MSOI thePost Numero 62

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21/04 - 27/04

Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

Speciale Referendum Turchia

Scoprite la nuova sezione ‘Diritto Internazionale ed Europeo’


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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LA TURCHIA HA DETTO SÌ. E ORA? Diagnosi di un cambiamento già visto

Di Martina Terraglia Domenica 16 aprile ha segnato una data storica per la Turchia. Nel referendum per la modifica costituzionale voluta da Erdoğan, i Sì hanno vinto, seppur con un margine minimo (51.3% contro il 48.7% dei No). Sul Guardian, Yavuz Baydar ha scritto: “La Turchia come la conosciamo è finita; è storia”. Per comprendere le ragioni di questa affermazione, dobbiamo capire cosa esattamente prevede la modifica costituzionale di Erdoğan. Il referendum ha trasformato la Turchia da democrazia parlamentare a repubblica presidenziale, attraverso una lunga serie di emendamenti costituzionali. Quali sono, quindi, questi emendamenti? In totale sono 18, molti dei quali hanno già raggiunto l’opinione pubblica: • l’estensione dei mandati del Governo e del Presidente a 5 anni; • la cancellazione della figura del Primo Ministro; • l’acquisizione di pieno potere esecutivo da par-

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te del Presidente, che da adesso nominerá anche i membri del Consiglio Superiore dei Giudici e dei Procuratori. sono: la maggioranza assoluta richiesta al Parlamento per sopraffare un veto presidenziale; la nuova costituzionalità della parzialità del Presidente (non è più richiesto, infatti, che abbandoni il partito); il nuovo potere del Presidente di “creare Stati” (Repubblica Presidenziale Federale?).

La promessa di una nuova costituzione non giunge nuova: già nel 2011 Erdoğan aveva annunciato una nuova carta fondamentale per l’anno successivo, ma alle elezioni del 2015 non era riuscito ad ottenere i 367 seggi necessari per poter evitare il voto popolare. Da qui, il referendum del 16 aprile. Dato interessante: il No ha vinto a Istanbul, Ankara e sulla costa, mentre il Sì ha trionfato nei centri rurali. Che cosa ci dice questo sugli elettori?

Appare evidente che ad opporsi agli emendamenti costituzionali siano stati soprattutto intellettuali e appartenenti ai ceti medio-alti, che non hanno risentito della crisi economica e della disoccupazione che stanno attraversando il Paese. Facendo leva su un momento di instabilità sociale ed economica e sull’incapacità dei governi precedenti di farvi fronte, Erdoğan si è assicurato la vittoria. Come ha scritto Steven Cook per Foreign Policy, il punto è che Erdoğan “è convinto di essere il solo dotato delle qualità politiche, la persuasione morale e la statura per portare avanti [la trasformazione della Turchia, ndr]”. Per molti, però, sono discutibili le basi di questa trasformazione. Dopo il colpo di Stato dello scorso luglio, abbiamo assistito a quella che è stata definita come una vera e propria epurazione, che ha coinvolto media, esercito, politici e accademici: chiunque potesse essere ricollegato a Fethullah Gülen, islamista moderato e oppositore in esilio di Erdoğan, che lo ha accusato di essere la mente dietro al golpe del 2016.

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Altro dato interessante: opporsi ad Erdoğan significa finire nella lista turca di terroristi più ricercati. A volte non solo in Turchia: il PKK, il Partito dei Lavoratori Curdo, è considerato un’organizzazione terroristica da numerosi governi internazionali. Altre volte, non si finisce in nessuna lista, ma in prigione e/o licenziati: 17 studenti universitari arrestati per aver organizzato un evento per la campagna del No; giornalisti come Yıldırım Türker e Nadire Mater sono stati accusati di aver fatto “propaganda al terrorismo”. Lasciando da parte i comizi e gli spot elettorali, la vera e propria campagna per il Sì sembra essere stata costruita durante l’ultimo anno: la guerra in Siria e il golpe hanno dato il La a un processo di forte nazionalizzazione del discorso politico in Turchia, contornata da terrore degli arresti, stato di emergenza e coprifuoco. A concorrere è stato anche il deteriorarsi delle relazioni internazionali, in particolare con l’Europa: secondo il New York Times, le pesanti accuse lanciate a Germania e Olanda andrebbero lette in ottica elettorale, ovvero come un tentativo di Erdoğan di “fabbricare crisi diplomatiche per rafforzare la sua base [di consenso] in casa”. Questa strategia di terrore e bad diplomacy sembra aver funzionato, anche se non con il 20% di margine desiderato dall’AKP, il Partito Giustizia e Sviluppo di Erdoğan. Intanto, l’opposizione cerca di ridurre ancora quel margine, contestando un terzo dei voti, nonostante siano stati ufficializzati dal Consiglio Elettorale Superiore (YKS) di Sadi Güven. I dubbi dell’opposizione derivano da un’improvvisa decisione dell’YKS, che a votazione ancora in corso avrebbe dichiarato valide le schede non timbrate, in seguito a pressioni dell’AKP. 4 • MSOI the Post

Che cosa succederà ora? Erdoğan ha annunciato di voler re-introdurre la pena di morte e indire elezioni per il 2019, praticamente assicurandosi la presidenza per altri 10 anni. Il sistema di repubblica presidenziale che si verrà ad instaurare ricorderà molto una dittatura, secondo quanto affermato dal Partito Repubblicano del Popolo (CHP): “La questione non riguarda Erdoğan, ma l’essere contro un cambiamento sistematico… Se a detenere tutti questi poteri fosse [il leader dell’opposizione, ndr] Kemal Kılıçdaroğlu, […] o chiunque altro, sarebbe ugualmente un dittatore”. Se quanto temuto dal CHP dovesse concretizzarsi, il rischio è un ulteriore giro di vite contro i dissidenti. Forti anche i dubbi sul futuro della politica estera del Paese: se, infatti, l’ostilità nei confronti di Germania e Olanda va intesa solo come uno strumento per accaparrarsi voti, Erdoğan si trova ora in una posizione difficile. Per quanto legittima sia la sua richiesta che il voto del popolo turco venga rispettato, le chance della Turchia di entrare in Europa si sono ridotte drasticamente nell’arco degli ultimi 4 mesi. Inoltre, lo scarso margine di consenso avuto al referendum renderebbe un cambio di rotta una scelta politica molto rischiosa. D’altro canto, non è detto che l’Europa e gli Stati Uniti possano permettersi di lasciar andare a cuor leggero un alleato importante come la Turchia, soprattutto tenuti presenti gli interessi della Russia nell’accaparrarsi l’esclusiva sulla Turchia. Ciò che è certo al momento, come ripetuto da tutte le testate giornalistiche, è che stiamo assistendo alla fine di un’era per la Turchia. Mustafa Kemal Atatürk, il Padre della Turchia moderna, è stato l’uomo che, attraverso una serie di riforme, ha strappato il

potere dalle mani assolutistiche del sultano ottomano per riporlo nelle mani di legislatori che rappresentassero la volontà del popolo. Oggi, nel 2017, con questo referendum, Erdoğan dimostra di avere un’idea del potere (e un culto della personalità) di puro stampo ottomano. In quest’ottica, estremamente simbolico è il fatto che il Palazzo Bianco del Presidente sia stato edificato su un terreno una volta appartenuto proprio ad Atatürk. Lungi da noi descrivere Atatürk come un uomo perfetto: la laicizzazione forzata della società è un ottimo esempio degli errori che, a lungo andare, hanno portato alla ribalta partiti fortemente connotati religiosamente, come appunto l’AKP. Eppure, il suo disegno per la Turchia era intriso di modernizzazione e democrazia, sebbene gli strumenti non fossero quelli giusti, basti pensare al genocidio armeno. Ma con questo referendum, la Turchia ha definitivamente rifiutato quel disegno, forse senza davvero comprendere che futuro l’aspetta. Historia magistra est. Non è la prima volta che un Paese va incontro a un drastico cambiamento storico. Come la Turchia sembra assumere una posizione rivoluzionaria e reazionaria rispetto al progetto di Ataturk, così un altro movimento in passato è stato definito rivoluzionario e reazionario. Anche allora c’erano crisi economica, le conseguenze disastrose per l’economia e il morale nazionali della guerra (anche se all’epoca si parlava di vittoria mutilate), e i difficili rapporti in politica estera. Anche quella volta si è assistito alla repressione sistematica dell’opposizione politica e culturale. Con questo throwback, la Turchia potrebbe essere sull’orlo di baratro.


