MSOI thePost Numero 53

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Redazione Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA UNCONDITIONAL BASIC INCOME: WHAT, HOW, WHERE? Renewed interest throughout Europe, symbol of our changing society.

By Lola Ferrand The idea of an unconditional basic income (UBI) is a concept that can be traced back to the XVIth century when it was advocated in Thomas More’s Utopia and first developed into a comprehensive argument by Johannes Vives. It has been a source of renewed interest due to the challenges posed by modern societies. Indeed the change in the nature of work, the growth of automation and globalisation leading to greater job insecurities have led to concerns as to the sustainability of our current system. The UBI consists of providing fix revenue to each individual within a given country. Its proponents consider it an inalienable and universal right regardless of status or financial situations and combinable with any other wage. However, this definition varies according to different countries and political parties. Once a rare appeal across the political spectrum, the idea of establishing an UBI has gained momentum and is now endorsed by many, including the former Greek minister of finance Yanis Varosfakis or former Labour leader Ed Miliband. During the 2015 general elections the UK green party ad-

vocated a similar “citizen’s income”. Although the Swiss rejected the idea of incorporating the concept into the federal constitution, many initiatives have been implemented throughout Europe and worldwide: the Finnish and Dutch governments are both trialling basic income for certain categories of the population. The Scottish government has also expressed its interest in the concept. In France this measure has gained importance within the public debate. Indeed, it was a crucial point in the socialist’s party (PS) primary elections supported by its winner Benoit Hamon. The latter intends to introduce a UBI, progressively increasing the sum and individuals concerned.

For the partisans of an emancipating vision of the universal revenue, it is deemed a tool to give individuals the means to support themselves and the security to retrain or try out new business ideas, as well as giving individuals more freedom in their choice of life. It could also reward and encourage the development of non-market or associative activities, such as caring for family members or volunteering.

If this issue goes beyond the traditional left-right divide, its partisans defend different visions of it. For right wing liberals establishing an UBI aims to replace and reduce all social security benefits. Milton Friedman, for whom this idea is a way of making the State less invasive in other people’s lives, first elaborated this version. The UBI should be kept minimaland would enable the minimal wage and social benefits to be eliminated. This would reduce social poverty, but also make the work market more flexible.

Critics argue that the expense of this scheme make it unfeasible and the creation of taxes area disincentive for those higher up the income ladder who will be funding it. Furthermore, some fear it will induce “passive citizenship”, devoided of anysense of contribution. Another source of difficulty lies in deciding which group, if any, of the population will benefit from this measure. If this measure gains interest, concrete policies will take time and effort in coming.

The implementation of such a bold and ambitious policy is t difficul because it requires funding. Hamon suggests creating taxes, recuperating the shortfall from tax avoidance and using the economies made by turning to green energy.

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EUROPA FAR BATTERE IL CUORE DELLA FRANCIA Il successo dei frondisti, la sconfitta di Valls e di Hollande

Di Daniele Reano Ancora una volta le carte della politica francese vengono rimescolate. Le sorprese arrivano dalle primarie della sinistra socialista: il candidato dato per vincente, il premier uscente Manuel Valls, è stato nettamente sconfitto da Benoit Hamon, impostosi con il 58% delle preferenze. Fino a poche settimane fa, egli era considerato poco più di un terzo incomodo nella sfida per la candidatura alla presidenza della gauche. “Questa sera la sinistra alza la testa e guarda al futuro: bisogna scrivere una nuova pagina della nostra storia”. Questa la dichiarazione di Hamon nel suo quartier generale, di fronte ai sostenitori, mentre la vittoria appariva sempre più chiara. Valls ha invocato l’unità della compagine socialista, sottolineando che Hamon è “ora il candidato della nostra famiglia politica” e aggiungendo: “Voglio augurargli buona fortuna per la sfida che ha di fronte”. Il quarantenne del centrosinistra francese candidato all’Eliseo ha alle spalle una lunga carriera nel PS, che lo ha visto non solo Ministro dell’Educazione, ma anche deputato europeo

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e consigliere regionale. È inoltre tra i principali leader dei frondisti, un gruppo di parlamentari dissidenti in seno alla maggioranza di governo, critici delle politiche di Francois Hollande, accusato di aver del tutto dimenticato il programma con il quale venne eletto Presidente. Fortemente ambientalista, tanto da proporre l’abbandono dell’uso del diesel entro il 2025, si è detto fiero di aver riportato nel dibattito pubblico i temi dell’ecologia. Sostiene la necessità di un reddito di cittadinanza per tutti i francesi e di una revisione della Revenu de Solidarité Active, una misura di sostegno ai redditi bassi, che porterebbe la quota massima fino a 600 euro mensili. Ha anche presentato un piano di assunzione di 40mila insegnanti nella scuola pubblica. Impegnandosi a eliminare la possibilità, per il governo, di fare ricorso alla ‘49.3’, un articolo della Costituzione che consente di bypassare la votazione in Parlamento di una proposta di legge ministeriale, si è detto favorevole all’eutanasia e alla legalizzazione della cannabis e contario allla pratica dell’utero in affitto. Alcune sue proposte sono più controverse e hanno dato vita a un vivace dibattuto: è il caso

della possibile tassazione dell’automazione nei supermercati e della completa abolizione della ‘loi travail’, la legge di riordino del mercato del lavoro fortemente voluta da Manuel Valls. Quest’ultimo ha ritenuto necessario presentarsi con proposte moderate per spostarsi al centro dello schieramento e per evitare un’emorragia di elettori verso Emmanuel Macron, anch’egli ex ministro di Valls candidatosi come indipedente. Per Hamon, invece, l’asse va spostato a sinistra e si deve tentare di impedire che i delusi da Hollande si rifugino nell’astensione o in voti di protesta. Le pedine sullo schacchiere delle presidenziali sembrano quindi muoversi ancora una volta. Il candidato del centrodestra François Fillon cerca di opporsi alle accuse seguite allo scandalo che ha colpito lui e la moglie Penelope per il sospetto di impieghi fittizi. Intanto, un sondaggio segnala che al primo turno arriverebbe in testa Marine Le Pen con il 25% dei consensi, seguita da Fillon in affanno al 22%, a sua volta tallonato da Macron al 21%. Hamon si posizionerebbe solo quarto con il 15%, superando tuttavia la sinistra radicale di Mélenchon, fermo al 10%.


