MSOI thePost Numero 71

Page 1

14/07 - 27/07

Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


1 4 / 0 7

-

2 7 / 0 7

MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

71

REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Samantha Scarpa Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso,Daniele Ruffino , Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Martina Unali, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA GREEN DEVELOPEMENT Ambiente e sviluppo sostenibile

Di Giulia Ficuciello L’ambiente si presenta oggi come una materia, ma anche un valore, in continua evoluzione. Nel corso degli ultimi decenni l’Unione Europea ha sviluppato una politica di tutela dell’ambiente che si presenta come una delle più garantiste a livello globale. Tale tutela richiede soluzioni sovranazionali ed a partire dagli anni ’70 furono diverse conferenze con l’obiettivo di responsabilizzare gli Stati in tema di emissioni e sviluppo sostenibile. Nel 1972 le Nazioni Unite promossero la prima Conferenza mondiale sull’ambiente umano a Stoccolma. Vi furono espressi richiami alla libertà, all’uguaglianza ed al dovere dell’uomo di preservare l’ambiente e le sue risorse per le generazioni presenti e future. Tappa cruciale fu tuttavia la Convenzione-quadro sui cambiamenti climatici tenutasi a Rio de Janeiro del 1992 alla quale presero parte 195 Stati. Venne elaborato un vasto programma d’azione nel quale gli Stati si impegnavano ad integrare, a livello globale, la tutela dell’ambiente e lo sviluppo economico nonché una presa d’atto del degradamento climatico e la responsabilità dell’uomo. Gli obiettivi fissati dalla conven-

zione-quadro furono ulteriormente sviluppati dal Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997, che prevede la riduzione delle emissioni di gas-serra, da realizzare entro il periodo 2008-2012, e dal successivo Vertice di Bali del 2007. Contestualmente agli sviluppi internazionali a partire dal 1973 furono elaborati i Programmi d’azione comunitari quinquennali, sulla base dei quali gli Stati Membri assumevano l’impegno di adottare disposizioni legislative, amministrative e regolamentari per attuare la normativa europea in materia di salvaguardia dell’ambiente. Fu solo grazie all’Atto Unico europeo, firmato a Lussemburgo nel 1986, che si ebbe il riconoscimento della tutela ambientale a livello di Unione. Nel 2007, gli Stati Membri hanno aderito al “pacchetto 2020” che prevede la riduzione del 20% delle emissioni di gas serra rispetto al 1990, l’aumento del 20% del fabbisogno energetico ricavato da fonti rinnovabili e l’incremento del 20% dell’efficienza energetica da realizzarsi entro il 2020. Nonostante in 23 Stati su 28 non vengano rispettate le norme relative alla qualità dell’aria, numerosi Stati membri hanno fatto enormi progressi nella tutela dell’ambiente e, secondo le sti-

me, una piena attuazione della normativa UE potrebbe portare ad un risparmio di 50 miliardi di euro l’anno, in ambito sanitario ed ambientale, e alla creazione di migliaia di posti di lavoro. La commissione europea ha elaborato la strategia “legiferare meglio” con l’obiettivo di risolvere il problema dell’applicazione disomogenea negli Stati Membri della legislazione ambientale dell’unione. Un’attuazione nazionale di questo tipo risulta infatti essere inefficace e soprattutto non in grado di soddisfare gli alti standard europei, il che provoca maggiori costi ambientali, economici e sociali. Bisogna tuttavia precisare che gli obiettivi fissati dall’Unione Europea variano in modo da riflettere la situazione di partenza dei diversi Stati Membri. In materia di produzione di energia da fonti rinnovabili, ad esempio, si passa dall’obiettivo del 10% di incremento di Malta al 49% della Svezia. Dal trattato di Maastricht del 1993 fino alla COP21 del 2015, che ha l’ambizioso obiettivo di mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2°C, è dunque stato costante l’impegno degli Stati membri in materia di ambiente e di cambiamenti climatici. MSOI the Post • 3


EUROPA EUROPEAN WELFARE POLICIES How states care for their citizens

By Ann-Marlen Hoolt From the beginning of the 20th century up until the 1960s most European countries developed into welfare states. As such they care for the social and economic wellbeing of their citizens. By redistributing goods and money the welfare state transfers state funds to services as well as individuals, using i.e. the system of taxation or government grants. Welfare policies support the citizens when they are not able to support themselves. The possibility of financially supported parental leave, unemployment benefits or monthly pensions are only some of the services provided by the welfare state. Still, not ever government supports welfare state principles seen as the help provided does at the same time imply an intervention in market autonomy. Since most welfare states tax citizens according to their income: the higher the income, the higher the taxes. Not all welfare states are the same. The first to observe the differences in European welfare states was sociologist Gøsta Esping-Anderson. He categorised three groups of welfare states: the Liberal, the

