato la sua carriera politica nella gioventù monarchica divenne uno dei fondatori di Forza Italia nel 1994. Eletto eurodeputato del PPE nel collegio del centro Italia con più di 100.000 voti, è stato Commissario Europeo per l’Industria e l’Imprenditoria sotto la seconda Commissione Barroso e i suoi interventi hanno riguardato lo stimolo al turismo, lo snellimento burocratico relativo alle pratiche d’immatricolazione delle autovetture e un’aspra lotta contro la contraffazione dei beni industriali. Suo è il progetto CARS2020, che prevede una transizione verso maggiore efficienza energetica, fonti alternative, tecnologie e materiali avanzati per la produzione. MSOI the Post • 3


fanno parte i Tories inglesi e il PiS polacco. Ha ottenuto un grande successo facendo approvare l’adozione della lingua dei segni in ogni Stato membro dell’Unione europea.

• Gianni Pittella Impegnato fin da giovane all’interno del Partito Socialista e poi nel Partito Democratico, viene eletto alla Camera dei deputati nel 1996 e successivamente più volte al Parlamento Europeo. Rieletto nel 2014 con 230.000 preferenze nella circoscrizione Italia meridionale, è l’attuale capogruppo dell’S&D ed è da sempre schierato a favore di Unione Europea politica e non solo economica.

• Guy Verhofstadt Presidente dell’ALDE (Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa) e più volte capo del governo federale del Belgio alla guida di coalizioni tra liberali, socialisti ed ecologisti. Fortemente europeista, tra i primi a proporre l’istituzione del Gruppo Spinelli per una maggiore integrazione europea e autore di numerose pubblicazioni quali “Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria” in collaborazione con Daniel Marc Cohn-Bendit, storico leader dei Verdi. • Helga Stevens Senatrice fiamminga ed eurodeputata schierata in prima linea nella difese delle persone diversamente abili, vice presidente del gruppo dei Conservatori e Riformisti, euroscettici di destra di cui 4 • MSOI the Post

• Jean Lambert Candidata dei Verdi-Alleanza libera europea, eletta più volte come deputata al Parlamento europeo ricoprendo nel frattempo varie cariche all’interno del Partito dei Verdi del Galles e dell’Inghilterra, è impegnata in un gran numero di ONG che lottano per i diritti umani e la salvaguardia dell’ambiente.

• Eleonora Forenza Ricercatrice universitaria eletta eurodeputata con la Lista Tripras in quota Rifondazione Comunista con più di 20.000 preferenze nella circoscrizione Italia meridionale, è stata candidata del GUE-NGL, il gruppo che riunisce la sinistra

radicale e le sinistre nordiche.

• Laurenţiu Rebega Politico romeno indipendente, eletto eurodeputato nel 2014, ha fatto parte dell’S. & D. per poi diventare membro dell’ENF, gruppo di estrema destra euroscettico e antiimmigrazione di cui è presidente Marine Le Pen. Ferventi e frenetiche trattative hanno caratterizzato questa elezione, che ha visto al centro della scena il tentatitivo di alleanza tra Guy Verhofstadt con la delegazione del Movimento 5 Stelle, facente parte dell’EFDD, il gruppo fortemente euroscettico di Nigel Farage, e il successivo accordo con il PPE, che lo ha spinto a ritirare la sua candidatura il giorno prima della elezione. Manfred Weber, capogruppo del PPE, ha spiegato l’alleanza con i liberali come il primo passo “riformare l’Europa” e invitando gli altri gruppi a unirsi al progetto. Weber ha aggiunto di avere l’intenzione di “agire insieme per portare risultati ai cittadini europei”. Il candidato dell’S&D Gianni Pittella, che sperava di poter ottenere l’appoggio dei liberali, ha attaccato l’accordo tra i due gruppi: “L’epoca della grande coalizione è finita, non ci sarà più un’intesa privilegiata tra i grandi gruppi, perché c’è bisogno di chiarezza, di una visione limpida e civile, che è cosa diversa da instabilità e paralisi”. Antonio Tajani, durante il suo intervento ha fatto riferimento alla necessità “di un Parlamento forte, di un buon Presidente, un buon portavoce che lavori per tutti, un Presidente che non sia un Primo Ministro, ma che abbia esperienza per difendere la libertà del parlamento di fronte a Commissione e Consiglio”.


Durante il primo scrutinio Tajani ha ottenuto 274 voti contro i 183 di Pittella su un totale di 683 i voti validi con ben 35 schede bianche. Staccati gli altri candidati: Stevens 77, Lambert 56, Forenza 50 e Rebega 43. Diversa la situazione al secondo scrutinio, dove Tajani ha ottenuto 287 voti su 691 voti mentre Pittella ha raggiunto i

200 voti con gli altri candidati molto più indietro in termini di sostegno. Con pochi cambiamenti nella terza votazione è con il ballottaggio della quarta che Antonio Tajani si è aggiudicato la vittoria con 351 voti contro i 282 ottenuti da Pittella. Concluse le operazioni di voto

e dopo un lungo abbraccio tra Tajani e Pittella, che ha stemperato gli animi dopo il ballottaggio, il nuovo Presidente del Parlamento ha detto che con la sua elezione ha “inizio una nuova stagione. Sarò il Presidente di tutti, non intendo fare il premier dell’UE. Penso di essere il garante di un Parlamento che deve essere forte.”

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EUROPA TRUMP E L’EUROPA

Tra sfide e prospettive future

Di Benedetta Albano

e le successive dichiarazioni.

Il 20 gennaio 2017 Donald Trump è diventato ufficialmente il 45° Presidente degli Stati Uniti. DopolasuaelezioneJunckeraveva commentato: “Ci metteremo tre anni solo per spiegargli cosa sia l’Europa” e nei mesi trascorsi il neo Presidente ha fatto più volte parlare di sé nell’ambito della politica estera. Ma che quale potrebbe essere la sua politica nel Vecchio Continente?

In questo scenario internazionale, l’Europa si interroga sul nuovo Presidente, sia dal punto di vista economico (Trump si è espresso molte volte contro il TTIP) sia dal punto di vista politico: egli si è dichiarato a favore della Brexit e dell’isolazionismo, nonché apertamente contrario alle politiche di integrazione europea attuate da Bruxelles. D’altronde, l’Europa si confronta quotidianamente con l’ascesa di movimenti antieuropeisti anche internamente.

Sono noti a tutti i rapporti del miliardario americano con Putin, che hanno portato alle dichiarazioni relative alla NATO: un patto obsoleto, che non corrisponde agli standard attuali e agli equilibri internazionali. Sia gli Stati Uniti sia la Russia sembrano pronti a una decisa rinegoziazione, se non addirittura a uno smantellamento. Mentre Washington si avvicina sempre più al Cremlino, vi è anche forte attrito con la Cina, dopo la chiamata al Presidente di Taiwan 6 • MSOI the Post

Molti leader europei hanno sottolineato come l’Europa sia disposta a cooperare con gli Stati Uniti solo a determinate condizioni e non hanno risparmiato forti critiche alle posizioni espresse dal Presidente americano. Il cancelliere Angela Merkel, fortemente criticata dallo stesso Trump soprattutto per le sue politiche di accoglienza dei

rifugiati, ha più volte ribadito la necessità per l’Europa di rafforzare la propria unità e di seguire un progetto politico che metta al centro gli interessi degli Stati membri dell’Unione. Si tratta di posizioni condivise anche dal capo della diplomazia francese Jean-Marc Ayrault. Il presidente Hollande ha inoltre dichiarato che l’Unione Europea non ha bisogno di consigli esterni. È stato detto più volte che la vittoria di Trump negli Stati Uniti rappresenta un’altra sconfitta per le istituzioni e il sistema politico che hanno governato negli ultimi anni. Non si può però sapere quali saranno le politiche che verranno adottate dagli Stati Uniti nei confronti dell’Europa, conoscendo la volubilità di Trump. Forse l’Unione seguirà il consiglio del cancelliere Merkel, che ha invitato i popoli europei a essere padroni del proprio destino.