NORD AMERICA DIVIDERE PER TORNARE GRANDI La presidenza Trump chiusa fra muri e ban

Di Alessandro Dalpasso I primi giorni di una nuova presidenza si caratterizzano, di solito, per una gestione attenta all’impatto mediatico delle decisioni prese. Il 45º presidente, Donald Trump, rompe con la tradizione anche sotto questo aspetto: ha già firmato 17 ordini esecutivi, toccando materie anche molto sensibili, come sanità, petrolio, aborto e commercio. Questo suo precoce attivismo l’ha portato a un tasso di gradimento, secondo l’agenzia Gallup, inferiore al 50% in soli 8 giorni (per restare in ambito GOP, Bush padre e figlio arrivarono a quel livello rispettivamente dopo 1.336 e 1.205 giorni e Reagan, a cui spesso Trump è stato accostato, dopo 727). È però sul tema dell’immigrazione che si sono scontrate maggiormente le opinioni di un Paese che, giorno dopo giorno, conferma di essere diviso a metà. I provvedimenti più discussi sono quello del muro di confine con il Messico e quello del cosiddetto Muslim Ban. È necessario ricordare che un muro già esiste. Si tratta della “barriera di Tijuana”, una spessa lastra metallica che percor-

re i 30 chilometri che dividono la città messicana e San Diego, una delle zone più trafficate della frontiera. Voluta e costruita sotto la presidenza Clinton, venne rinforzata considerevolmente nel 2005 (presidenza di G. W. Bush) con strutture, alcune fisse e altre mobili, che nei punti di maggior dispiegamento arrivano a coprire 3.000 chilometri. La maggioranza che approvò sia il progetto iniziale sia il suo implemento fu altissima e l’idea venne appoggiata da vari esponenti di spicco di area dem, tra cui Barack Obama stesso, che ai tempi era senatore dell’Illinois. La costruzione del muro al confine con il Messico non è un’idea originale del neo eletto Presidente, ma un semplice ampliamento di un programma voluto dalle amministrazioni precedenti. Così come non è “nuovo” il provvedimento che impedisce ai musulmani l’ingresso negli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, tuttavia, sono necessarie ulteriori e più precise distinzioni. Trump ha infatti dichiarato che “le [sue, nda] politiche sono simili a quelle di Obama nel 2011, quando bloccò per 6 mesi il rilascio dei visti per i rifugiati iracheni. I 7 Paesi citati [Siria, Libia, Iran, Iraq, Somalia, Sudan,

Yemen, nda] sono gli stessi che erano stati identificati […] come fonte di terrorismo”. Egli ha confuso però due misure effettivamente adottate, ma per ragioni diverse da quelle sottintese. La prima è legata a uno spiacevole fatto di cronaca di quell’anno: si scoprì che due rifugiati che erano arrivati da pochi mesi stavano pianificando di inviare fucili, missili Stinger e denaro in Iraq. In ogni caso, non è vero che successivamente fu impedito l’accesso ai cittadini iracheni: si procedette a una revisione dei criteri di ammissione e l’afflusso di rifugiati calò leggermente, ma non si interruppe mai del tutto. Anche il secondo provvedimento è riportato erroneamente, sebbene al ribasso. L’amministrazione Obama, l’ultima volta nel 2016, escluse infatti dal programma di esenzione del visto i residenti di ben 38 Stati. La misura però riguardava solo ed esclusivamente i cittadini di questi Paesi che, dal 2011 in poi (cioè dallo scoppio delle primavere arabe, con il conseguente rischio terrorismo) avessero viaggiato o soggiornato nei 7 Paesi indicati da Trump. Si voleva dunque evitare che essi raggiungessero con facilità il suolo americano.

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NORD AMERICA THE DONALD INAUGURA LA PRESIDENZA TRUMP Il discorso inaugurale del 45esimo Presidente USA

Di Federico Sarri Ha stupito tutti ancora una volta. Donald Trump si conferma il politico che abbiamo imparato a conoscere durante l’ultima campagna elettorale: semplice ma efficace. Il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America ha tenuto il proprio discorso inaugurale. Il suo è stato un address più corto di quello dei suoi predecessori (20 minuti circa), ma ha definito in modo netto l’approccio del tycoon newyorkese alla presidenza. Ad applaudirlo i supporters più convinti, la classe media scontenta dell’establishment di Washington, the Movement (così Trump ama chiamare i propri sostenitori). Il neo Presidente è riuscito a scaldarli, ma non troppo. Il confronto tra la folla accorsa per l’inaugurazione di Barack Obama e quella accorsa per il tycoon è impietoso, con una netta diminuzione delle sedie occupate dal 2012 a questa parte. È il segno di come Trump, almeno per ora, sia fonte di divisione nell’elettorato statunitense. Eppure, nonostante la moltitudine di sedie vuote, Trump non si è dato per vinto. E da guerriero quale si professa ha rispolverato tutti i temi che lo 6 • MSOI the Post

hanno accompagnato in campagna elettorale. Al centro della visione di Trump c’è l’America, un’America che con lui dovrebbe essere di nuovo “ricca, sicura e grande”. Il neopresidente ha una visione chiara del Paese, che ora si avvia a passi spediti sulla strada del protezionismo: “Compra americano, assumi americani”. Solo nuovi posti di lavoro e nuove infrastrutture saranno in grado di rilanciare gli Stati Uniti – ha spiegato. In politica estera la parola d’ordine rimane la stessa: isolazionismo. Ma Trump si è spinto oltre, dimostrando coerenza con quanto affermato in campagna elettorale e attaccando, ancora una volta, l’establishment politico di Washington. Si è presentato come un vero e proprio outsider, rivendicando con orgoglio la propria estraneità al mondo della politica (e il non aver mai occupato poltrone politiche). “Oggi non stiamo trasferendo il potere da un’amministrazione a un’altra, da un partito all’altro. - ha detto Trump - Oggi stiamo trasferendo il potere da Washington D.C. alle vostre mani, al popolo americano”. La sua presa di posizione anti-sistema indirizza la sua presidenza, che si prepara a essere,

almeno nei toni, simbolo e modello di populismo. Tale populismo mette al centro il popolo americano, scontento e arrabbiato per la ricchezza perduta (la quale difficilmente tornerà ai livelli pre-crisi economica) e che, prima di guardare ai diritti sociali e civili del proprio vicino, controlla quanti dollari gli sono rimasti nel portafoglio. Perché è con quelli che si mangia, in fondo. The Donald, così, è riuscito a costruire un personaggio che fa parlare di sé e lo ha portato direttamente sul palco di Capitol Hill: non un cambiamento di trucco, non un cambiamento di toni. È rimasto tale e quale a quello che si è presentato in campagna elettorale e che il popolo ha eletto Presidente, nonostante gli imbarazzi dovuti al suo passato e a qualche dichiarazione secondo alcuni troppo colorita. I prossimi mesi ci diranno chi è il vero Trump. Vedremo se egli intende mettere in pratica tutto quello che ha promesso e, in tal caso, scoprire come farà. I prossimi mesi saranno importanti anche per capire che cosa cambierà realmente (non solo nelle parole) nella politica statunitense. Ma una cosa è certa: The Donald non smetterà di stupire.


MEDIO ORIENTE SOCIAL JIHAD

Viaggio nel Califfato Virtuale, là dove prende forma una delle più concrete utopie del XXI secolo.