4 • MSOI the Post

Conservative and the Social Democratic State. The Liberal Welfare State can also be described as the AngloSaxon model, operating in the USA, Canada and Australia. States belonging to this group are dominated by the logic of the market and the idea of private provision. State services are not universal but depend on the examination the indigence. Meanwhile social insurance does not rank high in the system and money is only scarcely redistributed. Continental European states such as Germany, Austria and France are described as Conservative Welfare States. They build upon the guarantee of social security while maintaining status-differences. Influenced by Christian beliefs the preservation of traditional values such as the male-breadwinning family and the principal of subsidiarity rank high in the system and they are defined by corporal and paternalistic structures. The key principal of Social democratic Welfare States is universality. This type is often called “the nordern model” since it describes the policies of countries like Denmark, Sweden

or Norway. Sine Esping-Anderson’s first classifications other Welfare State groups have been added to the original three. The Rural Welfare State describes poorer, less industrialised countries with low average income such as Spain, Portugal or Greece. The state provides only scarce support and provision through family or church play an important role. Meanwhile the term Postsocialistc Welfare States describes the provision systems in Eastern Europe, combining liberal, conservative and social democratic elements. Over the last twenty years the ideal typical differences between the models have changed. Many states have developed a liberal tendency as well as flexible security systems. The overall social level in all of Europe is high. Still discussions about the right welfare state strategy continue to exist. Which positive or negative consequences arise through the welfare state can only partially be evaluated. Welfare state measures are controversial in Politics an Economy. If welfare states are to continue and provide support to citizens they will have to be continually renegotiated.


NORD AMERICA IL PRIMO G20 DI TRUMP

Commercio, clima e Siria le tematiche più importanti per gli USA

Di Lorenzo Bazzano L’8 luglio si è chiuso il G20 di Amburgo, il primo per il presidente Donald Trump, che ha deciso di concluderlo con una dichiarazione piuttosto inaspettata, rivolta alla cancelliera Angela Merkel: “La sua leadership è assolutamente incredibile. La Cancelliera ha fatto davvero un lavoro formidabile. È una donna straordinaria”. Non solo, insomma, strette di mano e convenevoli, ma complimenti apparentemente sinceri, seppur proferiti dalla bocca di un Capo di Stato che in campagna elettorale aveva definito Angela Merkel come una “catastrofe che porterà alla rovina della Germania”. Sembra che tra una discussione e l’altra i due leader siano riusciti a rompere il ghiaccio, anche in virtù dei compromessi raggiunti, che Trump ha accolto come una vittoria. Il G20 ha confermato l’impegno degli Accordi di Parigi, senza gli Stati Uniti, che potranno continuare a sfruttare le fonti energetiche fossili, a patto che lo facciano in maniera più efficiente e meno inquinante. Questa clausola potrebbe indurre gli Stati Uniti a continuare la pratica del fracking e lo sfruttamento dello shale gas, che possono provocare gravi danni ambientali. Inoltre, sono stati presi degli

accordi anche sul commercio: nel comunicato finale, si riconosce che il commercio aperto è il motore della crescita, della produttività, dell’innovazione e della creazione di posti di lavoro. Questa posizione nel comunicato, tuttavia, è comunque condizionata dalla citazione esplicita del legittimo ricorso a strumenti di difesa nazionali. Una clausola molto importante per gli Stati Uniti, perché potrebbe essere interpretata come un’autorizzazione a introdurre dazi sulle importazioni di acciaio, uno dei punti cardine della politica economica protezionista che Trump ha intenzione di mettere in atto. Il Presidente statunitense ha parlato positivamente anche dell’incontro con il leader russo Vladimir Putin, durato più di due ore. Il primo risultato è l’accordo per un parziale cessate il fuoco nel sudovest della Siria, con l’auspicio di estenderlo. Il ministro degli Esteri Sergei Lavrov ha fatto sapere che Giordania e Israele, due alleati di Washington, hanno offerto il loro sostegno alla misura . Il segretario di Stato Rex Tillerson ha dichiarato che, durante l’incontro, ha riscontrato una “chimica positiva” fra i due Presidenti, a dispetto delle tensioni che hanno caratterizzato i rapporti