EUROPA LONDRA HA DECISO: SARÀ HARD BREXIT May: fuori dal mercato unico e forte controllo immigrazione

Di Giulia Marzinotto 17 gennaio. Londra. In un attesissimo discorso tenuto alla Lancaster House di Londra il primo ministro britannico, Theresa May, ha svelato il piano del suo governo su quella che sarà una “hard Brexit”. L’addio all’UE, decretato attraverso un referendum tenutosi lo scorso 23 giugno 2016, sarà netto: la Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea, dall’unione doganale e dal mercato unico europeo; una permanenza in quest’ultimo avrebbe implicato diverse condizioni sulla libera circolazione delle persone e il mantenimento della soggezione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, questioni ritenute inaccettabili per l’attuale governo conservatore. “Cerchiamo una nuova partnership fra una Gran Bretagna globale, indipendente e sovrana e i nostri amici dell’Ue. Non vogliamo adesioni parziali, o qualsiasi cosa che ci lasci metà dentro e metà fuori”, ha dichiarato la May, a capo dell’esecutivo britannico dal luglio 2016. Nessun compromesso terrà il Regno Unito con piede in due scarpe: secondo la premier britannica “da parte dell’Ue è mancata la flessibilità nei confronti

di Londra e i britannici se ne sono accorti”. I negoziati con Bruxelles dovrebbero iniziare dopo l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, prevista entro la fine di marzo: “Sarà una lezione anche per l’Ue se vuole avere successo”, ha sottolineato la leader conservatrice. Il piano del governo prevede un “processo per gradi di attuazione, nell’interesse reciproco di Ue e Gran Bretagna”, soprattutto in quei settori di comune interesse, quali sicurezza e lotta al terrorismo, in cui un taglio netto dei rapporti sarebbe impensabile. L’accordo con l’UE sarà articolato in 12 punti negoziali e il rafforzamento del controllo delle frontiere saràuno dei più importanti: l’immigrazione“dovrà servire per i nostri interessi nazionali”, ha sottolineato la May. L’inquilina del numero 10 di Downing Street ha poi aggiunto di voler fare chiarezza al più presto sullo stato giuridico dei cittadini UE residenti e con un lavoro nel Regno Unito, così come dei britannici negli stati membri UE. Anticipando di averne già discusso con i principali leader europei, la May ha detto di aver riscontrato disponibilità da parte di tutti, “a parte un paio”. Attesa nel

giro di due anni, l’intesa finale con Bruxelles sarà votata del parlamento di Westminster, con l’obiettivo evitare dannosi accordi temporanei che “potrebbero lasciare il paese in un purgatorio politico permanente”. Circa il Regno Unito che verrà, la May ha annunciato che gli sforzi britannici verteranno sulla costruzione di“una Gran Bretagna veramente globale”, che possa contare da sola e divenire “uno dei migliori posti al mondo per la science e l’innovazione, per l’università e le tecnologie”; inoltre,sottolineando come la Gran Bretagna voglia rimanere”un buon amico e vicino dell’Europa, […] perché la tutela dell’Unione è al cuore di ogni azione della Gran Bretagna, al fine di cogliere le opportunità le accomunano”, la leader conservatrice ha anticipato la pianificazione di un vertice biennale del Commonwealth. Il modello dell’UE non sarebbe stato compatibile con la storia britannica: “la storia dell’Unione deve essere una storia di successo”, ma lo sarà “solo attraverso una riforma delle istituzioni che riconosca la molteplicità dei singoli Paesi che ne fanno parte” ha concluso la premier. MSOI the Post • 7


NORD AMERICA LE LACRIME DEL PRESIDENTE

La commozione di Barack Obama nel suo ultimo discorso da Presidente

Di Erica Ambroggio Applausi, lacrime e standing ovation. L’ultimo discorso tenuto da Barack Obama in qualità di Presidente degli Stati Uniti ha commosso quella parte di America che guarda al futuro con paura e rassegnazione. Uno spaccato sociale a cui il Presidente ha voluto dedicare la sua commozione e il suo sostegno. Nella serata di martedì 10 gennaio, in diretta dal McCormick Place di Chicago, Obama ha salutato e omaggiato la propria Nazione con un discorso di 50 minuti, quasi interamente rivolto all’esaltazione dei principi democratici americani. Il primo riferimento è stato alla città di Chicago, il luogo nel quale “tutto ebbe inizio”, il luogo di arrivo di un giovane ventenne alla ricerca della propria identità, che ha dato slancio a quella che sarebbe stata la successiva brillante carriera politica. Nel suo intenso discorso, Barack Obama ha trattato i temi dell’economia, della tutela dei lavoratori, del diritto all’istruzione e alla sanità. Tutti settori nei quali Obama, durante il suo operato alla Casa Bianca e

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come da lui stesso ricordato, ha cercato di iniettare quanto più possibile i valori della democrazia e dell’eguaglianza. Settori con obiettivi importanti, a volte raggiunti, a volte sfiorati e non sufficientemente soddisfatti. La speranza che tali valori rimangano vivi negli animi di ogni singolo cittadino americano ha rappresentato il filo conduttore dell’intero discorso del Presidente. Il razzismo, l’odio, la discriminazione e le battaglie politiche prive di un reale confronto sono tutti elementi pericolosi per quel “regalo meraviglioso” che è la Costituzione. Obama ha invitato il popolo americano a rendersi difensore della democrazia, spronando ad avervi fiducia, a credere “nell’America e negli americani”. Il riferimento alle aspre lotte politiche è stato l’unico momento dedicato al successore Donald Trump, con il quale il Presidente uscente si è sempre impegnato a favorire una transizione fondata sulla cooperazione. Tuttavia, l’ombra del miliardario e futuro leader della Nazione ha accompagnato l’intero discorso di addio. Gli ostacoli alla democrazia e ai principi promossi dagli stessi padri fondatori si sono concretizzati in varie occasioni nella propaganda di

Trump. Tali ideologie, secondo Obama, rappresentano il primo passo per la distruzione dei valori democratici. 50 minuti di “elogio alla democrazia”, terminati con intensi ringraziamenti. “Mi hai reso orgoglioso. Hai reso orgoglioso tutto il Paese”, sono state le parole rivolte da Obama alla moglie e first lady Michelle. La platea non è riuscita a contenere l’entusiasmo, dando vita a una standing ovation ricca di emozione. A seguire, i ringraziamenti alle figlie Sasha e Malia. Il Presidente ha successivamente dedicato parole di gratitudine ai propri collaboratori e sostenitori. La sua attenzione si è rivolta in particolare all’intero staff, che lo ha affiancato per tutti gli 8 anni di presidenza. Un saluto di riguardo è stato riservato a Joe Biden, vice presidente uscente, che ha incarnato una scelta politica sfociata in un rapporto di fraterna e intensa amicizia. Infine, il grande e ultimo saluto è spettato alla Nazione: “Cari americani, servirvi è stato il più grande onore della mia vita”. A loro ricorda: “Yes, we can. Yes, we did”.