Di Jean-Marie Reure Le chiamavano ‘psy-ops’ e a volte capita ancora che un militare si lasci sfuggire questo termine. Ora si preferisce ‘IO’, Information Operations, più neutro, più accettabile. Le IO sono “l’uso integrato, durante operazioni militari, di mezzi di comunicazione di concerto con altre direttive operative, al fine di influenzare, ostacolare, sabotare o insinuarsi nel processo decisionale di un avversario dichiarato o potenziale, proteggendo contemporaneamente la propria autonomia di scelta”. È strano come questa formulazione risulti criptica, eppure esprima con estrema lucidità l’obiettivo di queste operazioni di informazione. Tuttavia, non sono la CIA, la NSA, altri servizi segreti o eserciti regolari i più competenti in materia. Lontani dall’apparente caos, dalla barbarie e dal degrado con cui li dipingono i media occidentali, gli uomini del Califfato sono degli esperti della comunicazione. Un’intellighenzia forte, funzionari formati e competenti, una rete efficace di tecnici e migliaia di spettatori sul web sono il marchio distintivo di uno jihad che non è improvvisato o rudimentale. Una IO richiede competenze tecniche, obiettivi precisi, una struttura che possa per-

seguirli e un sistema nel quale inserirsi. Generalmente le IO sono appannaggio dell’esercito, che ha i mezzi per portare a termine simili operazioni. Tuttavia Daesh ha dimostrato di avere delle capacità inaudite per un attore non governativo. Il sedicente Stato Islamico, fin dalla sua nascita nel 2014, è apparso abile nello sfruttare le IO a fini politici, primo fra questi dare risalto alle proprie azioni militari. Da manipolo di combattenti in una galassia di gruppi estremisti si è presto distinto come organizzazione con capacità militari e di governo. Eppure, all’inizio del 2014 il gruppo IS non controllava alcun territorio. Seconda caratteristica notevole è l’aver saputo convogliare da subito l’attenzione dell’Occidente su di sé, grazie a una virulenta politica di reclutamento di foreign fighters che ha fatto presa su una vasta rete di sostenitori “radicalizzati” e non direttamente collegati all’organizzazione. Prima ancora che un Califfato fisico se ne è creato uno Virtuale. Vera novità e punto di forza del Daesh è l’aver sempre ragionato sul lungo termine, con una strategia globale e una visione d’insieme della propria azione. Un piano operativo articolato su più tappe, con obiettivi definiti. Fine ultimo: riunire tutti i territori musulmani in un’unica entità, senza accettare compromessi.

Si possono raggruppare gli obiettivi a seconda del quadro operativo, come ha fatto l’Institute for Study of War: - sul territorio occupato: cooptare e incorporare la popolazione, mostrare efficaci attività di governo, dare un’idea di stabilità. - Nelle aree di espansione: dimostrarsi più efficaci di al Qaeda, reclutare famiglie e combattenti prima di mostrare la propria presenza su un dato territorio, intimidire i rivali, creare confusione nelle forze avversarie, dare idea di un’espansione incessante. - A livello internazionale: spingere verso una polarizzazione musulmani - non musulmani in Occidente, diffondere l’idea di un’illimitata capacità operativa, intimidire. - Sul web, per reclutare: diffondere la credenza in una guerra globale per un fine ultimo, radicalizzare la popolazione, incoraggiare l’iniziativa individuale. Obiettivi ambiziosi che richiedono una struttura forte, capace di definire delle priorità e coordinare il lavoro di numerose individui. Abu Muhammad al-Adnani era il vertice di questa Idra. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE PASSA LA RIFORMA COSTITUZIONALE IN TURCHIA In primavera il referendum popolare. Si teme la svolta autoritaria

Di Martina Scarnato La riforma costituzionale proposta dal presidente Recep Tayyip Erdoğan è stata approvata dal Parlamento il 21 gennaio. 339 su 550 i deputati a favore, quota necessaria per l’approvazione, ma non per scongiurare l’obbligo di passare attraverso un referendum: per evitarlo sarebbero stati richiesti almeno 367 voti a favore. Secondo la riforma, la Repubblica parlamentare turca diventerebbe una Repubblica presidenziale. La figura del Primo Ministro verrebbe abolita, ma probabilmente sarà sostituita da uno o due vicepresidenti. La riforma propone numerosi cambiamenti, ma per ora gli articoli più dibattuti sono il 6, il 7 e l’8, che prevedono una maggior concentrazione di potere nelle mani del Presidente della Repubblica. Tra i vari compiti, quest’ultimo avrebbe quello di nominare i Ministri, i vertici dell’esercito e dei servizi segreti, i rettori delle università e diversi dirigenti della pubblica amministrazione. Inoltre, il Presidente potrebbe rimanere in carica per due mandati di 5 anni ciascuno. Dunque, se la riforma passasse e Erdoğan fosse rieletto al termine del suo mandato, previsto 8 • MSOI the Post

per la fine del 2019, potrebbe rimare in carica fino al 2024 (anche se molti temono che il calcolo si azzeri e che egli possa governare fino al 2029). Con la riforma sarà anche modificata la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, che cambierà il suo nome in Consiglio dei Giudici e dei Magistrati e passerà dai 22 membri attualia 13 (3 dei quali scelti direttamente dal Presidente), sotto la presidenza del Ministro della Giustizia. Chi critica la riforma ha paura di una probabile svolta autoritaria del Paese. In particolare, Bertil Emarah Oder, professoressa di diritto costituzionale della Koç University di Istanbul, intervistata da al-Jazeera, teme per l’indebolimento del sistema di checks and balances che dovrebbe caratterizzare un sistema democratico. Tale sistema permette che i tre poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) si limitino reciprocamente, evitando quindi una concentrazione di potere. “Secondo la riforma,” – afferma la professoressa – “il candidato alla presidenza potrà decidere chi potrà presentarsi nella lista dei candidati del suo partito, controllando così il suo operato nel Parlamento e il suo programma”.

Secondo Mehmet Uçum, principale consulente giudiziario di Erdoğan, la riforma non indebolirà invece il sistema di checks and balances, poiché, anche se il potere esecutivo e legislativo saranno più vicini, “saranno comunque il riflesso della volontà popolare”. Alcuni esperti hanno sottolineato come la riforma abolisca il diritto del Parlamento di interpellare il governo sulle politiche attuate, esprimendo, eventualmente, un voto di fiducia. Uçum, tuttavia, ha ribattuto che tale diritto non è assolutamente necessario in un sistema in cui comunque il Presidente è direttamente eletto dal popolo. Anche riguardo alla limitazione dell’indipendenza del potere giudiziario, lo stesso Uçum ha affermato che la riforma rende anzi tale potere più forte, in quanto i funzionari saranno eletti. In ogni caso, soltanto il referendum, che si terrà verosimilmente a marzo o aprile, potrà confermare la riforma. I sondaggi dicono che solo il 43% della popolazione sarebbe favorevole alla riforma, a fronte della maggioranza assoluta richiesta. Tuttavia, affinché la riforma passi, bisognerà che almeno il 50% più uno degli aventi diritto voti a favore.


RUSSIA E BALCANI POROSHENKO METTE IN GUARDIA EUROPA E USA Le sanzioni alla Russia “unico metodo efficace” per la pace

Di Lorenzo Bardia

nell’immediato. May ha però tenuto a precisare che le sanzioni alla Russia continueranno fino a quando Putin non darà applicazione agli Accordi di Miskdel 2014.