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 18 aprile. Alta tensione al comizio di Marine Le Pen. All’esterno del teatro Zenith di Parigi gruppi di facinorosi ed antagonisti della candidata del Front National hanno ingaggiato una vera e propria guerriglia urbana, con lancio di oggetti e scontri con la polizia in tenuta anti-sommossa. Colpito anche il fedelissimo della Le Pen, Gilbert Collard, il quale condanna duramente i manifestanti come “militanti di estrema sinistra”. 20 aprile. Nella tarda serata di giovedì, un uomo armato di kalashnikov ha aperto il fuoco contro la polizia sugli Champs-Élysées di Parigi, uccidendo un poliziotto. Nella sparatoria l’attentatore è rimasto ucciso. Il Ministero degli Interni francese ha riferito che l’obiettivo dell’attacco era la polizia. Il sedicente Stato Islamico ha rivendicato l’attentato tramite l’agenzia di stampa Amaq. 19 aprile. A pochi giorni dal voto francese, la polizia sventa un “imminente attentato terroristico”. Gli agenti della polizia di Marsiglia hanno arrestato due giovani francesi di 22 e 29 anni, accusati di essere “fedeli affiliati del sedicente Stato Islamico pronti a colpire”. Già noti alle autorità francesi come “in corso di radicalizzazione”, i due erano pronti a colpire i candidati alla vigilia delle elezioni presidenziali, alimentando così la già alta tensione che si vive nel Paese. ITALIA 18 aprile. Primi contatti telefonici fra Gabriele Del Grande e l’Italia. Il giornalista e blogger italiano, fermato per dei controlli al confine turco-siriano e trattenuto in un centro di detenzione amministrativa, è riuscito, dopo giorni di pressioni sulle autorità

BREXIT: THE CASE OF GIBRALTAR Tensions between the United Kingdom and Spain over the future of Gibraltar

By Lola Ferrand British sovereignty was formalised by the treaty of Utrecht in 1713 and Gibraltar became a British colony in 1830. But Spain has always challenged the idea of the UK’s ownership, constantly seeking to reclaim (co)sovereignty partly because it is territorially attached to the country but also because it is more prosper. Indeed the official figures of unemployment are only at 1% on “the rock”, against 35 % across the border. Two referendums – in 1967 and 2002 – have shown that the majority of residents of Gibraltar feel British and wish to remain so. In the 2016 referendum on Brexit, Gibraltar voted 96% to remain in the EU. If Gibraltar wishes to remain British, Spain is using the current context to try and overturn UK sovereignty, creating growing tensions between the two countries. Britain and Spain’s EU membership helped temper the potential conflict. However amid Brexit, the EU is obliged to take sides. The EU’s draft negotiating guidelines gives Spain the ability to exclude Gibraltar from any UK-EU single market arrangement or future trade deal if it is not satisfied with the status of the territory, effectively crystalizing

the conflict between the two countries. This suggests that unless Britain is willing to let Gibraltarians be subject to an inferior economic future than those in the rest of UK, the EU has de facto given the Spanish government a veto on Britain’s future relationship with the EU. This is giving Spain a greater say over the future of Gibraltar than the British government willing to accept. It is true the Prime Minister Theresa May did not mention the future of Gibraltar in her letter, triggering article 50, officially notifying the EU of the UK’s intention to leave the Union; Tim Farron, the Liberal Democrat leader, calling it a “major strategic error”. Nonetheless, Downing Street has said they would “never enter into arrangements under which the people of Gibraltar would pass under the sovereignty of another state against their freely and democratically expressed wishes”. Conservative leader Michael Howard believes the Prime Minister would go to war over the issue, recalling the way Margret Thatcher did 35 years ago for the Falkland Islands. As for Picardo, Chief Minister of Gibraltar, he has insisted the government would fiercely oppose any Spanish moves to use Brexit negotiations as means to gain more control over the territory.

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EUROPA locali, a mettersi in contatto con la famiglia, denunciando come “siano stati sequestrati telefoni ed oggetti personali”. Dure le critiche di Amnesty International, che denuncia una violazione del diritto di espressione, mentre a Roma continuano i colloqui fra le autorità italiane e l’ambasciatore turco. MOLDOVA 19 aprile. L’Unione Economica Euroasiatica (UEE) approva lo status di “Stato osservatore” per la Moldova, richiesto dal presidente Igor Dodon. L’accordo di associazione fra UE e Moldova, entrato in vigore nel luglio 2016, porta però l’UE e mantenere la calma affermando, attraverso la voce di una portavoce della Commissione Europea, che la Moldova “come tutti gli Stati che stipulano accordi con l’Unione, deve attenersi ad obblighi ed oneri che ne concernono” poiché è “compito delle autorità moldave definire i rapporti fra le due autorità” REGNO UNITO 18 aprile. Annuncio di Theresa May. La Premier britannica, in una conferenza stampa tenuta nel cortile del numero 10 di Downing Street, ha annunciato che il Regno Unito andrà ad elezioni anticipate l’8 giugno prossimo. Secondo May questa decisione è “frutto della necessità, per il regolare svolgimento del processo della Brexit, di una maggioranza solida” poiché, al momento, “troppi partiti vi si oppongono”. + L’improvviso cambio di rotta della Premier inglese ha scosso l’opinione pubblica, che a soli 50 giorni dal voto, scommette su una schiacciante vittoria della attuale inquilina di Downing Street, con una definitiva sconfitta dei Labouristi guidati da Jeremy Corbyn. A cura di Simone Massarenti 6 • MSOI the Post

BREXIT: PASSA LA MOZIONE PER VOTO ANTICIPATO

May: “Serve mandato forte in vista della negoziazione con Bruxelles”

Di Giulia Marzinotto 19 aprile, Londra. È arrivato il via libera della Camera dei Comuni alle elezioni politiche anticipate in Gran Bretagna: la mozione del governo di Theresa May per la convocazione al voto per il prossimo 8 giugno ha superato il quorum dei due terzi richiesto. Poche ore prima, al termine della riunione del Consiglio dei Ministri, la Premier britannica aveva annunciato la proposta di tale provvedimento attraverso una breve dichiarazione a Downing Street. Il voto anticipato era stato escluso numerose volte nei mesi scorsi dalla stessa May, che affermava di voler aspettare della scadenza naturale del suo mandato nel 2020. L’improvviso cambio di rotta è arrivato allo scopo di ottenere un mandato forte in vista dei negoziati per la Brexit. La decisione, presa “con riluttanza”, è ritenuta infatti “l’unico modo per garantire la certezza e la sicurezza negli anni a venire” e necessaria “per ricevere il supporto necessario per le decisioni che dobbiamo prendere”. “Il Paese vuole unirsi, ma Westminster si divide”, ha continuato il Primo Ministro, indicando l’atteggiamento

tenuto dalle opposizioni laburista, liberaldemocratica e indipendentista scozzese come colpevole di un rischioso indebolimento della posizione del Paese nel negoziato con Bruxelles. Come prevedibile, le elezioni saranno guidate stando dal tema“Brexit”: ai sondaggi, a meno di due mesi dal voto il partito conservatore, che detiene una risicata maggioranza a Westminster, sembra godere di un ampio vantaggio su un partito laburista indebolito, che attraverso il suo leader Corbyn afferma di “correre per vincere”. I liberaldemocratici vedono nelle elezioni di giugno “l’occasione per chi ha dei ripensamenti sul referendum di votare in modo diverso e dare un’altra chance al nostro Paese”, come affermato da Tim Farron, leader lib-dem. Per i nazionalisti scozzesi il voto anticipato rappresenta la possibilità di fare di nuovo richiesta per un secondo referendum sull’indipendenza scozzese: la leader Nicola Sturgeon ha accusato i conservatori di voler “spingere il Regno Unito a destra, forzare una Brexit dura e imporre tagli più profondi”.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI 17 aprile. Secondo il network CBS sarebbe in corso una massiccia caccia all’uomo per trovare un traditore che ha reso pubblici migliaia di documenti classificati. Il ricercato sarebbe o un impiegato dell’agenzia o un suo contractor con accesso al materiale. La CIA e l’FBI starebbero conducendo un’indagine congiunta in quella che il direttore della CIA, Mike Pompeo, definisce “una delle più gravi brecce nella sicurezza di tutti i tempi”.

18 aprile. Lo speaker della Camera Paul Ryan ha riferito in conferenza stampa che i repubblicani sono “molto vicini” a trovare una soluzione per sostituire l’Obamacare. I legali del GOP sono infatti al lavoro per “limare i dettagli di una legislazione di compromesso”. Da quando due settimane fa è stata respinta la prima versione i lavori e le trattative per rimpiazzarla sono proseguite senza sosta poiché, secondo Ryan, “il sistema ha bisogno di una profonda sistemazione”. 19 aprile. Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha riferito che il presidente Trump riceverà in visita ufficiale il presidente palestineseMahmudAbbasilprossimo 3 di maggio. Il Presidente americano e la sua controparte

TRUMP SI CONGRATULA CON ERDOGAN Il referendum prelude a una nuova intesa?

Di Sofia Ercolessi Il 16 aprile un referendum in Turchia ha approvato per un margine ristretto una modifica costituzionale che amplia i poteri del Presidente. Mentre l’Europa e gli osservatori internazionali esprimevano dubbi sulla validità del referendum, Donald Trump chiamava il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per congratularsi del risultato. Nessun dubbio, infatti, che le modifiche vadano a suo vantaggio. Il focus della telefonata, in realtà, era la Siria. Dopo essere recentemente passati dall’accettare la presenza del dittatore Bashar al-Assad, a lanciare missili contro una delle sue basi militari, gli Stati Uniti hanno ancor più bisogno di un alleato forte nel mosaico siriano. Secondo la portavoce della Casa Bianca Sarah H. Sanders, “il Medio Oriente è un vicinato piuttosto turbolento e a volte bisogna unire le forze per aiutarli a battere i bulli, come la Siria”. Nella relazione ufficiale della telefonata si legge che i due leader, dopo aver discusso dell’attacco USA, “si sono trovati d’accordo sull’importanza di attribuire ad Assad le sue responsabilità”. Le cose, però, non sono così semplici. Una presa di posizione contro la presenza di Assad contrasterebbe con la politica di rassegnazione adottata col

nuovo anno nei suoi confronti dalla Turchia. Anche questa attitudine era stata un taglio radicale, forse diretto proprio a guadagnare i favori del neoeletto Presidente degli Stati Uniti. Può darsi, insomma, che, su Assad, Ankara sia disposta ad allinearsi al suo alleato d’oltreoceano. Al centro dei suoi interessi in Siria, è invece il contenimento dei combattenti curdi della milizia YPG, in lotta con il sedicente Stato Islamico. Il supporto statunitense ai curdi siriani è stato, finora, uno dei punti di frizione tra Stati Uniti e Turchia. Per i primi, il contingente era un alleato, per la seconda, una forza ostile legata al PKK, la milizia curda in conflitto da circa 30 anni con lo Stato turco, che la considera un gruppo terroristico. Su quest’ultimo punto, Trump si è dimostrato piuttosto accondiscendente, proclamando “la necessità di cooperare contro tutti i gruppi che usano il terrorismo per raggiungere i propri fini”. Il tempo ci dirà quale peso attribuire a queste parole. Resta, comunque, un nodo nella relazione tra i due Stati: la Turchia reclama ancora l’estradizione di Fethullah Gülen, il predicatore islamico accusato di essere la mente del fallito colpo di Stato dello scorso luglio, che attualmente si trova negli Stati Uniti.

