MSOI thePost Numero 63

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

speciale elezioni francesi


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

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N u m e r o

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SPECIALE ELEZIONI FRANCESI FRANCIA, SOLA ANDATA

Una riflessione sulle elezioni francesi

Di Stefano Galimberti e Gianluca Durno Il fatto politico più rilevante scaturito dal primo turno delle elezioni presidenziali francesi è, come spesso accade, quello più sottovalutato. E cioè la dissoluzione dei due storici partiti francesi (socialisti e gaullisti), tanto manifesta che in Francia si celebra già il funerale della Quinta Repubblica, quella plasmata nel 1958 dal generale De Gaulle, il padre della patria. Un piacere intellettuale per pochi francofili? Non proprio. Che il ruolo del becchino spetti a Emmanuel Macron o a Marine Le Pen, ad andare in soffitta è il significato che attribuiamo al concetto di bipolarismo dal 1989. Destra e sinistra non esistono più. Il dibattito politico non è più una conseguenza di ricette

economiche: fra chi pensa che sia meglio diminuire le tasse e chi chiede un welfare più ampio. Anche se in pochi vogliono ammetterlo fino in fondo. Vuoi perché l’attenzione di tutta Europa è già catalizzata dalla finalissima Macron-Le Pen, vuoi perché ancora oggi si tende a leggere la politica con categorie novecentesche ormai fuori tempo massimo. Ma il risultato concreto è che Parigi conferma il suo ruolo storico di laboratorio politico. D’ora in avanti i due modelli che si affronteranno su tutto il palcoscenico europeo saranno quelli che il politologo Pascal Perrineau chiama della «società aperta» e della «società chiusa». È il ritorno della politica, che chiama i cittadini a scegliere di fronte al bivio a cui la crisi ha portato il Vecchio Continente. Abbiamo incontrato Perrineau

nel suo ufficio alla Sorbona, a Parigi, ormai un anno fa, durante il nostro viaggio alla ricerca dei motivi della crescita o, come la chiamano in Francia, della montée del partito di Marine Le Pen. Docente a Sciences-Po ed esperto di Front National, Perrineau ci metteva in guardia dalle semplificazioni. Segno che le crepe del bipolarismo francese erano già visibili agli osservatori più attenti. Nel giro di un anno le crepe si sono fatte più spesse, l’edificio è crollato e ne sono rimaste macerie. L’esempio più azzeccato è la decisione di Jean-Luc Mélenchon di non esprimersi subito dopo i risultati del primo turno a favore di Emmanuel Macron. Nel vecchio mondo della destra contro la sinistra, degli antifascisti contro gli eredi di Jean-Marie Le Pen, il candidato della “sinistra-sinistra” non MSOI the Post • 3


avrebbe mai potuto non chiamare i “compagni” all’unità contro l’estrema destra. Oggi, seppur timidamente, si fa avanti la consapevolezza che il programma della sinistra radicale, sui temi di fondo, sia più vicino a quello di Marine Le Pen (soprattutto in campo sociale e dei diritti dei lavoratori) che a quello della sinistra moderata ed europeista di Macron. Il non detto, ben visibile fra le righe del discorso pubblico, è che Le Pen è pericolosa prima di tutto perché “di estrema destra”, non in quanto “antieuropeista”. È una perdita di fuoco che non ci fa capire da che parte stia andando il mondo. È dire che oggi il primo pericolo per l’Occidente è il ritorno dei fascisti in camicia nera e non il rischio di autocondannarsi all’irrilevanza politica sulla scena internazionale. A rincarare la dose, per citare un titolo di Le Figaro, il “voto plebiscitario dei giovani per Le Pen e Mélenchon”. Le Figaro riporta l’analisi del voto di domenica realizzata da Opinionway secondo cui il 25,7% dei francesi tra i 18 e i 34

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anni ha votato Front National, mentre il 24,6 per cento ha scelto il candidato de La France Insoumise. Insieme superano il 50 per cento dei consensi dell’elettorato dei prossimi decenni: il che equivale a dire che questa nuova geografia elettorale non si presenta come un fenomeno passeggero. Passiamo così dalla politica alla realtà. Tutto questo ci è apparso davanti agli occhi viaggiando per 3.000 chilometri in Francia. Ne è nato un libro, Francia Sola Andata – Chi ha paura del Front National e un documentario omonimo. Francia sola andata è il racconto della nostra esperienza d’Oltralpe: dalla frontiera di Ventimiglia alla “Giungla” di Calais, dalle piazze di Parigi dove si manifesta contro la Loi Travail (il Jobs Act francese) alle banlieues di Marsiglia passate sotto il controllo dell’estrema destra, proprio come le regioni del nord abitate da ex-minatori, rimasti senza lavoro e delusi dalle amministrazioni di sinistra. Queste elezioni hanno già rappresentato una svolta nella

storia politica del Vecchio Continente. La linea tracciata da Le Pen è chiara: la leader del primo partito di Francia propone una visione alternativa del nostro futuro che passa per il ritorno agli Stati nazionali, alla sovranità monetaria, alla chiusura dei confini. Temi che, si presenteranno per lungo tempo nelle agende politiche dei governi, che si trovano a rincorrere i “populisti” senza avere proposte convincenti da mettere sul tavolo. Oggi abbiamo solo una certezza: comunque andranno le elezioni francesi, l’Unione Europea non potrà più essere quella che abbiamo imparato a conoscere. Nell’incontro di mercoledì 3 maggio (trovate le informazioni nella locandina pubblicata insieme a questo articolo, ndr) vorremmo parlarvi proprio della nostra esperienza in presa diretta di una Francia e un’Europa cambiate nel profondo, come abbiamo avuto modo di capire on the road, ascoltando le parole delle stesse persone che tra pochi giorni, in cabina elettorale, saranno chiamate a una scelta decisiva per tutti noi.


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 20 aprile: Attacco terroristico sugli Champs-Elysées. Un uomo armato di kalashnikov, identificato con il nome di Kalim Cheurfi, ha aperto il fuoco contro le forze dell’ordine che presiedono la zona nel cuore della capitale francese, uccidendone uno e ferendone gravemente altri due. Secondo le prime indiscrezioni l’uomo, noto alle autorità francesi, era un fedele seguace di Daesh, tanto che, accanto al suo corpo, è stato ritrovato un bigliettino inneggiante ISIL. 23 aprile: Emmanuel Macron si aggiudica il primo turno delle elezioni Presidenziali. Il candidato indipendentista di “En Marche!” trionfa nel primo round della sfida a scapito della sfidante Marin LePen, leader del Front National; secondo gli analisti il voto francese rappresenta il “crollo dei partiti tradizionali”. Netta la posizione di Macron, che afferma come “sarà il presidente di tutti i francesi e contro i nazionalismi”. GERMANIA 22 aprile: Proteste a Colonia contro il congresso di AfD, partito populista della destra tedesca. Cortei si sono protratti lungo le vie della città della Renania ad opera di seguaci della sinistra tedesca, provocando scontri con la polizia e situazioni di tensione. Nel contempo la leader di AfD Frauke Petry, all’interno di un hotel della città, ha ritirato la sua candidatura per le elezioni federali del 24 settembre prossimo. 26 aprile: Il esteri Gabriel

ministro degli incontra due

VOTER’S RIGHTS IN DEMOCRACIES European Turkish support Erdogan

By Ann-Marlen Hoolt Erdogan declared his victory in the Turkey referendum. Surprisingly, the “yes” would not have won without the support of Turkish citizens living abroad. In twelve European countries a majority of those entitled to vote supported the plans of the Turkish President. The election result caused outrage in Europe. Belgium is leading in Europe with 75% of yes-voters, followed by 73% in Austria, 71% in Holland and 65% in France. Turkish-German politician Özcan Mutlu commented: “I do not understand how one can vote to abolish democracy in Turkey, while enjoying all the perks of democracy living in Germany.” Why Erdogan is notably supported by Turkish-European citizens? Right-wing parties concluded that European Politics have failed to integrate Turkish citizens. Surely, mislead integration may be one side of the coin but reality is much more complicated. Firstly, the high numbers of yes-voters has to be reflected in proportion to the amount of Turkish living in each country. The 63% of Turkish-Germans supported Erdogan in the referendum, but only half of the Turkish living in Germany took part in the vote, reducing the amount of German yes-voters to

only 14%. Turkish communities are not a homogenous mass, they come from different environments and layers, Erdogan’s supporters meet those against him. Secondly, it should be noted that we are living in a democracy, many voted out of political belief. Should they support Erdogan despite or because of his political course they have every right to express their political opinion. The referendum has been influenced not only by political but also cultural and religious factors. Nationalism is an immense part of Turkish culture. Voters can be well integrated European citizens but will never fully erase their cultural roots. With Erdogan and Turkey being criticized from all over the world, they now feel hurt in their national pride and the urge to protect their country and their President. Furthermore, many voters do not see a contradiction in their political belief, voting against basic democratic rights while living themselves in a democracy. They often belief in a rather basic form of democracy, do not a care about its structure but only about the method, the principle of majority. The situation can only be confronted when comprehended. Simply reducing the referendum results to failed integration will not suffic . e MSOI the Post • 5