Il Presidente ucraino ha criticato le recenti mosse della diplomazia di Bruxelles e ha dichiarato alla stampa che ulteriori slittamenti nel piano di integrazione con l’Unione Europea minerebbero la fiducia degli ucraini verso l’Europa, esattamente l’obiettivo che avrebbe in mente la Russia.

Il comportamento di Trump è da leggersi in un’ottica di prudenza o come volontà di non contraddire l’alleato britannico? Trump sembra aver abbandonato la sua cautela nel corso di una recente intervista al Financial Times, proponendo una riduzione delle sanzioni alla Russia qualora Mosca si dimostri un alleato e affidabil contro i militanti del sedicente Stato Islamico e nel raggiungimento di altri obiettivi di importanza primaria per Washington.

Immediata la risposta di Kiev. Poroshenko, respingendo la proposta d’intesa, ha così dichiarato: “Abbiamo goduto di un supporto trasversale molto forte negli Stati Uniti nel corso degli ultimi tre anni. Non vediamo alcuna ragione perché questa situazione debba cambiare. Non vediamo alcuna connessione fra i possibili progressi in Medio Oriente e la situazione ucraina”. Il Presidente ucraino, a proposito delle sanzioni imposte a Mosca a partire dal 2014 da parte degli USA e dell’UE, ha poi ribadito che esse appaiono come l’unico metodo efficac e per motivare la Russia e il presidente Putin a sedere al tavolo negoziale.

L’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America non sembra possa facilitarei rapporti tra l’Ucraina e l’Occidente. Il Presidente neoeletto, infatti, ha manifestato più volte grande ammirazione nei confronti del presidente russo Vladimir Putin. Durante l’incontro con il primo ministro britannico Theresa May, Trump ha sostenuto che le sanzioni, imposte in seguito all’annessione della Crimea e al supporto russo ai separatisti dell’Ucraina orientale, siano un tema da affrontare, ma non

Questi temi sono stati affrontati nel primo colloquio telefonico tra i due Presidenti. A rivelare il contenuto della prima telefonata di lavoroè statolo stesso Putin, cheha posto l’attenzione sul rilancio delle relazioni bilaterali e sulla lotta al nemico comune: il gruppo IS in Siria. Nel resoconto del dialogo di lavoro, fa discutere la nota che sostiene che i due Presidenti si trovino “nello spirito favorevole a restaurare e migliorare la cooperazione USA-Russia, anche nel campo dell’economia e degli scambi”.

Intanto, le voci dei favorevoli a un riavvicinamento tra Russia e Unione Europea si moltiplicano. Romano Prodi, ex Premier italiano ed ex Presidente della Commissione Europea, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa ha dichiarato che, per prendere in contropiede Trump, “occorre reagire in fretta, togliendo immediatamente le sanzioni alla Russia. Di questo sono fortemente convinto. Puoi sacrificarti per politiche solidali, ma se la solidarietà non c’è più non ha senso perseverare”. Kiev, nell’attesa, trema.

Nella sua ultima settimana di mandato da vicepresidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden ha effettuato una visita ufficiale in Ucraina. In questa occasione, il presidente dell’Ucraina Petro Poroshenko non ha lesinato attacchi nei confronti dell’Unione Europea.

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RUSSIA E BALCANI MOSCA VUOLE DEPENALIZZARE VIOLENZA DOMESTICA Storie di depenalizzazione della violenza domestica in Russia

Di Elisa Todesco Uno dei piatti tipici più famosi della Russia e dell’Est Europa sono i ‘pirozhki’, morbidi e caldi fagottini ripieni di carne e/o verdure. Il tempo di preparazione dei pirozhki è abbastanza lungo: per gustarne uno sono necessarie almeno due ore. Due ore durante le quali, secondo RIA Novosti, l’agenzia di informazione statale russa, almeno tre donne perdono la vita fra le mura di casa, mentre un numero drammaticamente più alto subisce violenze fisiche e/o verbali. In Russia il 40% dei crimini violenti è commesso all’interno del nucleo familiare, oltre 600.000 donne sono vittime di violenza domestica e si contano almeno 12.000 femminicidi l’anno. La situazione è talmente grave da aver determinato, due anni fa, l’intervento delle Nazioni Unite. All’epoca fu sollecitata l’introduzione di nuove leggi e fu richiesta la creazione di rifugi per donne vulnerabili. In seguito a ciò, lo scorso luglio era stato emanato un nuovo emendamento che, per la prima volta nella storia della Russia, rendesse la violenza domestica 10 • MSOI the Post

perseguibile non solo in sede civile, ma anche dal punto di vista penale. Questo cambio di rotta, tuttavia, non è stato accolto con favore unanime. In particolare si è opposta Elena Mizulina, senatrice dell’ala conservatrice a sostegno dei “valori tradizionali”, già famosa per la legge sulla propaganda gay, che vieta la propaganda di relazioni sessuali non tradizionali. La Mizulina ha etichettato immediatamente questa legge come “anti-famiglia”, identificandola come un’intromissione indebita negli affari privati da parte dello Stato. Quindi, insieme alla collega Olga Batalina, ha lavorato per la creazione di una contro-proposta, la cosiddetta ‘slapping law’, passata anche in terza lettura presso la Duma. In che cosa consiste la slapping law? La legge, che dovrebbe regolamentare i rapporti genitori-figli e moglie-marito, si rifà ad alcuni principi ispiratori esternati dalla stessa Mizulina:”Non si può pretendere che le persone vengano imprigionate per due anni ed etichettate come criminali per il resto della loro vita solo per uno schiaffo!”, oppure: “Nella tradizionale cultura familiare russa, la relazione genito-

ri-bambini è basata sull’autorità dei genitori. La legge dovrebbe supportare questa tradizione.” Più in concreto, la legge prevede la depenalizzazione per le forme di violenza lievi, ovvero quelle che non implichino il ricorso ad assistenza medica/ ospedaliera e che non impediscano alla persona di recarsi al lavoro. Il supporto a questa legge è trasversale; non ultima, anche la Chiesa russa ortodossa ha espresso il suo favore, ribadendo l’aderenza ai principi contenuti nel Domostroj, un manuale centenario che prescrive rigide regole di comportamento e richiede assoluta sottomissione al capo famiglia. Ma non sono mancate le opposizioni. In particolare, la giornalista Olga Bobrova ha sottolineato le profonde ferite psicologiche che gli abusi lasciano sulle loro vittime. Allo stesso tempo, oltre 175.000 persone hanno firmato una petizione lanciata da Alena Popova, nella quale si chiede alla Duma di rivedere la legge. Non è ancora chiaro se la Duma si farà convincere dalle richieste di questa parte della popolazione o se schiaffeggerà metaforicamente queste donne per obbligarle al silenzio.