NORD AMERICA L’EREDITÁ DELLA FIRST LADY

L’ultimo discorso di Michelle Obama alla Casa Bianca

Di Martina Santi

questa amministrazione.

“Being your first lady has been the greatest honor of my life and I hope I’ve made you proud”. Così termina l’ultimo discorso di Michelle Obama come First Lady, tenutosi presso la Casa Bianca il 6 gennaio 2017.

La First Lady ha inoltre ribadito l’importanza dell’educazione nella vita dei giovani: è grazie al valore della conoscenza e dell’istruzione che essi possono maturare un proprio senso critico e formulare delle opinioni, essere intraprendenti e occupare il posto che meritano nella società. L’incontro, infatti, si è svolto in occasione della premiazione della “school counselor” dell’anno, Terri Tchorzynski, alla quale hanno partecipato numerosi assistenti scolastici, provenienti da ogni angolo del Paese. ‘The Closer’ (così chiamata dal marito, ad indicare il ruolo da lei occupato nel suo progetto politico) ha ringraziato queste figure professionali per il lavoro svolto nel sostenere i giovani americani nei loro “darkest moments”.

È ai giovani americani che si è rivolto il discorso di Michelle Robinson Obama, la quale ha voluto sottolineare il ruolo essenziale giocato dalle nuove generazioni nella società: esse ne sono parte integrante e solo loro possono lottare per proteggere il valore della libertà. “Don’t be afraid. Be determined”. La convinzione che le cose possano volgere al meglio se si è disposti a lavorare duramente è ciò che Michelle Obama definisce “The power of hope”, un valore che ha accompagnato gli Obama fin dal principio di

La First Lady ha inoltre diffuso un messaggio che celebra la gloria della diversità e di principi come la giustizia, l’onestà e la compassione. “La diversità non è una minaccia. Ci rende ciò che siamo”: queste le parole di Michelle Obama, che, con la voce a tratti spezzata dell’emozione, ha chiesto a coloro che l’ascoltano di non cedere alla paura e al bigottismo. Al termine del suo discorso, la First Lady, visibilmente emozionata, è stata accolta da un caloroso applauso, che ha racchiuso tutta l’ammirazione e la gratitudine verso una figura che ha reso l’amministrazione uscente più popolare, grazie al suo impegno sociale. D’altronde oggi non sono poche le voci che parlano di un ritorno di Michelle alla Casa Bianca come Presidente. MSOI the Post • 9


MEDIO ORIENTE BAMBINI-BOMBA TRA LE SCHIERE DEI DEL CALIFFATO In Medio Oriente il numero dei kamikaze under 14 sale ogni giorno

Di Maria Francesca Bottura Il numero di minorenni impiegati come bombe umane dal gruppo IS è esorbitante. Si tratta di un fenomeno che da anni vede piccoli soldati vestiti di esplosivi farsi esplodere in zone strategiche (come i commissariati e le sedi militari o politiche) o molto affollate (come i mercati). I bambini, per la maggior parte maschi, vengono prelevati a forza dalle loro case e addestrati a diventare soldati nelle fila dell’esercito del sedicente Stato Islamico. Come ha raccontato la portavoce dell’Ufficio Diritti Umani dell’ONU, Ravina Shamdasani, in un comunicato stampa di pochi mesi fa, a Mosul Daesh ha prelevato numerosi minorenni. Sono passati di casa in casa, obbligando le famiglie a consegnare loro i figli maschi sopra i 9 anni. La storia di questi bambini-kamikaze si ripete di guerra in guerra. L’impiego di bambini per questo genere di attentati, secondo gli esperti, avrebbe due spiegazioni. La prima è la volontà di risparmiare i soldati

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adulti, più utili nelle battaglie; la seconda è l’effetto a sorpresa. Infatti, come ha sottolineato uno dei consulenti governativi in Iraq, Hisham al-Hashim: “I bambini attirano meno l’attenzione e destano meno i sospetti degli adulti, specie quelli di sesso maschile”. I minorenni, inoltre, sono molto più facili da reclutare, soprattutto per le missioni suicide, visto che la maggior parte sono orfani e senza più alcun familiare in vita. Una ricerca condotta ad agosto dal think thank inglese Quilliam ha rilevato che i kamikaze minorenni del Daesh non siano provenienti solo da Siria e Iraq: almeno una cinquantina arriverebbero dal Regno Unito e non solo. Secondo la testimonianza di un bambino fuggito da un campo di addestramento del sedicente Stato Islamico, riportata in un’intervista dalla CNN del gennaio 2016, la vita per i giovani soldati è durissima. Essi vengono addestrati a utilizzare kalashnikov e a farsi saltare in aria; imparano il Corano e assistono a omicidi per decapitazione; per chi non esegue gli ordi-

ni, poi, vi sono dure punizioni, come torture e stupri. “I bambini di appena 10 o 12 anni vengono usati in ruoli diversi, come combattenti e messaggeri, spie, guardie, gestori di posti di blocco, ma anche per incarichi domestici, come cucinare, pulire, a volte curare i malati”. Così Laurent Chapuis, coordinatore di UNICEF Medio Oriente e Nord Africa, ha definito la situazione dei minori reclutati dal gruppo IS. Il problema maggiore, però, è quello evidenziato da Human Rights Watch: non sarebbe solo il gruppo IS a utilizzare questo genere di reclutamento, ma anche altre milizie. Nell’agosto scorso, a Mosul, sono state segnalate due milizie tribali che, in vista di un attacco da parte dello Stato Islamico, avrebbero reclutato bambini sotto i 15 anni. Secondo il Combating Terrorism Centre (CTC), tra i bambini morti in operazioni del sedicente Stato Islamico, il 39% è rimasto ucciso facendosi esplodere, il 33% come combattente a piedi, mentre il 18% come kamikaze durante attacchi di gruppo.


MEDIO ORIENTE L’INTESA ITALO-LIBICA

Tra legami di ferro e accordi di cartapesta

Di Clarissa Rossetti Oltre 100 migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo lo scorso sabato, nel tentativo di raggiungere le coste italiane dalla Libia. La guardia costiera, che il giorno prima aveva messo in salvo circa 550 persone, questa volta ha recuperato soltanto 4 superstiti. Mentre la crisi umanitaria non accenna a placarsi, il ministro dell’Interno Marco Minniti ha visitato Tripoli il 9 gennaio per un incontro con l’esecutivo di Fayez Al Serraj e ha rinnovato l’intento di raggiungere un’intesa sull’emergenza migranti. Tra i punti principali figurerà l’impegno dell’Italia ad aiutare la Libia affinché vengano chiusi i confini meridionali con il Niger, area di transito e partenza, insieme ai Paesi del Corno d’Africa, di gran parte dei migranti. L’accordo, non troppo diverso dai precedenti memorandum ad opera degli ex ministri Maroni (nel 2008) e Cancellieri (nel 2012), si colloca nella cornice di un’alleanza di lunga data, che vede negli scambi commerciali di petrolio e gas i suoi capisaldi. La Libia ospita le maggiori scorte di greggio di tutto il continente ed è il quinto Stato africano per riserve di gas naturale.

