MSOI thePost Numero 70

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Samantha Scarpa Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso,Daniele Ruffino , Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Martina Unali, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA NUOVA ROTTA DI BILANCIO

I budget, le politiche e le risorse europee del futuro

Di Giulia Capriotti La svolta della Commissione europea in merito al bilancio pluriennale dell’Unione vede alcune importanti novità e decisioni. Sono stati infatti proposti 5 nuovi scenari, i quali verranno vagliati a seconda delle ambizioni: “avanti con il business as usual”, “fare meno insieme”, “chi vuole fare di più fa di più”, “cambiamenti radicali”, “fare molto di più tutti insieme”. Tra le novità di questo bilancio, un esercizio finanziario di 5 anni, migliori politiche comunitarie e più risorse “europee”, che andranno ad aumentare però le tasse sovra-nazionali. Non solo: a essere implementate, nel futuro, dovranno essere l’area dell’economia, della sostenibilità e della sicurezza interna ed esterna della stessa Ue in merito soprattutto alla lotta al terrorismo. In ogni caso, è importante sottolineare che, nonostante sia stato dichiarato che gli obiettivi del bilancio futuro dovranno corrispondere alle ambizioni politiche future dell’UE, quest’ultima

non abbia mostrato, in termini pratici, una volontà forte in merito. Questo porta a un gap politico con cui, senza dubbio, la stessa UE dovrà scontrarsi. La copertura di bilancio, prevista per 5 anni, mira a rendere il budget più snello e più solido. Lo sguardo è puntato alla politica sociale: infatti, i suoi punti di forza sembrano essere un occhio di riguardo ai giovani, agli studenti, e a tutti coloro senza un lavoro. Tra le idee pratiche, una “Garanzia figli” sulla scia del progetto Garanzia giovani, e un fondo europeo pensato in maniera specifica per la difesa. Un cambio di rotta riguarda poi le risorse europee. Le finanze dell’Ue sono dipese fino ad ora dai contributi dei Paesi membri, dazi doganali, multe inflitte agli stessi Stati e raccolta dell’Iva. Con il nuovo bilancio, la Commissione ha ideato 8 nuove possibilità al fine di rimpinguare le casse comunitarie. Tra queste figurano tasse sulle transazioni finanziarie, eco-tasse, contributi per il Sistema euro-

peo d’informazione e autorizzazione ai viaggi, imposte europee sulle società e prelievi sulle bollette elettriche e sui costi dei carburanti. Altra piccola novità riguarda il Regno Unito: dopo la Brexit, infatti, gli Stati membri non saranno più tenuti a liberare Londra. In questo modo, si libereranno alcune risorse da poter destinare al budget comunitario. Rimpinzando le casse europee, sarà allora possibile agire per riformare le politiche comunitarie. L’attenzione cade in primis sulla PAC, la Politica Agricola Comune, e sulle politiche di coesione, atte a colmare i divari tra regioni e Paesi dell’Unione. Nel primo caso, la Commissione sta ragionando su fondi strutturali che assicurino sostegno e redditi agli agricoltori delle aree rurali, in particolare di quelle più povere e svantaggiate. Nel secondo caso, il proposito è quello di rendere la coesione più flessibile e adattabile a nuove sfide del futuro. MSOI the Post • 3


EUROPA CETA: L’ITALIA VERSO LA RATIFICA

Ok della Commissione Affari Esteri del Senato al trattato commerciale Ue-Canada

Di Simone Massarenti Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) passa l’esame della Commissione Esteri in Senato e punta in maniera decisa alla ratifica entro la fine dell’anno corrente. Nonostante la richiesta da parte di Sinistra Italiana, Movimento 5 Stelle e Lega Nord, di sospensione dell’iter di approvazione del trattato, la commissione, grazie ai voti di PD, aria moderato/centrista e di Forza Italia, ha approvato il riesame del documento, rinviando all’aula l’esame finale. Durissime le proteste da parte degli “oppositori” al trattato, in particolare M5S, che ha annunciato azioni di piazza contro la ratifica di un trattato definito “suicida per le sorti del paese”. Dal blog penta stellato, in particolare, Beppe Grillo afferma come “la ratifica vada contro le azioni di protesta di molte forze politiche, e sorvoli la richiesta da parte del M5S di audizione dei procuratori Ruberti e Gratteri circa sospette infiltrazioni mafiose in Canada” Parere contrario all’ok della Commissione è stato espresso anche dal Vicepresidente della Commissione stessa, il senato-

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re Peppe De Cristofaro, il quale definisce “pericolosissimo” un trattato “che mette a rischio migliaia di posti di lavoro e che non tutela le eccellenze italiane ed europee”. Anche da parte di Sinistra Italiana è stata annunciata una battaglia “non solo in parlamento”, con un appello al Presidente dell’aula senatoria Piero “ Grasso affinché blocchi l’iter prima del voto in aula”. Uno dei punti maggiormente criticati dalle forze politiche di opposizione al CETA è in particolare il cosiddetto Investment Court System (ICS), una sorta di giurisdizione privata internazionale che permetterebbe alle imprese di citare in giudizio gli Stati e l’UE, privando così gli Stati stessi dei diritti giurisdizionali imposti dalle Costituzioni interne. Una sorta di “privazione della sovranità giuridica” denunciata dagli oppositori che minaccerebbe la stabilità economico-politica degli Stati firmatari del trattato. Non mancano però commenti di soddisfazione per questo risultato, a partire dalle parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in questi giorni in visita istituzionale ad Ottawa. Il Presidente, duran-

te una conferenza stampa congiunta con l’omonimo canadese Justin Trudeau, ha affermato, in controtendenza rispetto all’aria di ostilità che si respira nella penisola, come “l’approvazione in commissione esteri sia un primo step importante verso una collaborazione concreta fra Ue e Canada, necessaria al fine di garantire una partnership economica solida”. Dello stesso parere anche le forze politiche moderate italiane, fautrici dell’approvazione in commissione del documento; in particolare ha espresso il suo favore verso il CETA il Presidente della Commissione Esteri Pier Ferdinando Casini, il quale ha commentato come “l’approvazione in commissione è solo l’ultimo passo di un lavoro lunghissimo sostenuto dal Parlamento Europeo e che spero possa portare alla ratifica definitiva”. Il senatore ricorda inoltre come “il trattato tutela oltre 173 indicazioni di provenienza geografica, di cui 41 italiane”, smentendo le illazioni, in particolare di esponenti della Lega nord, secondo i quali vi sarebbe un serio pericolo per la salvaguardia del Made in Italy.


NORD AMERICA LA “TERZA VIA” DELLA POLITICA AMERICANA È possibile un’alternativa al duo Democratici – Repubblicani?

Di Alessandro Dalpasso Nel corso della campagna per le ultime elezioni presidenziali statunitensi, conclusesi con la vittoria di Donald Trump, un’amplissima maggioranza degli osservatori ha avuto occhi solo per il tycoon newyorkese e la sua sfidante diretta, la democratica Hillary Clinton. Accanto agli aspiranti Presidenti democratico e repubblicano, tuttavia, c’erano anche altri candidati. Per ricordare i due più votati: Jill Ellen Stein, medico e leader del Green Party (partito di chiara ispirazione ambientalista), e Gary Johnson, ex-governatore del New Mexico e rappresentante del Partito Libertario. I due hanno goduto di pochissimo spazio sui media, soprattutto durante gli ultimi mesi di campagna, poiché l’organo addetto all’organizzazione dei dibattiti, la Commission on Presidential Debates, li ha puntualmente esclusi per ragioni procedurali. Nonostante l’innegabile impegno profuso, i risultati elettorali hanno rispettato il pronostico della vigilia, e i due hanno incassato la sconfitta il 7 novembre, l’Election Day. Il sistema elettorale statunitense è fortemente condizionato

dalla capillare diffusione degli apparati dei due partiti tradizionali che quindi risultano vincitori, a fortune alterne, in tutti gli Stati impedendo ad aspiranti terzi candidati di ottenere anche solo uno dei Grandi Elettori necessari alla vittoria finale. Stein e Jhonson sembrerebbero comunque esser stati i soli ad aver aspirato ad una corsa alla presidenza per vie diverse da quelle convenzionali. È notizia recente che l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, avrebbe disposto lo scorso anno tutto il necessario per la sua candidatura. Dozzine di persone erano state assunte per lavorare alla campagna presidenziale, due sedi completamente allestite (in Texas e North Carolina), e sarebbero stati anche ideati diversi spot promozionali per le televisioni nazionali, allo scopo di lanciare un 74enne pragmatico, centrista e non costretto dalle dinamiche di partito. Il suo slogan avrebbe dovuto essere: “All work and no Party”. Il miliardario newyorkese avrebbe però cambiato idea, sia per paura di liberare la strada a Donald Trump per la Casa Bianca, sottraendo voti ai democratici, sia perché “sconsolato” per le scarse prospettive di vittoria fuori dai due maggiori schieramenti.