dei due Paesi fino all’apertura del G20, soprattutto a causa del Russiagate. Il tema è sicuramente spinoso per il presidente Trump, che tuttavia l’ha voluto affrontare subito e con toni piuttosto duri (perlomeno, stando a ciò che l’amministrazione statunitense ha voluto far trapelare). Il tycoon non sembra intenzionato a fare sconti sulle presunte simpatie fra la sua amministrazione e la Russia. Sembrerebbe quindi troppo presto per determinare se il G20 di Amburgo è stato o meno un primo passo per l’instaurazione di rapporti più distesi fra le due potenze. Il Presidente statunitense ha anche fatto sapere via Twitter di aver discusso con Putin della possibile creazione di un’impenetrabile sistema di cyber-sicurezza, per proteggere i due Paesi dagli attacchi hacker e garantire la regolarità delle elezioni. Anche su questo punto è scesa però una coltre di incertezza, in parte perché non l’argomento non è stato ripreso ufficialmente né dall’amministrazione di Washington né da Mosca, in parte perché lo stesso Trump ha successivamente dichiarato che, per quanto la discussione sul sistema di sicurezza informatica abbia avuto luogo, non ci sono garanzie che il progetto andrà in porto. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA SI CONCLUDE IL CASO “OMAR KHADR” Il Canada chiede scusa al proprio cittadino

Di Martina Santi Nei giorni scorsi, il governo canadese ha presentato le sue scuse li ufficia e un risarcimento di 10 milioni di dollari canadesi all’ex bambino-soldato Omar Khadr, riconoscendo parte della propria responsabilità negli avvenimenti che lo hanno coinvolto. Cittadino canadese, il ragazzo è nato a Toronto, figlio di alti esponenti del terrorismo di matrice jihadista, in contatto con le forze di Al-Qaeda. Ancora adolescente, fu portato in Afghanistan dal padre, dove venne reclutato da un gruppo di terroristi. Nel 2002, gli americani attaccarono villaggio in cui Khadr viveva. Là, un soldato delle forze speciali americane – C. Speer – perse la vita per mano di un ordigno innescato dall’allora quindicenne, in seguito catturato dalle truppe statunitensi. Dopo un breve periodo trascorso nella base aerea di Bagram, Khadr venne trasferito nel carcere di massima sicurezza di Guantánamo, dove rimase sotto custodia per 10 anni, 8 dei quali in attesa di un regolare processo. Nel 2010, il detenuto ammise la propria responsabilità e colpevolezza e venne 6 • MSOI the Post

condannato, da un Tribunale militare statunitense a 8 anni di reclusione, in aggiunta a quelli già scontati in custodia. Come da patteggiamento, nel 2012, l’ormai maggiorenne Omar venne trasferito in un carcere canadese ad Alberta, dove ha scontato la sua pena fino al 2015, quando fu rilasciato su cauzione. Giunto in Canada, Kadhr si è appellato alla condanna del Tribunale militare statunitense, sostenendo di essersi dichiarato colpevole solo con la prospettiva di essere trasferito in un carcere canadese e quindi nella speranza di essere allontanato dalla prigione in cui per otto anni aveva subito abusi indicibili. Le allegazioni di Kahdr, accompagnate da alcuni filmati che mostravano gli interrogatori a cui il giovane è stato sottoposto, han fatto sì che la Corte Suprema canadese si pronunciasse per sanzionare gli abusi subiti e le numerose violazioni di diritti umani, come la negazione di un equo processo, o la violazione dell’integrità fisica. La confessione è stata estorta in “oppressive circumstances” e non può quindi ritenersi legittima. Il rilascio su cauzione del 2015 fu accordato dal Tribunale a dispetto dell’opposizione del governo canadese. Khadr ha dunque intentato causa per ingiusta detenzione e per il

mancato riconoscimento, da parte dello Stato, dei suoi diritti di cittadino canadese. Di recente, a seguito della sentenza della Corte Suprema e l’avvio dei negoziati fra il governo e l’avvocato di Khadr, una fonte anonima ha riportato la decisione di Ottawa di risarcire l’ex detenuto per circa 10 milioni, a cui ha fatto seguito anche una presentazione di li scuse ufficia . La vicenda di Omar Khadr resta impressionante sotto molti aspetti. Il ruolo (o il “non ruolo”) giocato da Ottawa nella questione e l’ostinazione con cui l’allora governo conservatore si oppose alle richieste di estradizione del ragazzo in territorio canadese hanno suscitato accesi dibattiti, anche da parte della comunità internazionale. Sono peraltro i numerosi stati rivelati tentativi portati avanti dallo Stato per assicurarsi che il detenuto restasse nella base di Guantánamo, in quanto considerato pericoloso. Infine, resta da giustificare la decisione del Tribunale di condannare un quindicenne alla reclusione e all’allontanamento dalla sfera familiare e sociale, in attesa che diventi possibile processarlo come un comune terrorista, per la raggiunta maggiore età.