ORIENTE DIBATTITO SULLA LEGGE DI BLASFEMIA IN PAKISTAN Aperta ufficialmente la discussione in

Di Virginia Orsili Il senatore pakistano Farahtullah Babar ha annunciato che la commissione speciale del Senato sui diritti umani è ufficialmente pronta ad aprire un dibattito sulla legge di blasfemia. Secondo le dichiarazioni del Senatore, questa sarebbe la prima volta dopo molti anni che una commissione parlamentare presenta una proposta formale per limitare l’abuso di tale legge, la quale prevede la condanna a morte o la reclusione a vita per chiunque sia accusato di vilipendio al Corano o al profeta Maometto. Nonostante il forte dissenso dei partiti conservatori, Babar in realtà non mira a un radicale sconvolgimento del contesto attuale, ma si ripropone di individuare un sistema punitivo più adatto, previa verifica della fondatezza delle accuse. Il dibattito ha come fine non tanto l’abolizione della legge, quanto l’inserimento di un emendamento che permetta di controllarne l’abuso e la strumentalizzazione. Un aspetto importante della legge è che l’accusa di blasfemia non deve essere provata: appare evidente come questo abbia permesso, nel corso degli anni, il suo sfruttamento per fini diversi da quelli previsti. Diversi

critici, inoltre, hanno osservato che l’abuso si è verificato tanto in controversie private quanto in un ambito politico e religioso più ampio. Ma la minaccia va oltre il contesto giuridico. Sempre più spesso, infatti, simili conflittualità si risolvono in omicidi e rapimenti perpetrati da estremisti jihadisti e sostenitori dei partiti di destra. All’inizio del mese cinque attivisti per i diritti umani sono scomparsi. I cinque uomini erano accomunati dalla battaglia a favore della laicità e si erano più volte schierati contro l’intolleranza religiosa. A tre settimane dalla loro scomparsa, molti interventi sui social network li accusano di blasfemia. La strumentalizzazione, inoltre, assume anche una funzione complementare. Se, da una parte, la legge appare un mezzo privilegiato per far uscire di scena elementi scomodi, dall’altra garantisce il consenso della popolazione alla destra conservatrice. Nel 2011, il governatore della provincia del Punjab Salman Taseer venne assassinato dopo aver tentato di proporre una revisione sulla legge: a colpirlo fu una delle sue guardie, Mumtaz Qadri. Questi, dopo essere stato processato lo scorso anno, è stato accolto dalla

Senato

popolazione pakistana come un eroe ed è divenuto oggetto di idolatria post mortem: la sua salma è conservata al’interno di un tempio costruito in suo onore. Ayesha Siddiqa, analista del sistema militare pakistano, ha affermato che “la legge di blasfemia è la loro garanzia del supporto da parte delle masse, supporto che ora viene consolidato dal simbolo del tempio di Mumtaz Qadri.” La legge di blasfemia, ereditata nel 1960 dall’Impero britannico, è stata mutata nel 1986 dal generale Ziaul-Haq per ottenere consensi politici e ha assunto la forma che mantiene tuttora. Dagli anni ‘90 ad oggi sono state almeno 65 le vittime uccise in nome di tale legge e i diversi tentativi di revisione hanno incontrato un rifiuto. Ad oggi, data la vasta presenza di gruppi jihadisti estremisti, è impossibile abrogare la normativa, ma, come osserva il domenicano padre James Channan, responsabile del Peace Center a Lahore: “La legge ha causato immani sofferenze e morte di innocenti. La politica e la società pakistana abbiano un sussulto di etica e di responsabilità. Cambiare quella legge è essenziale per la giustizia e lo Stato di diritto nella Nazione”. MSOI the Post • 11


ORIENTE MYANMAR, TRA NOBEL PER LA PACE E CRISI UMANITARIE Il difficile caso dei Rohingya all’epoca di Aung

Di Carolina Quaranta A scatenare l’indignazione mondiale è stata la fotografia del corpo senza vita di Mohammed Shohayet, riverso nella sabbia sulle rive del fiume Naf, in Myanmar. Insieme alla sua famiglia cercava di sfuggire alle persecuzioni di cui lui e il suo popolo da diverso tempo sono vittime. Con questa immagine il caso dei Rohingya è stato portato sotto i riflettori dell’attenzione mediatica. Negli ultimi due mesi, le violenze ai danni del popolo Rohingya per mano dell’esercito si sono intensificate a causadell’uccisione di 9 poliziotti birmani da parte della minoranza ribelle. Da allora, violenti e ripetuti attacchi si sono riversati sui villaggi nello Stato del Rakhine, una lingua di terra stretta tra il Myanmar e il golfo del Bengala. Nel solo mese di gennaio, 65.000 persone sono state costrette a scappare dai propri villaggi, dirigendosi verso il vicino Bangladesh. È dal 1948, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, che il popolo subisce atti di discriminazione e delegittimazione politica: i vari governi alternatisi in Myanmar non hanno fatto altro che violare sistematicamente i diritti di cittadinanza e 12 • MSOI the Post

circolazione, tacendo e implicitamente legittimando eccidi di massa, arresti arbitrari, stupri, distruzione e confisca dei villaggi. Oggi, 120.000 Rohingya vivono in 36 campi IDPs (Internally Displaced Persons); chi continua a risiedere nei villaggi patisce la mancanza di cibo, di acqua e di cure mediche e vive nella costante paura dell’ennesimo, immotivato attacco da parte dei militari. In caso di malore non ci si rivolge agli ospedali: il timore nei confronti del governo è diffuso a tal punto che si diffida anche delle istituzioni mediche. Fuggire dai villaggi, sorvegliati militarmente, è spesso impossibile; nel caso di visite mediche occorre l’autorizzazione del governo, ma è improbabile che la richiesta venga accolta in tempi utili. A dicembre, 23 personalità – tra cui premi Nobel ed ex ministri di vari Paesi – hanno recapitato una lettera aperta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, criticando la gestione della crisi da parte di Aung San SuuKyi e chiedendo un suo intervento; tra i firmatari, anche Romano Prodi e Emma Bonino. Amnesty International si è mossa denunciando le forze dell’esercito birmano, responsabile di stupri, torture, saccheggi e incendi di interi villaggi; l’a-

San

SuuKyi

genzia ONU per i diritti umani ha definito gli abusi contro il popolo Rohingya come crimini contro l’umanità. Dal canto suo, la leader birmana risponde con il più assordante dei silenzi. Nonostante SuuKyi non abbia rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale, una serie di accordi ha iniziato a prendere forma tra Myanmar e Bangladesh. Il primo ministro bengalese Sheikh Hasina ha così incontrato Kyaw Tin, viceministro agli Affari Esteri, chiedendo di riaccogliere entro i confini birmani tutti i rifugiati Rohingya. Nelle giornate di domenica 29 e lunedì 30 gennaio tre membri dell’Advisory Commission on Rakhine State, creata dallo Stato birmano per trovare una soluzione al problema, hanno visitato alcuni campi improvvisati dai rifugiati nel territorio del Bangladesh: la delegazione ha lo scopo di approfondire la realtà dei profughi. Farà poi ritorno a Dacca, dove riporterà i dati al ministro degli Esteri Mahmood Ali. Secondo un’indiscrezione, queste operazioni mirerebbero a evitare che il Bangladesh ponga il Myanmar in cattiva luce riguardo alla questione Rohingya in occasione di meeting internazionali.