In futuro, un altro personaggio potrebbe decidere di intraprendere la corsa presidenziale: il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg. E se fino a qualche mese fa poteva essere solo una curiosa suggestione, alcuni recenti avvenimenti farebbero invece pensare a qualcosa di ben più concreto. In occasione di una cerimonia ad Harvard, durante la quale ha ricevuto una laurea in diritto honoris causa, Zuckerberg ha fatto proprie alcune idee che sono state della campagna presidenziale di Bernie Sanders, sostenendo che “si dovrebbe iniziare ad esplorare l’idea che ogni americano riceva un reddito minimo da parte del Governo federale”. Il 33enne ha inoltre iniziato, a gennaio, un tour che lo porterà in ogni singolo Stato della Federazione: qualcosa che molti hanno voluto intendere come una tournée politica, in vista delle elezioni del 2020. Nonostante le smentite del diretto interessato, che ha giudicato simili supposizioni alla stregua di provocazioni, per il viaggio ci sarebbe un percorso già ben delineato che vedrebbe come ultima ipotetica tappa il 1.600 di Pennsylvania Avenue, a Washington. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA PRESIDENT TRUMP AND U.S. JOBS PROTECTION Boeing announces lay-offs for almost 200 people in South Carolina

By Kevin Ferri Over 5 months have passed, since President Donald J. Trump promised, during his visit at North Charleston’s (N.C.) Boeing plant, to protect national jobs. “My focus has been all about jobs. And jobs are one of the primary reasons I’m standing here today, as your President”, Trump said. “And I will never, ever disappoint you. Believe me, I will not disappoint you”. But things did not clearly work out as planned. However, just about 200 men and women working at the Boeing 787 Dreamliner facility and campus of N.C. are now facing discharge. The announcement was given by Joan Robinson-Berry, Vice President and General Manager of Boeing South Carolina: “We are all aware of the need to be more competitive in a relentlessly challenging industry”, he told employees, in a memo, Thursday morning. “Our competitors do not rest in their drive to win sales campaigns and neither can we. While we understand the business need, it doesn’t make this action any easier”. So, who are the notorious “competitors” that have driven Boeing Co. into such distress? The answer to this question is quite simple: Airbus Group. Indeed, the layoffs are the 6 • MSOI the Post

direct consequence of a larger effort to cut costs at Boeing, due to the intense competition with the rival manufacturer, which has forced the company to lower prices and make savings. According to the company’s “employment data by location”, retrievable on their website, Boeing South Carolina had 7,379 employees and contractors as of May 25th. That is the lowest employment level since November 2013, when the aerospace giant reported 7.123 workers in North Charleston. A total of 863 positions have been extinguished over the past year, that is a nearly 10,5% decline since May 2016. Companywide, Boeing has cut 13.971 jobs, basically a 9% workforce reduction, in the last 12 months. It would seem as though President Trump’s jobs and economic policies should be revisited. But it is crucial to analyze the big picture, before jumping to conclusions. Distinguishing between a typical redundant economic cycle of a firm and a definitive downfall of the national job sector is what makes all the difference in understanding an economic policy. The U.S. Bureau of Labor Statistics indicates that since January about 810.000

new jobs were created. That is 26.000 more jobs than last year, during the Obama administration. This means that right now there is no tendency of regression of the job indicator. It is clearly identifiable that the loss of working positions at Boeing is a firm-related policy selection that has little or nothing to do with national politics. Ultimately, some considerations are necessary. President Trump’s foreign policy has lately been very strict and rigorous, from the economical point of view. Many people are losing jobs at Boeing and other aerospace companies because making deals with foreign countries (especially rich middle eastern ones) is becoming more and more difficult, as time goes on. Two Iranian airlines stroke deals with Airbus, in order to buy 73 jetliners since they really did not want to deal with Trump’s hostility. The prospective deals are worth as much as $2,5 billion and were announced by the company at the Paris Air Show, an important sales event for plane manufacturers. Now more than ever it is important to find a correct equilibrium in Trump’s administration, where political aggressiveness usually ends up backfiring on the economy and on the hard-working people.


MEDIO ORIENTE AL-SISI IL GENEROSO

Il Presidente egiziano torna a far valere le sue intenzioni: regalare due isole all’Arabia Saudita

Di Lorenzo Gilardetti Nell’aprile del 2016 il re Salman veniva accolto in Egitto in pompa magna, dove rimase per 5 giorni, al termine dei quali veniva siglato un accordo storico: ingenti investimenti sauditi nello Stato nordafricano in grave crisi economica in cambio di due isole disabitate del Mar Rosso, Tiran e Sanafir. Una mossa politica, oltre che finanziaria, che avrebbe fatto guadagnare all’Egitto un’alleanza importante per contrastare internamente i Fratelli Musulmani (e nella politica estera gli Stati come Turchia e Qatar ad essi legati), ma per la quale nella sua elargizione generosa il Presidente egiziano non aveva fatto i conti né con la legge, né tantomeno con i suoi cittadini. Seguirono, infatti, proteste mediatiche (velocemente represse), sollevazioni popolari (diradate grazie a numerosi arresti) e infine l’intervento del Consiglio di Stato egiziano, che a giugno aveva già bloccato il passaggio delle isole e annullato così gli accordi marittimi. Fu poi il momento della ratifica dell’annullamento da parte della Corte Amministrativa d’Appello tra novembre dello stesso anno

e gennaio 2017, accompagnata da una simbolica multa nei confronti del Presidente e del Premier: la sentenza ribadiva la sovranità dell’Egitto su Tiran e Sanafir ponendo fine alla questione e innescando la replica di Riyadh, che contestualmente sospendeva aiuti energetici per 23 miliardi di dollari. Al-Sisi però non si è mai dato per vinto, e sta cercando nuovamente di far recapitare il regalo all’Arabia Saudita: il 13 giugno scorso una commissione parlamentare ha approvato nuovamente la cessione delle due isole. Gli Egiziani non sono rimasti a guardare e il 14 e il 16 giugno sono scesi in piazza, dove la sollevazione popolare e dell’opinione pubblica ha acceso lo scontro con la polizia al Cairo, provocando l’arresto di 40 oppositori. La protesta, in termini più ampi, è però frutto di una climax che dura dalla fine di maggio, quando il governo ha approvato una legge che di fatto assoggetterà le ONG presenti nel Paese al proprio controllo (coinvolte 46.000 associazioni tra locali e internazionali). Decine di agenzie di stampa, inoltre, sono state chiuse, portando Reporters sans Frontières a collocare alla posizione 161 su