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NORD AMERICA palestinese parleranno delle possibili situazioni per avviare la regione mediorientale su un cammino di pace. Si tratta di una continuazione della politica avviata in febbraio quando Trump sostenne apertamente la soluzione dei “due Stati”. 20 aprile. Nell’ultima settimana il segretario di Stato Tillerson ha manifestato più volte le intenzioni dell’amministrazione attuale nei confronti dell’Iran. Dopo aver detto che la pazienza “strategica” nei confronti di Teheran potrebbe finire, oggi in un’intervista ha fatto sapere che gli Stati Uniti condurranno una “revisione totale” della loro politica nei confronti del Paese, incluso l’accordo sul nucleare siglato nel 2016, che, secondo Tillerson, avrebbe “meramente ritardato il momento in cui l’Iran raggiungerà il suo obiettivo di diventare una potenza nucleare”.

CANADA 18 aprile. Il Canada si avvia alla legalizzazione della marijuana a scopo ricreativo. È stato infatti presentato al primo ministro Trudeau un piano per rendere legale il possesso, per i maggiorenni, di massimo 30 grammi. Di pari passo ci sarà “un inasprimento delle pene” per il possesso legale e per chi la venderà ai minorenni, fino a 14 anni di carcere. Il Canada diventerà dunque, dopo l’Uruguay, uno dei pochissimi Paesi a dotarsi di una tale legislazione a livello statale. A cura di Alessandro Dalpasso 8 • MSOI the Post

ARE THE UNITED STATES READY FOR WAR? A closer look to North Korean and U.S. military arsenals

By Kevin Ferri It has been a rough week for U.S. diplomats and especially for the Trump administration. On Sunday, vice-president Mike Pence visited South Korea and warned Pyongyang that the “strategic patience” policy adopted by Barack Obama was officially over. The United States final warning was enforced with the immediate dispatch of aircraft carrier USS Carl Vinson strike fleet heading towards North Korean waters. The fleet alone is composed of an aircraft carrier capable of transporting over 80 combat airplanes, guided-missile cruiser USS Lake Champlain, navy destroyers USS Michael Murphy and USS Wayne E. Meyer. However, many questions have arisen concerning how to effectively prevent further tests of Kim Jong-Un’s nuclear ballistic arsenal and most importantly whether the U.S. is capable of positively neutralizing any incoming North Korean military threat. A report from the International Institute for Strategic Studies shows how, in 2015, North Korea owned about 3.500 tanks, 560 aircraft, 70 submarines and 3 fleets. Small numbers compared to the U.S. as they are estimated having 8.500 tanks, 12.000 aircraft and overall 430 ships in

use or reserve. Even though U.S. armed forces are technologically more advanced and numerous, a military act from North Korea would most likely result in the major destruction of the surrounding territories of South Korea. Thus, is Pyongyang able to fire Intercontinental Ballistic Missiles (ICBM) towards U.S. territories? The answer is yes. North Korea is capable of being a nuclear threat to other nations. Nevertheless, experts believe Pyongyang only has 2 or 3 ICBM missiles. The U.S. has about 7.000 nuclear bombs and missiles. It also uses the THAAD defense system to destroy in-flight ordnance directed towards allied territories. Furthermore, the launch of nuclear rockets does not happen in just a few minutes. It takes time to spool up the vector and prepare it. By that time, Washington can detect via satellite the heat generated by the combustion system of the missile, and eventually decide to eliminate the threat with a GBU-43/B (MOAB) or any other targeted offensive attack. To conclude, it is easy to acknowledge U.S.’ military superiority, but it is crucial for Washington to define a strategy that assures, in case of conflict, the least number of casualties and collateral damages.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole AFGHANISTAN 15 aprile. Sarebbero almeno 94 i morti in seguito al lancio avvenuto il 13 aprile della superbomba GBU-43B, detta anche MOAB, lanciata dagli Usa su una roccaforte dell’Isis. EGITTO 19 aprile. A seguito di un attacco terroristico avvenuto ad un checkpoint, nei pressi del monastero di Santa Caterina, a sud del monte Sinai, un agente di polizia sarebbe rimasto ucciso e altre 3 persone sarebbero rimaste ferite. L’attentato è stato rivendicato dal Daesh. ISRAELE 16 aprile. Circa 700 membri di al-Fatah detenuti nelle carceri israeliane hanno iniziato uno sciopero della fame per manifestare contro le pessime condizioni di reclusione. Lo sciopero è guidato da Marwan Barghouti. Il ministro della Sicurezza interna Ghilad Erdan ha comunque dichiarato che non si tenterà di negoziare con i reclusi. 17 aprile. Allo sciopero della fame, si sono uniti circa altri 1.000 detenuti palestinesi. LIBIA 16 aprile. 453 migranti sono stati salvati dalla nave Phoenix, a largo delle coste libiche. Tuttavia, almeno 20 persone sono morte annegate. L’ong Medici Senza Frontiere ha dichiarato che per la prima volta sono stati ritrovati sui corpi segni di torture. TURCHIA 16 aprile. La riforma costituzionale proposta da Recep Erdogan è stata approvata grazie alla vittoria

VERSO LE PRESIDENZIALI IN IRAN Aperta la sfida al presidente uscente Rouhani, il 27 aprile la lista ufficiale dei candidati

Di Lorenzo Gilardetti Il 19 maggio in Iran si voterà per le presidenziali, elezioni in cui dal 1979 il Presidente uscente ha sempre ottenuto i consensi per un secondo mandato. Hassan Rouhani, nonostante l’appoggio dell’ayatollah Khamenei, quello dei riformisti e dei fondamentalisti di area moderata, dovrà prevedere delle mosse da parte di altre fazioni politiche che si stanno organizzando per opporre candidature che possano sparigliare le carte. Per quanto riguarda i conservatori, durante le primarie di inizio aprile, tra 5 potenziali leader è emerso il nome di Ebrahim Raisi, gradito all’Ayatollah, figura che potrebbe convincere molti religiosi: dal 2014 Raisi è procuratore generale dell’Iran e recentemente è stato indicato tra i possibili successori di Khamenei alla carica più alta del Paese. In svantaggio rispetto a Raisi ci sarebbe Mohammad Bagher Ghalibaf, sindaco di Teheran,il quale si candiderà per la terza volta alla presidenza. Il candidato principale del fronte degli ultraconservatori era stato individuato già prima dell’11 aprile scorso (primo giorno utile per presentare le candidature) in Hamid Baghaei, braccio destro dell’ex presidente Ahmadinejad dal 2009 al 2013. Inoltre, non poco scalpore è

stato suscitato dalla recente candidatura dello stesso Ahmadinejad, nonostante Khamenei si fosse già pronunciato contro un suo possibile terzo mandato. L’ex Presidente non ha accettato le dichiarazioni di Khamenei, prendendo invece una decisione dagli esiti incerti, capace addirittura di favorire Rouhani a causa di una spartizione notevole di voti tra gli ultraconservatori. La probabilità che anche un terzo, Saeed Jalili, ex negoziatore conservatore, si candidi, è considerata frutto di questa spartizione. Lalistaufficiale delle candidature approvate verrà resa pubblica il 27 aprile, dopo che il Consiglio dei Guardiani avrà esaminato attentamente tutti i profili per estromettere quelli non idonei. La sfida si giocherà su due temi importanti: da una parte, vi è ladifficile situazioneeconomica del Paese (miglioramento del PIL con Rouhani, ma anche aumento disoccupazione giovanile al 31%), dall’altra la politica estera. I due pivot di questo tema sono la situazione mediorientale (appoggio alla Siria e rapporti con Arabia Saudita) e la ridiscussione degli accordi diplomatici con gli Stati Uniti in merito alle sanzioni per il nucleare. Insieme al nuovo asse con Mosca, questi accordi sono il traguardo politico più importante di Rouhani. MSOI the Post • 9


MEDIO ORIENTE del “sì” al referendum popolare. Quest’ultima è stata comunque una vittoria di misura (51,4%) e le opposizioni hanno subito denunciato dei brogli, chiedendo l’annullamento del referendum. Il capo della commissione turca ha dichiarato che le schede senza timbro sono comunque valide. 18 aprile. Secondo L’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) il referendum non sarebbe valido, in quanto “ai cittadini sono state fornite informazioni imparziali sulla riforma costituzionale”. Il Presidente statunitense Donald Trump si è invece congratulato con Erdogan per il risultato. SIRIA 15 aprile. Nel primo pomeriggio alcuni pullman che trasportavano profughi siriani sciiti provenienti dalle zone ancora in mano ai ribelli che dovevano essere evacuati nelle zone in mano alle forze governative sono stati colpiti dall’esplosione di un’autobomba nei pressi di Aleppo. L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (ONDUS) ha successivamente reso noto che vi sarebbero almeno 112 vittime, tra cui 68 bambini. 17 aprile. Un gruppo di parlamentari britannici liberaldemocratici hanno chiesto al ministro degli Interni Amber Rudd di revocare la cittadinanza britannica alla first lady siriana, Asma Assad, nata nel Regno Unito. Il motivo di tale richiesta sarebbe che la donna userebbe i suoi account sui social network per elogiare e difendere il regime del marito, Bashar al-Assad. A cura di Martina Scarnato 10 • MSOI the Post