AFRICA SCELTA AFRICANA

La politica estera della Germania in Africa

Di Guglielmo Fasana Il 2017 sarà un anno impegnativo per la politica tedesca: il Paese si avvia verso le elezioni federali del 24 settembre, nelle quali Angela Merkel cercherà di conquistare un quarto mandato, affrontando la rapida avanzata dei movimenti populisti. Sebbene la politica estera, in campagna elettorale, sia tradizionalmente un oggetto di secondaria influenza, quest’anno potrebbe invece rivelarsi un fertile terreno di scontro tra i candidati. La partecipazione alla coalizione anti-IS, la crisi dei rifugiati e la minaccia concreta del terrorismo di matrice islamica sono solo alcuni dei temi caldi intorno ai quali si giocherà la partita elettorale. In particolare, sarà proprio l’Africa a occupare un posto d’onore nell’agenda della futura politica estera tedesca. La Germania, nell’anno della sua presidenza del G20, cominciato all’inizio di dicembre 2016, si è detta determinata a mettere in moto un meccanismo che rafforzi lo sviluppo economico del continente. È nei piani di Angela Merkel un forum multilaterale per perorare la causa dello sviluppo e contribuire a creare opportunità concrete di investimento e di

crescita per un’area del mondo fino a oggi rimasta ai margini dello scacchiere internazionale. I dettagli dell’operazione verranno rivelati con tutta probabilità in un policy document che sarà presentato al summit del G20 di Amburgo, nel luglio 2017. Inoltre, il ministro dello Sviluppo Gerd Mueller ha da poco annunciato il lancio dell’attesissimo Marshall Plan per l’Africa. Si tratta di un piano tutto europeo, che propone un nuovo livello di equa cooperazione tra i due partner continentali. Il fine è favorire un maggior grado d’interdipendenza e, seppur non dichiaratamente, cercare di limitare la sempre crescente influenza che partner orientali come Cina e Giappone esercitano sulle Nazioni africane tramite un flusso inesauribile di capitali. Si cercherà di spostare il dialogo su temi quali l’istruzione, la salute, le politiche ambientali e lo sviluppo d’impresa. Purtroppo, però, non saranno di natura esclusivamente economica le sfide che la Germania dovrà affrontare nel corso del 2017. Recentemente i soldati dell’esercito federale hanno lasciato l’Europa per andare in Mali a rinforzare la missione dell’ONU

MINUSMA (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali), iniziata a seguito di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza risalente al 2013. Nel rivolgersi al Bundestag, il ministro della Difesa Ursula von der Leyen ha sì evocato il ruolo chiave dell’operazione nel mantenimento della stabilità nell’Africa occidentale, ma ha anche lanciato all’assemblea un avvertimento sulla sua pericolosità. Infine, sarà il lontano passato coloniale a ripresentarsi, a più di 110 anni di distanza, alla porta dei diplomatici tedeschi. Risale al 1904 l’ordine di sterminio delle popolazioni autoctone e ribelli della Namibia, redatto e firmato dall’allora comandante delle truppe imperiali in Africa Lothar von Trotha,. I discendenti delle popolazioni dell’etnia Herero hanno presentato, nel dicembre 2016, una formale richiesta di risarcimento alla Germania per quello che viene definito un genocidio da molti storici e analisti. Toccherà ancora una volta alla leadership far luce sugli errori del passato, sanare le ferite ancora aperte e aprire un nuovo capitolo nelle relazioni bilaterali tra le due Nazioni.

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AFRICA LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

La crisi tra Gambia e Senegal giunge a una conclusione pacifica

Di Fabio Tumminello Giovedì 19 gennaio le truppe senegalesi hanno attraversato il confine con il Gambia, ponendo le basi per un conflitto che avrebbe potuto coinvolgere anche Ghana e Nigeria, le quali si erano già dichiarate pronte all’intervento armato. Ma perché il Senegal ha preso questa decisione dalle ripercussioni potenzialmente esplosive per tutta la regione? Lo scorso 1° dicembre il presidente uscente del Gambia, Yahya Jammeh, ha perso le elezioni a favore di Adama Barrow, leader dell’opposizione, accettando il risultato delle urne e dichiarandosi pronto a collaborare con il suo successore. Le modalità pacifiche della sconfitta di Jammeh, in carica dal 1994 in seguito a un colpo di Stato militare, rappresentano un evento raro in un continente in cui le transizioni di potere sono spesso accompagnate da scontri e violente proteste. L’iniziale ottimismo è però presto svanito: Jammeh ha infatti rifiutato di cedere il posto al suo successore, dichiarando di voler attendere l’esito del ricorso presentato

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alla Corte Suprema in merito alla regolarità delle elezioni. L’aumento delle tensioni e la lentezza della Corte, che avrebbe potuto impiegare mesi per pronunciarsi, rischiavano di lasciare il Paese in una situazione di stallo e di profonda crisi politica, acuita dallo stato di emergenza dichiarato dallo stesso Jammeh.

Il braccio di ferro tra i due Paesi si è parzialmente risolto nella giornata di sabato 21 gennaio, con la sostanziale resa di Jammeh e grazie alla mediazione dei capi di Stato di Guinea e Mauritania. L’ex Primo Ministro gambiano ha dichiarato che con questo passo indietro vuole “favorire la pace e il bene del Paese”.

Conseguenza diretta di questa situazione di instabilità è stato un autentico esodo di gambiani (quasi 26.000, secondo le stime dell’ONU), che si sono diretti verso il Senegal per sfuggire alle misure repressive messe in atto dal Presidente uscente nei confronti dei membri dell’opposizione.

In realtà, la situazione non è ancora del tutto risolta. Adama Barrow, che ha prestato giuramento nell’ambasciata gambiana a Dakar, è formalmente il Presidente del Gambia, ma si trova ancora in Senegal, in attesa che la situazione a Banjul si raffreddi.

Il primo ad attivarsi per sbloccare la situazione è stato proprio il Senegal, che ha inviato le sue truppe come parte di una missione della CEDEAO, la Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale, di cui fanno parte anche Ghana e Nigeria, oltre allo stesso Gambia. Anche le Nazioni Unite sono intervenute, approvando una Risoluzione con cui si vuole promuovere la conciliazione tra le due parti e la fine delle tensioni.

Jammeh, invece, fuggito dopo alcuni giorni con più di 10 milioni di dollari e svariati beni di lusso, sta cercando asilo politico in Guinea. Il Paese, però, non è disposto ad accordargli questo privilegio, perché vuole evitare contrasti con gli altri Stati del CEDEAO e con le stesse opposizioni interne. Il presidente dell’opposizione guineana Andres Esono Ondo ha dichiarato che il governo in carica risponderà “di tutto ciò che potrebbe accadere” fintanto che Jammeh resterà nel Paese.