180 l’Egitto nella classifica per la libertà di stampa e a definire lo Stato egiziano come “la più grande prigione del mondo per i giornalisti”. Tiran e Sanafir, che secondo la versione di Al-Sisi e i suoi sostenitori (non giudicata verosimile dalla corte di appello) sarebbero originariamente già appartenute all’Arabia Saudita e che quindi verrebbero semplicemente restituite, sono due isole dal grande valore strategico e geopolitico. Collocate tra il Sinai e Israele e, secondo gli oppositori, appartenenti all’Egitto dal 1906, costituiscono l’importante collegamento con i porti di Eliat (Israele) e Aqaba (Giordania). Per questo motivo, nel 1967 costituirono, con la chiusura momentanea dei traffici, l’innesco della Guerra dei sei giorni. L’Arabia Saudita, che già aveva avanzato pretese su Tiran e Sanafir in diverse occasioni tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, mettendo le mani sulle due isole si assicurerebbe il controllo delle rotte commerciali marittime tra il mondo orientale e Israele e Giordania, potenziando intanto anche la collaborazione politica con l’Egitto ora che ha trovato in Al-Sisi un generoso alleato. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE 2016 THROW-BACK IN GIORDANIA

Seconda messa al bando il concerto dei Mashrou’ Leila

Di Martina Terraglia Il 27 giugno saremmo dovuti andare ad un concerto. Si sarebbe dovuta esibire la band mediorientale più famosa al mondo, i Mashrou’ Leila. Tutto questo non è avvenuto. A pochi giorni dal concerto, l’evento è stato cancellato. Se queste righe suonano familiari, tranquilli: nessun glitch in the matrix. Con un cambio di date, abbiamo ripreso l’apertura dell’articolo di MSOI thePost del 14 luglio 2016, incentrato sulla cancellazione del concerto dei Mashrou’ Leila ad Amman. Molti ad Amman, avevano speranze flebili e la messa al bando del gruppo per il secondo anno consecutivo non ha stupito, ma di certo ha amareggiato molti. Secondo quanto riferito alla CNN dalla parlamentare Dima Tahboub, la motivazione principale del bando sarebbe stata la dichiarata omosessualità del leader della band, Hamed Sinno: “la maggior parte della popolazione giordana si è fermamente espressa contro l’ospitare una simile band in Giordania”, le cui opinioni e i cui testi sulla sessualità sono “contrari alla religione e alle norme del Paese”. La replica della band: “È come se le persone che verranno allo 8 • MSOI the Post

show ascoltassero la musica, guardassero la performance e diventassero gay” ha dichiarato alla CNN il violinista Haig Papazian.“Non sanno che cosa sia questa band”.

Per i Mashrou’ Leila, inoltre, la Giordania rappresenta un hub di pubblico non secondario, riuscendo ad attirare fan anche da Israele, Territori Occupati, Siria e Iraq.

Possiamo dunque porci due domande: che cosa è questa band? Quali sono le norme giordane che verrebbero infrante? Risponde alla prima domanda un video pubblicato sui social dagli stessi Mashrou’ Leila: “La nostra musica affronta delle questioni che non possiamo ignorare nelle nostre società, quali l’oppressione delle libertà personali, i diritti delle donne, i diritti della comunità LGBTIQ, la mancanza di controllo sul possesso di armi, e l’elitismo”. I Mashrou’ Leila hanno sempre usato la loro musica per discutere la realtà libanese e tematiche trasversali ai Paesi arabi.

Meno chiaro è quali siano le norme giordane a cui fa riferimento la parlamentare Tahboub. La Giordania sta attraversando un momento di crisi sociale e identitaria. Che cosa significa essere Giordani? In passato, erano i Palestinesi la grande componente secondaria del Paese. Oggi però, con la guerra che da anni si trascina ai confini, Iracheni e soprattutto Siriani rappresentano una realtà non trascurabile. L’aumento della popolazione si è accompagnato a un aumento del tasso di disoccupazione, che tra i giovani raggiunge il 33%.

L’organizzazione del concerto in Giordania è molto simbolica. Giugno è internazionalmente riconosciuto come il pride month, il mese in cui in tutto il mondo si sono tenute manifestazioni a favore dei diritti della comunità LGBTIQ. Da ricordare che, secondo una legge del 1952, in Giordania l’omosessualità non è reato. Sul piano tradizionale e religioso, tuttavia, resta una problematica scottante.

Lo scorso anno la percezione era che la cancellazione del concerto fosse un atto volto a dimostrare la capacità dell’autorità di regolare ogni aspetto della vita dei cittadini, anche quelli più privati. Oggi, in un Paese in stato di emergenza, sembra che la polemica sui Mashrou’ Leila sia volta a distogliere l’attenzione dai veri problemi, in una sorta di panem et circenses rovesciato.


RUSSIA E BALCANI STUDENTI BOSNIACI CONTRO IL DIVIDE ET IMPERA Le proteste di Jajce e Travnik contro la segregazione scolastica

Di Adna Camdzic Nelle ultime settimane hanno avuto grande risonanza mediatica le proteste degli studenti bosniaci di Jajce (“Iaice”), scesi in piazza per combattere la segregazione scolastica e per porre fine al fenomeno delle cosiddette “due scuole sotto lo stesso tetto”. Secondo il principio delle “due scuole sotto lo stesso tetto”, in alcune parti della Bosnia gli studenti seguono programmi differenti in base alla loro appartenenza etnica: i ragazzi e le ragazze entrano nella stessa scuola, ma seguono lezioni diverse in aule diverse. Si tratterebbe di una pratica attiva solo nella Federazione croatomusulmana (una delle due entità in cui è diviso il paese, accanto alla Republika Srpska). A conferma di ciò sono stati pubblicati dei dati sul portale diskriminacija.ba che mettono in evidenza la presenza di 32 istituti scolastici nella Federazione BiH e organizzati secondo il principio della divisione per etnia, di cui 14 nel cantone della Bosnia Centrale, 12 nel cantone Erzegovina-Neretva e 6 nel cantone Zenica-Doboj. In Republika Srpska non sono presenti scuole di questo tipo. Il territorio è infatti molto più

omogeneo essendo abitato in gran parte da serbi-bosniaci, i quali si pongono meno problemi di convivenza. Le proteste sono iniziate già verso la fine del 2015 e intensificate dopo la decisione ufficiale di marzo 2017 da parte del Cantone della Bosnia Centrale di aprire un nuovo istituto superiore a Jajce, che sarebbe andato ad affiancare i due istituti già presenti nella cittadina, il liceo classico “Nikola Sop” e la Scuola Superiore Tecnica. A Jajce gli studenti di tutte le nazionalità hanno sempre seguito le lezioni insieme, secondo il programma di istruzione croato, che utilizza come lingua curricolare il croato, ad eccezione di quelle materie chiamate “gruppo di materie nazionali” (tra cui Geografia, Storia, Lingue materne e Religione), il cui insegnamento, per chi non appartiene alla comunità per cui il programma è stato pensato, viene effettuato da professori “ospiti”. La nuova scuola superiore, diversamente dalle altre due, avrebbe invece permesso lo sviluppo di un programma pensato ad hoc per gli studenti bosniacomusulmani, elaborato in lingua bosniaca. Dopo

una

lotta

durata

più

di un anno, durante la quale gli studenti hanno ricevuto il sostegno di professori, cittadini, media, istituzioni pubbliche e organizzazioni internazionali, a metà giugno il governo ha infine revocato la propria decisione. I ragazzi di Jajce hanno poi partecipato alle proteste che si sono tenute il 20 giugno a Travnik e che hanno riunito un centinaio di studenti da diverse città della Bosnia Centrale per protestare contro la segregazione che avviene anche nelle loro scuole. Inoltre, alle proteste degli studenti è seguita la creazione di un’iniziativa chiamata “Bolja skola” (“una scuola migliore”), che incoraggia l’introduzione di un curriculum sperimentale nella Scuola Superiore Tecnica di Jajce, che consentirebbe agli alunni di partecipare alle stesse lezioni. Valentina Pellizzer, direttrice della piattaforma online One World South East Europe, durante una puntata di Radio3mondo, si è espressa così in riferimento alle proteste: “in Bosnia niente è facile, divide et impera è quello che mantiene al potere i tre poteri politici nazionalistici. I ragazzi si scontrano contro il male della Bosnia”, ma nonostante le difficoltà si tratta di piccoli passi verso un cambiamento vero. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI LA VITTORIA DEI SOCIALISTI ALLE ELEZIONI IN ALBANIA Una politica che guarda all’Europa e la sconfitta dell’opposizione