KEFRAYA, MADAYA, FUA, ZABADANI

Un accordo storico mette in luce le contraddizioni del conflitto

Di Samantha Scarpa Dopo oltre quattro mesi di negoziazioni, i protagonisti regionali del conflitto siriano sembrano aver raggiunto un accordo definibile “storico” all’interno della cornice bellica e politica degli ultimi anni. Il regime siriano di Bashar Al-Assad, la fazione libanese del partito Hezbollah, il Qatar, l’Iran e uno tra i più influenti gruppi di opposizione a Damasco, Ahrar al-Sham, hanno dato il via all’attuazione di una doppia evacuazione per oltre 7.000 civili provenienti da quattro diverse città sotto assedio. Durante le trattative, in realtà, il peso di Assad nell’attuazione dell’accordo si è palesato come estremamente insignificante. Un ruolo di prim’ordine, al contrario, è stato quello delle milizie di Hezbollah, le quali assediano due delle città sotto il controllo ribelle, Fua e Kefraya. L’accordo prevede l’evacuazione di alcune migliaia di sciiti da tali città in direzione nord-est, verso le propaggini occidentali della periferia di Aleppo, tornata sotto il controllo totale del regime nel dicembre 2016. Per assicurarne la protezione e l’arrivo a destinazione, altri bus provenienti da Madaya e Zabadani permetteranno ad altrettanti sunniti di arrivare nella provincia di Idlib. Queste ultime sono cittadine della zona meridionale della Siria, assediate a

loro volta dall’opposizione ma situate nell’area di pieno controllo dell’esercito regolare. Tale “scambio” di civili, come viene definito dai media anglosassoni, si è potuto compiere grazie all’intervento del governo paternalistico di Doha, il quale ha richiesto il rilascio di alcuni membri della famiglia a garanzia della tenuta dell’accordo. Queste persone erano a loro volta state catturate dai militanti di Hezbollah oltre 5 mesi prima, durante una “battuta di caccia”. Le operazioni, iniziate nella massima cautela, hanno tuttavia subito un brusco arresto la mattina di sabato 15 aprile, quando un’autobomba nei pressi di Aleppo ha ucciso oltre 100 evacuati, colpendo 5 bus e una stazione di rifornimento, le cui riserve di carburante hanno amplificato l’effetto dell’ordigno. L’agenzia di stampa siriana Sana ha subito definito l’attacco “opera di terroristi”, ma il gruppo Ahrar al-Sham nega fin dall’inizio ogni coinvolgimento. I responsabili rimangono, pertanto, ancora sconosciuti. La tensione dell’attacco non ha tuttavia sopraffatto i promotori dello “scambio”. In meno di 24 ore, Bashar al-Assad ha comunicato l’immediato ricambio di pullman e ha annunciato la continuazione dell’evacuazione.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole QUESTIONI DI ONORE IN CECENIA – PARTE 2 ALBANIA 18 aprile. Si è registrata lunedì l’intesa tra Cina e Albania, al fine di rafforzare la cooperazione nel settore delle infrastrutture, del turismo e dell’agricoltura. Tale accordo può essere inserito nel quadro della Belt and Road Initiative, la Nuova via della Seta, e del meccanismo 16+1, che vede come protagonisti la cooperazione tra la Cina e i Paesi dell’Europa centro-orientale. L’accordo è stato siglato nel corso della visita ufficiale del vicepremier cinese Zhang Gaoli. 15 aprile. La maggioranza di centro sinistra del premier albanese Edi Rama ha stabilito nella riunione di sabato di chiedere l’intervento del Partito Popolare Europeo al fine di agevolare la ricerca di una soluzione alla crisi politica in corso e rilanciare il dialogo con l’opposizione. BIELORUSSIA 13 aprile. Il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha dichiarato che Russia e Bielorussia sono giunte a un accordo sulla questione del prezzo e dei rifornimenti di petrolio. Il governo russo si impegna ad approvare, per il periodo 2017-2024, un protocollo che fisserà il volume delle consegne di greggio attraverso gli oleodotti a 24 milioni di tonnellate l’anno. BULGARIA 19 aprile. Si è tenuta a Sofia la seduta costitutiva del nuovo parlamento bulgaro, eletto con voto anticipato il 26 marzo scorso. L’Assemblea è costituita da 240 deputati di cinque formazioni politiche. Il GERB, partito di orientamento conservatore vincitore delle elezioni con 95 seggi, è riuscito a far eleggere alla pre-

Mosca si muove lentamente e centinaia di persone restano in pericolo

Di Daniele Baldo Il giornale indipendente russo Novaya Gazeta ad inizio aprile rivelò l’esistenza di una campagna di persecuzione condotta dalle autorità cecene contro uomini gay, caratterizzata da arresti ed omicidi, fonte di polemiche ed indignazione. La reazione alla vicenda del leader ceceno Ramzan Kadyrov, il quale smentiva qualunque arresto o uccisione, e quella del suo portavoce Alvi Karimov, che negava l’esistenza di omosessuali in Cecenia, hanno perso di credibilità il 4 aprile. In tale data, la stessa Novaya Gazeta ha rilasciato delle testimonianze di uomini sopravvissuti a torture ed abusi in quelli che vengono definiti come dei veri e propri campi di concentramento. Uno dei testimoni paragona l’ex base militare di Argun ad un campo nazista, con torture ed interrogazioni svolte da militari ceceni per scoprire i nomi di altri uomini omosessuali, tramite elettroshock e pestaggi. Secondo Novaya Gazeta anche lo speaker del Parlamento, Magomed Daudov, era presente durante alcune interrogazioni e trasferimenti dei prigionieri del campo. L’OCSE ha sostenuto che la Russia ha il dovere di indagare sulle presunte violazio-

ni dei diritti umani. Per ora, però, il Cremlino non è intervenuto sulla questione, lasciandola nelle mani delle autorità investigative e fuori dalla sua agenda. Il 14 aprile Novaya Gazeta ha chiesto direttamente l’aiuto del Cremlino per proteggere i propri giornalisti da diverse minacce ricevute da alcuni membri del clero ceceno, il quale ha accusato il giornale di essere pagato per affermare l’esistenza di una persecuzione contro uomini gay in un territorio a maggioranza musulmana. La situazione resta difficile, nonostante gli investigatori russi abbiano iniziato a muoversi, anche sotto la pressione del Comitato per la Protezione dei Giornalisti, ONG che si occupa dei diritti dei reporter. Il Cremlino afferma, infatti, di non aver ricevuto alcuna denuncia rispetto a violazioni dei diritti della minoranza omosessuale. Secondo Tanya Lokshina, portavoce di Human Rights Watch, il problema risiede perlopiù nella cultura della paura e dell’omofobia che impera nel Paese e che impedisce a molte persone di farsi avanti, rivelando la propria identità e denunciare casi di abusi. Senza una valida protezione di vittime e testimoni, infatti, si mette a rischio l’esistenza di un’investigazione efficace.

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RUSSIA E BALCANI sidenza del parlamento Dimitar Glavcev.

QUANDO IL POPOLO SI FA SENTIRE Migliaia di slovacchi in piazza per sconfiggere il cancro della corruzione

Di Andrea Bertazzoni

SERBIA 19 aprile. La dirigenza serba ha condannato le dichiarazioni del premier albanese Edi Rama, che in uno dei sui ultimi discorsi non ha escluso un’unione tra l’Albania e il Kosovo, qualora la prospettiva europea per i Balcani occidentali dovesse allontanarsi. Il Ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic ha quindi dichiarato alla stampa: “Le parole di Rama sono un’ulteriore conferma che l’attuazione del progetto nazionalistico di una Grande Albania resta l’obiettivo comune di tutti gli albanesi, cosa questa che rappresenta un’enorme minaccia per la pace e la stabilità dei Balcani e dell’intera Europa”. UCRAINA 20 aprile. Si definiscono il Movimento giallo-blu e sono un gruppo di volontari lituani che ha l’obiettivo di supportare le forze governative ucraine nello scontro con i ribelli filorussi. Il supporto, secondo l’agenzia AP, consisterebbe però nella fornitura di materiale militare non letale. Non solo supporto proveniente dal “basso”: il governo lituano ha, infatti, a sua volta fornito aiuti per oltre 8,5 milioni di euro, come dichiarato dal ministro degli esteri Linas Linkevicius. A cura di Lorenzo Bardia 12 • MSOI the Post