Nonostante la produzione abbia mostrato un andamento discontinuo dopo lo scoppio della guerra civile, l’Italia è rimasta il principale destinatario delle esportazioni di petrolio e gas. L’azienda italiana leader nel settore energetico, ENI, ha mantenuto una posizione privilegiata nel Paese nordafricano, con contratti che estendono l’attività sul suolo libico fino al 2041 per il petrolio e fino al 2047 per il gas naturale. Quest’ultimo è trasportato attraverso il gasdotto Green Stream, che si estende per 520 chilometri nel Mediterraneo. Gli accordi presi dai precedenti Ministri degli Interni prevedevano 5 miliardi di dollari in aiuti, in cambio del pattugliamento costante delle coste per bloccare la partenza dei migranti. Inoltre, l’Italia si impegnava a fornire attrezzature volte a rafforzare i meccanismi di sorveglianza delle frontiere libiche. Tuttavia, secondo Human Rights Watch, la guardia costiera libica svolge solo un’attività limitata di monitoraggio e salvataggio, adducendo la mancanza di risorse adeguate come motivazione. Nel 2016, infatti, UNHCR ha riportato che l’82% dei migranti sbarcati sulle coste italiane era in arrivo dalla Libia, definendo il 2016 come un anno particolarmente buio, con almeno 3.800

morti tra i richiedenti asilo provenienti dal Nord Africa. Appaiono quindi inefficaci i tentativi di tamponare, grazie a una cooperazione con la Libia, le perdite provocate dall’emergenza umanitaria nel Mediterraneo. La rotta dell’energia resta invece sicura e senza intoppi, con esportazioni di greggio e gas in Italia per circa 5 miliardi di dollari complessivi, come riportato dall’Observatory for Economic Complexity (ma i dati disponobili più recenti sono del 2014). Nel frattempo, prosegue EUNAVFORMED – Operazione Sophia, la missione navale europea guidata dall’Italia per contrastare l’immigrazione illegale e l’attività degli scafisti, finora operativa a 12 miglia dalla costa libica. Un intervento della missione in acque territoriali assicurerebbe un maggiore coinvolgimento delle forze di sicurezza libiche e garantirebbe una maggiore efficacia, ma richiederebbe anche una risoluzione ad hoc del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La poltrona appena occupata dall’Italia nel Consiglio quindi fa ben sperare per l’attivazione di una fase operativa che, almeno in teoria, potrebbe garantire una riduzione delle vittime durante la traversata della rotta più pericolosa per i migranti.

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RUSSIA E BALCANI L’ARRIVO DI TRUMP E LE CONSEGUENZE PER L’UCRAINA L’Ucraina potrebbe perdere un importante alleato oltreoceano?

Di Giulia Bazzano Il 2016 è stato un anno complesso per l’Ucraina. Il conflitto nel Donbass non è cessato, disoccupazione e precariato non si arrestano e poche riforme sono state attuate dal Parlamento. Tre anni dopo la protesta di piazza Maidan, le speranze degli ucraini vacillano. Alcuni dei giovani che erano in piazza nel novembre 2013 sono entrati in Parlamento, ma di quello spirito rivoluzionario è rimasto ben poco. Poroshenko è stato accusato di seguire gli stessi schemi del suo predecessore, mantenendo il Paese in una situazione di stallo. Tuttavia, a livello internazionale potrebbero cambiare alcune cose. Washington ha infatti giocato un ruolo significativo nel conflitto russo-ucraino, fornendo importanti aiuti finanziari a Kiev. Inoltre, l’amministrazione Obama ha sempre ribadito la sua volontà di mantenere le sanzioni contro la Russia e affermato come quest’ultima dovesse rispettare quanto scritto negli accordi di Minsk. L’arrivo di Trump, però, rende il futuro più incerto. 12 • MSOI the Post

Il neo Presidente ha espresso più volte la sua ammirazione per il presidente Putin e per il suo operato. Trump potrebbe mettere fine al sostentamento finanziario e militare all’Ucraina, aiutando così i progetti della Russia. Le decisioni del Presidente per quanto riguarda la situazione in Crimea potrebbero rivelarsi particolarmente rilevanti a livello internazionale. All’inizio della campagna elettorale il candidato repubblicano aveva condannato l’intervento russo nella regione, salvo poi cambiare idea nell’estate del 2016, arrivando a parlare degli abitanti della Crimea come di “persone che starebbero meglio in Russia rispetto a dov’erano prima”. Un cambio di direzione oltreoceano potrebbe essere la ragione per la quale Poroshenko ha iniziato a prendere alcune “misure di sicurezza”. Il mese scorso, il Presidente ucraino ha dato il via a una serie di lanci missilistici in Crimea, parte di quello che è stato definito un “test militare”. I portavoce del governo hanno affermato che “tutto procede secondo i piani” e che l’Ucraina è “pronta per nuovi sviluppi”, ribadendo tuttavia come il test

missilistico non rappresenti una minaccia per la Crimea e come non violi alcuna norma del diritto internazionale. Il presidente Poroshenko ha inoltre dichiarato che il principale obiettivo del lancio dei missili è quello di creare una difesa aerea “per Kiev e per l’intera Ucraina”, aggiungendo poi “Nessuno può fermarci”. La presa di posizione di Poroshenko potrebbe essere una misura preventiva nei confronti delle possibili decisioni di Trump in politica estera. Con la fine dell’amministrazione Obama, Kiev potrebbe perdere un importante alleato a livello internazionale. Nell’attesa di scoprire quali saranno le effettive decisioni del neo Presidente americano, Poroshenko intende confermare la volontà del governo ucraino di mantenere il suo controllo nelle aree di conflitto. Kiev non è ancora disposta a gettare la spugna e sembra pronta ad affrontare l’ennesimo capitolo del conflitto con Mosca. L’unica incognita è come reagiranno gli Stati Uniti, con un nuovo Presidente che pare avere già un alleato oltreoceano: la Russia di Putin.


RUSSIA E BALCANI L’ACCORDO OPEC-RUSSIA

Tra rispetto dei patti e calcolo politico: ciò che vuole Putin

Di Vladimiro Labate Il 30 novembre scorso, a Vienna, i Paesi dell’OPEC hanno raggiunto un accordo per ridurre la produzione di petrolio a 1,2 milioni di barili al giorno per la prima metà del 2017. Dopo le trattative di aprile, saltate per le resistenze saudite e iraniane, il cartello dei Paesi esportatori ha trovato un compromesso per porre fine al lungo periodo di prezzi bassi che ha messo in crisi il bilancio di molti Stati. Il 10 dicembre si è aggiunto un gruppo di 11 Paesi non OPEC, tra cui la Russia, che taglieranno la propria produzione totale di 600.000 barili al giorno. Secondo il ministro russo dell’Energia Alexander Novak, “l’accordo accelererà la stabilizzazione dei mercati, ridurrà la volatilità, attrarrà gli investimenti e assicurerà uno stabile sviluppo all’industria petrolifera”. Secondo alcuni osservatori, il documento è stato fortemente voluto dal presidente russo Vladimir Putin. Infatti, oltre ai risvolti economici, potrebbe avere delle importanti conseguenze politiche per la Russia. Nel 2016, il deficit del bilancio federale russo si è attestato al 3,5% del PIL. Con il petrolio a un prezzo di $ 40 al barile, per

il 2017 ci si aspetta che esso si riduca fino al 2,4%, anche grazie a importanti tagli alla spesa pubblica. Ma bisogna considerare alcune congiunture politico-militari. Innanzitutto, le elezioni del 2018, importante appuntamento per Putin, suggeriscono di usare cautela nella revisione del bilancio statale, in particolare per quanto riguarda pensioni e settore pubblico. In secondo luogo, la situazione in Ucraina e Siria, nonostante il cessate il fuoco imposto nel Paese medio orientale, impedisce la riduzione della spesa militare. Per questi motivi, il deficit nel 2017 potrebbe essere uguale all’anno scorso. Di questo passo, però, il Fondo di Riserva, costituito in tempi di prezzi alti per sostenere le finanze statali, potrebbe esaurirsi entro la fine dell’anno, rendendo Putin vulnerabile in caso di eventi imprevisti. In vista delle elezioni del 2018, alle quali il Presidente russo vuole arrivare in posizione di forza e con una popolarità alta, $ 10 in più nel prezzo del petrolio potrebbero migliorare il bilancio statale e di conseguenza la posizione di Putin. Eppure, alcuni osservatori ritengono che la Russia non sia realmente intenzionata a rispettare l’accordo, come è successo altre volte nella storia recente.