EUROPA ONG israeliane operanti su suolo palestinese scatenando l’ira di Netanyahu. Il primo ministro israeliano ha annullato l’incontro con lo stesso Gabriel, definendo l’incontro con le ONG “legittimante organizzazioni che incitano l’incriminazione dei soldati israeliani”. Rammarico da parte del governo di Berlino, che però precisa come “la Germania non voglia diventare strumento per la politica interna israeliana”. GRECIA 25 aprile: La corte d’appello greca ha respinto la seconda richiesta di estradizione avanzata dalla Turchia circa tre degli otto militari rifugiatisi nel paese ellenico dopo il fallito golpe del 16 luglio scorso. La negata richiesta segue la decisione precedente della Corte suprema di Atene. ITALIA 24 aprile: Gabriele Del Grande è tornato in Italia. Accolto dal ministro degli esteri Angelino Alfano all’aeroporto di Bologna il giornalista, dal 10 aprile detenuto in un carcere amministrativo turco, ha ringraziato le autorità per l’impegno, confermando di non aver subito alcuna violenza fisica, ma etichettando questa vicenda come “violenza istituzionale” UNGHERIA 22 aprile: Continuano le proteste contro il primo ministro Victor Orban. Migliaia di manifestanti, prevalentemente elettori del partito antagonista MKKP, hanno invaso le strade della capitale sbeffeggiando il premier con slogan ironici come “Abbasso la libertà di stampa”. A cura di Simone Massarenti 6 • MSOI the Post

ENTRE DEUX TOURS: DUE SETTIMANE PER CONVINCERE

Dopo una ripresa troppo lenta, Macron si scaglia contro Le Pen per convincere gli indecisi Di Michele Rosso Dopo i risultati elettorali del 23 aprile, i due candidati rimasti in lizza per la presidenza della Repubblica francese hanno ripreso con vigore la campagna. Si tratta di un momento decisivo, poiché entrambi devono cercare il consenso degli elettori dei candidati sconfitti François Fillon (Les Républicains) et Jean-Luc Mélenchon (La France Insoumise). Un’operazione non da poco, tenuto conto delle buone performance di questi ultimi. Il numero di francesi da convincere è quindi consistente. A complicare il quadro l’orientamento degli elettori di Mélenchon, altrettanto distanti dalle posizioni della estrema destra di Le Pen che all’apertura economica di Macron. La campagna di Macron, ripresa a rilento, sta adesso assumendo toni agguerriti nei confronti dell’avversaria e dei suoi elettori. In un comizio tenutosi ad Arras, il leader di En Marche si è scagliato con inedito vigore contro i francesi che hanno deciso di essere “i sonnambuli del XXI secolo” a cui contrappone la forza e il dinamismo di chi ha scelto di sostenerlo. Macron ha ribadito con forza l’impegno a garantire al Paese qualcosa di diverso, ripetendo più volte “pas ça!” (“non questo!”) in riferimento al programma di chiusura del Front National. Una doverosa discesa da quel piedistallo che stava preoccupando, tra i tanti, anche Jean-Christophe Cambadélis.

Secondo il Primo Segretario del Partito socialista, domenica sera Macron stava già ricorrendo a quell’atteggiamento fastidioso ed elitario che spesso lo avrebbe connotato in campagna, quasi a dare per scontata la sua vittoria al secondo turno. Banalizzare il Front è proprio l’errore da non commettere. Mercoledì, andando a dialogare con i sindacati della fabbrica Whirpool (a rischio delocalizzazione) di Amiens, la sua città, Macron ne ha avuto la prova tangibile. Dopo aver deciso all’ultimo di incontrare, oltre ai sindacati, anche i lavoratori, egli ha dovuto far fronte ai loro fischi ma anche alla sorpresa di Marine Le Pen, che ha deciso anch’ella di recarsi presso la fabbrica. La coraggiosa mossa di essere andato tra gli operai senza fare promesse non varrà forse a Macron più consensi da parte loro, ma testimonia una nuova presa di coscienza del candidato su come si fa campagna elettorale. Marine Le Pen gli sta con il fiato sul collo. Il suo stile demagogico, unito alla “dé-diabolisation”, il processo di redenzione del suo partito dall’intollerabile eredità paterna, hanno più forza di quanto si pensi. Le Pen è per gli sconfitti della globalizzazione un’alternativa da provare. Macron deve andare oltre al voto utile, deve convincere. Piacendo, entrando nel vivo della competizione, sporcandosi le mani.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

CANADA 26 aprile. Reddito di cittadinanza, la sperimentazione arriva anche in Ontario. Dopo l’avvio del progetto in Finlandia e Olanda, anche il Canada vuole testare gli effetti del reddito di base. Il governo ha stanziato 150 milioni di dollari per i prossimi tre anni, che saranno distribuiti a sorte tra cittadini a basso reddito tra i 18 e i 64 anni (17.000 dollari l’ammontare massimo che ognuno di loro potrà percepire). USA 24 aprile. Gli Stati Uniti hanno emesso sanzioni contro il Centro di ricerca siriano accusato di aver prodotto armi chimiche. Ad annunciarlo è stato il segretario al Tesoro Steven Mnuchin. La sanzione vede coinvolti 271 dipendenti del Centro.

25 aprile. Il sottomarino nucleare Michigan è entrato nel porto di Busan, in Corea del Sud. Il mezzo della marina militare statunitense è stato inviato lì dal presidente Donald Trump come avvisaglia per il capo di Stato nord coreano Kim Jong-un, che sta portando avanti una serie di

IL SENATO ALLA CASA BIANCA Trump riunisce senatori e militari per fronteggiare la minaccia nord-coreana

Di Lorenzo Bazzano Il 25 aprile, quando a Pyongyang si celebrava l’85°anniversario dalla fondazione dell’Esercito Popolare di Corea, Donald Trump non ha esitato a far sentire la sua voce, inviando un sottomarino a reazione nucleare nel porto di Busan, in Corea del Sud. Anche se i portavoce della Casa Bianca hanno parlato di una semplice missione di routine, sembra chiaro che le mosse di Washington vadano lette nell’ottica delle difficili relazioni tra Stati Uniti e Corea del Nord. Lo dimostrano le recenti iniziative intraprese da Trump (su tutte, l’invio della portaerei USS Carl Vinson), le ipotesi su un possibile coinvolgimento del Canada in un eventuale conflitto e la convocazione, da parte del presidente degli Stati Uniti, dell’intero Senato presso la Casa Bianca. Oltre ai 100 senatori, al vertice hanno partecipato il segretario di Stato Rex Tillerson, il segretario alla Difesa James Mattis, il comandante degli Stati Maggiori Riuniti (l’ufficiale USA più alto in grado) John Dunford

e il direttore della National Intelligence (che coordina le 17 agenzie di spionaggio Usa) Dan Coats. È da sottolineare che la raccolta di un simile consesso è qualcosa di più unico che raro. L’evento si è tenuto mercoledì 26 aprile in un auditorium blindato, allo scopo di evitare possibili fughe di notizie. È sensato ipotizzare che Trump abbia agito per fornire ai Senatori informazioni privilegiate sulla Corea del Nord e per preparare loro e i vertici militari a un eventuale intervento armato, pianificando le prime misure da adottare nei confronti di Pyongyang. Del resto, anche l’atteggiamento della Corea del Nord non è all’insegna della conciliazione e rischia di provocare nuove risposte da parte di Washington. Basti pensare che, dopo il lancio missilistico fallito il 16 aprile, si ipotizza che Kim Jong-un abbia intenzione di eseguire un nuovo test nucleare. Inoltre, la Repubblica Popolare Democratica di Corea rilancia, minacciando di affondare la portaerei statunitense. MSOI the Post • 7


NORD AMERICA test nucleari nel mar del Giappone.