Lo scorso mercoledì diverse migliaia di slovacchi sono scesi in piazza per partecipare alla “Grande marcia contro la corruzione”, evento organizzato da due studenti, Dávid Straka e Karolína Farská. I due diciottenni, anche grazie alla creazione dell’evento sui social network, la creazione di un canale YouTube e il sostegno ottenuto da diversi attori e intellettuali, sono riusciti a radunare nella Piazza SNP di Bratislava (emblema dell’insurrezione nazionale slovacca) all’incirca 5.000 persone, risultato significativo nonostante i giornali avessero previsto quasi il doppio dei partecipanti. Il motivo principale di questa protesta è stato quello di chiedere le dimissioni del ministro dell’interno Robert Kaliňák, del capo della polizia Tibor Gaspar e del procuratore di Stato Dušan Kováčik. A giudizio di Straka e Farská, essi non si impegnerebbero per debellare la corruzione. “I soldi scivolano nelle tasche dei potenti senza che i cittadini se ne possano nemmeno rendere conto. Siamo frustrati”, sono le parole dei due giovani. Tra le bandiere slovacche sono riecheggiate le frasi “vogliamo un Paese migliore” e “era già abbastanza Fico”, uno slogan che si riferisce direttamente al primo ministro in carica Robert Fico, riconfermato alle elezioni politiche del marzo 2016. In

quell’occasione il segretario del partito socialdemocratico SMER aveva subito una calo del consenso popolare che dal 40% del 2012 è sceso fino al 27%, causato soprattutto dalle sue strane relazioni con il mondo imprenditoriale. Oltre al capo dell’esecutivo, i protestanti hanno fatto sentire la propria voce contro il sopracitato ministro Kaliňák, la cui permanenza al governo, secondo i critici, impedirebbe il normale corso giudiziario di un’inchiesta di evasione fiscale. Questa inchiesta vede coinvolto l’imprenditore Ladislav Bašternák, proprietario, tra l’altro, del complesso abitativo in cui vive Fico e persona vicina allo stesso Ministro dell’Interno. Non è quindi bastata l’introduzione da parte del governo della tassa del 35% sui guadagni delle aziende nei paradisi fiscali per placare la protesta che ha ottenuto avallo anche dal presidente Andrej Kiska, spesso critico verso l’operato dell’esecutivo. La giornata di martedì è stata definita ”significativa” dai politologi, in quanto il carattere del popolo slovacco viene spesso considerato “passivo e conservatore”. Questa protesta, al contrario, potrebbe marcare un primo passo verso il cambiamento per un Paese che, secondo Transparency International, è il 7° più corrotto all’interno dell’Unione Europea.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole CINA 19 aprile. L’artista Ai Weiwei in un post su Instagram ha denunciato l’impedimento nell’apertura di un conto bancario all’HSBC ad Hong Kong. Non gli era stato invece negato a Pechino. L’artista ha criticato la decisione della banca che ha fornito come motivazione problemi di natura commerciale. 18 aprile. In un articolo riportato sul quotidiano cinese The 21st Century Business Herald verrebbe riportato come la banca China Minsheng avrebbe venduto prodotti finanziari rischiosi presentandoli come sicuri. La scarsa regolamentazione bancaria esistente non sarebbe in grado di tutelare gli investitori. Gli analisti temono una ricaduta sull’economia cinese data la mole di capitali investiti. Contemporaneamente però 4 banche cinesi, sono entrate nella top ten del “the mostvaluable banking brands” secondo Brand Finance. COREA DEL SUD 14 aprile. Giovedì scorso i 5 candidati alla presidenza si sono dati battaglia in dibattito televisivo. Il favorito, Moon Jaein, leader del partito democratico coreano è stato attaccato dagli avversari sulla sua posizione ambigua riguardo i missili Thaad, e la Corea del Nord. GIAPPONE 18 aprile. Il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence ha incontrato il primo ministro Taro, nel suo viaggio programmato di 10 giorni in Asia. I temi trattati nell’incontro hanno riguardato la possibilità di stipulare nuovi accordi commerciali,

PYONGYANG CONTRO TUTTI Escalation retorica o volontà concreta?

Di Alessandro Fornaroli Sabato 15 aprile, il Joint Chiefs of Staff di Seul ha registrato il lancio di un missile dalla base nordcoreana di Sinpo alle 17.21 (ora di Washington). La stessa notizia è stata successivamente confermata dal Pentagono, che ha dichiarato il fallimento del test in seguito all’esplosione della carica pochi minuti dopo il lancio. Dal punto di vista del presidente americano Donald Trump, il rafforzamento del coordinamento PechinoWashington ha assunto una connotazione sempre più strategica nell’ambito delle tensioni asiatiche. Il 2 aprile il Presidente americano, benché deciso a collaborare con la Repubblica Popolare, si era dichiarato pronto ad agire da solo contro il programma nucleare della DPRK, nel caso in cui la Cina intendesse proseguire su una linea più moderata. Tuttavia, in seguito ad un lancio balistico nordcoreano due giorni dopo, i legami tra le due potenze hanno continuato ad evolversi nel senso della collaborazione. Dopo una telefonata con il leader cinese Xi Jinping, il Tycoon ha concluso che i due Paesi dovranno collaborare per stabilire un nuovo ordine asiatico, contenendo così la minaccia di Pyongyang. La Cina, se da un lato potrebbe

ottenere dagli USA migliori accordi commerciali in cambio di un sostegno nello scontro con Kim Jong-un, teme però un aumento delle future ingerenze statunitensi nella penisola coreana. Inoltre, come messo in luce da un’analisi dell’istituto svedese SIPRI (Stockholm International Peace and Research Institute), Pechino ritiene che ai fini della denuclearizzazione occorra fare leva sugli interessi di Pyongyang, mettendo in atto serrate negoziazioni – anche sul tema delle sanzioni. Il Giappone, a differenza della Cina, ritiene invece che l’azione contro la Corea del Nord debba essere essenzialmente imperniata sulle pressioni, seppure finalizzate in ultima istanza all’instaurazione del dialogo. Il 18 aprile, il primo ministro giapponese Shinzo Abe ha incontrato il vice presidente americano Mike Pence, in visita in Asia. Il leader nipponico ha dichiarato la sua totale approvazione per la tattica adottata dagli USA, sottolineando come la pressione, soprattutto diplomatica, sia l’unico mezzo per ottenere una risposta da parte della Corea del Nord. Abe ha, inoltre, lanciato un appello alla Cina chiedendo di rafforzare le misure di embargo contro la DPRK, senza limitarsi solamente al settore del carbone. MSOI the Post • 13


ORIENTE per superare la rottura derivata dalla cancellazione del TTP avvenuta dopo l’elezione di Trump. INDONESIA 19 aprile. Il secondo turno delle elezioni amministrative per la regione di Jakarta in Indonesia si è svolto senza problemi, per settimane le autorità erano preoccupate dalle crescenti tensioni, il candidato cristiano cinese Ahok è stato a lungo contestato dagli elettori musulmani più settari. 20 aprile. Il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence ha incontrato il Presidente Indonesiano Jokowi Widodo. Temi dell’incontro, gli accordi commerciali e partnership strategiche. I due hanno poi tenuto una conferenza congiunta, in cui hanno ribadito la volontà dei due Paesi di collaborare. NORD COREA 19 aprile. L’Armada invocata da Trump pare non si stesse dirigendo verso la penisola coreana. Solo in questi giorni pare abbia cambiato rotta e dopo molto tempo dagli gli annunci di Trump della settimana scorsa. Il 19 aprile, infatti, sul sito dell’Us Navy lo staff della portaerei Carl Vinson postava foto del passaggio vicino alla costa indonesiana, testimonianza del fatto che la rotta rimaneva quella iniziale, ovvero le coste australiane. A cura di Emanuele Chieppa

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PECHINO-MANILA

Duterte fa un passo indietro sulle isole contese in nome dei rapporti con la Cina

Di Tiziano Traversa Mercoledì 13 aprile, il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte ha annullato la visita, prevista per il mese di giugno, all’isola di Thitu, una delle Spratly. Durante la visita, il Presidente filippino avrebbe dovuto issare la bandiera nazionale, rivendicando e così ufficialment il territorio conteso: un gesto che avrebbe, con ogni probabilità, innescato delle frizioni con la Cina. Duterte, attualmente in Medio Oriente in visita ufficiale, ha affermato che la decisione di annullare la visita è stata presa nel rispettodeirapporticheintercorrono tra Manila e Pechino: la Cina avrebbe chiesto alle Filippine di abbandonare le rivendicazioni su Thiu per evitare complicazioni nei rapporti bilaterali. Il leader ha così giustificato il rinnego delle precedenti dichiarazioni: in campagna elettorale, Duterte aveva promesso che si sarebbe recato personalmente nei territori contesi per annetterli formalmente alle Filippine. Il rapporto tra Cina e Filippine è mutato negli anni. Prima della presidenza Duterte, Manila è sempre rimasta sotto la sfera d’influenza statunitense: di conseguenza, i rapporti con Pechino erano piuttosto tesi. Prima delle elezioni, avvenute a giugno 2016, le Filippine avevano portato davanti

alla Corte internazionale dell’Aia la questione della sovranità sulle isole Spratly e Paracel, inasprendo non poco le relazioni bilaterali con la Cina. L’elezione di Duterte ha mutato invece i rapporti tra le due potenze. Poco dopo l’elezione, il leader filippino aveva deciso di interrompere i rapporti con Washington, sostenendo che il legame con gli Stati Uniti avrebbe potuto ostacolare l’instaurazione di buoni rapporti con Pechino. Inoltre, dopo che Manila è uscita dal TPP (Trans-Pacific Partnership), le relazioni bilaterali con la Cina sono andate sviluppandosi in maniera positiva: i due Stati hanno incrementato gli scambi economici, sviluppando nuovi accordi commerciali. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Lu Kang ha sottolineato il miglioramento delle relazioni bilaterali, constatando con soddisfazione che i due Paesi sono stati in grado di “risolvere le controversie, incrementando la cooperazione”. Questa svolta positiva nei rapporti con i cinesi spiega in parte il momentaneo disinteresse di Duterte in relazione alla questione delle isole contese. Il Presidente non vuole rischiare di inasprire le tensioni con Pechino, soprattutto ora che la sfera d’influenza cinese si è notevolmente estesa.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole BURKINA FASO 18 aprile. Un soldato francese è stato condannato a due anni di prigione per abusi sessuali avvenuti nel 2015 nei confronti di due bambine. Il soldato si trovava nel Paese per la missione speciale Barkhane.