Di Vladimiro Labate Il 25 giugno scorso, in Albania, le elezioni politiche hanno visto la vittoria del Partito socialista del premier Edi Rama, che ha ottenuto il 48,37% dei voti, conquistando 74 seggi su 140 e quindi la possibilità di formare un governo da solo. Il Partito democratico di Lulzim Basha (centro-destra) si conferma la principale forza di opposizione, pur registrando una netta sconfitta: si è infatti fermato al 28,89%, assicurandosi 43 deputati, 7 in meno rispetto alla precedente legislatura. Infine, al terzo posto si piazza il Movimento Socialista per l’Integrazione (LSI) del presidente della Repubblica eletto Ilir Meta, che con il 14,23% ottiene 19 deputati. Dopo 4 anni di coalizione con LSI, che aveva reso spesso instabile il suo governo, il premier Rama ha incentrato la sua campagna elettorale sulla necessità di non coalizzarsi con altri partiti per portare avanti le riforme cruciali per il Paese. Tra queste, la riforma della giustizia e la lotta alla corruzione e al traffico di droga, requisiti necessari per portare avanti i negoziati di adesione all’Unione Europea, vero obiettivo di lungo periodo del leader socialista. Rama,

in

passato

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sindaco

della capitale Tirana, ha posto particolare enfasi sulla necessità di un maggiore progresso economico, impegnandosi a far crescere il Paese ad un tasso annuale maggiore del 5% rispetto all’attuale 3,5% e a ridurre il rapporto debito/PIL dall’odierno 71% al 60% circa. La maggioranza assoluta dà adesso ai socialisti un mandato forte per portare avanti la loro agenda modernizzatrice. I grandi sconfitti di queste elezioni politiche sono Ilir Meta e Lulzim Basha. Meta, eletto dal Parlamento Presidente della Repubblica il 28 aprile scorso, entrerà in carica soltanto a fine luglio. Nonostante il suo ruolo di garanzia, ha condotto in prima persona una campagna elettorale aggressiva per il partito da lui stesso fondato, LSI. La guerra tra lui e Rama, però, non ha portato ai risultati sperati, costringendo l’LSI nuovamente all’opposizione, dopo che nelle due precedenti legislature era diventato forza di governo. Basha, invece, si trova a dover fronteggiare la più grande sconfitta del centro-destra degli ultimi vent’anni ed ora i suoi avversari interni cominciano ad accusarlo per le sue mosse: prima la minaccia di non partecipare alle elezioni politiche e l’adozione di una

strategia extra-parlamentare fatta di proteste e sit-in di fronte al Parlamento; poi, l’accordo di fine maggio con Rama sulle elezioni in cambio di alcune garanzie per un processo elettorale trasparente: la nomina di ministri tecnici, norme elettorali contro il voto di scambio, sulle spese dei partiti e sulla par condicio in TV. Lo svolgimento delle elezioni è stato monitorato da circa 400 osservatori internazionali dell’OSCE, che non hanno rilevato alcuna irregolarità. Nonostante la lunga storia di tensioni elettorali che caratterizza il Paese, in questa tornata il clima è stato calmo e tranquillo. Si riferisce soltanto di pochi incidenti in alcune cittadine e di tentativi di compravendita del voto, ma nulla che potesse inficiare la validità delle elezioni. “I concorrenti hanno fatto campagna liberamente, le libertà fondamentali sono state rispettate, ma una commissione elettorale politicizzata ha ridotto la fiducia nel processo”, hanno detto gli osservatori internazionali. E ciò probabilmente ha influito sulla scarsa partecipazione dei cittadini al voto: l’affluenza ai seggi è stata solo del 45,17%, 8 punti in meno rispetto alle elezioni del 2013.


ORIENTE GIAPPONE E UE VERSO IL FREE-TRADE

Libero mercato, tra pressioni internazionali e interessi divergenti

Di Emanuele Chieppa Lunedì 27 giugno, Cecilia Malmstrom, commissario europeo per il commercio, ha parlato di una “fase molto intensa” delle negoziazioni tra l’Unione Europea e il Giappone per un accordo sul free-trade. Stando alle previsioni di alcuni analisti europei, grazie al trattato il commercio bilaterale potrebbe crescere di un terzo, determinando un conseguente sviluppo dell’economia dell’UE dello 0,8% e di quella giapponese dello 0,3%.

la lotta congiunta alle sfide globali e sociali, l’avvicinamento di persone e culture. Questi sono i due documenti chiave che hanno gettato le basi per le relazioni commerciali, oltre che diplomatiche, tra una Tokyo e l’Unione Europea.

Storicamente, le relazioni commerciali tra Tokyo e l’area europea hanno preso avvio in maniera decisiva agli inizi degli anni ’90. Risale infatti al 18 luglio 1991 la prima dichiarazione congiunta, che nel preambolo recita “The European Community and its member States on the one part and Japan on the other part […] affirm their common attachment to market principles, the promotion of free trade and the development of a prosperous and sound world economy”.

In Asia, il Giappone è il secondo partner dell’Unione Europea per dimensioni (dopo la Cina) e le due aree insieme rappresentano più di un terzo del PIL mondiale. Secondo i dati raccolti negli scorsi anni dalla Direzione Generale della Commissione Europea, nel 2014 gli scambi commerciali bilaterali ammontavano a quasi 100 miliardi di euro. La voce più rilevante riguardava l’esportazione giapponese – per 26 miliardi di euro – di macchinari, autoveicoli e prodotti ad essi connessi. Oggi si può, inoltre, rilevare come la bilancia commerciale tra le due zone sia poco lontana dal pareggio, mentre prima del 2012 vi era sempre stata la tendenza ad uno squilibrio delle partite correnti a favore del Giappone.

Successivamente, nel 2001, viene varato un action plan della durata di 10 anni: tra gli obiettivi figuravano la promozione della pace e della sicurezza, il rafforzamento della collaborazione economica e commerciale,

Le negoziazioni dell’accordo attualmente in via di definizione hanno preso avvio nel 2013: da allora si sono registrati 18 round negoziali, ai quali si sono aggiunti numerosi meeting e incontri a margine delle riunioni

formali. Come data ufficiale per siglare la nascita del nuovo accordo, i leader delle negoziazioni hanno ipotizzato il 7 e 8 luglio, giorni in cui si terrà ad Amburgo il summit del G20. Prima di quella data, però, vi sono ancora alcuni punti chiave che devono essere risolti – soprattutto in merito alle tariffe doganali ancora vigenti negli scambi bilaterali. Per quanto riguarda il mercato automobilistico, pare che il Giappone prema per l’eliminazione dei dazi del 10% applicati alle proprie automobili. Contemporaneamente, l’UE mira a veder abbattute alcune tariffe imposte al commercio agroalimentare: 30% sui formaggi, 10% sul cioccolato e 9% sui pomodori in scatola. Nonostante le negoziazioni siano giunte ad uno stadio avanzato, l’accordo deve ancora essere ratificato dai parlamenti nazionali – e in alcuni casi anche regionali – dell’area europea e dalla legislatura giapponese. Secondo l’analisi svolta dal New York Times, potrebbero ancora sorgere delle complicazioni – benché il Giappone stia spingendo sull’acceleratore per controbilanciare l’abbandono del TTP (Trans Pacific Parternship) da parte degli Stati Uniti. MSOI the Post • 11


ORIENTE MONGOLIA ANCORA SENZA PRESIDENTE: E’ BALLOTTAGGIO Per la prima volta nella storia si va al secondo turno elettorale