26 aprile. Un nuovo stop giudiziario per l’amministrazione Trump. Dopo la bocciatura giudiziaria del cosiddetto muslim ban, un giudice federale di San Francisco ha rigettato il decreto presidenziale che minaccia di tagliare fondi alle città che accolgono e proteggono gli immigrati. “Stanno dando i numeri”, ha esclamato il capo dello staff della Casa Bianca, Reince Preibus, riferendosi ai giudici. 26 aprile. “Non lasciate che i fake media vi dicano che ho cambiato idea sul muro: si farà”. Invece, il presidente Donald Trump ha dovuto ricredersi, o almeno rimandare. I Repubblicani al Congresso non sono riusciti a stanziare a bilancio il miliardo e mezzo di dollari necessari per la progettazione del muro al confine con il Messico. Se ne riparlerà non prima del prossimo anno. 27 aprile. Sarà “il più grande taglio delle tasse e la più ampia riforma fiscale nella storia del paese”. L’amministrazione guidata da Donald Trump, tramite le parole del segretario al Tesoro Steven Mnuchin, annuncia la propria riforma delle tasse. Confermata l’ipotesi di un’aliquota al 15% per le aziende (oggi al 35%). A cura di Federico Sarri

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CANADA: PROSPETTIVE DI GUERRA

Il Paese valuta l’eventualità di un conflitto con la Corea del Nord

Di Martina Santi La minaccia nord-coreana è sempre più sentita in Nord America ed il Canada, in caso di conflitto con il regime di Pyongyang, potrebbe essere costretto a garantire il proprio intervento militare in quanto membro dell’UNC (United Nations Command). Sotto questo nome, infatti, durante la Guerra di Corea venne istituita dall’ONU una coalizione militare multinazionale, posta sotto la direzione degli Stai Uniti, con lo scopo di assistere la Corea del Sud nello scontro. Dopo l’armistizio con la Cina, tuttavia, le truppe armate non vennero ritirate, ma mantenute a guardia della zona demilitarizzata per preservare la pace e la stabilità nel Paese. Secondo quanto riportato da CBC News, Ottawa dovrebbe garantire il proprio supporto nel conflitto, qualora l’ONU rendesse nuovamente operativa l’UNC. Il ministro delle Difesa canadese Harjit Sajjan, però, ha finora smentito la possibilità di un intervento militare in Corea, rivendicando l’inclinazione del Governo ad un approccio più diplomatico alla crisi. “Diplomacy is the one thing we need to focus on first”, ha riferito Sajjan da Mumbai, in

una conferenza telefonica con la capitale. La risposta del Paese deve essere una risposta responsabile ed è pertanto necessario permettere alla diplomazia di svolgere il suo lavoro. Alcuni temono che dietro alle affermazioni di Sajjan si nasconda un’inadeguatezza dell’organizzazione militare canadese. Nel 2005, d’altronde, su decisione dell’allora ministro della Difesa Paul Martin, la federazione non aderì al progetto di sviluppo del National Missile Defense (NMD), lo scudo antimissili statunitense, spingendo invece per il disarmo globale e per la rivitalizzazione delle Nazioni Unite. Recentemente, però, il partito liberale di Trudeau ha rimesso sul tavolo la possibilità, per il Canada, di aderire al Ballistic Missile Defense Program, una branca dell’NMD, in seguito all’invito in tal senso da parte della commissione per la difesa e la sicurezza nazionale. Una posizione meno prudente rispetto al ministro Sajjan, è stata dunque assunta dal primo ministro Trudeau, che si è detto alquanto preoccupato per quanto sta avvenendo nel nord della penisola coreana. “This rogue regime in North Korea is a danger not only to the immediate region but to the entire world”.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole ISRAELE 27 aprile. Un attacco aereo da parte dell’aviazione israeliana ha danneggiato un hub di munizioni di proprietà del gruppo libanese Hezbollah in un’area vicino all’aeroporto di Damasco, in Siria. L’attacco ha colpito una serie di armi inviate ad Hezbollah dall’Iran. Lo Stato d’Israele ha giustificato l’attacco riportando alcuni attacchi di origine siriana intercettati nelle alture del Golan nell’ultima settimana. EGITTO 28 aprile. Papa Francesco arriverà al Cairo nel pomeriggio. L’incontro e il dialogo del Papa avranno come obiettivo la riappacificazione diplomatica con alcuni leader islamici. Le tensioni si sono nuovamente riaccese dopo l’ultimo attacco terroristico ad una comunità copta durante la domenica delle Palme. PALESTINA 25 aprile. Alcuni leader palestinesi hanno riportato il rifiuto da parte del Regno Unito della richiesta di porgere scuse ufficiali alla Palestina per ciò che concerne la dichiarazione di Balfour del 1917, in occasione del centenario dell’accordo. Tale dichiarazione promuoveva le migrazioni di ebrei nei territori palestinesi, “pur senza pregiudicare i diritti religiosi e politici degli abitanti della regione”. Le figure di spicco palestinesi hanno confermato che, laddove il Regno Unito continuasse a negare le scuse, porteranno la questione davanti ad una corte internazionale. SIRIA 26 aprile. L’agenzia di intelligence francese ha confermato che la responsabilità dell’attac-

APARTHEID IN ISRAELE?

Respinto da Guterres il rapporto ONU in cui si denuncia Israele per “apartheid”

Di Maria Francesca Bottura La prima volta la parola “apartheid” fu usata per definire la condizione sociale in Sudafrica, Paese in cui dominava una netta divisione tra bianchi, neri, meticci ed indiani. Ancora oggi questa parola riporta alla mente ciò che avvenne allora. Il termine è stato recentemente adottato dal rapporto commissionato dalla ESCWA (Commissione per gli Affari Economici e Sociali per l’Asia Occidentale delle Nazioni Unite) per definire il comportamento del governo israeliano nei confronti dei cittadini palestinesi; il report è stato poi respinto dal segretario generale António Guterres. Secondo Amos Shocken, proprietario ed editore del quotidiano israeliano Ha’aretz, quella dell’apartheid è una strategia di “pazienza illimitata” per convincere i Palestinesi ad abbandonare i territori che, dopo la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, vennero conquistati da Israele. La linea di pensiero dei fondamentalisti religiosi di Gush Emunim (blocco di fedeli), considera queste zone come di proprietà israeliana e, quindi, occupati ingiustamente dai cittadini palestinesi. “Secondo questa strategia, i confini dei territori occupati

nella Guerra dei Sei Giorni sono i confini che Israele deve considerare come suoi. E riguardo ai palestinesi che vivono in quel territorio devono essere sottoposti a un duro regime che li incoraggi ad andarsene” scrive Shocken. La risposta di Israele al dossier, ancora prima che fosse ritirato dal sito della stessa ESCWA, è stata dura e rigorosa: il portavoce del ministro degli Esteri israeliano Emmanuel Nachshon ha parlato di “accuse nauseabonde”. Il rapporto, intitolato “Le pratiche di Israele verso il popolo palestinese e la questione di Apartheid” e redatto per la ESCWA da V. Tilley e R. Falk ha suscitato non poche polemiche, ma non è stato smentito. Le critiche, perlopiù, sono rivolte agli autori, che secondo i loro detrattori sarebbero apertamente antiisraeliani, e alla scelta terminologica. Come riportato da Falk sul quotidiano The Nation: “Ciò che colpisce in questo schema di azione e reazione è il modo col quale i funzionari ed i sostenitori di Israele, in risposta alle critiche, hanno cercato di screditare e di colpire l’autore piuttosto che rivolgersi al contenuto e offrire una spiegazione ed una difesa basate sulla sostanza”.

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MEDIO ORIENTE co chimico al gas nervino che ha colpito l’area di Idlib, in Siria, è delle forze del regime di Bashar al-Assad. 27 aprile. Durante l’ultima seduta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’ambasciatore statunitense per l’ONU Nikki Haley, ha sottolineato l’importanza fondamentale di concentrare tutte le pressioni nei confronti della Russia allo scopo di concludere in tempi brevi il conflitto siriano. Di risposta, la Russia ha utilizzato il potere di veto per vanificare un’azione concreta del Consiglio propugnata dagli stessi Stati Uniti. TURCHIA 25 aprile. All’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha rifiutato il riconoscimento di una decisione intrapresa dagli Stati Membri di inserire la Turchia in una watch list. Tale decisione è diretta conseguenza di alcune dichiarazioni dello stesso Erdogan ad alcuni media internazionali, le quali suggerivano un ripensamento della posizione di Ankara per ciò che concerne la procedura di ingresso nell’Unione Europea laddove essa continuasse a dilatare i tempi del suddetto processo. Erdogan ha inoltre sottolineato come l’orientamento generalmente ostile di alcuni Paesi membri contribuiscano all’allontanamento dall’Unione. A cura di Samantha Scarpa

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COMINCIA LA “BATTAGLIA DEGLI STOMACI VUOTI”

Sciopero della fame per i detenuti palestinesi in protesta contro le condizioni di vita in carcere