MEDIO ORIENTE “ADALET!”

La Turchia degli oppressi urla “Giustizia!”: la lunga marcia si è conclusa a Istanbul

Di Lorenzo Gilardetti Nella notte tra il 15 e il 16 luglio 2016 la Turchia veniva scossa dal tentato colpo di Stato. Dal giorno successivo, il presidente Erdoğan ha attuato una serie di provvedimenti volti a rinsaldare la propria autorità, giungendo ad arrestare decine di migliaia di persone tra militari, politici, funzionari pubblici, giornalisti e insegnanti, e a creare un clima di terrore. A quasi un anno di distanza, al suono della parola “Adalet”, giustizia, il 15 giugno scorso è iniziata ad Ankara una marcia guidata dal partito repubblicano CHP, che ha invitato la popolazione a manifestare contro le ingiustizie e a favore della democrazia. Partiti dalla capitale in numero contenuto, nell’arco dei 24 giorni e 480 km i manifestanti hanno raccolto centinaia di migliaia di persone e sono giunti a Maltepe, distretto carcerario di Istanbul. Si tratta della prima manifestazione ostile al partito di maggioranza AKP negli ultimi 11 mesi. La destinazione è stata scelta per mostrare solidarietà al parlamentare Enis Berberoğlu, reo di aver desecretato e fornito al quotidiano Cumhuriyet documenti coperti da segreto di Sta-

to che attestano il coinvolgimento dei servizi segreti turchi nella vendita di armi destinate al conflitto in Siria. I numeri della partecipazione alla marcia – la quale chiedeva giustizia per tutte le persone di diversa provenienza politica e professionale perseguitate ingiustamente e condannate per terrorismo – sono sensibilmente aumentati grazie alle adesioni in sequenza del partito filo-curdo e di una rappresentanza dei Lupi Grigi, gli ultranazionalisti turchi. A capo dell’iniziativa il sessantottenne Kemal Kılıçdaroğlu, leader del CHP, che ha scelto di marciare nonostante lo stato di emergenza in cui vive il Paese dal famoso 16 luglio 2016. Tra i concetti chiave del discorso finale da lui pronunciato a Maltepe ci sono “rinascita” e “nuovo inizio”, accompagnati a un manifesto di 10 punti che indicano le priorità per l’attuale politica turca: identificare i responsabili politici del golpe, abolire lo stato d’emergenza, garantire l’indipendenza della magistratura e rilasciare giornalisti e parlamentari sono le più significative. La reazione di Erdoğan si è fatta attendere: prima dell’arrivo della marcia a Istanbul aveva

accusato il CHP di incitare al terrorismo, ma successivamente ha preferito non rilasciare dichiarazioni (mentre alcuni sostenitori dell’AKP hanno provato ad aggredire i manifestanti). All’indomani del 9 luglio, giorno conclusivo della manifestazione, 42 persone sono state arrestate in due importanti poli universitari di Istanbul con l’accusa di appartenere alla rete terroristica di Gülen, che avrebbe organizzato il colpo di Stato: probabilmente il Presidente turco preferisce lasciar parlare i fatti, e infatti in quest’ottica il Paese sta aspettando con trepidazione la grande manifestazione indetta dal partito di maggioranza per il 15 luglio, in occasione del primo anniversario dal mancato golpe. Nello scenario di un Paese che non riesce a superare un momento storico difficile per la politica interna, non va dimenticato che perdura dal principio dello scorso marzo uno sciopero della fame che coinvolge diversi insegnanti tra i quasi 140.000 (contando anche i funzionari pubblici) che sono stati licenziati, e che almeno 37 delle 50.000 persone arrestate nell’ultimo anno si sono tolte la vita. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE MOSUL LIBERATA

Tre anni dopo la proclamazione del califfato, la sua sconfitta nella roccaforte irachena di Daesh.

Di Clarissa Rossetti Sventola sulla riva del Tigri, nella città vecchia, la bandiera irachena: dopo un’operazione durata mesi, l’esercito iracheno ha annunciato di aver riconquistato Mosul, fino alle rovine della Grande MoscheaAl-Nuri, quel che resta del luogo di culto dove il leader di Daesh, Abu Bakr Al-Baghdadi, aveva proclamato la creazione del califfato islamico nel giugno 2014. A sconfiggere il sedicente Stato Islamico nella sua roccaforte irachena sarebbero state circa 100.000 unità militari, tra cui membri dell’esercito governativo, militanti curdi peshmerga e gruppi armati sciiti, spalleggiati da una coalizione internazionale guidata dagli USA. Nonostante la strada verso la sconfitta totale del gruppo IS sia ancora estremamente lunga e appaia potenzialmente infinita, la liberazione di Mosul rappresenta un risultato importante nella lotta all’estremismo, risultato accolto da festeggiamenti in tutto il Paese e accompagnato da voci sulla morte del leader Abu Bakr Al-Baghdadi. Secondo quanto dichiarato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, infatti, il leader sarebbe decedu8 • MSOI the Post