Di Carolina Quaranta Lunedì 26 giugno la Mongolia si è recata alle urne per eleggere il suo quinto Presidente, in sostituzione di Tsakhiagiin Elbegdorj: questi, in carica dal 2009, dopo due mandati non era più eleggibile. La maggioranza assoluta, però, non è stata raggiunta e per la prima volta si andrà al ballottaggio. A sfidarsi sono Battulga Khaltmaa, il candidato del Partito Democratico di opposizione, e Enkhbold Miyegombo, il rappresentante del MPP – Partito Popolare Mongolo attualmente al governo. La votazione è stata fissata per il prossimo 9 luglio. Battulga ha ottenenuto il 38,1% delle preferenze, a differenza dell’avversario che si è fermato al 30%. A meno di un punto percentuale da quest’ultimo si colloca, infine, il terzo candidato Ganbaatar Sainkhuu, populista esponente del Partito Rivoluzionario del Popolo Mongolo. Questi ha accusato la controparte di brogli, chiedendo che i voti venissero conteggiati nuovamente e – al momento – è in corso la riverifica del 50% delle schede. Dopo il calcolo elettronico dei voti, infatti, metà delle schede viene ricontrollata manualmente dai funzionari. Secondo il sistema vigente in Mongolia, una Repubblica semi-

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presidenziale, è il Primo Ministro a guidare il governo – mentre al Presidente spetta il potere di veto su questioni legislative e la nomina di cariche giudiziarie. Per essere eletto quinto Presidente della Mongolia al primo turno, il candidato avrebbe dovuto ottenere la maggioranza assoluta dei voti. Il Paese affronta ora un bivio decisivo. Ex campione di wrestling e ora self-made man nel settore dell’elettronica, Khaltmaa si presenta all’elettorato con un programma fortemente critico del Partito Popolare al governo, specialmente in relazione ai rapporti commerciali del Paese con la Cina. Il candidato del Partito Democratico mongolo crede infatti in un approccio economico che coinvolga gli investimenti internazionali e sostiene lo sviluppo del settore minerario nazionale. Miyegombo, candidato del partito al governo, è stato invece Primo Ministro tra il gennaio 2006 e il novembre 2007; il suo ruolo all’interno del partito è stato determinante nelle elezioni parlamentari del 2016, quando ha guidato il proprio gruppo alla vittoria con l’85% dei seggi. La sua politica governativa per la risoluzione dei problemi economici nella regione è improntata all’austerity, con

incrementi nella tassazione e innalzamento dell’età pensionabile – un fattore che ha inevitabilmente diminuito la popolarità del partito nel Paese. Le elezioni costituiscono un evento di forte rilevanza nel contesto socio-economico attuale: ex economia in più rapida espansione del mondo, la Mongolia sta ora diventando un importante terreno di investimenti esteri, nonostante la dipendenza dall’attività mineraria e il tasso di disoccupazione ancora elevato. La nazione riveste un ruolo importante al tavolo delle trattative in estremo Oriente, ma le previsioni del tasso di crescita per il 2017 si attestano a -0.2%: un segno in rosso in netta controtendenza con l’espansione degli ultimi anni. Di recente si è visto infatti un significativo crollo degli utili derivanti dalle esportazioni, degli investimenti stranieri e delle materie prime: questi fattori, uniti alla spesa pubblica talvolta eccessiva, hanno acuito la crisi debitoria mongola. A maggio, il Fondo Monetario Internazionale ha concordato con il governo un’operazione di salvataggio di 5,5 miliardi di dollari, vincolati all’attuazione di misure di austerità molto contestate dall’opinione pubblica.


AFRICA SICUREZZA E CRISI UMANITARIA IN SHAEL Un’intera regione nel caos

Di Francesco Tosco Il 2 giugno scorso nella capitale del Mali, Bamako, si è tenuto il summit dei capi di Governo nell’ambito del G5 Sahel. All’incontro erano presenti anche il presidente francese Emmanuel Macron e l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini, la quale, al termine della riunione, ha annunciato l’impegno da parte dell’Unione Europea a stanziare 50 milioni di euro per finanziare il contingente multi-forze del Sahel. L’accordo prevede un contingente di 10.000 soldati provenienti da Mali, Burkinabè, Ciad, Mauritania e Nigeria. Il comando è stato affidato al capo di Stato maggiore dell’esercito maliano, il generale Didier Dakouo. Il dispiegamento di forze, come spiegato dalla Mogherini, dovrà servire per dare maggiore stabilità alla regione nella lotta al terrorismo. L’operazione andrà a calarsi in un contesto coordinato con la missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA). Quest’ultima, attiva già nel 2013, ha contribuito a ristabilire l’autorità del Governo in gran parte del Paese. Il mandato

scadrà a fine mese, ma non ci sono dubbi sul fatto che le Nazioni Unite abbiano intenzione di rinnovare l’impegno militare ed economico prestato fino ad ora. Gli interessi nella regione non si riassumono soltanto nella stabilità e nello sviluppo, ma toccano anche le politiche di immigrazione europee. Infatti, il Sahel è una lunga e stretta striscia di terra semidesertica che corre lungo il confine sud del Sahara attraversando 13 Paesi. Proprio in questa fascia di terra corrono le principali vie che dall’Africa sub-sahariana portano verso il Nord Africa e l’Europa. La presenza internazionale, per quanto riguarda la difesa e la sicurezza della popolazione locale, è importante e sta portando i suoi frutti, anche se la strada per la stabilità è ancora lunga. Nonostante gli sforzi militari e i passi in avanti compiuti negli ultimi anni nella regione, la presenza di gruppi estremisti jihadisti resta alta soprattutto nelle zone di frontiera. I continui attentati hanno messo in ginocchio la popolazione e, soltanto qualche settimana fa, ad inizio giugno, sono morti due militari dell’operazione MINUSMA a Kidal, nel nord del Mali. Ci

sono

altri

problemi

da

non sottovalutare, tra cui il cambiamento climatico. La popolazione della fascia subsahariana è in ginocchio a causa della recente siccità, giudicata tra le peggiori degli ultimi tempi. Secondo alcuni studi delle Nazioni Unite, la temperatura nella regione sta crescendo anno dopo anno, con una media che è una volta e mezzo superiore a quella del resto del mondo. La siccità porta alla progressiva di nuovi desertificazione territori e all’abbassamento della superficie coltivabile e quindi pone ulteriori limiti all’approvvigionamento di cibo. Ulteriore fattore critico che contribuisce ad aggravare la crisi umanitaria consiste nella natalità fuori controllo (con una media di 7,4 figli per donna) che ha da sempre caratterizzato la regione del Sahel. Le stesse Nazioni Unite hanno evidenziato la criticità della situazione consigliando politiche di contenimento delle nascite. Questo problema, unito all’avanzamento del deserto, porta ad avere sempre meno terre da coltivare e sempre più popolazione da sfamare. Alla luce di questi fatti, la regione resta al centro dell’attenzione internazionale, sia per quanto riguarda la guerra contro il terrorismo jihadista, sia per l’urgente questione umanitaria.