Di Martina Scarnato È cominciato lunedì 17 aprile uno sciopero della fame, soprannominato “la battaglia degli stomaci vuoti”, al quale hanno aderito più di 1.500 detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, per protestare contro le deplorevoli condizioni alle quali sono sottoposti. La protesta è guidata da Marwan Barghouti, uno dei capi di Al-Fatah, il Movimento di Liberazione Palestinese, anche se vi hanno aderito anche membri di Hamas e del Jihad Islamico. In particolare, tra i motivi che hanno scatenato la protesta, vi sarebbero, soprattutto, la richiesta di un migliore accesso alle cure mediche, la possibilità di studiare, l’abolizione della pratica dell’isolamento e la possibilità di ricevere più visite. Infatti, anche se le regole delle prigioni israeliane concedono ai carcerati di ricevere visite una volta ogni due settimane, le famiglie dei detenuti che vivono nei territori occupati hanno bisogno di un permesso speciale che non sempre viene rilasciato. Si stima che i detenuti palestinesi in Israele siano circa 6.500. Lo sciopero è stato preso

molto seriamente sia dalle autorità palestinesi, che lo hanno pubblicamente appoggiato, sia dal governo di Israele, che lo ha subito condannato. La risposta, infatti, non si è fatta attendere: The Palestinian Committee of Prisoners’ Affairs ha fatto sapere che le forze dell’IPS (Israel Prison Service) avrebbero già provveduto a spostare in altre sezioni alcuni prigionieri, confiscando i loro beni personali e mettendo in isolamento i leader della protesta. Tra di essi, vi sarebbe anche il leader Barghouti che, dalla cella, ha scritto una lettera di denuncia al New York Times in cui accusava il regime israeliano di “minare lo spirito dei prigionieri e della nazione alla quale appartengono” con il loro “disumano sistema di occupazioni militare e coloniale”. Marwan Barghouti, accusato da Israele di essere un terrorista e di aver ucciso 5 persone, è considerato una figura politica di spicco. Ci sarebbe all’interno di Israele un dibattito su una sua possibile scarcerazione, anche se le probabilità non sembrano elevate. Lo sciopero intanto continua e, agli occhi dei media internazionali, è già uno degli scioperi più grandi mai indetti negli ultimi anni.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole ALBANIA 25 aprile. Prosegue da oltre due mesi la crisi tra la maggioranza di centrosinistra del premier Edi Rama e l’opposizione di centrodestra, guidata da Lulzim Basha. David McAllister, presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo e il relatore per l’Albania, Kunt Fleckenstein, hanno fatto visita a Tirana per proporre alcune soluzioni, ma l’opposizione rimane ferma sulla richiesta di istituire un governo tecnico e sulle dimissioni del Premier.

26 aprile. In seguito ai falliti tentativi di mediazione da parte degli eurodeputati, il presidente dell’Assemblea nazionale, Ilir Meta, ha convocato una urgente riunione dei gruppi parlamentari.

KOSOVO 21 aprile. Oliver Ivanovic, tra i principali leader politici dei serbi del Kosovo, imputato per presunti crimini di guerra ai danni della popolazione civile di etnia albanese commessi a fine anni Novanta, è stato messo in libertà dagli arresti domiciliari. Era stato arrestato il 27 gennaio 2014.

RUSSIA 26 aprile. Mosca ha messo al bando tre ONG fondate da Mikhail Khodorovsky, oppositore anti-Cremlino. Tra le ONG dichiarate “indesiderabili”: le organizzazioni Open Russia e Open Russia Civic Movement, oltre che l’Istituto Modern Russia.

EUROVISION 2017: LA RUSSIA RITIRA LA SUA PARTECIPAZIONE Ucraina e Russia non trovano alcun accordo sulla cantante entrata in Crimea

Di Ilaria Di Donato Le tensioni tra Russia e Ucraina proseguono anche sul palco dell’Eurovision Song Contest. La rappresentazione musicale ha innescato un dibattito tanto acceso da rendere difficile l’esibizione di un artista russo. Mosca, infatti, ha deciso di boicottare la manifestazione a seguito della decisione presa dall’Ucraina di negare l’ingresso di Julia Samoylova, cantante designata a rappresentare la Russia, per aver tenuto concerti nella regione della Crimea. Una legge ucraina dispone il divieto di ingresso nel Paese a coloro i quali siano entrati, attraverso il territorio russo, in Crimea. Questo provvedimento era stato preso dal governo di Kiev in risposta all’annessione della regione da parte di Mosca, annessione preceduta da un referendum popolare che non ha ricevuto riconoscimento dalla comunità internazionale e che Kiev, da parte sua, ha sempre ritenuto illegittimo. Lo scontro diplomatico sulla kermesse internazionale ha preso il via lo scorso 22 marzo, quando l’Ucraina ha comunicato ufficialmente la decisione di vietare l’ingresso alla Samoylova per ben tre anni nel Paese, in linea con la propria legislazione, la quale prevede tale sanzione anche per le personalità che hanno manifestato tendenze filorusse.

La disputa sul concorso canoro ha assunto così i tratti di una questione politica a tutti gli effetti: da una parte si schiera la Russia, secondo cui la decisione ucraina rappresenta un atto “oltraggioso”; dall’altra l’Ucraina, che difende le sue posizioni e considera immorale l’esibizione a Kiev di un’artista filorussa. In posizione intermedia l’European Broadcasting Union, ente organizzatore dell’evento, che ha tentato una mediazione proponendo la partecipazione della Samoylova via satellite da un canale russo o, in alternativa, la nomina di un diverso artista che avrebbe preso il suo posto. Ma la Russia non ha ceduto terreno sulle sue posizioni, respingendo entrambe le proposte ed escludendosi, di fatto, dalla kermesse. La drasticità della decisione ucraina ha suscitato altresì il disappunto del presidente del Reference Group dell’Eurovision, Frank Dieter Freiling. Egli ha infatti dichiarato che la messa a bando della Samoylova “mina l’integrità e la natura apolitica del festival, ma soprattutto la sua missione, quella di permettere a tutti i Paesi coinvolti di sfidarsi in un clima amichevole”. Come atto di protesta, nello stesso giorno in cui inizierà l’Eurovision Song Contest, la cantante russa si esibirà in un concerto in Crimea. MSOI the Post • 11


RUSSIA E BALCANI 26 aprile. In seguito alle affermazioni del Ministro degli Esteri francese Jean-Marc Ayrault, che sostiene di possedere le prove della colpevolezza di Damasco per l’attacco chimico di Idlib, la posizione di Mosca non cambia e, come prima, la Russia chiede un’indagine internazionale imparziale.

SWEET COLD WAR

Allargamento NATO nei Balcani e influenza russa.

Di Elisa Todesco

SERBIA 25 aprile. Un anno dopo la tragedia di Savamala, migliaia di persone si sono riunite nelle strade del centro di Belgrado per manifestare contro il governo di Aleksandar Vucic. I manifestanti continuano a denunciare la mancanza di un’indagine appropriata riguardo alle demolizioni avvenute nella notte tra il 24 e il 25 aprile scorso. Simbolo della protesta, una papera di gomma gigante e la scritta “Non affondiamo Belgrado”.

UCRAINA 23 aprile. Un membro della missione di monitoraggio OSCE ha perso la vita in seguito all’esplosione di una mina, nella zona della regione di Lugansk, vicino alla cittadina di Priship. L’Ucraina ha lanciato un’inchiesta sulla morte dell’osservatore, un paramedico americano.

23 aprile. Il presidente dell’Ucraina, Poroshenko, ha tenuto una conversazione telefonica con il segretario di Stato USA, Rex Tillerson. Durante la telefonata Poroshenko avrebbe proposto l’inizio di una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite nella regione del Donbass.

A cura di Adna Camdzic 12 • MSOI the Post

Uno dei trend della collezione autunno/inverno 2017 di Donald Trump è stato sicuramente una breve ma incisiva frase: “La NATO è obsoleta”. Parrebbe, invece, che per la stagione a venire la NATO sia stata riabilitata: non solo il Presidente ha cominciato a riconoscerne il valore, ma addirittura ha firmato l’atto che sancisce l’allargamento dell’alleanza. È stato infatti approvato l’accesso del Montenegro nella NATO. Qualora arrivi il via libera anche dagli altri Stati, la NATO passerà da 28 a 29 membri. È chiaro che questo allargamento potrà avere delle ripercussioni notevoli sull’assetto geopolitico dei Balcani e dell’Europa. In primis, quali sono le ragioni per cui il Montenegro è stato accettato come membro NATO? Le motivazioni ufficiali da parte della NATO sono che “Il Montenegro ha fornito truppe per le missioni di training in Afghanistan e supporto finanziario”. Sulla stessa linea d’onda anche le dichiarazioni ufficiali del Montenegro, che vede nell’accesso il riconoscimento del suo impegno nell’adeguarsi ai criteri e ai valori richiesti. Ma, in realtà, le ragioni sono molte altre. In primo luogo, con l’annessione del Montenegro la NATO si assicura un piede nei Balcani, importante per due ragioni.

La prima: può tenere sotto controllo quegli Stati che una volta formavano la Jugoslavia. La seconda ragione è relativa al fatto che la NATO può contrapporre più efficacemente la propria influenza a quella russa, in questa nuova “guerra fredda”, che presto potrebbe diventare almeno tiepida, che si sta consumando nei Balcani. Infatti, se gli States hanno attirato sotto la loro sfera d’influenza il neonato Stato (il Montenegro ha guadagnato la sua indipendenza dalla Serbia solo nel 2006), è altresì vero che la Russia si sta avvicinando in modo sempre più pericoloso alla Serbia. Lo scorso marzo si è concluso il primo accordo dal 2013 sulle armi fra Mosca e Belgrado, esattamente mentre “in Occidente” si stava discutendo sull’annessione del Montenegro. A ciò è seguita la rapida militarizzazione della Serbia, resa possibile dal supporto russo, che può essere letta come uno strumento della Serbia per riguadagnare la propria influenza sulla regione, influenza di cui beneficerebbe direttamente e indirettamente anche Mosca. Il gioco della sfera d’influenza nei Balcani sta diventando incandescente, e lo sarà sempre di più all’aumentare delle tensioni. Per questo la NATO non può fermarsi, ma deve decidere cosa fare con gli altri Paesi candidati alla membership, la Bosnia e la Macedonia.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole CINA 26 aprile. Il ministro degli Esteri Wang Yi ha chiesto agli Usa e alle due Coree di interrompere le rispettive manovre militari, in un momento di grande tensione internazionale. Tra le altre cose, si richiede l’interruzione del dispiegamento dei sistemi antimissile Thaad e la rimozione degli equipaggiamenti militari.