BLACK HAWK IS BACK

Le relazioni tra Somalia e USA ad una nuova svolta

Di Guglielmo Fasana Tra il 3 e il 4 ottobre del 1993, nel corso dell’operazione umanitaria Restore Hope, Mogadiscio è diventata teatro di un violento scontro tra le truppe statunitensi e i membri del clan di Mohamed Farrah Aidid.

CAMERUN 14 aprile. Vera Songwe, economista camerunense, è stata nominata Segretario esecutivo della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa (UN-ECA). Songwe, che in passato ha lavorato per la Banca Mondiale, ha dichiarato di essere interessata all’agricoltura, alle risorse finanziarie innovative, all’energia e alla governance economica per migliorare lo sviluppo del continente.

ETIOPIA 18 aprile. Hailemariam Desalegn, Primo Ministro etiope, ha respinto l’avvio delle indagini indipendenti riguardo la morte di centinaia di cittadini in seguito alle proteste anti-governative

Nella battaglia hanno perso la vita 18 militari americani. L’allora presidente Bill Clinton decise così di ritirare il contingente americano dalla missione, cedendone in toto la direzione all’ONU. Da allora, le truppe USA non sono più entrate in Somalia. Perlomeno non formalmente. È ormai stato accertato, infatti, che, durante l’amministrazione Obama, distaccamenti di forze speciali americane fossero operanti sul territorio. In questi giorni, però, dalla Casa Bianca di Donald Trump potrebbe giungere il segno per un’inversione di tendenza, così che ci si lasci alle spalle le incursioni delle teste di cuoio, invisibili ai media, per passare ai famosi e temutissimi “Boots on the ground”. Il 14 aprile, infatti, una portavoce dell’Esercito degli Stati Uniti ha confermato che, nel Paese del Corno d’Africa, saranno a breve rese operative “diverse dozzine” di paracadutisti della 101ª divisione. Le loro direttive non possono essere rivelate nel dettaglio, ma

è probabile che affiancheranno le forze armate somale nell’addestramento. Obiettivo dichiarato: cooperare con le autorità locali per eliminare la minaccia terroristica di matrice estremista jihadista posta dal gruppo al-Shabaab. Il pericolo proveniente da questa organizzazione, nata nel 2006 e affiliata ad al Qaeda, non è ancora del tutto scongiurato, sebbene si sia notevolmente ridotto a partire dal 2012, grazie all’opera congiunta dei militari keniani e somali. Solo pochi giorni prima dell’annuncio del rinnovato impegno statunitense in Somalia, almeno 17 persone sono morte in un attentato rivendicato dai militanti di alShabaab, che miravano ad eliminare il nuovo capo delle forze armate. Alla vicenda, fa da sfondo una situazione sociale ed economica disastrosa. Il Paese, visitato la settimana scorsa dagli ispettori per gli affari umanitari dell’ONU Peter De Clerq e John Ging, si trova, stando a quanto riportato, sul punto di soffrire una nuova carestia. Dal momento che metà della popolazione somala corre rischi altissimi, potrebbe rivelarsi opportuno, da parte dell’amministrazione Trump, non effettuare tagli alle spese per gli aiuti internazionali, fondamentali per combattere la crisi imminente.

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AFRICA che creano tensione dal 2015. Il Paese, secondo quanto dichiarato, avvierà un’ inchiesta interna senza il contributo delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea. MALI 18 aprile. E’ stato attaccato un campo militare nella città di Gourma-Rharous, al Nord del Paese. Durante lo scontro, secondo quanto indicato dal portavoce delle forze armate, Diarran Kone, sono stati uccisi 4 soldati. L’attentato per il momento non è stato rivendicato. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 14 aprile. Un gruppo di ribelli del Sud Sudan ha preso in ostaggio e poi rilasciato, 16 membri delle Nazioni Unite che si trovavano in un campo profughi del Paese per svolgere una Missione. L’Onu ha aperto un’indagine sull’accaduto. SOMALIA 19 aprile. Il Comando Africano degli Stati Uniti (Africom) ha respinto le accuse di aver ucciso, con un raid aereo, più di 100 miliziani di al Shabaab, nel mese corrente. Charles Chuck Prichard, portavoce del Comando, ha annunciato che verranno inviate alcune unità armate per favorire l’addestramento dell’esercito locale. SUD SUDAN 14 aprile. Le forze armate di Giuba, sono state accusata dall’opposizione guidata da Lam Paul Gabriel, di aver attaccato la città di Raga. Lo scontro non è stato commentato né ufficializzato dal governo, ma sarebbe l’ultimo di una serie di tensioni interetniche che da tre anni caratterizzano il Paese. A cura di Chiara Zaghi 16 • MSOI the Post

IL FUTURO DEL GAMBIA Dopo 22 anni di dittatura il Gambia guarda a un futuro democratico

Di Jessica Prieto Lo Stato del Gambia, situato nell’Africa occidentale, lo scorso dicembre ha messo fine ad una dittatura che durava ormai da 22 anni. Il dittatore Yahya Jammeh, che aveva assunto il potere dopo un colpo di Stato nel 1994, ha infatti perso le elezioni, sconfitto da Adama Barrow, un imprenditore di 52 anni sostenuto dai principali partiti di opposizione. Nei giorni che hanno seguito le elezioni, la tensione è stata alta, all’ombra di una nuova deriva autoritaria. Il vecchio dittatore, da un’iniziale apertura alla transizione democratica, è passato alla minaccia di rimanere al potere, annullando il risultato delle elezioni. Adama Barrow era stato quindi costretto a lasciare il Paese e a rifugiarsi in Senegal, dove ha pronunciato il suo giuramento come nuovo Presidente del Gambia. Solo a gennaio il nuovo Presidente eletto è potuto tornare nel Paese, dopo che Yahya Jammeh, ormai alle strette e senza più il supporto dell’esercito, ha raggiunto la Guinea Equatoriale. Al suo ritorno Barrow è stato accolto da una folla in festa, tra striscioni, musica e cori nella lingua nazionale Fula. Dopo la cerimonia d’insediamento, avvenuta nello stadio dell’Indipendenza di

Baku, Barrow è diventato ufficialmente Presidente del Gambia e dalla popolazione il suo insediamento è stato vissuto come “una rinascita”: la rinascita di una Nazione che per anni ha vissuto in un clima di “paura e repressione”, costringendo molti gambiani a migrare verso altri Paesi. Durante la sua campagna elettorale, Barrow ha annunciato di voler rilanciare l’economia, migliorare il settore sanitario, rendere gratuita l’educazione primaria e garantire il rispetto dei diritti umani. Il 6 aprile sono state indette le prime elezioni legislative e la popolazione ha dovuto scegliere i suoi nuovi 43 deputati, su cui gravano ora molte aspettative. Negli anni della dittatura, i Parlamentari dipendevano da Jammeh, che preferiva far approvare nuove leggi attraverso decreto presidenziale. Per Adama Barrow non saranno mesi facili: secondo il New York Times, il Presidente dovrà fare attenzione alle reazioni dei seguaci di Jammeh e affrontare problemi per consolidare la democrazia e permettere lo sviluppo. In ogni caso, per il Gambia questi mesi sono stati una vittoria e la popolazione sembra essere pronta a dare un nuovo volto al proprio Paese: un volto limpido, non più segnato dalle ferite inflitte dalla dittatura.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole BRASILE 17 aprile. Il giudice federale Raymond Dearie ha condannato il colosso dell’edilizia Obedrecht e la società petrolchimica Braskem ad una multa di 2,6 miliardi di dollari, nell’ambito del vasto scandalo di corruzione del gruppo petrolifero Petrobras. Il giudice ha specificato che 2,3 miliardi andranno al Brasile, mentre il resto della multa sarà diviso tra le autorità della Svizzera e degli Stati Uniti.

LA BOLIVIA NON CI CREDE

La Paz denuncia l’azione degli USA in Siria alle Nazioni Unite

Di Daniele Ruffino ECUADOR 19 aprile. Il riconteggio parziale dei voti, richiesto dall’opposizione, ha confermato la vittoria di Lenin Moreno alle elezioni. GUATEMALA 16 aprile. Javier Duarte, ex governatore dello Stato messicano di Veracruz, è stato arrestato in un hotel a Panajachel, in Guatemala, dopo 6 mesi di latitanza. Duarte è accusato di corruzione e contiguità con la criminalità organizzata. L’operazione di cattura è stata condotta dalla polizia guatemalteca e dall’Interpol ed il Messico ha chiesto la sua estradizione. MESSICO 14 aprile. Il giornalista Maximo Rodriguez Palacios è stato ucciso nello stato messicano di Baja California; il sito d’ informazione per il quale lavorava, il Colectivo Pericu, ha chiesto alle autorità messicane di far luce sul caso. Si tratta del quarto giornalista ucciso in Messico nell’ultimo mese e mezzo.