La Russia ha garantito una riduzione graduale della produzione a partire da gennaio, con un massimo di 300.000 barili al giorno in meno. Secondo alcuni critici, tale gradualità non assicurerebbe nulla e lascerebbe spazio a giustificazioni russe basate sulla gestione degli impianti e a un’industria petrolifera che non è completamente soggetta all’autorità statale. Inoltre, il ministro dell’Energia russo Novak ha dichiarato che il congelamento ai livelli attuali potrebbe equivalere a un taglio della produzione, data la precedente decisione di Mosca di aumentare nel 2017 la produzione di 200.000/300.000 barili al giorno. Questa eventualità, per quanto non enfatizzata, crea ulteriori dubbi circa l’effettiva lealtà russa ai patti. Infine, alcuni analisti, tra cui James Henderson del ‘The Oxford Institute for Energy Studies’, ritengono che la Russia sia giunta all’accordo non con la volontà di rispettarlo, ma con la speranza di poterlo usare cinicamente: prima facendo lievitare il prezzo del petrolio fino a 50$ al barile e riequilibrando in questo modo il mercato, poi abbandonandolo, dopo due/ tre mesi, senza effettivamente attuare la riduzione. MSOI the Post • 13


ORIENTE XI JINPING A DAVOS

La cina difende la globalizzazione

Di Emanuele Chieppa Davos, località sciistica della Svizzera, ospita dal 1987 il World Economic Forum. Curiosamente, il World Economic Forum di quest’anno ha luogo mentre Donald Trump è in procinto di insediarsi alla Casa Bianca. Il Presidente statunitense ha spesso sottolineato il bisogno di un ‘ritorno a una dimensione nazionale e a un atteggiamento meno aperto verso il mondo’: dichiarazioni forti, che continuano ad influenzare i mercati finanziari. La globalizzazione è stata un tema chiave del WEF di quest’anno, come è risultato chiaro dal lungo discorso di Xi Jinping, leader della Repubblica Popolare Cinese. Questi, il 17 gennaio, ha aperto la sessione plenaria della conferenza insieme a Klaus Schwab, esprimendosi a favore della globalizzazione e del libero scambio. Lo stesso Schwab ha adottato una linea affine a quella di Xi, come del resto ci si aspettava dal fondatore dello European Management Forum, evento economico internazionale ospitato a Davos dal 1971 e successivamente sostituito dal WEF. Xi aveva espresso pareri favorevoli al processo di globalizzazione già all’indomani 14 • MSOI the Post

della vittoria di Trump e anche a Davos ha sostenuto che, per superare la crisi, è importante continuare a migliorare il sistema attuale, pur senza intaccarne le fondamenta. Nondimeno, il Presidente cinese non ha tralasciato di trattare i problemi causati dalla globalizzazione: le esternalità negative imposte all’ambiente, ma anche la povertà di certe regioni del mondo e le persistenti diseguaglianze. Ha inoltre ribadito come l’accordo di Parigi sia stato un atto di responsabilità verso le generazioni future e come la Cina sia incline a una globalizzazione più sostenibile. Xi ha poi rivolto alcune critiche alla finanza spregiudicata e alla mancanza di regolamentazioni in tal senso: elementi che, attraverso una persecuzione estremizzata dei profitti, hanno contribuito alla recente crisi economica. Il leader cinese ha dichiarato che, piuttosto che opporsi in toto alla globalizzazione, bisognerebbe adattarsi a essa, cercando di gestirla, poiché “ogni tentativo di […] incanalare di nuovo le acque del mare in laghi e torrenti non è semplicemente possibile e va contro le tendenze storiche.” Xi, analizzando le cause di fondo del ristagno dell’economia globale, ha puntato il dito contro una governance inadeguata, che

non tiene conto delle variazioni di ratio nella crescita mondiale né dei cambiamenti a cui il mondo sta andando incontro. Il Presidente della PRC ha infine dichiarato che lo sviluppo della Cina e la sua apertura verso il mondo continueranno con sempre maggiore intensità e gli investimenti non subiranno alcuna battuta d’arresto. Stanno anzi aumentando i partner che beneficiano dello sviluppo cinese e ne condividono gli investimenti: ciò si deve alla “One Belt Road”, che tocca Asia, Africa ed Europa. È indubbio che il Presidente Xi stia cercando di spingere la Cina verso una posizione di leadership mondiale. Secondo Milton J. Bennet, “Ciò che rende l’attuale situazione mondiale doppiamente pericolosa è il fallimento da parte dei nostri leader di prendere in considerazione le differenze culturali e il loro effetto sul modo in cui i singoli vedono il mondo”. Per quanto le parole di Bennet siano state scritte tempo fa, risultano ancora attuali: a Davos ancora una volta la leadership cinese ha dato prova della visione di lungo periodo e della capacità di sintesi e pragmatismo che la caratterizza, il mondo ora è di fronte ad un bivio e la Cina parrebbe pronta a sostenere la sua visione con rinnovata forza.


ORIENTE INDIA: LA VIOLENZA SULLE DONNE

Uno sguardo d’insieme alla condizione della donna nel continente indiano

Di Tiziano Traversa Un recente episodio che ha visto protagonista un sarto indiano, accusato dello stupro di 500 bambine, ci induce ad analizzare un fenomeno che, nel subcontinente indiano, pare essere divenuto sempre più comune. La violenza nei confronti delle donne in India e nei Paesi limitrofi ha in questi anni catturato l’attenzione dei media internazionali. , Tra i casi più recenti e conosciuti vi è quello di Rrashma Quareshi, la modella indiana sfigurata con l’acido nel 2014, oggi divenuta uno dei simboli dell’emancipazione femminile indiana. Un altro caso, che si è verificato nel giugno 2016, è quello di Zeenat Rafique, la diciottenne pakistana bruciata viva dalla madre e dal fratello perché si opponeva al matrimonio combinato. Storie come queste sono esempi estremi, ma i casi di violenza, avance e molestie contro le donne sono molto frequenti. Si pensi che Air India, la compagnia aerea nazionale

indiana, ha deciso di disporre sui propri velivoli posti per sole donne, le quali, a quanto sembra, durante i voli sono continuamente prese di mira dagli uomini. Nell’area indiana la presunta supremazia dell’uomo deriva in larga misura da un contesto storico-culturale che affonda le proprie radici nelle tradizioni religiose e filosofiche. Prima dell’avvento della dominazione musulmana, le documentazioni storiche mostrano una sostanziale uguaglianza tra i sessi. La situazione cambiò invece con le prime incursioni islamiche, la formazione di sultanati musulmani e l’imposizione di rigidi precetti religiosi, destinati a mutare i rapporti tra sessi. Un’evoluzione in senso positivo si ebbe con la caduta dell’impero britannico, nel 1947: la presidenza di Indira Gandhi e la nuova Costituzione diedero una forte spinta all’emancipazione femminile. Le istituzioni politiche e statali sono apparentemente intenzionate ad arginare

il diffuso fenomeno della violenza contro le donne e, del resto, la Costituzione indiana proclama l’uguaglianza e la non discriminazione fra i sessi. Anche dal punto di vista giudiziario, negli ultimi anni, si sono fatti passi avanti: le sentenze emesse per violenza sessuale si sono inasprite, ma molto spesso, soprattutto nelle regioni in cui i casi risultano essere più frequenti, le vittime non hanno i mezzi per accedere alla giustizia. Spesso, senza querela di parte, i meccanismi di tutela dei diritti delle donne non vengono avviati, non essendo sancita la procedibilità d’ufficio. Nonostante il governo abbia assicurato la propria volontà di contenere tali fenomeni, la lotta politica alle violenze di genere resta alquanto blanda e superficiale: il grande sviluppo economico che ha interessato il continente indiano negli ultimi decenni ha portato a un parziale incremento del benessere, ma le disparità (di genere, ma non solo) sonoancora estremamente evidenti. MSOI the Post • 15