ISLAM, MINORANZE E POLITICA

Anies vince a Giacarta e le accuse di Ahok vengono declassate

Di Giusto Amedeo Boccheni A febbraio, nel primo turno delle elezioni governative di Giacarta, Basuki “Ahok” Tjahaja Purnama e Anies Baswedan hanno ottenuto rispettivamente il 43% ed il 40% dei voti. Il 19 aprile si è svolto il secondo turno, Anies ha vinto per 15 punti percentuali, e sostituirà quindi Ahok dal prossimo ottobre.

COREA DEL NORD 26 aprile. Proseguono le minacce di Pyongyang in proposito del test nucleare previsto nella regione, il sesto, che potrebbe scatenare una L’Indonesia è la nazione a reazione da parte del governo maggioranza musulmana più Usa. popolosa al mondo e ospita una COREA DEL SUD 25 aprile. Senza alcun preavviso, gli Stati Uniti hanno iniziato il dispiegamento del Thaad nella regione del Nord Gyeongsang, tra le proteste dei residenti. FILIPPINE 24 aprile. Sono iniziati i preparativi per l’esercitazione militare Balikatan (letteralemente “fianco a fianco”) che vedrà le forze di Manila impegnate con quelle statunitensi. Le comunicazioni rilasciate rivelano che l’esercitazione sarà focalizzata sull’assistenza umanitaria e sulla risposta in caso di crisi, disastri naturali e attacchi terroristici. GIAPPONE 26 aprile. Il ministro della Ricostruzione Masahiro Imamu-

grande varietà di etnie e religioni. Il Governatore uscente, già vice nel 2012 dell’ora Presidente Joko “Jokowi” Widodo, fa parte di due minoranze: quella di ascendenza cinese (ricca e influente) e, contemporaneamente, quella cristiana protestante. Ahok, indipendente, è giunto al Governo col sostegno dei maggiori partiti d’opposizione. Da Governatore ha combattuto la corruzione, espanso la prevenzione sanitaria, pianificato la bonifica dei canali di Giacarta e promosso la costruzione della metropolitana nella capitale. Anies è stato Ministro dell’Educazione e della cultura di Widodo. Con il rimpasto del 2016, tuttavia, è stato rimosso con l’accusa – attualmente sotto verifica – di aver sottratto fondi ministeriali. Inoltre, in campagna elettorale ha abbandonato le posizioni moderate per raccogliere il supporto dell’Islam

conservatore. Alla vittoria, ha annunciato che intende riabilitare diverse pratiche religiose osteggiate dal predecessore, come il sacrificio di animali, la recitazione del Corano nei luoghi istituzionali, le riunioni delle congregazioni musulmane nelle scuole e presso il Monumento Nazionale. La disfatta di Ahok è cominciata nel settembre scorso. In un comizio elettorale, il Governatore aveva infatti esortato alcuni pescatori di diffidare di chi, sulla scorta del versetto 51 della sura al Maida del Corano, volesse dissuaderli dal votare un cristiano. Una versione tagliata del discorso si è diffusa sui media: la maggiore autorità clericale indonesiana l’ha considerata blasfema e ha domandato l’intervento delle autorità. La legge sulla blasfemia è un lascito di Suharto, ma ha cominciato ad essere applicata solo di recente. Il processo è iniziato a dicembre e oltre 40 persone sono state chiamate a testimoniare per l’accusa. Giovedì 20, poco dopo la conta dei voti, il Procuratore Ali Mukartono ha declassato l’accusa, chiedendo che Ahok, reo di aver “provocato sentimenti di antagonismo”, fosse condannato secondo la sezione 156 del codice penale (incitamento all’odio) a un anno di carcere, con sospensione condizionale biennale. Il verdetto si attende per il 9 maggio.

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ORIENTE ra ha rassegnato le sue dimissioni, in seguito ad una gaffe - la seconda nell’arco di un mese – inerente al disastro nucleare di Fukushima. Il premier Shinzo Abe è candidato alla successione.

KASHMIR:CONTRASTI VIOLENTI TRA STUDENTI E POLIZIA

Nuove manifestazioni contro l’occupazione indiana generano una violenta politica di repressione

Di Virginia Orsili

27 aprile. L’aeronautica nipponica è impegnata in una serie di esercitazioni congiunte con la portaerei statunitense Carl Vinson nel mar del Giappone. Le misure rientrano nelle manovre di avvicinamento della portaerei alla penisola coreana, dove avverranno ulteriori esercitazioni con le forze armate di Seoul; i media nordcoreani definiscono queste manovre degli Usa “Responsabili di aver causato problemi, nel caso la guerra scoppi nella penisola”. INDIA 24 aprile. Il governo sta pianificando la costruzione di circa 370 nuove centrali a carbone per far fronte alla sua crescente economia industriale; tale iniziativa minerebbe gli impegni sul clima presi con gli accordi di Parigi. A cura di Carolina Quaranta

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Aumentano le tensioni nell’area del Kashmir posta sotto il controllo indiano. Lunedì 17 aprile diversi studenti della città di Pulwamasono scesi in strada per opporsi all’occupazione indiana e alla violenta repressione di ogni manifestazione da parte delle forze dell’ordine. A innescare le proteste sarebbe stata, in particolare, l’incursione della polizia indiana all’interno del Governement Degree College di Pulwama. L’intervento aveva come scopo l’arresto di alcuni studenti che pochi giorni prima si erano opposti all’introduzione di un mezzo blindato nell’area scolastica. L’operazione è sfociata nella violenza, provocando almeno 50 feriti tra gli studenti. La reazione si è subito estesa alle altre principali città del Kashmir, tra cui Srinagar, Shopian, Kulgam, Pulwama, Islamabad e Bandipora. I manifestanti hanno portato avanti la loro lotta contro l’élite politica indiana, esigendo di libertà e democrazia. Nel tentativo di disperdere la folla, le forze di polizia sono ricorse all’utilizzo di mezzi violenti, come gas lacrimogeni, manganelli e pallottole di gomma. Il bilancio va dai 70 ai 100 feriti. La Kashmir University Studen-

ts Union, un corpo studentesco proibito, ha affermato che l’intervento delle forze di polizia è stato progettato per aiutare lo Stato a “governare per mezzo della repressione e della paura”. La Union ha inoltre dichiarato che la repressione è divenuta inaccettabile. Gli ultimi fatti rappresentano solamente il culmine di una lunga ondata di violenze tra gli abitanti del Kashmir e lo Stato indiano. Il clima di forte tensione prosegue dallo scorso luglio, in seguito all’uccisione di Burhan Wani, giovane comandante di un gruppo militante separatista. La questione si è inasprita a inizio aprile, quando otto manifestanti sono stati uccisi durante i disordini sorti in concomitanza con una tornata elettorale straordinaria. I ribelli del Kashmir risiedenti nell’area controllata dallo Stato indiano hanno lottato per anni contro truppe militari e polizia, richiedendo l’indipendenza. Per alcuni gruppi, tuttavia, l’obiettivo è l’annessione al territorio pakistano: per questa ragione l’India ha spesso accusato la potenza confinante di sostenere i separatisti. Il Pakistan, tuttavia, continua a negare ogni coinvolgimento. Gli scontri hanno ucciso decine di cittadini, causando oltre 12000 feriti tra civili e personale delle forze di sicurezza.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole ANGOLA. 26 aprile. Il Presidente della Repubblica dell’Angola ha firmato il decreto che convalida la decisione del Consiglio della Repubblica di indire le prossime elezioni generali il 23 agosto 2017. Più di 9,5 milioni di angolani saranno chiamati alle urne, un evento storico in quanto José Eduardo dos Santos, al termine di quasi 40 anni di regno, dovrà cedere la poltrona presidenziale. L’anziano presidente ha infatti dichiarato che non si presenterà alle elezioni di agosto. Si prospetta quindi per l’Angola una possibilità di cambiamento, oscurata però dalle accuse dell’opposizione e della società civile che denunciano José Eduardo per aver assegnato moltissimi posti chiave in parlamento alla sua famiglia ed ai suoi più stretti collaboratori.