to nella provincia di Deir az Zor, nella Siria orientale. Tuttavia, i canali mediatici di Daesh non hanno rilasciato conferme ufficiali e il rapporto non è stato ancora verificato da altre fonti. Dall’inizio del 2017, Daesh ha perso circa il 20% dei suoi territori, e controlla oggi circa la metà delle zone occupate all’apice della propria ascesa, tra il 2014 e il 2015. Mentre i media internazionali ipotizzano l’imminente fine del califfato, gli analisti sono più cauti e non ne escludono la rivalsa ideologica anche dopo una possibile distruzione. Gli esperti si interrogano sul futuro della zona liberata, nonché sulle strategie per evitare una ricaduta della città nel controllo dei gruppi terroristici. Ibrahim Al-Marashi, storico, accademico e co-autore di Iraq’s Armed Forces: An Analytical History, ha individuato per Al Jazeera i punti principali da considerare nella ricostruzione. Oltre all’inclusione dei gruppi marginalizzati e le minoranze – tra cui i sunniti arabi nella provincia di Mosul e Ninewa, cristiani e yazidi – la ricostruzione dovrà assicurare una strategia per combattere la corruzione e l’abuso di potere da parte della casta militare e dei magistrati. Alto è, infatti, il rischio di ine-

guaglianze strutturali in seguito al flusso di aiuti internazionali, che dovrebbe essere condizionale a misure volte a promuovere la coesione sociale e il dialogo, sia a Mosul sia in altre zone precedentemente occupate. Secondo lo storico, infatti, il trattamento della comunità da parte delle forze di sicurezza irachene avrebbe giocato un ruolo fondamentale nell’alienazione di gran parte della popolazione. La riconquista di Mosul non è quindi da considerarsi completa senza strategie sostenibili e a lungo termine per la protezione della zona dai rischi che l’avevano fatta cadere nel controllo di Daesh. Nel frattempo, anche se con tempi difficili d a stimare, inizierà il ritorno delle popolazioni sfollate nella città, pari, secondo UNHCR, a circa 827.630 persone. Tra queste, poco più della metà sono attualmente assistite nei campi allestiti dall’UNHCR, la cui risposta all’emergenza Mosul ha portato, dall’ottobre 2016, alla creazione di numerose strutture per l’accoglienza e la protezione di sfollati nei distretti di Ninewa, Kirkuk e nelle aree limitrofe del Kurdistan iracheno, Dohuk ed Erbil.


RUSSIA E BALCANI LA RUSSIA NELL’ARTICO

Gli interessi del Cremlino nella regione polare e lo sguardo ad est

Di Daniele Baldo Nel maggio 2017 il think tank SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) ha pubblicato un paper nel quale descrive la strategia russa nella regione artica, facendo emergere i cambiamenti in corso in quest’area, sia da un punto di vista economico sia geopolitico. Per la Russia la zona artica è da sempre stata di grande interesse per lo sviluppo energetico e per le rotte commerciali marittime. La produzione energetica russa trova il suo mercato principale in Europa e le risorse energetiche provenienti dall’Artico non si discostano da questa tendenza; anche qui la Russia opera in partnership con aziende europee o statunitensi, ma alcune sfide economiche e geopolitiche recenti, come ad esempio la crisi interna al Paese, hanno messo a repentaglio tali collaborazioni e hanno sottolineato la necessità per Mosca di diversificare la propria strategia. L’economia russa è fortemente dipendente dalle esportazioni di gas e petrolio, ricavando da esse almeno il 50% del budget federale. Tale dipendenza ha fatto sì che la produzione intensiva di energia finisse per esaurire i giacimenti tradizionali presenti

nella Siberia occidentale, obbligando così a spostare la geografia della produzione verso nuove regioni, incluso l’Artico. Si ritiene che il 90% del gas polare e più del 45% del petrolio polare sia concentrato nel settore russo della piattaforma artica. Nonostante la Russia possa vantare una considerevole esperienza nello sviluppo di risorse energetiche nelle regioni continentali, per i progetti offshore le compagnie di Stato Gazprom e Rosneft non posseggono l’esperienza necessaria. La piattaforma artica è largamente inesplorata e, a causa dell’incapacità di esplorazione, degli alti costi di investimento nella regione e dell’impossibilità di ottenere un ritorno economico immediato, Gazprom e Rosneft, le uniche aziende ad aver accesso all’Artico, hanno cercato il coinvolgimento di investitori stranieri occidentali. La maggior parte delle collaborazioni createsi è tuttavia fallita a causa della situazione di stallo nei mercati energetici mondiali e soprattutto per via delle sanzioni imposte da Stati Uniti ed Unione Europea alla Russia, a seguito dell’annessione della Crimea nel 2014, che hanno impedito il trasferimento delle tecnologie