AFRICA TANZANIA CONTRO IL LANDGRABBING

La nuova legislazione che dovrenne limitare le speculazioni

Di Francesco Tosco Il landgrabbing, letteralmente “rapina di terre”, è un fenomeno socio-economico che, a partire dal secolo scorso, ha colpito in particolare il continente africano. Consiste nell’acquisizione, da parte di multinazionali estere o governi stranieri, di vasti terreni non coltivati per sfruttarne le risorse naturali.

Dopo la crisi economica del 2008 e con il sempre maggiore bisogno di materie prime da parte dei Paesi industrializzati, questo fenomeno ha assunto proporzioni enormi. Si calcola che oggi più di 15 milioni di ettari di terreno africano siano gestiti da multinazionali e governi stranieri Un numero già impressionante, ma che considera solo i contratti ufficiali. L’OXFAM, tra i primi a denunciare il fenomeno, spiega nei suoi rapporti come questi contratti vengano continuamente modificati, cancellati e ristrutturati; spesso i terreni effettivamente dati in concessione sono più ampi di quanto risulta dai documenti stipulati.

economica delle popolazioni locali, soprattutto in un continente come quello africano, dove l’agricoltura e l’allevamento costituiscono la principale fonte di guadagno della popolazione. In alcune zone dell’Africa, intere comunità vengono spostate per far spazio alle concessioni. Ne è un esempio l’isola di Kalangala, in Uganda, dove la popolazione è stata sfrattata senza alcun preavviso e privata del raccolto. Inoltre, l’isola è stata adibita alla coltivazione intensiva di olio di palma, che nel tempo porterà a gravi danni ambientali, difficilmente riparabili.

Nel caso della Tanzania, i territori ceduti vengono per la maggior parte adibiti alla produzione di cibo, ma solo il 60% del territorio concesso è realmente sfruttato, mentre il restante 40% rimane precluso alla popolazione locale. La categoria più colpita è quella degli allevatori masai, ai quali l’esercito vieta l’ingresso nei loro terreni. Nell’ultimo anno, il governo della Tanzania ha lavorato a una nuova regolamentazione terriera che limiti la speculazione sulle terre e che dovrebbe entrare in vigore nel La concessione di terre crea un pro- 2017. La nuova normativa si basa fondo impatto sulla vita sociale ed principalmente su due punti: la ri16 • MSOI the Post

duzione del periodo di concessione agli stranieri da 99 a 33 anni e l’ impossibilità, da parte dei capi villaggio, di cedere agli stranieri i terreni della comunità senza il consenso statale. Inoltre, la riforma intende limitare quegli investimenti che non portano poi all’implementazione dei terreni concessi, pur sottraendoli per anni alla comunità. Per quanto riguarda i terreni adibiti ad allevamento intensivo, invece, la nuova policy non sembra cambiare molto la situazione. I pastori masai resteranno penalizzati nella libertà di circolazione, dovendo fare attenzione ai confini delle concessioni, oltre che a quelli dei parchi naturali. Su questa tematica si è sviluppata l’associazione vincitrice dell’Environmental Goldman Prize del 2016. Edward Loure Palmelo, fondatore della Ujamaa Community Resource Team, è un masai che ha sperimentato sulla sua comunità l’allontanamento forzato dalle proprie terre ed è riuscito a garantire la sicurezza dei pascoli comunitari e dell’ecosistema.


AFRICA IL PATRIMONIO MONDIALE DELL’AFRICA I siti UNESCO del continente tra rischi, novità e obiettivi.

Di Chiara Zaghi Il continente africano ospita 74 siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO). Di questi, 42 sono culturali, 32 naturali e 4 misti. L’UNESCO lavora dal 1946, seguendo i principi di cooperazione internazionale promossi dalla Carta istitutiva delle Nazioni Unite, a conclusione di una conferenza intergovernativa convocata a Londra da Francia e Gran Bretagna. Il suo scopo è quello di promuovere la cooperazione internazionale nei campi dell’educazione, della scienza e della cultura, al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, attraverso la migliore comprensione tra le nazioni. L’UNESCO, quindi, si occupa della cultura a livello globale e ha costituito nel tempo una lista di siti nel mondo a cui ha conferito il titolo di “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”. Nel 1978 l’UNESCO ha individuato i primi 4 siti nel continente africano: l’Isola di Goreé in Senegal, l’Area di conservazione di Ngorongoro in Tanzania, le chiese costruite nella roccia

di Lalibela e il Parco Nazionale del Semien, entrambi in Etiopia. Nel 2016, durante il 40° Comitato per il Patrimonio dell’Umanità, tenutosi a Istanbul nel mese di luglio, l’Organizzazione ha completato la lista dei beni considerati Patrimonio dell’Umanità inserendovi il paesaggio naturale e culturale dell’Enne di Massif situato in Ciad. Oggi, gli Stati africani con il maggior numero di siti UNESCO sono il Marocco e l’Etiopia (9 siti), a cui segue il Sudafrica (8 siti). Nel corso degli anni i siti sono aumentati notevolmente, ma sono aumentate anche le difficoltà per preservarli, a causa della ferocia della forza della natura o dell’uomo. Nell’ultimo anno, l’UNESCO ha dichiarato a rischio 16 siti Patrimonio dell’Umanità in Africa, di cui 13 naturali e 3 culturali. Da questo punto di vista, il Congo risulta essere in grande difficoltà, con 5 dei propri siti naturali a rischio di estinzione. La fauna e la flora dei parchi e delle riserve situati nella Repubblica congolese, nonché la biodiversità del territorio, sono minacciate dai continui conflitti nel vicino Ruanda, che hanno costretto molti civili a fuggire e stabilirsi in campi a ridosso

dei parchi naturali. Tra i 16 siti a rischio troviamo anche Timbuctù, in Mali. Tale luogo, patrimonio UNESCO dal 1988, è stato distrutto dal gruppo jihadista estremista Ansar Dine al termine di una occupazione iniziata nel 2012 e durata per molti mesi. La scorsa estate uno dei presunti jihadisti estremisti si è dichiarato colpevole davanti alla Corte Penale Internazionale dell’Aja: è la prima volta che la Corte si occupa di crimini inerenti al Patrimonio UNESCO e ne dichiara la distruzione come un crimine di guerra. L’ultimo piano UNESCO per l’Africa risale al 2012 e pone 5 obiettivi entro il 2017: migliorare la presentazione dei siti esistenti, assicurare la possibilità di conservare questi siti nel migliore dei modi, documentare e formalizzare il sistema di gestione dei siti, sviluppare nuove strategie per la preservazione, stabilire le misure necessarie per continuare a preservare i siti UNESCO anche nelle zone di pre-conflitto, conflitto e post conflitto. Quest’anno, dunque, l’UNESCO dovrà analizzare la situazione africana, stabilire se gli obiettivi sono stati raggiunti e decidere come proseguire la sua attività.