MSOI the Post • 13


AFRICA BOKO HARAM COLPISCE ANCORA

Tre kamikaze a Maiduguri e la recluta dei bimbi-suicidi

Di Chiara Zaghi Domenica, 25 giugno, sono state uccise 9 persone nella città di Maiduguri nel nordest della Nigeria. Il portavoce della polizia locale, Victor Isuku, ha riferito che, mentre il primo kamikaze è entrato nell’Università di Maiduguri, nello stesso momento quattro donne si sono infiltrate nel quartiere Gwange e si sono fatte esplodere causando 8 vittime e 11 feriti. Nella stessa giornata altre due donne si sarebbero fatte conflagrare negli edifici dell’Università senza causare vittime. I tre attentati sono stati rivendicati dal gruppo terroristico Boko Haram, di matrice jhadista, che questo mese si è fatto responsabile di molteplici attentati. L’8 giugno scorso, infatti, è stata attaccata la periferia di Maiduguri. Il 19 giugno, invece, a Kofa, sempre nel nord-est del Paese, hanno perso la vita 19 persone a causa di 9 donne che, armate di cinture esplosive, hanno agito in diversi punti della città. Boko Haram è nata nel 2002, proprio a Maiduguri. Il suo nome significa letteralmente “l’educazione occidentale è vietata” e dal 2009 ha provocato 20.000 morti, 2,6 milioni di immigrati verso la zona del lago Ciad e innumerevoli attacchi terroristici. 14 • MSOI the Post

Nel 2015, il gruppo terrorita jihadista si è alleato con il sedicente Stato Islamico. Solo nel 2017, l’Università di Maiduguri è stata per ben quattro volte teatro di assalti da parte del gruppo terroristico ed è diventata un luogo insicuro, dove i ragazzi e il diritto allo studio vengono preservati con difficolt . à Lo Stato nigeriano, supportato dalla comunità internazionale, combatte da anni il gruppo armato e, a dispetto dei continui attacchi terroristici che avvengono nel Paese, ci sono state delle vittorie anche da parte dell’opposizione. Il 12 giugno, il portavoce delle forze armate nigeriane ha annunciato che sono stati liberati 9 bambini, precedentemente rapiti da Boko Haram. Durante lo scontro, avvenuto nello Stato di Borno, sono stati uccisi molti militanti fra cui Abu Nazir, uno dei più importanti leader del gruppo estremista. Boko Haram frequentemente rapisce ragazzi e bambini, di ambo i sessi, dalle loro famiglie, li imprigiona in campi segreti e attua dei programmi di radicalizzazione e addestramento per poter contare su un numero sempre più grande di adepti pronti a sacrificare la propria vita. Il 10 giugno, la polizia nigeriana ha cercato di fermare cinque

ragazze tra gli 11 e i 15 anni in possesso di cinture esplosive che tentavano di attraversare il confine tra il Camerun e la Nigeria. Secondo il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), nel primo trimestre del 2017, nella zona del lago Ciad ci sono stati 27 attacchi suicidi di minori rapiti e addestrati da Boko Haram. Questo dato conferma la strategia del gruppo terroristico di colpire e sfruttare prima di tutto i bambini. La direttrice dell’UNICEF per l’Africa centrale e Occidentale Marie-Pierre Poirier ha commentato: «Questi minori sono vittime, non colpevoli. Costringerli o raggirarli per utilizzarli in questo modo è riprovevole». Il sistema ha almeno due conseguenze indirette sulla popolazione: oltre alle vittime degli attacchi, si sono innescati i meccanismi della paura, che fanno sì che i bambini soli, nei luoghi pubblici, vengano percepiti come sospetti, e i bambini che vengono liberati vengono spesso emarginati. Il Paese è, oramai, in una situazione di guerriglia quotidiana. Non passa giorno senza attacchi terroristici o scontri tra i militanti jihadisti e la polizia nigeriana.


SUD AMERICA IL VENEZUELA VOLTA DI NUOVO LE SPALLE ALL’OSA

Dopo l’addio all’Organizzazione degli Stati Americani, il ritiro dalla conferenza a Cancún

Di Daniele Pennavaria I rapporti tra il Venezuela e l’Organizzazione degli Stati Americani sono stati sempre più tesi nell’ultimo anno ed in più occasioni si era arrivati a pensare al ritiro del Paese dall’organizzazione o alla sua espulsione. Con l’aggravarsi della situazione economica venezuelana, caratterizzata da un’inflazione spaventosa e dai legami troppo stretti con i prezzi volatili del petrolio, l’OSA era stata chiara sul fatto che lo status di membro del Paese sarebbe stato a rischio nel caso non fossero intervenute precise riforme per adeguare l’economia. Lo scorso 27 aprile Delcy Rodríguez, il ministro degli Esteri venezuelano, rappresentante nel consiglio dell’OSA, ha pronunciato un duro discorso contro l’operato dell’associazione e ha dichiarato ufficialmente l’intenzione del suo governo di rompere ogni relazione con essa. L’uscita avrebbe dovuto comunque essere un processo, concordato tra la delegazione del presidente Maduro e gli altri membri. Il Messico si è quindi proposto come mediatore per la delicata situazione della Bolivia, offrendo la possibilità di ospitare un summit all’interno del quale negoziare il percorso da intraprendere nel caso di un’effettiva fuoriuscita.

Così, lo scorso 20 giugno ha avuto luogo un incontro a Cancún dove la gestione dell’abbandono venezuelano o le condizioni per la sua permanenza avrebbero dovuto essere la tematica principale. Nell’ambito dell’incontro, la delegazione venezuelana ha però presentato un piano in 10 parti elaborato per mettere sul tavolo questioni ben diverse. Tra queste anche la vicenda irrisolta degli studenti di Ayotzinapa, uccisi in Messico nel 2014, del muro tra Stati Uniti ed il suo confine a sud ed una critica a Luis Almagro, attuale presidente dell’OSA. La presentazioni di progetti ai limiti delle procedure, che di solito richiedono mesi di dibattito, e le dichiarazioni unilaterali del Venezuela hanno infastidito non poco la delegazione messicana, che ha sottolineato come parte del progetto fosse direttamente contro il governo messicano come ritorsione contro la sua leadership nel processo di dialogo con il Venezuela. La Commissione Generale, incaricata di valutare le proposte, ha comunque scartato in blocco il piano. Luis Videgaray, leader della delegazione all’OSA, ha però dovuto fare i conti anche con il fallimento del documento da lui presentato per la gestione

delle relazioni col Venezuela. All’interno della proposta messicana, oltre alla richiesta di riconsiderare la convocazione dell’Assemblea Nazionale Costituente invocata da Maduro, vi è anche un riferimento generico al rispetto dei diritti umani da parte del governo. La proposta è caduta, ottenendo solamente 14 voti su 34, anche per l’astensione di buona parte degli Stati caraibici. Un controverso progetto per la costituzione di un “gruppo o altro meccanismo” che consenta il dialogo tra il governo e l’opposizione. Rodríguez ha dichiarato che “l’OSA è uno strumento per intervenire in Venezuela” ma che il suo paese “non ha bisogno di nessun intervento né di nessuna tutela” poiché “si mantiene fermo nella difesa della sua dignità”. Oltre a questo, ella ha reagito agli attacchi diretti di alcune delegazioni, tra cui quella dell’Honduras, accusandola di criticare la povertà del suo Paese da una posizione ben più critica. L’attacco della Rodríguez, sostenuto in ogni caso con dati di enti internazionali, a quello che ha definito il ‘moderno imperialismo’, si è concluso con l’abbandono della riunione e la promessa di non tornare più “fino a quando il Venezuela sarà un Paese sovrano”. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA LE MORTI SILENZIOSE DEI GIORNALISTI IN MESSICO I giornalisti costretti a scegliere tra il diritto di libera espressione e la vita

Di Sara Ponza Continua ad aumentare la lista di giornalisti assasinati in Messico. L’ultimo omicidio è stato quello di Salvador Adame, giornalista sequestrato e poi ucciso dal boss della banda di narcotrafficanti dei “Cavalieri Templari”. L’escalation di morti sta portando sempre di più i piccoli editori a chiudere i loro giornali e a rinunciare così al diritto di libera espressione. Nel mese di aprile, in una lettera pubblicata in prima pagina, il direttore di Norte, quotidiano di Ciudad Juarez, ha annunciato la chiusura della versione cartacea a causa delle continue violenze, spesso impunite, che i giornalisti messicani sono costretti a subire. In testimonianza del clima di emergenza interviene con parole di denuncia anche Tania Reneaum, la direttrice di Amnesty International Messico: 16 • MSOI the Post