e limitato i finanziamenti necessari per lo sfruttamento delle piattaforme. La Russia ha dunque ripreso a guardarsi attorno, alla ricerca di nuovi investitori in grado di sviluppare l’insieme delle rotte commerciali artiche (denominato Northern Sea Route) per rendere possibile la ricerca e l’estrazione delle risorse energetiche polari. In questo scenario si è inserita la Cina, la quale, cercando di far valere il proprio ruolo di stakeholder nella regione artica, ha stretto accordi bilaterali con i Paesi nordici e si è messa al tavolo delle trattative con la Russia. Il rapporto tra i due Paesi risulta però complicato. La Cina non sembra infatti voler concedere troppo margine decisionale al Cremlino; facendo valere la propria voce all’interno del Consiglio dell’Artico, come Paese osservatore, non essendo direttamente collegato all’Artico, Pechino intende promuovere la propria governance nella regione, mantenendo intatti i propri interessi. Questo scenario in continua evoluzione vedrà un punto di svolta solamente quando i due Paesi troveranno accordi reali e la cooperazione sarà maggiormente intensificata. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI BRACCIO DI FERRO TRA RUSSIA E USA SULLA COREA DEL NORD Tensioni durante il Consiglio di Sicurezza ONU sulle sanzioni a Pyongyang

Di Ilaria Di Donato A compromettere ulteriormente i rapporti già incrinati tra Russia e USA ci pensa la Corea del Nord: il lancio di un missile balistico intercontinentale effettuato dal dittatore nordcoreano non ha lasciato indifferenti gli Stati Uniti e la Russia. Le due nazioni si sono schierate sui due fronti opposti di questa scacchiera internazionale. Da una parte, il segretario di Stato americano, Tillerson, ha esortato tutti gli Stati ad indignarsi verso tale azione, dichiarando che “Tutti i Paesi dovrebbero dimostrare pubblicamente alla Corea del Nord che ci sono conseguenze per il fatto di inseguire le armi nucleari”. Dall’altro lato, Russia e Cina si trovano alleate e fanno fronte comune ritenendo che “deve essere esclusa l’ipotesi di un’azione militare”. Non solo, Mosca ha apertamente negato il proprio consenso all’uso della forza contro la Corea del Nord, sostenendo che “la possibilità di intraprendere misure militari per risolvere i problemi legati della penisola coreana dovrebbe essere esclusa”, mentre bisognerebbe incentivare un dialogo tra il

10 • MSOI the Post

Nord e il Sud della Corea. Alle posizioni della Russia si affiancano quelle della Cina, che si è opposta al Consiglio di Sicurezza ONU in merito all’adozione di nuove sanzioni nei confronti di Pyongyang. La convergenza delle idee russe e cinesi conferma, perciò, il rafforzamento di un’asse Mosca- Pechino già emersa nitidamente nel corso dell’ultimo incontro tra il presidente Putin e l’omologo cinese Xi Jinping. Alle opinioni di Mosca replica l’ambasciatrice statunitense Nikki Haley: “Se la Russia non vuole sostenere misure più severe contro Pyongyang deve mettere il veto alla bozza di risoluzione” documento verrà presentato nei giorni a venire. Ma, ammonisce, in questo caso gli Stati Uniti saranno pronti ad agire da soli. Gli analisti della società di intelligence ‘Stratfor’ hanno interpretato le intenzioni della Russia come un tentativo di Vladimir Putin di allontanarsi sempre più dagli Stati Uniti e dall’Occidente in generale, “gettando le basi per rafforzare i legami con la Corea del Nord”. Anche la Cina gioca un ruolo chiave nella vicenda: in qualità di principale partner e alle-

ato della Corea del Nord, il Paese viene da tempo esortato da Trump affinché convinca Pyongyang ad abbandonare il proprio programma nucleare. Pechino, dal canto suo, sorda alle richieste degli USA, ha espresso la propria vicinanza alle posizioni della Russia. La strategia suggerita da Russia e Cina prevedrebbe un doppio impegno: da una parte, la Corea del Nord dovrebbe interrompere il proprio programma nucleare; dall’altra, Washington e Seul dovrebbero impegnarsi a cessare le loro esercitazioni militari sui cieli nordcoreani. Infatti, “si chiede a tutte le parti coinvolte di esercitare la moderazione, evitare azioni provocatorie, retorica belligerante, dimostrando la volontà di dialogo incondizionato e lavorando attivamente assieme per disinnescare la tensione”. Anche il Ministro degli Esteri russo non ha esitato a rendere manifesta la propria idea sulla vicenda: “Per Russia e Cina è assolutamente chiaro che ogni tentativo di giustificare una soluzione bellica, usando le risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu come pretesto, è inaccettabile e porterà a conseguenze imprevedibili nella regione”.