CIAD 27 aprile. L’ex presidente del Ciad Hissène Habré è stato definitivamente condannato all’ergastolo per crimini contro l’umanità da un tribunale speciale africano a Dakar. Il condannato non era presente alla lettura del verdetto, che arriva dopo più di 20 anni di processo e di indagini. Hissène Habré è stato giudicato colpevole anche di crimini di guerra e di torture; questa condanna ha soddisfatto le ri-

ANGOLA: ELEZIONI PRESIDENZIALI IL 23 AGOSTO Si avvicina il termine dell’incarico di uno dei più longevi leader africani

Di Simone Esposito Il Consiglio della Repubblica, organo consultivo della presidenza angolana, ha proposto la data del 23 agosto per le prossime elezioni presidenziali che, verosimilmente, porteranno all’addio di uno dei capi di Stato più longevi della storia del continente. Lo scorso febbraio, il Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (MPLA), partito del presidente José Eduardo dos Santos, ha annunciato come prossimo candidato l’attuale ministro della Difesa João Lourenço, generale in pensione e stretto collaboratore del Capo di Stato. Questi è considerato il favorito per succedere al leader 74enne, giacché che da tempo a Luanda non esiste una vera opposizione politica. Veterano della lotta per l’Indipendenza dal Portogallo, dos Santos ha dichiarato che si ritirerà, dopo 38 anni, dalla guida dell’Angola, ma che rimarrà al timone dell’MPLA. Questo gli consentirà di mantenere un ampio potere sulla terza economia africana, che vanta un PIL di oltre 121 miliardi di dollari. La nomina della figlia Isabel, una delle donne più ricche del continente, al vertice della società petrolifera di Stato Sonangol farebbe sempre parte, dicono i critici, del piano di José

Eduardo per puntellare la dinastia dos Santos, assieme alla ristretta cerchia di persone che ha beneficiato dei guadagni del gigante petrolifero. Dos Santos non lascia dunque davvero il Paese, che con lui ha conosciuto notevoli tassi di crescita, beneficiando del boom economico alimentato abbondanti risorse dalle petrolifere e dalla ricostruzione delle infrastrutture devastate dalla guerra civile, durata 27 anni e terminata solo nel 2002. Ricchezza e potere, tuttavia, sono andati concentrandosi esclusivamente nelle mani di poche famiglie. La maggior parte degli angolani vive in condizioni di povertà, con un malcontento popolare crescente e il rallentamento della crescita economica. L’Angola è definita un Paese a “indice di sviluppo umano basso”, classificandosi 150^ su 187 Stati nello Human Development Index dell’ONU per il 2016, mentre, secondo Transparency International, è il 12° Paese più corrotto del mondo. È solo da poco che il crollo del prezzo del petrolio avrebbe incoraggiato le élite politiche dell’Angola ad aprirsi al resto del mondo e ad investire nella diversificazione di un’economia che oggi paga in modo drammatico la dipendenza da risorse petrolifere e minerarie. MSOI the Post • 15


AFRICA chieste dell’Associazione delle vittime dei crimini del regime di Hissène Habré (AVCRHH). La portavoce dei familiari delle vittime, l’avvocato Jacqueline Moudeïna, ha dichiarato che il verdetto ha portato gioia e serenità a chi lottava da anni per ottenere giustizia. NIGER 26 aprile. Ha avuto luogo una seduta dell’Assemblea Nazionale per discutere sul rapporto della Commissione d’Inchiesta Parlamentare sull’Uraniumgate. Il caso era stato sollevato a febbraio dalla stampa locale, che denunciava un giro di vendite illegali di uranio fra Areva e il Niger, gestito da società russe e libanesi. Operazioni che, secondo la stampa, avrebbero fruttato agli intermediari decine di migliaia di dollari. L’opposizione, che dichiara di essere stata tenuta all’oscuro dalla redazione di questo rapporto, ha affermato che l’Uraniumgate disturba il potere centrale. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 27 aprile. Il parlamento della RDC si è riunito per firmare “l’accordo speciale”, un documento che servirà a sancire la divisione del potere fra maggioranza e opposizione ed a delineare le linee guida della transizione politica fino alle prossime elezioni. L’opposizione denuncia però delle irregolarità commesse dal presidente Kabila, che stando alle accuse avrebbe modificato il testo dell’accordo, denominato arrangement particulier, soprattutto per quanto riguarda le modalità di designazione del Primo Ministro. A cura di Francesco Schellino

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MATTIS VISITA IL DJIBOUTI

Gli interessi degli U.S.A. in gioco nel corno d’Africa

Di Guglielmo Fasana Domenica 22 aprile si è concluso a Djibouti il tour del Medio Oriente del segretario della Difesa statunitense James Mattis, durante il quale si è recato in vista anche in Arabia Saudita, Egitto, Israele e Qatar. La scelta di designare il piccolo Paese del Corno d’Africa come ultima tappa del viaggio non è casuale. Dopo aver visitato Stati che tradizionalmente sono allineati alle posizioni di Washington o ne sono alleati di lunga data, Mattis mira ad estendere la rete di influenze della Casa Bianca anche in una regione molto meno permeata da dinamiche egemoniche, almeno fino a qualche anno fa. È ormai certo che oggi il Djibouti giochi un ruolo di primo piano nella visione strategica americana per l’Africa orientale e il Medio Oriente: nel Paese è infatti situata l’unica base militare statunitense, che ospita circa 4000 soldati sul Continente. Camp Lemonnier, stando a quanto riferito da un portavoce dell’Esercito Americano, è cruciale per il supporto alle unità impegnate nella lotta al terrorismo di matrice jihadista in Somalia e nelle operazioni contro i ribelli yemeniti. Tuttavia, non è per ragioni prettamente logistiche che il Corno d’Africa sta assumendo

crescente rilevanza per l’amministrazione Trump. Infatti, un rafforzamento delle capacità di proiezione della forza militare da parte degli Stati Uniti nel Golfo di Aden rappresenterebbe un notevole deterrente nei confronti dell’Iran. A seguito dei commenti negativi rilasciati dal Presidente in merito alla chiarezza dell’accordo sul nucleare iraniano, le relazioni tra Iran e Stati Uniti stanno attraversando un periodo di tensione. A tutto ciò si aggiunge anche il chiaro sostegno concesso dalla Repubblica Islamica alle fazioni dei ribelli Houti, che in Yemen combattono contro una coalizione a guida saudita. Per concludere, non è diretto solo all’Iran il messaggio che il Segretario alla Difesa ha lanciato visitando il Djibouti: aveva destato non poco scalpore la decisione della Cina di costruire la sua prima base militare all’estero, in assoluto, proprio in questo Paese, aggiungendosi a Francia e Giappone, già in possesso delle loro proprie installazioni. L’interesse cinese, più che militare, sembra essere economico-commerciale dal momento che, grazie ai suoi flussi di capitale, mira a trasformare il piccolo Stato in un hub cruciale sulla rotta delle navi transitanti dal Canale di Suez.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole ARGENTINA 22 aprile. Centinaia di manifestanti hanno presidiato la casa di Alicia Kirchner, governatrice della provincia di Santa Cruz. La contestazione, innescata dalla cessazione del pagamento e di stipendi e pensioni, fa parte di un programma di proteste organizzate da sindacati ed unioni di pensionati . BRASILE 26 aprile. Migliaia di membri delle tribù indigene brasiliane hanno protestato a Brasilia contro la crescente occupazione del settore agricolo e per la difesa dei diritti dei nativi. Durante lo scontro gli indigeni hanno combattuto con archi e frecce contro la polizia armata di lacrimogeni e proiettili di gomma.

CILE 25 aprile. Durante un incontro al “Palazzo della Zecca” tra la presidente cilena Michelle Bachelet e il suo omologo panamense Juan Carlos Varela, il Cile ha annunciato che sosterrà l’adesione panamense all’Alleanza del Pacifico. L’organizzazione, costituita nel 2012, ha l’obiettivo di creare un mercato comune e di garantire la cooperazione e la crescita dei suoi membri. COLOMBIA 26 aprile. La plenaria del Senato colombiano ha raggiunto un accordo relativo allo statuto che permetterà la partecipazione politica dell’opposizione. Il progetto, che cerca di essere attuato da anni, fu uno dei punti

VENEZUELA IN RIVOLTA

Dai violenti scontri anti-Maduro alla Marcia del Silenzio

Di Giulia Botta

cui si trova il Paese.

Con un gesto che ricorda Piazza Tienanmen nel 1989, una donna vestita di bianco e avvolta nella bandiera venezuelana, si ferma davanti ad un carro armato per impedirne il passaggio, diventando il simbolo dell’opposizione agli scontri e ai saccheggi che affliggono il Paese.

Pochi giorni prima, il 19 aprile, l’opposizione aveva organizzato la “madre di tutte le marce”, promettendo proteste a oltranza finché nuove elezioni non fossero garantite. Con 6 milioni di partecipanti – di cui 2 milioni e mezzo solo a Caracas – il governo ha risposto con dure azioni repressive della polizia e, in particolare, dei “colectivos”, la milizia popolare del regime chavista, provocando la morte di altre 3 persone, tra cui due giovani studenti non coinvolti nella protesta.