L’attacco con “armi chimiche” da parte dell’esercito siriano nei confronti dei civili ribelli ha destato l’indignazione mondiale e mentre i vari Stati Maggiori cercavano di correre ai ripari dopo la ritorsione statunitense, la Bolivia denunciava l’azione di Washington. Sacha Sergio Llorenty Soliz, Rappresentante Permanente alle Nazioni Unite e Ambasciatore della Bolivia presso l’ONU, ha denunciato energicamente l’operato americano mostrando all’Assemblea la storica foto del generale Colin Powell, 65° Segretario di Stato degli States, durante il discorso del 5 febbraio 2003 al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite circa l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’esercito iracheno allora guidato da Saddam Hussein. Nella foto si vede Powell mostrare una fialetta che, secondo l’opinione degli USA, conteneva l’antrace iracheno utilizzato per attaccare civili (affermazioni rivelatesi poi false).

Llorenty, che ha presieduto per due anni la Commissione Permanente dei Diritti Umani, ha proposto un parallelismo con quello che sta avvenendo in questi anni con la Siria di Assad (le dinamiche dell’attacco non sono chiare e unanimi). L’ambasciatore ha ribadito ai giornalisti: “Ora gli Stati Uniti ritengono di essere gli investigatori, gli avvocati, i giudici e i carnefici. Non è quello che dice il diritto internazionale”. L’appello dell’avvocato altro non è che la punta dell’iceberg di un un’azione politica estesa a tutta l’America Latina, dato che a inizio mese i Paesi membri dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) e la CIDU (Commissione Interamericana dei Diritti Umani) – sotto pressione della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC) – hanno impugnato la Carta Democratica Interamericana (CDI) contro le discriminazioni etniche perpetrate dall’amministrazione Trump. MSOI the Post • 17


SUD AMERICA CASCHI BLU COINVOLTI NELLA PROSTITUZIONE MINORILE AD HAITI La diffusione di un rapporto segreto getta le Nazioni Unite nella bufera

PARAGUAY 17 aprile. Il presidente del Paraguay Cartes, ha dichiarato di non volere ricandidarsi alle prossime elezioni presidenziali. Il congresso paraguaiano stava discutendo su un emendamento per permettere la ricandidatura del leader dopo la fine del primo mandato e ciò aveva scatenato numerose proteste per tutto il Paese. VENEZUELA 18 aprile. Il governo venezuelano ha respinto la dichiarazione congiunta di 11 Paesi latinoamericani con la quale hanno chiesto al presidente Maduro di indire nuove elezioni e di garantire il diritto alla protesta ai venezuelani, denunciando la morte di 6 persone durante le manifestazioni anti-governative. 19 aprile. Durante le proteste contro il governo di Nicolas Maduro sono state uccise almeno 3 persone. A cura di Elia Zamuner

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Di Viola Serena Stefanello

minori.

Non è la prima volta che i Caschi Blu dell’ONU creano scandalo. Questa volta è stata un’inchiesta dell’agenzia di stampa statunitense Associated Press (AP) a svelare i crimini di soldati che avrebbero dovuto lavorare per il mantenimento della pace in zone sensibili. Stando alle fonti di AP, dal 2004 al 2007 9 bambini haitiani sono stati sfruttati sessualmente, nell’ambito di un giro di prostituzione minorile che ha visto coinvolti almeno 134 peacekeepers dello Sri Lanka.

Nonostante l’inconfutabilità delle prove esposte nel rapporto, sembra che i peacekeepers coinvolti non subiranno le conseguenze dei crimini commessi. Secondo AP, che ha seguito con attenzione le missioni ONU negli ultimi 12 anni, sarebbero almeno 2.000 le accuse di abuso sessuale e sfruttamento che pesano sui Caschi Blu e altri funzionari di diverso grado delle Nazioni Unite in varie parti del mondo. In almeno 300 casi, le vittime sarebbero dei minori.

Prima repubblica nera indipendente fondata nel 1804, Haiti ha alle spalle una storia di sangue e tragedie. Nel 2004 un colpo di Stato destabilizza fortemente la regione, rendendo necessario l’organizzazione della United Nations Stabilization Mission in Haiti (MINUSTAH), presente da allora sul territorio. Sebbene in questo contesto si renda necessaria la presenza di un gran numero di Caschi Blu, soprattutto dopo il disastroso terremoto del 2010, sono innumerevoli le denunce di violenze gratuite sugli abitanti e di sfruttamento di

Sebbene a marzo il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, abbia annunciato maggior severità nel far fronte alla cattiva condotta dei Caschi Blu, per il momento non sembra che giustizia sia stata fatta. Il principale problema è che l’ONU non ha giurisdizione sulle azioni dei peacekeepers: un’eventuale punizione spetta al Paese che fornisce le truppe per le missioni di pace. Da oltre 10 anni le alte sfere dell’Organizzazione promettono la riforma del sistema e giustizia per le vittime, ma la situazione rimane per il momento immutata.


ECONOMIA VIVENDI-MEDIASET: ATTO II

L’Agcom impone la scelta tra Telecom o Mediaset entro 12 mesi

Di Efrem Moiso Il colosso Vivendi ha ricevuto cattive notizie dall’Agcom a proposito della sua scalata in Italia nel settore dei media e delle comunicazioni. Diventato azionista di riferimento di Telecom Italia nel 2015 con il raggiungimento del 14,9% delle azioni ordinarie, nel marzo 2016 aveva portato la partecipazione al 24,9%. Un mese dopo, la società francese - attiva in Europa nell’industria della musica, della televisione, del cinema e dei videogiochi -, firmò un contratto per acquisire il 100% di Mediaset Premium. In particolare, il patto, firmato con il gruppo Mediaset, prevedeva uno scambio paritario del 3,5% delle azioni tra le capogruppo Mediaset e Vivendi per una valorizzazione di Premium di 756 milioni di euro ed un “patto parasociale” che avrebbe impedito a Vivendi di acquistare azioni Mediaset nel primo anno e di possederne più del 5% nei successivi due. Lo stesso patto vietava l’ingresso incrociato di rappresentanti nei rispettivi consigli di amministrazione. A seguito della pubblicazione dei conti di Mediaset Premium del primo trimestre, da cui emersero una perdita di oltre

56 milioni di euro ed un indebitamento per oltre 200 milioni, e successivamente dei conti del primo semestre (indicanti perdite per 100 milioni di euro), Vivendi, richiamata per inadempienza contrattuale dal gruppo berlusconiano, respingeva il contratto per via dei risultati finanziari peggiori rispetto a quanto prospettato in sede di trattativa. Il gruppo di Vincent Bolloré lanciò così una nuova proposta: l’acquisizione limitata del 20% di Premium e del 15% di Mediaset. La proposta venne duramente rinviata al mittente. A dicembre la vicenda si complicò ulteriormente, poiché la quota azionaria di Mediaset posseduta da Vivendi aumentò dal 3,01% al 28,80% del capitale e al 29,94% dei diritti di voto nell’arco di una settimana, palesando quello che i vertici di Mediaset ritennero essere un tentativo di scalata ostile da parte del gruppo francese. A quel punto, il Biscione, controllato dalla famiglia Berlusconi tramite la holding milanese Fininvest che ne deteneva il 38,2% del capitale e il 39,7% dei diritti di voto, presentò un esposto all’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni secondo il quale Vivendi avrebbe aggirato i divieti imposti dalla Legge 177 del 2005 sui tetti di controllo nel settore media e telecomunicazioni.

Arriviamo, dunque, al presente: a seguito dell’esposto presentato a dicembre, il 18 aprile l’Agcom ha deciso che la società del finanziere bretone avrà un anno di tempo per “rimuovere la posizione vietata” dal comma 11 dell’Articolo 43 del Tusmar, il Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici. Il Comma 11 recita, infatti, che “le imprese […] i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche […] sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo”. Oltre all’obbligo della rimozione della posizione ai sensi di legge, l’Agcom ha richiesto a Vivendi la presentazione, entro 60 giorni, di un piano d’azione che la società intende adottare per ottemperare all’ordine e ha ricordato che, in caso di inottemperanza all’ordine, la società rischia una sanzione per un valore compreso tra il 2% ed il 5% del suo fatturato. Bolloré si è detto pronto a ricorrere al Tar ed alla Corte di Giustizia dell’UE per contestare l’incongruenza tra le leggi italiane e il principio comunitario della libera circolazione dei capitali. MSOI the Post • 19


ECONOMIA LA “RIAPERTURA” DEL VASO DI PANDORA

Boom di vendite per i charm “ecosostenibili” e alla portata dei consumatori

Di Martina Unali Forse sarebbe il caso di riscrivere la mitologia greca. O forse no. Contrariamente a quanto narrano le vicende della prima donna mortale, ciò di cui parliamo è fonte di redditività e - perché negarlo? - anche di gioia per chi li acquista o li riceve in dono. Stiamo parlando non del leggendario contenitore, ma di Pandora, il marchio danese che in pochi anni ha raggiunto notorietà mondiale. Come quasi tutti sanno, in particolar modo il gentil sesso, Pandora è nota per la produzione di gioielli. Nata nel 1982 a Copenaghen, in qualità di gioielleria a conduzione familiare, ha raggiunto risultati straordinari in Italia: un +54% rispetto al 2015. Se si considera che gli uffici di Milano sono stati aperti soltanto nel 2010, il mercato italiano svetta, ad oggi, nella top ten globale con cifre monstre. Analizzando i bilanci 2016, saltano subito all’occhio i 270 milioni euro di ricavi (corrispondenti a circa 2 miliardi di corone danesi) e l’EBITDA (il margine che consente di verificare se la società realizza profitti positivi dalla gestione ordinaria), che presenta un’incidenza del 40% sul fatturato. La peculiarità dei gioielli Pandora 20 • MSOI the Post

- almeno per quanto riguarda quelli fabbricati in argento - risiede nell’accessibilità del prezzo, il quale riflette l’impostazione dell’immagine aziendale. Lo stesso AD, Massimo Basei, sostiene che vi sia una sorta di tripartizione della clientela: “un terzo delle clienti sono donne che comprano qualcosa per altre donne, un altro terzo sono autoregali, e l’ultimo terzo sono acquisti fatti da uomini per donne”. I best seller sono i bracciali componibili e personalizzabili con i famosi charm dalle forme e colori più disparati. Astuta la scelta dell’azienda di creare piccoli gioielli intercambiabili a seconda dei gusti personali, dell’umore e dei trend del momento. Il motto “DO STYLE YOUR PERSONALITY” riassume perfettamente il concetto. Ovviamente, la gamma di prodotti offerti non si esaurisce qui.