“Fare il giornalista oggi in Messico” dichiara “pare ormai più una condanna a morte che una professione. Il continuo bagno di sangue che le autorità preferiscono ignorare sta gravemente danneggiando la libertà d’espressione nel paese”. Le aree dove si sono registrate il maggior numero di violenze e uccisioni nei confronti dei giornalisti sono lo Stato di Guerrero, situato nella parte sud del Paese, e lo Stato di Baja California (nord-ovest) dove si è registrata la maggior escalation di episodi dell’anno. Gli analisti hanno rilevato che la geografia degli omicidi rispecchia lo schema delle dispute in atto fra le principali organizzazioni criminali, come lo scontro fra il cartello di Sinaloa e quello di Jalisco Nueva Generacion. Nella classifica del 2016 dei Paesi col maggior numero di omicidi di giornalisti, l’organizzazione Reporter Senza Frontiere colloca il Messico al

terzo posto, dopo Siria e Afghanistan. Secondo RSF, infatti, dal 2000 in Messico sarebbero state uccise circa 90 persone fra giornalisti e altri operatori del settore, di cui 50 per motivi legati al proprio lavoro. “Questo clima di paura, associato all’impunità diffusa, genera autocensura e compromette la libertà d’informazione”, si legge su un comunicato dell’organizzazione non governativa. Inoltre, l’organizzazione Articolo 19 ha dichiarato che il Messico è il Paese con il più alto numero di giornalisti scomparsi. Il diritto alla libertà di espressione è una delle garanzie individuali previste dalla costituzione messicana e, inoltre, il Paese ha aderito alla Dichiarazione in difesa della libertà di espressione, che ha avviato meccanismi di protezione per i giornalisti e che, nel 2010, ha istituito una procura speciale per perseguire le minacce contro i giornalisti.


ECONOMIA PROVE DI GOLPE IN VENEZUELA

La crisi venezuelana è cavalcata dalle opposizioni che potrebbero tentare il putsch

Di Michelangelo Inverso È caos in Venezuela. Nella giornata di mercoledì 28 giugno un pilota delle forze di sicurezza venezuelane si è ammutinato, sganciando diverse granate sul palazzo della Corte Suprema di Caracas da un elicottero. L’attacco giunge al termine di una stagione politica ed economica durissima per il Venezuela. Un segnale gravissimo, che segue la notizia di un manifestante chavista bruciato vivo dagli antigovernativi. Le ragioni dietro alle proteste di piazza che hanno già lasciato numerosi morti tra i sostenitori del governo di Nicolàs Maduro e i suoi oppositori sono molteplici. Occorre anzitutto ricordare che lo Stato “Bolivariano” inaugurato dalla Costituzione chavista del 2002 ha conseguito numerosi e importantissimi risultati in termini di redistribuzione della ricchezza nel Paese e per l’abbassamento di tutti gli indici di disuguaglianza del Venezuela. Le conquiste del decennio chavista poggiavano sulla vendita di prodotti energetici (il Venezuela è il primo Paese al mondo per riserve di greggio) e materie prime (cacao, zucchero, legname, ortofrutticoli). I prezzi alla vendita sui mercati finanziari garantivano l’afflusso di va-

luta pregiata dall’estero. Con quei capitali, il governo di Hugo Chavez ha potuto implementare il suo programma sociale, modello seguito a ruota dai governi di sinistra brasiliani e argentini tra il 2002 e il 2012. Dal 2013-14, tuttavia, analogamente al resto dell’area sudamericana, il Venezuela è stato investito dal crollo dei prezzi delle commodity, che sono arrivati a dimezzarsi nel giro di un biennio. Il repentino crollo delle esportazioni ha, quindi, compromesso il funzionamento della macchina statale, la quale ha dovuto indebitarsi sempre di più e inflazionare la moneta, per evitare di tagliere i sussidi di cui godevano gli strati sociali più esposti e le industrie in perdita. Tutti i governi precedenti alla crisi del 2014 sono affondati: Kirchner in Argentina, Lula e Rousseff in Brasile. Ma in Venezuela si è venuto a creare il peggiore fra gli scenari. Morto Chavez, nel 2013, il capo del Governo è diventato Maduro, che, seppur proveniente dal mondo sindacale, non ha mai avuto lo stesso carisma del Comandante, vincendo le elezioni presidenziali di soli due punti percentuali. La perdurante crisi del settore alimentare ed energetico, unito alla cattiva scelta di Chavez di non sviluppare un settore

industriale capace di sostituire con la produzione interna le costose importazioni in dollari, ha rivelato la fragilità venezuelana. Dal 2014 in avanti, quindi, in seguito al crollo del PIL (-7% nel 2015, -1,6% nel 2016) le proteste di piazza si sono moltiplicate, seguendo uno schema ormai noto: coinvolgere pochi gruppi di violenti tra la folla, fomentare gli scontri contro la polizia e contro altri gruppi di manifestanti pacifici al fine di infiammare la protesta e pubblicare il tutto sui social media. In questo modo, l’opposizione radicale sogna un intervento dall’esterno sollecitato dall’opinione pubblica internazionale arrivando all’agognato Regime Change. Ed è proprio attraverso quest’interpretazione che è possibile capire quanto accaduto mercoledi a Caracas. L’attacco terroristico è stato infatti rivendicato, attraverso Instagram, dal pilota, legato ad altri soggetti dichiaratisi “membri delle forze di sicurezza venezuelane” che intendono rovesciare il democraticamente eletto Nicolas Maduro. Nelle prossime settimane assisteremo quasi certamente ad un’escalation contro il governo venezuelano, sia internamente sia internazionalmente. MSOI the Post • 17


ECONOMIA IN ITALIA IL GAS NATURALE SVETTA TRA LE FONTI ENERGETICHE PIÙ SFRUTTATE Nell’ultimo anno, il tradizionale primato del petrolio è stato eroso

Di Giacomo Robasto Secondo i numeri rilasciati dall’Unione Petrolifera Italiana, che lunedì scorso ha tenuto a Roma la propria assemblea annuale, il 2016 ha rappresentato un anno di svolta nei consumi energetici in Italia. Il gas naturale, infatti, ha rappresentato la prima fonte di energia, ponendo così termine al tradizionale primato del petrolio che si è protratto per decenni. Il gas naturale, difatti, ha rappresentato nel 2016 il 34,4% della domanda nazionale totale tra le fonti di energia primarie, mentre quella di greggio si è attestata solo al 32,3%. Inoltre, se nel 2015 i consumi nazionali di gas si erano attestati a quota 67,3 miliardi di metri cubi, durante l’anno successivo essi sono tornati a sfiorare i 71 miliardi, con un aumento di circa 3,4 miliardi di metri cubi, crescita più o meno analoga a quella fatta registrare nel 2001. L’aumento della domanda interna di gas compensa la diminuzione della domanda di greggio, che anche nei primi cinque mesi del 2017 ha registrato una flessione dell’1,9% rispetto all’anno precedente. Nella media relativa a questi mesi, 18 • MSOI the Post

infatti, il prezzo del petrolio si è mostrato in crescita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e potrebbe continuare a viaggiare su livelli simili anche nella seconda parte dell’anno. Guardando al valore della fattura energetica italiana, invece, si nota che nel 2016 essa ha subito un ridimensionamento di valore piuttosto marcato, portandosi a circa 25,3 miliardi di euro, in caduta libera rispetto ai 35,8 miliardi del 2015. Tale diminuzione è dovuta, oltre naturalmente al calo dei consumi di greggio, anche alla flessione nell’impiego di energia elettrica nel settore secondario, altra primaria fonte energetica. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’anno scorso le importazioni di energia elettrica hanno registrato un calo del 20%, principalmente a causa del fermo di ben 18 centrali nucleari francesi per dei controlli condotti sulla sicurezza dei reattori. Tale calo nella fornitura di energia d’oltralpe ha anche riaperto un dibattito in Italia sull’opportunità di investire maggiormente nelle energie rinnovabili, a partire dall’energia solare ed eolica, che l’Italia potrebbe sfruttare appieno, per disporre di energia a prezzi inferiori e da fonti

alternative a quelle tradizionali. Nel 2016, infatti, sempre secondo l’Unione Petrolifera, l’Italia ha importato oltre il 76% del suo fabbisogno energetico, e si trova a contendere con Belgio, Cipro e Lituania il poco invidiabile primato di Paese europeo con la più alta dipendenza energetica dall’estero. Se il Belpaese intende promuovere in futuro una crescita sostenibile e più autonoma, dovrebbe progressivamente affrancarsi dall’estero, tenendo presente che, pur essendo il gas naturale meno inquinante rispetto al petrolio, esso è quasi interamente importato (principalmente da Russia, Libia e Algeria) a caro prezzo. Gli esigui giacimenti di gas della pianura padana coprono attualmente circa il 15% del fabbisogno energetico nazionale e, ad eccezione di alcuni giacimenti petroliferi secondari nell’Adriatico e in Sicilia, l’Italia non ha mai potuto contare sulle sue sole riserve petrolifere (non rinnovabili). L’aumento del ricorso al gas naturale rappresenta soltanto un piccolo cambiamento in un mondo ancora dominato dalle fonti di energia tradizionali, sperando che le rinnovabili prendano a breve il sopravvento.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO REATO DI TORTURA: NUOVE SANZIONI PER L’ITALIA