Sull’orlo della guerra civile, in Venezuela le manifestazioni contro il Governo di Nicolas Maduro si protraggono da tre settimane, dopo che il 4 aprile la Corte Suprema aveva preso la decisione, poi ritirata, di esautorare il Parlamento. Le proteste si sono caratterizzate fin da subito per la loro violenza: a oggi il bilancio è di oltre 20 vittime e 1.300 arresti. Dopo giorni di violenza, sabato 22 aprile si è aperta un’apparente tregua: migliaia di venezuelani vestiti di bianco hanno sfilato a Caracas con croci di legno e rosari, in segno di lutto per le vittime degli scontri, in quella che è stata denominata la Marcia del Silenzio. Svoltasi in modo pacifico e tollerata dal governo, la marcia rappresenta un flebile segnale positivo, ma non cancella la profonda crisi economica, sociale e politica in

La drammatica situazione del Venezuela preoccupa molti paesi sudamericani: undici Paesi dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) hanno lanciato un appello congiunto per placare le tensioni e spingere a convocare nuove elezioni. Anche il Segretario di Stato USA Rex Tillerson ha espresso preoccupazione, accusando Maduro di “violare la sua stessa Costituzione” e “di soffocare le voci di protesta dell’opposizione”. Per il Governo venezuelano, invece, dietro alle proteste ci sarebbe Washington che vorrebbe intervenire contro il “governo legittimo” del Venezuela.

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SUD AMERICA essenziali dell’accordo stipulato a L’Avana tra il governo di Bogotà e le FARC.

CUBA 28 aprile. Gli ambasciatori ONU di Marocco e Cuba hanno firmato a New York un accordo di ristabilimento dei rapporti diplomatici. I due Paesi avevano interrotto i rapporti diplomatici nel 1980 a causa del sostegno cubano ai ribelli del Polisario, organizzazione di insorti che lottano per l’indipendenza di una porzione del deserto del Sahara occidentale. MESSICO 27 aprile. Il consigliere del presidente statunitense Trump, Kellyanne Conway, ha dichiarato che nella legge di spesa, da approvare entro il 1° maggio, non sarà previsto lo stanziamento di fondi destinato alla costruzione del muro tra Messico e Stati Uniti VENEZUELA 27 aprile. Le autorità venezuelano hanno pubblicamente annunciato il ritiro dall’ Organizzazione degli Dtati Americani (OSA). “L’OSA ha insistito con le sue azioni intrusive contro la sovranità della nostra patria e dunque procederemo a ritirarci da questa organizzazione” ha dichiarato il ministro degli Esteri Delcy Rodriguez. A cura di Sara Ponza

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L’ORO BLU

Lo storico contenzioso tra Cile, Bolivia e Perù

Di Daniele Ruffino Gran parte dei conflitti e tensioni tra Stati che costellano la scena geopolitica possono essere spiegati con una ragione storica, prima ancora che economica. A seguito della Guerra del Pacifico contro il Cile (18791884), la Bolivia perse i suoi possedimenti costieri e così la possibilità di accedere al commercio marittimo. Pochi mesi fa, La Paz ha nuovamente riportato l’attenzione dei Paesi latini sulla questione idrica della nazione, dato che essendo circondata delle Ande e dal deserto di Atacama, la situazione impedisce gran parte dei commerci e dell’espansione industriale. Nonostante in passato il Perù abbia proposto uno sbocco sul mare, i boliviani, per orgoglio nazionale o per ragioni geo-strategiche, hanno rifiutato l’offerta continuando la loro crociata contro Santiago de Cile. Il 24 aprile 2013 il Governo di La Paz ha fatto appello alla Corte Internazionale per risolvere il contenzioso, che ha visto accolta la proposta boliviana. Si è ancora lontani da uno scioglimento vero e proprio, per ora la soluzione rimane solo te-

orica e non è stato fatto nessun movimento politico o istituzionale per risolvere la questione. Pochi mesi fa il presidente Evo Morales ha ribadito al Congresso dell’OSA che il Cile deve rispettare la sentenza dell’Aia e che con la sua condotta sta reiterando la non ottemperanza ai Patti di Bogotà (1948), costituendo un illecito internazionale. Il Cile è stato quindi criticato dall’Organizzazione, vedendo addirittura rigettata la propria obiezione dalla stessa Corte. L’esecutivo di La Paz ha inoltre precisato che se il Cile continuerà su questa condotta la Bolivia chiederà di imporre sanzioni sui commerci marittimi e ittici cileni (oltre il 35% dell’export). La situazione è assai delicata: la Bolivia si trova esclusa da gran parte dei commerci mentre i suoi vicini, in particolare il Cile, ingrossano le casse dello stato con un accesso al mare che non sarebbe di loro totale sovranità. Si attende, quindi, la risposta degli altri Stati latinoamericani, che in passato hanno già manifestato un certo appoggio a Morales in questa sua battaglia storico-economica per il mare boliviano.


ECONOMIA ESSILOR E LUXOTTICA A NOZZE Matrimonio da 50 miliardi

Di Ivana Pesic Dopo anni di studio da parte degli analisti, i due colossi, Luxottica, leader nel settore delle montature per occhiali, e Essilor, leader delle lenti, hanno deciso di dare vita alla seconda fusione cross border della storia in Europa. Nasce così un campione completamente integrato nel settore dell’occhialeria, senza rivali a livello mondiale con vendite in più di 150 Paesi e oltre 140 mila dipendenti. Insieme saranno in grado di offrire, secondo una nota del gruppo, “una riposta ai bisogni relativi alla vista di 7.2 miliardi di persone, 2.5 miliardi delle quali non hanno ancora accesso ad una correzione visiva”. Data la complementarietà dei due gruppi e le dimensioni simili, i dirigenti francesi e italiani avevano già iniziato a discutere di un possibile avvicinamento due anni fa, ma senza successo. A 81 anni, Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica nel 1961, forse spinto dalla mancanza di un successore, ha trovato che le condizioni di fusione con Essilor, suo principale fornitore di lenti correttive, fossero finalmente mature. Il nuovo colosso,

valutato in Borsa 50 miliardi di euro, con un fatturato di 15 miliardi di euro, arriverebbe a pesare il 15% del Giuridicamente è Essilor che acquisisce Luxottica, tramite un’offerta pubblica di scambio, e la società risultante sarà di diritto francese, quotata alla Borsa di Parigi e basata a Charenton, nella sede storica di Essilor, public company che vede i dipendenti azionisti all’8,3%. La loro quota, a seguito dell’operazione, scenderà a circa il 4% del nuovo gruppo, rendendo rilevante la parte italiana della nuova entità: Delfin, la holding che fa capo a Leonardo Del Vecchio, passerà dal controllo del 61,90% del capitale della società italiana, ad essere il primo socio del nuovo gruppo con una quota tra il 31 e il 38 per cento. Sarà proprio Del Vecchio a coprire la carica di presidente esecutivo e amministratore delegato della società, mentre l’amministratore delegato di Essilor, Hubert Sagnière, sarà vice presidente esecutivo e vice amministratore delegato, con i medesimi poteri del fondatore di Luxottica. Il consiglio di amministrazione sarà composto a parti uguali da

membri dei due gruppi. Dal punto di vista tecnico dell’operazione, è previsto il conferimento in Essilor da parte di Delfin dell’intera partecipazione da essa detenuta in Luxottica (pari a circa il 62%), a fronte dell’assegnazione di azioni Essilor di nuova emissione sulla base del Rapporto di Scambio pari a 0,461 azioni Essilor per 1 azione Luxottica. Se l’11 maggio, in assemblea, i soci di Essilor daranno il via libera alla fusione, il gruppo francese promuoverà un’offerta pubblica di scambio obbligatoria sulla totalità delle rimanenti azioni Luxottica in circolazione, al medesimo Rapporto di Scambio, finalizzata al de-listing delle azioni Luxottica. Ora i passaggi formali prevedono la consultazione dei dipendenti di Essilor, prassi prevista dalla normativa francese, e a seguire l’assemblea degli azionisti del gruppo francese che dovrà approvare la fusione. Al contempo, saranno portate avanti le relazioni con le autorità Antitrust. Ma, considerata la complementarietà dei due gruppi, non dovrebbero esserci problemi di posizioni dominanti sul mercato.

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ECONOMIA L’AFFAIRE VIVENDI INFLUISCE PESANTEMENTE SUI CONTI DI MEDIASET

Archiviato l’anno passato con una perdita record, il gruppo punta all’utile entro quest’anno