Infatti, sono in crescita anche le vendite di anelli e collane.

Ma Pandora non è solo uno dei leader all’interno del settore gioielleria, ma è anche leader della sostenibilità. Tra gli obiettivi perseguiti dall’azienda danese, come indicato sul sito ufficiale, spicca il voler “ realizzare gioielli di eccellente qualità che facciano bene sia al pianeta che alle persone”. A tal proposito, lo scorso marzo, è stato inaugurato un nuovo stabilimento

produttivo a Lamphun, in Tailandia. La struttura è già pronta per fissare nuovi standard di produzione, grazie alle pratiche pionieristiche e innovative. L’ottenimento dell’ambito certificato LEED (Leadership in Energy and Environmental Design), è a garanzia della sostenibilità con accorgimenti che prevedono l’uso di pannelli fotovoltaici ed il riciclaggio delle risorse. Anche le condizioni degli ambienti lavorativi assicurano il benessere dei dipendenti: gli impianti produttivi, infatti, sono tra i più all’avanguardia in Asia. L’attività di supporting effettuata da Pandora rimarca il suo commitment, vale a dire il suo impegno, verso cause definite “charitable”. Ad esempio, la recente “Hearts of Today” supporta le iniziative delle donne in aree specifiche: assistenza sanitaria (Health & Well-being); iniziative che riguardano il miglioramento delle comunità locali (Social Commitment and Empowerment); e, infine, quelle finalizzate a migliorare le condizioni di vita dei bambini (Children and Youth). Insomma, questa volta è proprio il caso di dirlo: un prodotto bello e anche “buono”!


DIRITTO INERNAZINALE ED EUROPEO DIRITTI DELL’UOMO E ANTITERRORISMO La Corte EDU verso un allargamento degli obblighi positivi?

Di Luca Imperatore La Corte europea dei diritti dell’uomo ha pronunciato lo scorso 13 aprile l’attesa sentenza sul caso Tagayeva e altri c. Russia. I ricorrenti avevano adito la Corte di Strasburgo lamentando violazione dell’art. 2 della Convenzione per l’inadeguata condotta dalle autorità in relazione alla strage alla scuola di Beslan. I fatti risalgono ai giorni compresi tra il primo ed il tre settembre 2004 nell’omonima cittadina dell’Ossezia del Nord, oggetto di un attacco terroristico da parte di un commando di separatisti ceceni. Nell’assalto, durante la detenzione degli ostaggi, e nel blitz delle forze speciali russe, persero la vita più di 380 persone, molte delle quali bambini e ragazzi. Superando parzialmente la precedente pronuncia sul caso Finogenov e altri c. Russia – relativa alla presa di ostaggi del teatro Dubrovkadel 2002 –, la sentenza in oggetto potrebbe configurarsi come leading case in materia di diritto alla vita in situazioni straordinarie. L’art. 2 CEDU non vieta unicamente l’arbitraria privazione della vita da parte di agenti statali, ma impone altresì alle autorità l’obbligo di prevenire

e reprimere condotte analoghe anche se perpetrate da privati (c.d. obblighi positivi e Drittwirkung). La Corte ha quindi dovuto bilanciare gli interessi di protezione dei diritti umani con le misure di azione che si rendono possibili nell’eccezionalità data da un attacco terroristico. Come in molteplici pronunce passate, anche nel caso di specie la Corte ha sottolineato le o difficoltà dello Stat di prevedere e anticipare le condotte di terzi e di far fronte all’imprevedibilità delle società contemporanee. Ciononostante, sulla base dell’esperienza pregressa e delle informazioni ricavate, le autorità russe avrebbero potuto adottare misure ragionevoli al fine di impedire la presa di ostaggi o quantomeno di mitigarne gli effetti. Secondo la visione dei giudici di Strasburgo, la condotta passiva della Russia avrebbe dunque violato gli obblighi di prevenzione, dal momento che le autorità erano da tempo in possesso di informazioni attendibili circa la presenza di un rischio “reale ed imminente” nei confronti di quel dato obiettivo. In ultima istanza, la Corte ha ritenuto di dover sanzionare anche la violenza impiegata dal-

le forze speciali russe durante l’assalto per la liberazione degli ostaggi, che sarebbe risultata inappropriata e sproporzionata. L’uso della c.d. lethal force da parte di agenti statali e le armi impiegate durante queste operazioni non avrebbero rispettato i requisiti di due diligence e di “assoluta necessità” che si impongono in tali circostanze, configurando autonoma violazione dell’art. 2 CEDU. In conclusione, appare interessante riportare l’annotazione del giudice Pinto de Albuquerque che esprime, in un’opinione parzialmente dissenziente, il plauso alla Corte per non aver ceduto all’interpretazione della Convenzione secondo gli standard del diritto dei conflitti armati, che avrebbe portato con sé una riduzione delle tutele previste. La sentenza, invece, ha equiparato il livello di protezione dei diritti umani normalmente previsto in situazioni ordinarie, anche ai contesti eccezionali quali gli attacchi terroristici su larga scala, creando un precedente interessante per la giurisprudenza futura della Corte ed ampliando la portata e l’estensione degli obblighi positivi degli Stati. MSOI the Post • 21


DIRITTO INERNAZINALE ED EUROPEO SIRIA: IL RITORNO DELLE ARMI CHIMICHE

La guerra è atroce per natura. Anche in guerra però, non tutto è permesso

Di Pierre Clément Mingozzi Gli avvenimenti delle ultime settimane in Siria evidenziano ancora una volta gli aspetti più controversi del rapporto che intercorre tra il regime di Assad e il rispetto del diritto internazionale nell’ambito del conflitto siriano che, ormai da quasi sei anni, flagella la Regione. L’attacco chimico perpetrato il 4 aprile 2017 contro la popolazione civile a Khan Shaykhun, una cittadina della provincia di Idlib situata nel nord est della Siria, ha tuttavia segnato un punto di svolta nel conflitto avendo di fatto obbligato – secondo il parere dell’amministrazione Trump – gli Stati Uniti a rispondere con il bombardamento della base militare siriana di al-Shayrat, da dove si presuppone che sia partito l’attacco. Al netto delle divergenze sull’attribuzione della responsabilità dell’attacco chimico, addossato reciprocamente o dal governo legittimo di Assad (e alleati come Russia e Cina) ai ribelli, o viceversa attributo dagli Stati Uniti (insieme a Francia, Inghilterra, Israele) al governo del dittatore siriano, ciò che ha colpito l’opinione pubblica globale è stato utilizzo di armi chimiche che ha causato la morte di almeno

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72 vittime – inclusi civili e bambini – nel più totale disprezzo delle norme di diritto internazionale umanitario. L’utilizzo di armi chimiche rappresenta un palese crimine di guerra: il loro utilizzo è vietato in qualsiasi circostanza, sia che si tratti di conflitti armati internazionali che di conflitti armati non-internazionali come stabilito dalla Convenzione sulle armi chimiche (1993) la quale però, non è stata ancora ratificata dalla Siria; tali armi, infatti, non permettono il rispetto di una norma cardine dello jus in bello ovvero il principio di distinzione (art. 48 del I Protocollo addizionale, 1977) essendo armi indiscriminate “capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili” come vietato dall’art. 35, par. 2 del medesimo Protocollo. Non è tuttavia la prima volta che viene constatato l’utilizzo di armi chimiche in Siria. Già nel 2013, dopo il bombardamento del quartiere della Ghouta, a Damasco, il presidente Obama annunciò che un ulteriore utilizzo di queste armi avrebbe comportato il superamento della “red line” e dunque un intervento americano che tuttavia all’epoca non avvenne. Grazie al pressing della comunità internazionale, il governo di

Assad ratificò la Convenzione che vieta lo sviluppo, la fabbricazione e lo stoccaggio delle armi batteriologiche (biologiche) o a base di tossine e che disciplina la loro distruzione (1972), strumento molto atteso per completare e implementare il precedente Protocollo di Ginevra (1925) peraltro ormai con valore consuetudinario. Questa scelta sembrò evidenziare la volontà del governo siriano di allinearsi finalmente agli standard internazionalmente riconosciuti. Sempre nel 2013 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 2118 che imponeva alla Siria la distruzione del suo armamento chimico e stabiliva un sistema di controlli effettivi e continui da parte di agenzie indipendenti affinché tali obblighi venissero concretamente rispettati. I recenti fatti di cronaca hanno fatto sollevare seri dubbi sul valore dissuasivo delle azioni intraprese sino ad ora, stimolando gli Stati Uniti ad intervenire unilateralmente in Siria senza aspettare l’azione del CdS delle Nazioni Unite, in stato di cronico impasse causato dal veto incrociato di Russia e Cina.


MSOI the Post • 23


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