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo punta nuovamente il dito contro l’Italia

Di Elena Carente A due anni dalla sentenza della Corte sul caso Cestaro c. Italia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha nuovamente condannato l’Italia per le brutalità commesse dalle forze di polizia all’interno dell’istituto scolastico Diaz, occupato da diversi manifestanti nel contesto del G8 svoltosi a Genova nel 2001. Il caso Cestaro, relativo al ricorso presentato davanti alla Corte EDU da Arnaldo Cestaro, uno dei dimostranti brutalmente feriti dalle forze di sicurezza nella notte del blitz, aveva per oggetto la violazione dell’Art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo sul divieto di tortura. L’Italia veniva accusata di non aver adeguatamente punito i responsabili delle violazioni commesse dalle forze di polizia e di non essersi ancora dotata di uno strumento giuridico volto alla prevenzione e repressione di trattamenti inumani e degradanti. Ravvisando una pluralità di violazioni agli obblighi positivi incombenti sullo Stato italiano che assicurassero l’effettività dei valori tutelati all’Art. 3, la Corte aveva ordinato all’Italia, attraverso quella che viene definita una “sentenza pilota”, l’adeguamento agli standard internazionali di tutela. La procedura della

“sentenza pilota”, nata in via giurisprudenziale e codificata nel Regolamento della Corte all’Art. 61, è volta alla risoluzione di casi ripetitivi determinati da un errore strutturale, sistemico, o da altra disfunzione dell’ordinamento, che dà luogo, o potrebbe dar luogo, a ricorsi aventi ad oggetto violazioni simili. La procedura prevede che la Corte identifichi l’errore strutturale e indichi allo Stato la tipologia di misure da adottare al fine di porre fine alle violazioni. La nuova condanna emessa dalla Corte EDU lo scorso 22 giugno ricalca quella già pronunciata nel caso Cestaro. In una lettera inviata alla Camera dei deputati, il Consiglio d’Europa, tramite il commissario dei diritti umani Nils Miunznieks, ha espresso le sue preoccupazioni relativamente al testo ora in esame alla Camera. Il testo, esaminato dal Senato per la terza volta dopo aver subito numerose modifiche, tornerà alla Camera il 26 giugno per essere approvato. La legge prevede che “chiunque, con violenza o minaccia ovvero con violazione dei propri obblighi di protezione, di cura o di assistenza, intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata, o comunque sottoposta alla sua autorità, vigilanza o custodia, acute sofferenze fisiche o psichiche al fine di ottenere, da essa o da un terzo,

informazioni o dichiarazioni o di infliggere una punizione o di vincere una resistenza, ovvero in ragione dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni” se, ha aggiunto il Senato “il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Così formulato il crimine di tortura potrebbe essere imputato a chiunque e non soltanto ad un pubblico ufficiale, come prescritto dagli standard internazionali. Il crimine viene inoltre circoscritto a comportamenti particolarmente crudeli e ripetuti nel tempo e richiede che il trauma psicologico sia verificabile. Ne consegue che non pochi aspetti della legge sembrano essere disallineati rispetto alla giurisprudenza della Corte EDU, alle raccomandazioni della Commissione europea per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti e alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura (1984). Se verrà approvato, il testo diventerà legge, il che potrebbe condurre a nuove sanzione da parte delle istituzioni internazionali. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO RIABILITAZIONE COME FORMA DI RIMEDIO

Per garantire dignità alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani

Di Stella Spatafora Garantire giustizia alle vittime di gravi violazioni dei diritti umani si è rivelata una delle più importanti sfide del diritto internazionale penale. Da circa settant’anni si è diffusa maggiore consapevolezza giuridica circa l’esistenza di atti da ritenere gravi e vietati anche in situazioni di violenza generalizzata, inglobata nel bisogno di internazionalizzare il diritto penale. Si è dunque sentito il dovere di sanzionare comportamenti illeciti dai profili internazionali, in modo da assicurare vera giustizia alle vittime, attraverso l’affermazione di una giurisdizione universale. A partire dalla creazione del Tribunale militare internazionale di Norimberga, istituito per giudicare i grandi criminali della II Guerra Mondiale, passando attraverso i tribunali penali internazionali ad hoc, come quello per il Ruanda e per l’exJugoslavia, si è faticosamente raggiunto l’obiettivo di una Corte Penale Internazionale, un tribunale permanente che abbattesse l’impunità per gravi crimini “under International Law”. L’impegno di una giustizia universale è da accostare a un obiettivo ancora più profondo: garantire dignità alle vittime offrendo loro effettiva protezione

20 • MSOI the Post

attraverso un processo “victim-centered” o “victimfriendly”, capace di dar voce ai diritti umani. Il processo penale può facilmente diventare un evento umiliante per la vittima che si trova nella stessa aula in cui vi è il presunto perpetratore. Il dover raccontare e rivivere eventi traumatici – il più delle volte difficili da rendere pubblici –, può essere dunque causa di imbarazzi e difficoltà emotive-relazionali. Ciò risulta deleterio dal punto di vista psicologico della vittima, sconfortatadaquestomeccanismo. Come si può assicurare una protezione efficace che tuteli la sua dignità? I “Principi di base e linee guida relativi ai ricorsi e alle riparazioni a favore delle vittime di flagranti violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario” (ris. 60/147 Assemblea Generale ONU, 2005) rappresentano uno strumento chiave volto a fortificare la restituzione, la compensazione e la riabilitazione come principali garanzie alle vittime. Nel preambolo si afferma che “le vittime dovrebbero essere trattate con compassione e con rispetto per la loro dignità”. Il principio 10, inoltre, sottolinea che “misure adeguate dovrebbero essere prese al fine di assicurare

la sicurezza, il benessere fisico e psicologico […]”. Vi è un’attenzione particolare alla redenzione della vittima, legato alla necessità di garantire, tra gli altri rimedi, quello della riabilitazione. Il commento n.3 all’Art. 14 della Convenzione contro la Tortura (1984) afferma che la riabilitazione dovrebbe includeresia cure mediche e psicologiche, sia assistenza sociale e legale; ciò richiede un rafforzamento reciproco delle strutture sanitarie e legali. La riabilitazione si presenta infatti come un percorso olistico di ripristino di tutte le capacità fisiche e psicologiche della vittima, in modo da consentire un ritorno all’autonomia, all’inclusione e partecipazione sociale. Probabilmente, il desiderio più grande di una vittima di gravi violazioni dei diritti umani è quello di poter vivere in un contesto tutelato. Il diritto internazionale ha fatto molti passi avanti in ciò soprattutto a livello regionale, consolidando una posizione sempre più privilegiata dell’individuo. È opportuno però continuare a implementare il sistema consentendo spazio maggiorealle vittime, rispettandone la dignità e garantendoun processo efficace basato sul principio di umanità.


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