Di Giacomo Robasto Come ogni anno, aprile è il mese di approvazione dei bilanci relativi all’esercizio appena concluso per numerose aziende italiane, quotate in Borsa e non. Tra esse vi è anche Mediaset, gruppo televisivo facente capo alla holding Fininvest che, nonostante la posizione di leadership nel mercato italiano dei mezzi di comunicazione, ricorderà l’esercizio concluso il 31 dicembre 2016 come uno dei peggiori della propria storia. Il consiglio di amministrazione del gruppo di Cologno Monzese, infatti, il 19 aprile scorso ha approvato il bilancio consolidato 2016, che presenta dati non proprio incoraggianti. Se, infatti, i ricavi netti complessivi ammontano a 3667 milioni di euro, in crescita dai 3524.8 milioni dell’esercizio precedente, il risultato netto operativo evidenzia una perdita di circa 294.5 milioni di euro, molto lontano dai 3.8 milioni di utile conseguito nell’esercizio 2015. Stando alle dichiarazioni dei vertici della società, questi numeri sono principalmente imputabili alla battaglia legale tutt’ora in corso tra Mediaset ed il gruppo francese Vivendi. Quest’ultimo, con un accordo vincolante siglato in data 8 aprile 2016, si impegnò a 20 • MSOI the Post

rilevare il 100% del capitale sociale di Mediaset Premium, piattaforma televisiva che offre canali a pagamento di cui Mediaset possiede l’88,9% del capitale azionario (il restante 11,1% è invece detenuto dalla spagnola Telefónica). Tuttavia, a fine luglio Vincent Bollorè, presidente di Vivendi, sottolineò l’esistenza di divergenze significative relativamente all’analisi dei risultati di Premium, dichiarandosi intenzionato a rilevare solo il 20% della controllata, violando di fatto l’accordo vincolante precedentemente stipulato. Da qui è nata la volontà di Mediaset di intentare una causa legale a Vivendi, che è tutt’ora in corso. Proprio a causa di questa vicenda, Mediaset ha dovuto sostenere nel 2016 oneri straordinari - derivanti dagli impegni assunti in seguito alla firma del contratto con Vivendi e dalle necessarie svalutazioni successive - pari a 269.3 milioni di euro. A questa voce, vanno poi aggiunte le passività legate all’imprevista permanenza di Premium in azienda anche per il quarto trimestre 2016 che, anche a causa dello stallo operativo subito da aprile ad ottobre, ha generato una perdita supplementare pari a 72 milioni. Nonostante il contenzioso ancora in corso con Vivendi,

Mediaset intende portare avanti il piano industriale “Strategia 2020”, presentato al mercato a gennaio. Tra gli elementi fondanti della crescita a breve e medio termine ci sono senz’altro gli introiti pubblicitari, che rappresentano la principale fonte di ricavo nell’ambito delle reti generaliste di Mediaset. Esse, infatti, hanno visto un incremento di oltre il 2,8% a 2058 milioni e sono previste in ulteriore crescita per quest’anno, con un aumento che dovrebbe attestarsi a quota 4% entro dicembre. Sul piano degli ascolti, invece, le reti generaliste del gruppo si confermano leader sul target commerciale, con una media del 33,4% di share al giorno, con Canale 5 che si conferma la rete più seguita dagli italiani soprattutto in prima serata. Secondo Piersilvio Berlusconi, amministratore delegato del gruppo Mediaset, senza l’impatto derivante dal mancato accordo con Vivendi il bilancio avrebbe potuto chiudersi almeno in pareggio. Tra un anno scopriremo se le sue parole celavano almeno un fondo di verità.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO L’ACCORDO TRA UNIONE EUROPEA E TURCHIA SULLA GESTIONE DEI MIGRANTI Come valutarlo a un anno di distanza?

Di Stella Spatafora La crisi dei migranti è uno scoraggiante climax ascendente di tratte di esseri umani, naufragi, vite perdute in mare, politiche che si inabissano. A più di un anno dall’accordo tra Unione europea e Turchia sulla gestione dei migranti, firmato il 18 marzo 2016, occorre rievocare le responsabilità delle istituzioni internazionali e nazionali in materia per condurre l’attenzione sul nodo centrale della questione, ovvero che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona” (art. 3 Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo).

lite poiché la Turchia mantiene delle limitazioni geografiche per i richiedenti asilo non europei. Inoltre, ciò offusca il principio di non refoulement che, in base all’art. 33 della stessa Convenzione, prevede che “nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”. Questo principio è centrale per la salvaguardia dei diritti umani, ribadito pertanto nell’art. 4 del Protocollo n.4 CEDU.

Quello tra Ue e Turchia è un accordo stipulato per gestire l’arrivo dei migranti in Grecia. Il documento stabilisce una misura temporanea e straordinaria di respingimento in Turchia di tutti quei migranti che non presentino domanda d’asilo alle autorità greche o che non la vedano accolta dalle stesse. I “canali umanitari” prevedono, inoltre, il ricollocamento in un paese dell’Ue di un profugo siriano giunto dalla Turchia per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalla Grecia. Le garanzie accordate dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati risultano però indebo-

Dallo scorso anno i migranti arrivati dalla Turchia in Grecia sono diminuiti, essendo i confini turchi più controllati a causa della guerra civile siriana e dalla minaccia terroristica, elemento che impedisce il varco verso l’Europa ai profughi siriani. Ma, se anche fosse possibile raggiungere le coste greche, la situazione risulterebbe diversa da quella concepita dall’accordo. La Grecia non è pronta a dare attuazione al trattato, elemento dimostrato sin dall’aprile 2016 quando, con la modifica della legge sull’asilo, ha accordato ai funzionari dell’Agenzia europea per l’asilo (EASO) la valutazione delle richieste. L’at-

tuale situazione negli hotspots dell’isola rivela condizioni disumane, più volte dichiarate in violazione dell’art. 3 CEDU. Ciò che emerge dall’accordo è dunque la sua vulnerabilità, che schiera da un lato l’Unione Europea che lo sostiene, dall’altro la posizione turca che vorrebbe rivederne i termini. Le garanzie di salvaguardia dei migranti risultano ulteriormente indebolite dalla mancanza di una visione comune in materia. L’Unione Europea cerca di dar voce alla questione, con l’obiettivo di sconfiggere la migrazione clandestina rafforzando la cooperazione con i paesi terzi. Il tutto è basato sulla necessità di gestire efficacemente i flussi migratori art. 79 TFUE) e di rispettare il “principio di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri” (art. 80 TFUE). Ciò esprime “una politica migratoria europea lungimirante e globale, fondata sulla solidarietà”. Tuttavia, la solidarietà necessita di una voce più forte che parli un linguaggio comune. Le migrazioni continuano a flagellare il Mediterraneo e le ripercussioni che ciò avrà in futuro non dovrebbero essere sottovalutate. MSOI the Post • 21


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA CORTE EDU A DIFESA DELLE DONNE Sentenza storica della Corte nel caso Talpis c. Italia

Di Fabio Tumminello Nonostante la Corte di Strasburgo abbia sempre cercato, mediante le sue pronunce, di mantenere un alto livello di tutela nei confronti delle vittime di violenza domestica, la sentenza sul caso Talpis c. Italia rappresenta un passo ancora più deciso in questa direzione. La Corte si è infatti pronunciata su un caso paradigmatico in questo senso, accordando un risarcimento alla ricorrente, vittima di continue violenze – fisiche, sessuali e psicologiche – da parte del marito. La vicenda si concluse nel 2012 con la condanna all’ergastolo comminata all’uomo per l’omicidio del figlio e il tentato omicidio della ricorrente stessa che, non trovando soddisfazione di fronte alle corti nazionali, si è rivolta appunto alla Corte EDU. Non è la prima volta che un caso simile viene portato all’attenzione della Corte: nel 2016, nel caso Civek c. Turchia, i figli chiesero un risarcimento per la morte della madre, uccisa, dopo una serie di vessazioni dal marito; in Kilic c. Turchia, invece, i giudici condannarono lo Stato per una evidente inattività, in quanto la vittima aveva già presentato quattro denunce contro il suo aggressore, tutte non effettive e incapaci di garantirle

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adeguata protezione. Come si può immaginare, in tutti questi casi, i giudici hanno condannato lo Stato convenuto per non aver rispettato gli obblighi positivi “in materia di prevenzione, protezione ed assistenza”; si contesta in particolare un atteggiamento passivo delle autorità, che non solo non sono intervenute per evitare la morte della vittima – nonostante avessero a disposizione una serie di elementi oggettivi (denunce, testimonianze, referti medici) che attestassero lo stato di pericolo in cui la stessa versava –, ma anche la mancanza di un sistema di repressione in ambito penale nei confronti degli autori di questi efferati crimini. Il caso Talpis si pone su questa falsariga, ma la posizione dello Stato convenuto è aggravata dal fatto che le misure di sicurezza e protezione disposte dalle autorità (in particolare, l’accoglimento della donna in una struttura protetta) durarono fino a quando i fondi della ricorrente non terminarono; la contestazione della Corte muove proprio da questa sostanziale passività delle autorità, ree di aver messo a repentaglio la vita della ricorrente per una questione di natura essenzialmente patrimoniale. Non è peraltro la prima volta che l’Italia viene condannata

dalla Corte EDU: soprassedendo sui numerosi casi di violazione dei diritti umani contestati nell’accoglienza dei migranti, l’Italia è stata spesso censurata per non aver predisposto prassi interne alle proprie forza di polizia e di sicurezza tali da venire incontro alle esigenze di tutela e protezione di fasce della popolazione particolarmente a rischio, come, appunto, le donne in taluni contesti familiari. Nonostante queste pronunce rappresentino un passo decisivo verso una più estesa tutela nei confronti delle donne in contesti considerati “a rischio”, manca ancora una consolidata giurisprudenza sul tema: basti pensare che la Corte, anche in casi di evidente violenza di genere, ancora non riconosce la fattispecie di femminicidio. La costante e progressiva apertura della Corte all’orientamento internazionale sul tema e la determinante influenza di alcuni strumenti come la CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, 1979) e a livello europeo la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (2011), rappresenteranno il vero nodo centrale della posizione della Corte nei prossimi anni.


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