ORIENTE RAMA X AL POTERE

Gli autocrati si fronteggiano, la democrazia stia in disparte

Di Giusto Amedeo Boccheni

rispondere al sondaggio.

In aprile, il nuovo re tailadese Maha Vajiralongkorn ha firmato la ventesima Costituzione del Paese dalla fine della monarchia assoluta, nel 1932. La Carta, voluta dalla Giunta militare ascesa al potere con il colpo di Stato del 2014, darebbe ai generali il potere di influenzare la politica tailandese per anni o anche decadi. Di recente, inoltre, il primo ministro Prayut Chan-o-cha, capo della Giunta, ha ottenuto l’istituzione di un Comitato per la Strategia Nazionale, che includerà i vertici delle forze armate e dei rappresentanti del mondo dell’industria e degli affari. La Giunta potrà così realizzare, nei prossimi vent’anni, dei piani quinquiennali per riformare il sistema politico, legale ed economico della Terra dei Sorrisi, vincolando legalmente i governi futuri.

Nel Paese è fatto divieto di riunione e associazione per fini politici. Il dibattito pubblico è inoltre ostacolato da durissime leggi di lèse majesté, che, soprattutto dopo il rovesciamento del Governo di Thaksin Shinawatra, nel 2006, sono diventate lo strumento preferito dei militari per contrastare i critici della monarchia, nel riverito nome del defunto monarca e a dispetto delle pur fievoli critiche mosse dal medesimo. A maggio è stato emendato l’atto sui crimini informatici, per censurare “contenuti falsi”, o “contrari alla moralità e all’ordine pubblico”. Persino della Costituzione era stato fatto divieto di parlare apertamente, durante la campagnia per l’approvazione referendaria.

Le elezioni, che il popolo attende da anni, continuano ad essere rimandate per approvare la Costituzione, o fronteggiare minacce alla sicurezza nazionale. Il 26 maggio, Prayut ha messo in dubbio l’utilità e l’affidabilità di elezioni democratiche in Tailandia e si è rivolto ai cittadini, affinchè si esprimessero in proposito. Appena 98.000 persone (il 16% degli aventi diritto) han deciso di

Con Rama X qualcosa è cambiato, ma non necessariamente per il meglio. Vajiralongkorn, che per la vita dissoluta el’atteggiamento crudeleverso chiunque gli mancasse di rispetto (familiari inclusi) non ha mai goduto di buona reputazione tra il popolo o gli ultramonarchici del Consiglio Privato, ha dato prova di voler concentrare il potere regale nelle proprie mani, a detrimento della Giunta e della “rete monarchica”. Alla morte di Rama IX, in otto-

bre, la Giunta e gli ultramonarchici non guardavano con favore al delfino; lo hanno però accolto, confidando nello scarso interesse del principe per la vita politica del Paese.Tuttavia, questi ha presto ordinato degli emendamentialla Costituzione per accrescere i suoi poteri e ha riorganizzato il Consiglio Privato. Alquanto singolarmente e forse per tenerlo sotto controllo, Prem Tinsulanonda, capo degli ultramonarchici, è rimasto a presiedere l’organo. La Costituzione può entrare in vigore solo con la firma del re ed è il solo documento che permette alla Giunta di rimanere al potere e di fregiarsi di una sorta di investitura popolare, anzichè concedere elezioni.È stato dunque facile ottenere le modifiche per il re, che ha deciso di approvare la Carta prima della data scelta dalla Giunta, nel Giorno di Chakri, 325esimo anniversario dell’ascesa al soglio reale della sua dinastia. La nuova Carta abolirà l’obbligo di controfirma su ogni atto reale e il re potrà recarsi all’estero (finora ha vissuto in Bavaria) senza dover nominare un reggente. In caso di crisi imprevista, alla Corte Costituzionale non andranno più poteri straordinari, rimanendo, potenzialmente, al sovrano. MSOI the Post • 11


ORIENTE IO SONO MALALA

La giovane attivista e Premio Nobel fa sentire la propria voce anche sui social media