SUD AMERICA SEMPRE MENO DIVERTENTE

Dopo un anno l’ex comico, Presidente del Guatemala, Morales si confronta con un rapido declino

Daniele Pennavaria Il 14 gennaio 2016 Jimmy Morales assumeva la carica di 50° Presidente della Repubblica di Guatemala, succedendo alla presidenza ad interim di Alejandro Maldonado Aguierre. La sua fama in tutta la Nazioneè essenzialmente legata alla sua precedente carriera di comico, ma già dal 2011 entra in politica, candidandosi come sindaco nella città di Mixco. Il passaggio al Fronte di Convergenza Nazionalista, di cui diventa segretario nel 2013, lo porta a concorrere alle presidenziali del 2015. Benché il partito sia di orientamento conservatore e nazionalista, la mossa piace all’elettorato, probabilmente in cerca di una discontinuità con la precedente classe politica. Lo slogan usato durante la campagna elettorale, “Né corrotto, né ladro”, ha riscosso un certo successo, cavalcando i diffusi sentimenti populisti di un elettorato che guardava soprattutto alla necessità di un volto nuovo. I risultati, però, non sono stati finora dei più incoraggianti. In questo primo anno non sono stati rilevati miglioramenti in campo economico e anche nell’ambito sociale sono ben po-

chi i traguardi raggiunti, malgrado le promesse fatte da Morales all’inizio del suo mandato. Fra i pochi risultati pubblicizzati dal governo, l’abbassamento del numero di omicidi per ogni 100.000 abitanti, calcolato dalla Prefettura di Pianificazione Strategica e di Sviluppo Istituzionale (Jepedi nella sua sigla spagnola). Il valore rimane comunque tristemente alto (27,3) e in continuità con il macabro primato della regione, benché nell’ultimo anno si sia abbassato di due punti. Anche l’Istituto Nazionale di Scienze Forensi rileva nelle sue pubblicazioni un miglioramento nel funzionamento delle istituzioni legate agli atti di violenza, dal sistema giudiziario a quello delle forze dell’ordine. Sono però molti i detrattori del governo di Morales. Le opposizioni interne sono state critiche con la sua inesperienza, inizialmente preferita dall’elettorato alla sicura corruzione dei candidati proposti finora, e non hanno perso occasione per colpire i punti scoperti delle limitate politiche implementate dall’esecutivo. Un esempio è la brutta figura del Presidente a settembre, quando si addormentò durante la riunione per la presentazione del bilancio del 2017. Sentenziando che “la relazione presidenziale di Jimmy

Morales potrebbe stare in un tweet, perché non ha fatto niente”,Mario Taracena, presidente del Congresso del Guatemala, riassume la critica alla mancanza di risultati concreti ottenuti finoradal governo. Quello che sembra un colpo di grazia all’immagine del Presidente è arrivato nelle prime settimane del 2017,con l’arresto del fratello, Sammy Morales, e l’accusa al figlio, José Manuel, per un caso di corruzione legato alla gestione di fatture false. Il Presidente non sembra per ora coinvolto direttamente, ma il fatto che lo siano alcuni membri della sua cerchia stretta è per lui quasi una condanna. Alla partenza, un anno fa, la popolarità di Morales era dell’82%. A fine estate era intorno al 50%. Oggi è arrivata al 19%, come conclusione di una parabola discendente. D’ora in poi, la strada può essere solo in salita. Morales è una figura che sembrava creata apposta per vincere le elezioni, ma che non ha mai realmente convinto riguardo a tutto quello che avrebbe dovuto fare dopo per un Paese che ha davvero bisogno di cambiare il suo sistema politico ed istituzionale.

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SUD AMERICA LA FINE DI EL CHAPO

La notizia dell’estradizione del narcotrafficantemette fine al suo impero

Di Elisa Zamuner Il 19 gennaio Joaquìn Guzmán Loera, uno dei narcotrafficanti più potenti del mondo, conosciuto come El Chapo, è stato estradato e consegnato al governo degli Stati Uniti. Il boss messicano dovrà essere processato da 6 diversi tribunali federali e sulla sua testa pendono 17 capi d’imputazione. Figlio di contadini, Guzmán iniziò a lavorare nel mondo della droga già da adolescente e in poco tempo riuscì a diventare il membro di spicco del cartello di Sinaloa, dal nome dello Stato messicano di cui è originario. L’organizzazione acquistava cocaina ed eroina in Colombia, Perù, Bolivia ed Afghanistan, per poi trasportarle e rivenderle in almeno altri tre continenti grazie a una rete capillare di intermediari. Fu arrestato per la prima volta in Guatemala nel 1993; dopo 7 anni di detenzione riuscì a evadere nascondendosi in un furgoncino della lavanderia. Nei 13 anni successivi El Chapo, in uno stato di perenne latitanza, ha esteso e affermato il suo potere, ingaggiando sanguinose lotte con altri cartelli messicani e di16 • MSOI the Post

ventando così uno degli uomini più pericolosi del mondo, con un patrimonio che, secondo alcuni analisti, è arrivato a eguagliare quello di un altro famosissimo narcotrafficante, Pablo Escobar. Nel 2014 viene catturato nuovamente e portato nel carcere di massima sicurezza “El Altiplano”. Dopo circa un anno fugge un’altra volta: la rocambolesca evasione avviene mediante un tunnel sotterraneo lungo più di un chilometro, utilizzando una moto agganciata a un binario. Le modalità della fuga e l’estrema disinvoltura con cui è stata attuata hanno attirato l’attenzione mediatica di tutto il mondo. Tuttavia, il fascicolo della detenzione del narcotrafficante all’interno del carcere è stato classificato come riservato e non è quindi possibile sapere se e a quali trattamenti cautelari e correttivi sia stato sottoposto. L’8 gennaio 2016 El Chapo è stato catturato per l’ultima volta a Los Mochis, nello stato di Sinaloa; l’arresto è arrivato dopo la famosa intervista con Sean Penn, che ha messo polizia ed esercito sulle sue tracce. Guzmán è così tornato a El

Altiplano, ma a Maggio è stato trasferito nel centro federale di riadattamento sociale di Ciudad Juarez, nello stato di Chihuahua. L’annuncio dell’estradizione è stato dato dal Ministero degli Esteri messicano dopo che la Corte Suprema del Messico ha respinto i ricorsi presentati dalla difesa di Guzmán. La notizia è arrivata nel giorno in cui alla Casa Bianca si è insediato Donald Trump; alla luce di ciò, la consegna del capo del cartello di Sinaloa è apparsa a molti come un tentativo di ammorbidire le relazioni tra i due Paesi, rese difficili dalle intenzioni del Presidente eletto in materia di immigrazione e di rapporti economici. L’accaduto è stato comunque accolto con stupore: molti in Messico erano infatti convinti che El Chapo non sarebbe mai stato estradato, perché negli anni ha corrotto molti politici e magistrati, arrivando anche a finanziare le campagne elettorali di alcuni governatori locali piuttosto influenti. Molti membri dell’élite politica messicana temono perciò che il narcotrafficante possa rivelare queste informazioni di fronte al giudice.


ECONOMIA HTC SULL’ORLO DEL BARATRO? Un 2015 veramente drammatico per il gruppo asiatico: sarà la fine?