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SUD AMERICA LE CARCERI BRASILIANE, TRA RIVOLTE E NUOVE POSSIBILI SOLUZIONI Uno sguardo rivolto alle APAC brasiliane

Di Giulia Botta Secondo il rapporto del 2016 sul sistema penitenziario brasiliano, rilasciato da Juan E. Mendez, relatore speciale sulla tortura delle Nazioni Unite, il tasso di maltrattamenti e situazioni “crudeli, disumane e degradanti” nelle carceri è critico. Gli atti di violenza rappresentano un problema cronico delle carceri brasiliane e sono alimentati dalle violazioni delle regole minime per il trattamento dei prigionieri e dal sovraffollamento endemico delle strutture. Il Brasile, quarto Stato al mondo per numero di carcerati, conta 600.000 detenuti, dei quali quasi 250.000 in attesa di giudizio. Il tasso di persone che commettono delitti dopo il periodo di detenzione è dell’85%. In questo contesto si collocano i recenti drammatici avvenimenti nel carcere Anísio Jobim a Manaus, Amazzonia. Una ribellione, scoppiata il 1° gennaio, è degenerata provocando 56 vittime, di cui 6 per decapitazione, e la fuga di 87 detenuti. La rivolta era connessa alla faida tra gang per il controllo del narcotraffico nell’area di Manaus. Secondo quanto riferito dal Segretario 18 • MSOI the Post

per la Sicurezza Pubblica, tuttavia, non avrebbe giovato anche lo stato di precarietà e di sovraffollamento del carcere: una struttura abilitata per 590 detenuti, infatti, ne ospita 1.828. Al sanguinoso massacro di Manaus è seguita, il 6 gennaio, una rivolta nel carcere di Boa Vista. Si contano così altre 33 vittime. Volto a migliorare tale situazione è il tentativo, portato avanti dall’organizzazione noprofit APAC (Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati), di promuovere un metodo alternativo alle carceri tradizionali, favorendo il recupero e la reintegrazione sociale dei detenuti senza tralasciare la finalità punitiva della pena. Le APAC brasiliane gestisconoe amministrano 50 carceri di piccole dimensioni, in particolare nello Stato di Minas Gerais, per un totale di circa 3.500 detenuti. Le strutture sono caratterizzate dall’assenza di armi e guardie penitenziarie e sono gli stessi carcerati ad avere a disposizione le chiavi delle proprie celle. Si segue il metodo proposto dall’avvocato italoamericano Ottoboni e sperimentato per la prima volta a São José dos Campos, vicino a San Paolo, 40 anni fa. Il sistema utilizzato è oggi riconosciuto dalla legge brasiliana e adottato dai

tribunali di 17 Stati. La principale differenza con il sistema carcerario tradizionale è che gli stessi detenuti sono corresponsabili del proprio recupero e operano nella cogestione delle carceri, in un percorso di valorizzazione della dignità umana attraverso gli elementi cardine di disciplina, lavoro, famiglia, educazione e spiritualità. I “recuperandi” (così sono chiamati i carcerati) per entrare in un’unità APAC devono manifestare spontaneamente il proprio desiderio di partecipazione, devono avere una sentenza penale definitiva, qualunque reato abbiano commesso, e avere la famiglia residente nella regione dell’APAC, data l’importanza del coinvolgimento dei famigliari nell’attività di recupero. Il numero di richieste è in grande crescita e, nonostante i rischi, l’esperimento sembra e efficac , come dimostrato dall’indice di recidiva del 20-30%(contro il 70-80% delle carceri convenzionali). “Qui entra l’uomo, il delitto resta fuori”: questo è lo slogan scritto all’ingresso di ogni APAC, che racchiude il significato del progetto: una scommessa sulla libertà e i diritti dei condannati.


SUD AMERICA LIBERTÀ DI STAMPA IN AMERICA LATINA

Secondo RSF, i Paesi dell’America Latina non proteggono adeguatamente i propri giornalisti Se, infatti, soltanto Colombia e Messico hanno deciso di creare un meccanismo nazionale per proteggere i propri giornalisti, anche in questi casi tali meccanismi risultano inutili - sia perché non vengono loro devoluti i necessari strumenti umani ed economici per funzionare, sia perché, comunque, troppo legati a una classe politica che spesso è responsabile indiretta dell’oppressione nei confronti dei media. Si consideri, per esempio, che il Messico - 149° nella classifica di RSF - contava, soltanto a luglio 2016, 9 giornalisti assassinati in diversi Stati, tra cui diversi Presidenti di testate locali e autonome. Di Viola Serena Stefanello “L’omicidio, il rapimento, l’intimidazione di e/o le minacce nei confronti di giornalisti, così come la distruzione materiale dei mezzi di comunicazione, violano i diritti fondamentali degli individui e limitano gravemente la libertà d’espressione. È compito dello Stato prevenire ed investigare su tali eventi, punire gli autori di tali crimini e assicurarsi che le vittime ricevano giusto risarcimento.” Recita così la Dichiarazione di principi sulla libertà d’espressione adottata dall’Organizzazione degli Stati Americani, che comprende i 35 Stati delle Americhe. Eppure, a giudicare dalla classifica mondiale redatta annualmente da Reporter Senza Frontiere e dagli altri dati raccolti sulle violenze ai danni dei giornalisti nell’area, sembra che tale dichiarazione sia stata dimenticata.

In un continente che ha perso in un anno, dal 2014 al 2015, più del 20% della propria libertà di stampa a causa dei sempre più frequenti omicidi di giornalisti, diversi sono i fattori che impediscono un miglioramento della situazione, o almeno giustizia per le vittime. In primo luogo, centrale è il controllo dell’autorità sui media: questo porta molte testate locali e autonome - che cercano di investigare su eventi passati sotto silenzio nei giornali “di regime” - a essere infangate o sottoposte a minacce Non sono, però, soltanto i politici corrotti a rendere impossibile un’informazione completa e imparziale: è innegabile il ruolo centrale che giocano i tantissimi attori legati alla criminalità organizzata - che si tratti delle maras che terrorizzano El Salavor o dei cartelli della droga che attanagliano diversi Paesi del continente, dal Messico alla Colombia. Se si considera come politica e criminalità si intrecciano,

soprattutto nei contesti locali, ci si spiega perché i casi più eclatanti di intimidazione, o addirittura omicidio, nei confronti di giornalisti vengano passati sotto silenzio o imputati a motivazioni diverse dal lavoro della vittima. Il modus operandi è lo stesso ovunque: l’assassinio, da parte di sicari, di speaker radiofonici o corrispondenti che lavorano in zone sensibili, lontani dalle grandi città, per cercare di scoprire casi di corruzione. Questo però non sembra essere rilevante ai fini delle indagini. L’impunità diventa così, semplicemente, l’ultimo anello di un circolo vizioso fatto di violenza e svalutazione del prezioso lavoro che i giornalisti svolgono, specie in determinati contesti. Costa Rica, Uruguay, Suriname e Cile rimangono tra i pochi Paesi del continente a rappresentare esempi virtuosi in un contesto che non fa che deteriorare. Un’inversione di questo trend, per il momento, non appare all’orizzonte.