Di Edoardo Pignocco D: “HTC fallisce quest’anno?” R: “Sicuramente sì.” D: “L’HTC 11 non potrebbe essere in grado di risollevare l’azienda dalla crisi?” R: “Probabilmente no, non basta.” Questo era un dialogo standard nel 2015 sul caso HTC, gruppo taiwanese produttore di telefoni cellulari di nicchia. Tale leit motive deriva dal fatto che è da qualche anno che l’azienda asiatica fatica a vendere il suo prodotto a causa di un mercato, quello della telefonia mobile, altamente concorrenziale. Per avere successo serve, in linea generale, un giusto mix di politiche aziendali, fra cui la correlazione tra la qualità del dispositivo e il prezzo. HTC ha, da sempre, adottato una politica di differenziazione, posizionando, dunque, il prodotto a prezzi molto elevati rispetto alla concorrenza. Ma la qualità, in particolar modo degli HTC m9 e 10 è stata all’altezza? Secondo i suoi compratori più esigenti, no. Cerchiamo allora di analizzare, tramite una lettura veloce ma diretta del bilancio consolidato 2015, la drammatica situazione del gruppo HTC. Il punto di partenza è l’analisi del fatturato, ovvero confrontare il flusso della grandezza tra 2015 e

2014, rispettivamente, 117 e 175 miliardi (dati espressi in dollari taiwanesi): si può, dunque, constatare una variazione negativa del 33%. Se prendessimo come riferimento il 2012, potremmo notare uno scostamento addirittura del 57%. Tali dati confermano con certezza lo scarso appeal che hanno avuto gli smartphone di Taiwan. Tuttavia, la questione più grave è il fatto che il risultato della gestione operativa, ovvero il margine di guadagno che HTC raggiunge con la sua attività core, la produzione di cellulari, non esiste, anzi è pesantemente negativo. Con una perdita della sola gestione tipica di -13.5 miliardi, la situazione non può certo considerarsi rosea. Se rapportiamo tale valore con il 2012, otteniamo una variazione del -192%. Tale situazione, tendenzialmente, è sintomo di sicuro fallimento, in quanto il margine operativo serve a sostenere tutti gli altri fattori aziendali, come, per esempio, i costi di ricerca e sviluppo, di marketing, gli oneri finanziari, gli affitti passivi e le imposte. Di conseguenza, le domande sopracitate trovano fondamento, dal momento che nessuno, con un prospetto di bilancio così spettrale, investirebbe

in HTC. Inutile ricordare che, ovviamente, le azioni del gruppo si sono svalutate tantissimo nel 2015. Ma non basta, andiamo a vedere le attività e le passività correnti di HTC. Per “correnti” si intendono quelle attività/ passività legate al ciclo operativo, il quale inizia con l’acquisto delle materie prime e termina con l’incasso della vendita. Gli investimenti, al netto della cassa, sono pari a 32 miliardi, di cui ben 15 di magazzino: questo è un altro indizio che conferma quanto il prodotto finale non sia piaciuto ai compratori. I finanziamenti netti, invece, ammontano a 42 miliardi. Ciò significa che il processo di trasformazione non è per nulla redditizio. Ma allora come ha fatto HTC a rimanere in piedi? La risposta è da ricercare nel capitale proprio: infatti, HTC ha un patrimonio enorme, pari a 64 miliardi. Esso è così consistente per due motivi: molti degli utili passati sono stati trattenuti nell’impresa; la struttura di governance è stabile, ma aperta a molti fornitori di capitale. Di conseguenza, grazie all’unione di questi due fattori, a prescindere da un futuro successo dell’HTC 11, l’azienda di Taiwan è salva e può continuare a produrre smartphone di nicchia.

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ECONOMIA IAS/IFRS: ALLA CONQUISTA DEI BILANCI EUROPEI L’ombra dei principi contabili internazionali si espande sempre di più

Di Martina Unali Dal 2005 è cambiata la modalità di redazione del bilancio per le imprese quotate, le banche, le assicurazioni, le società di intermediazione finanziaria e tutte le imprese che emettono strumenti finanziari tra il pubblico. I principi contabili nazionali, i local GAAP, stanno facendo sempre più spazio, infatti, ai principi contabili internazionali, gli IAS/IFRS, in virtù di una tanto ricercata armonizzazione di bilancio, in favore di una migliore comparabilità e comprensibilità delle imprese europee. Davanti al loro nome, non solo tutti gli studenti di Economia, ma anche i professionisti stessi in materia contabile, tremano. Molto complessi, molto distanti dalla realtà contabile italiana, oltremodo tecnici. Per comprenderli in modo efficace, non è sufficiente avere solo buone conoscenze in campo contabile e fiscale: infatti, i nuovi principi internazionali richiedono nozioni di finanza e matematica finanziaria, materie generalmente sconosciute ad un commercialista medio. Non è un caso che gli international GAAP siano la nuova frontiera della concorrenza: chi non li conosce, infatti, non potrà 18 • MSOI the Post

mai pretendere di entrare a far parte della cerchia delle grandi imprese. Inoltre, gli IAS/IFRS sono la soluzione dei tecnici esperti per combattere la democratizzazione culturale, nel campo della redazione del bilancio resa possibile da Internet. Le imprese esigono conoscenze sempre più approfondite dai propri consulenti, in quanto più informate e più consapevoli dello scenario a cui devono riferirsi. È doverosa, dunque, una considerazione molto importante. Probabilmente, la piccola ditta individuale non sarà mai obbligata a redigere un bilancio così complesso, perché non ci sarebbe nessun beneficio informativo. Tuttavia, anche se il 95% delle imprese italiane continuerà ad applicare gli italian GAAP, la vera domanda è: quanto c’è ancora di italiano nei principi contabili nazionali? Per raggiungere quell’agognata armonizzazione di bilancio, non è necessario sostituire i principi nazionali. La soluzione è molto più semplice: adeguare, o meglio stravolgere, i vecchi principi italiani e renderli più nuovi, più internazionali. Le novità concettuali degli IAS/ IFRS hanno già raggiunto, in poco più di dieci anni dalla loro applicazione, le grandi società di capitali italiane. Ci vorrà del

tempo, sicuramente, ma l’ombra dei principi internazionali arriverà fino alle imprese più piccole. Di conseguenza, tutti i professionisti italiani, per non essere sopraffatti dalla concorrenza, devono aggiornarsi costantemente in molteplici campi di studio. C’è un altro problema, però. Molti studiosi e professionisti accusano il legislatore italiano di aver letteralmente copiato (anzi, nel Codice Civile ci sono proprio i rimandi) i principi internazionali senza capirli, in quanto inapplicabili in molti contesti italiani. In molti erano spaventati e contrariati per il fatto che il bilancio italiano presentasse delle peculiarità che nessun altro aveva. E, sicuramente, per alcune tematiche avevano ragione, ma, come suddetto, la questione è che il nuovo look dei principi italiani è mal adattato allo scenario nostrano. Curiosità: chi ha “inventato” gli IAS/IFRS? Gli unici in Europa che redigevano il bilancio secondo gli international GAAP erano gli inglesi, in quanto era il loro modello contabile di bilancio. Nei consigli europei sono riusciti a far imporre a tutte le imprese quotate europee l’uso degli IAS/IFRS. E adesso stanno per uscire dall’Unione Europea...


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