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ECONOMIA ITALIA 4.0

Quarta rivoluzione industriale in arrivo?

Di Ivana Pesic Il paesaggio industriale europeo è stato colpito dalla grande crisi. Quello italiano è stato disarticolato. Tra il 2007 e il 2016 il potenziale industriale dell’Italia si è ridotto del 19,5%, mentre quello tedesco è aumentato del 6,5 per cento. Anche se l’export ha sfondato il tetto dei 400 miliardi di euro, la produttività generale delle nostre imprese manifatturiere è tornata ai livelli ante 2008. Nonostante questo, la produttività media delle imprese manifatturiere, che avrebbe potuto collassare, è invece rimasta stabile, passando dai 56 mila euro per addetto del 2008 ai 58 mila euro del 2016. A tenere in piedi l’architettura industriale italiana, sono le imprese fra i 10 e i 250 addetti. Queste registrano, infatti, uno standard di eccellenza che negli anni della grande crisi è cresciuto ulteriormente. Allo stesso tempo, però, il sistema produttivo italiano non è riuscito a risolvere a livello sistemico il paradosso del 2080: il 20% delle nostre imprese, a cui si deve la quasi totalità dell’export, produce l’80% del valore aggiunto. Per sciogliere questo binomio, che porta ad una eccessiva polarizzazione fra

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una élite di aziende capaci di muoversi agilmente all’interno dei mercati della globalizzazione e una maggioranza di società che si limitano al contesto della domanda interna, una ipotetica chiave strategica è l’Industry 4.0. In sintesi, si tratta di una serie di provvedimenti, incentivi e investimenti che dovrebbe portare la digitalizzazione in tutte le fasi dei processi produttivi dell’industria italiana. Dalla formazione degli studenti alla produzione di beni e servizi. Il “Piano Industry 4.0” dovrebbe focalizzarsi su tre grandi assi: gli incentivi, la formazione e il rigoroso rispetto di standard. Dal punto di vista degli incentivi[,] il pacchetto dovrebbe confermare il rilancio della Legge Sabatini per l’acquisto di beni strumentali legati all’high tech e al digitale e una formula di super-ammortamento che potrebbe arrivare anche al 150%. L’obiettivo è impostare una deduzione “super” volta a favorire il più possibile il passaggio al digitale, concepito come ingrediente principale e fondamentale per sostenere lo sviluppo della Digital Industry italiana. E in questo senso, un ruolo di primo piano sarà svolto dalle soluzioni Internet of Things. L’attesa di questo piano, con-

siderato una vera manna dagli addetti dell’industria dell’innovazione per indurre le aziende ad ammodernarsi, è durata 11 mesi. Già lo scorso novembre l’ex ministro Federica Guidi annunciava: “stiamo ultimando un piano, si chiamerà Industry 4.0”. Le vicende politiche dei mesi successivi ne hanno ritardato la pubblicazione. Intanto, ha cambiato un po’ sostanza e nome, si chiama “Italia 4.0”. Il piano Italia 4.0 (il nuovo nome prevede detrazioni del 30% e detassazione del capital gain per chi investe in startup e PMI innovative) porterà il governo ad investire, tra il 2017 e il 2020, 13 miliardi su innovazione e fabbricazione digitale. Con le altre iniziative in corso e l’impegno dei privati, si punta a mobilitare più di 50 miliardi. Certamente, con l’Industria 4.0 si afferma con forza un fenomeno che riporta l’innovazione all’interno delle fabbriche e che fa delle fabbriche stesse il focus dell’innovazione. In una fabbrica che innova, che cambia, che diventa più efficiente, anche i prodotti torneranno ad essere strategici, non più solo per una competitività legata al costo ma per una competitività legata alla capacità di innovare.


ECONOMIA ALITALIA, PUNTO E A CAPO

L’ex compagnia di bandiera è ancora lontana dalla redditività

Di Giacomo Robasto Le ultime statistiche rilasciate dall’ICAO (Organizzazione internazionale dell’aviazione civile) non lasciano spazio a dubbi sulla buona salute del trasporto aereo: nel 2016 le compagnie aeree hanno trasportato a livello globale oltre 3.7 miliardi di passeggeri, con una crescita del 6,3% rispetto all’anno precedente. L’aumento del traffico è stato protagonista in tutti i continenti, con particolare riferimento al Medio Oriente (+8,2%) e al sud-est asiatico (+11,3%). Nonostante il contesto, reso favorevole anche dai bassi prezzi del carburante, Alitalia si è confermata, come negli anni precedenti, una delle compagnie aeree tradizionali meno performanti in Europa, sia per il numero di passeggeri trasportati sia per la redditività del business. Questa situazione non è purtroppo una sorpresa per il vettore italiano, che, avendo già affrontato periodi di crisi dopo la privatizzazione (avvenuta nei primi anni 2000), ha avviato a dicembre 2014 un nuova fase, quando la compagnia emiratina Etihad è entrata nel capitale sociale della compagnia acquisendone con un investimento di 560 milioni di

euro - il 49%, mentre il restante 51% è ancora oggi detenuto da numerosi soci italiani, tra i quali spiccano gli istituti di credito Intesa Sanpaolo (20,59%) ed Unicredit (19,48%).

futuro, ma finora le nuove rotte inaugurate (Santiago, Città del Messico, Pechino, Cuba e Tenerife) non si sono rivelate sufficienti a invertire la crisi di risultati.

L’accordo con Etihad prevedeva, inoltre, l’investimento di 600 milioni di euro da parte degli Emirati per il rinnovamento della flotta e di 300 milioni dalle banche finanziatrici per la ristrutturazione del debito a breve e medio termine. All’inizio del 2015, l’AD di Etihad James Hogan promise dunque di riportare Alitalia sulla strada della redditività, ma ad oggi di quanto promesso allora non c’è quasi traccia.

Infatti, nel corso del 2015 Alitalia ha riportato una perdita d’esercizio pari a 199.2 milioni di euro, in calo di oltre 381 milioni rispetto al 2014, quando l’entità della perdita era di circa 592 milioni. Per il 2016, invece, le stime - che dovranno essere confermate entro febbraio - prevedono ancora una perdita che oscilla tra i 300 e i 400 milioni.

Infatti, quanto alla strategia, Etihad mirava a portare Alitalia al pareggio di bilancio nel 2017 tagliando i voli domestici e continentali meno profittevoli e investendo sulle tratte a lungo raggio (più redditizie anche per altre compagnie) con l’ingresso in flotta di nuovi aerei. Lo snellimento della flotta ha portato gli aeromobili della compagnia da 137 a 124, tuttavia gli aeromobili destinati al lungo raggio sono passati solo da 22 a 24 e sono utilizzati per collegare diverse città italiane con l’hub di Etihad ad Abu Dhabi, da dove quest’ultima serve tutte le rotte asiatiche. Altri 20 dovrebbero arrivare in

Alla luce di questi numeri, il Consiglio di amministrazione di Alitalia sta ora studiando nuove misure, che difficilmente si tradurranno in un cambio radicale strategia: il lungo raggio è, infatti, una buona carta su cui puntare, dal momento che le compagnie low-cost, Ryanair ed Easyjet tra tutte, dominano ormai il mercato europeo e italiano. L’orientamento più probabile resta un ulteriore taglio ai voli a corto raggio e al costo del lavoro, con esuberi di personale operativo. E, naturalmente, servono nuovi capitali che difficilmente lo Stato italiano sarà disposto a concedere. MSOI the Post • 21


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