Di Virginia Orsili Si fa più forte la voce di Malala Yousafzai, giovane attivista pakistana che da sempre lotta per il diritto all’istruzione delle donne. La ragazza ha infatti individuato nella creazione di un profilo Twitter una potenziale cassa di risonanza per la sua battaglia. Malala è entrata nel mondo dei social media il 7 luglio. Una data non casuale: in questo stesso giorno la diciannovenne ha terminato il suo percorso liceale. Cogliendo l’occasione per evidenziare la situazione di ineguaglianza che ancora oggi caratterizza la società pakistana, la studentessa ha ribadito che a milioni di ragazze resta ancora preclusa la formazione scolastica – un vero e proprio privilegio di pochi. Malala ha scelto una piattaforma inedita per lanciare lo stesso appello: diritto universale all’istruzione. Quanto agli strumenti per combattere questa battaglia, la giovane attivista è sempre stata chiara nell’affermare che “la voce delle donne è l’arma più potente nella lotta per educazione e uguaglianza”. Malala Yousafzai è conosciuta principalmente per essere sta-

12 • MSOI the Post

ta la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la pace (2014) e la sua figura è spesso associata alla lotta contro il terrorismo. La causa che ella ha però sposato, fin dall’età di 11 anni, è principalmente quella del diritto all’istruzione. Inizialmente la ragazza decise di denunciare attraverso un blog anonimo per conto della BBC la situazione nella quale erano costrette a vivere le studentesse della Swat Valley sotto il regime. Dopo gli attacchi da parte delle forze talebane alla scuola per ragazze fondata da suo padre, dove lei stessa studiava, tenne pubblicamente un discorso a Peshawar: “Come osano i talebani portar via il mio diritto all’istruzione?”. Negli anni successivi, Malala allargò progressivamente la sua battaglia e nel 2012 – per via del suo coinvolgimento attivo – fu colpita da un proiettile sparato da un militante talebano al ritorno da scuola. Per ragioni di salute e sicurezza, la ragazza si trasferì a quel punto nel Regno Unito, dove ora vive. In seguito all’episodio l’influenza della giovane donna è cresciuta a livello globale: tra i traguardi più lodevoli, la creazione della Fondazione Malala, che si impegna a raccogliere fondi per la

costruzione di centri di istruzione aperti alle giovani donne. Secondo alcune analisi, la sua figura resta in parte controversa – specialmente in Pakistan. Già all’inizio della sua attività, infatti, esponenti dei partiti conservatori l’avevano criticata per aver fornito un’immagine negativa del Paese. In seguito all’attacco subito, cominciarono poi a circolare voci secondo le quali Malala sarebbe stata un agente segreto per conto degli Stati Uniti e la giovane venne accusatadi un’eccessiva vicinanza con l’Occidente – insinuazioni culminanti nella definizione delle sue attività come contrarie alla legge islamica. Una figura tanto influente ha dato luogo a interpretazioni diverse, talvolta manipolate. Tuttavia, la lotta di Malala non ha come oggetto il terrorismo, ma mira in primis a tutelare il diritto delle donne all’istruzione.La studentessa, che il primo ministro pakistano Nawaz Sharif ha definito “il vero orgoglio del Pakistan”, combatte in nome dei propri ideali e dei diritti suoi e dei suoi connazionali – mentre nell’analisi della sua figura restano secondarie le implicazioni politiche.


AFRICA LE RISPOSTE AFRICANE AL CAMBIAMENTO CLIMATICO

L’orientamento delle politiche degli Stati africani rispetto alla principale sfida del millennio

Di Sabrina Di Dio Il cambiamento climatico è un fenomeno riscontrato a livello globale. Esso è stato causato soprattutto dai Paesi industrializzati, ma i suoi effetti ricadono in maggior misura sui Paesi del Sud del mondo, tra cui gli Stati africani. Secondo alcuni esperti, è lecito che i Paesi in via di sviluppo continuino ad industrializzarsi per colmare il divario con i Paesi sviluppati. Tuttavia non solo lo squilibrio fra Nord e Sud non si risolverebbe, dato che il Sud dovrebbe poi recuperare lo svantaggio di restare legati al petrolio mentre i Paesi del nord sarebbero – in via auspicabile – transitati verso una green economy. Ma nemmeno l’ambiente trarrebbe giovamento da un simile approccio. Il processo di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico deve dunque essere implementato da tutti, Africa in primis. L’Etiopia ha elaborato nel 2011 una policy che le permetterà di adottare un sistema di green economy entro il 2025. Il

programma è stato presentato nel rapporto “Climate Resilient Green Economy”, che illustra la necessità di migliorare le pratiche di coltivazione e di allevamento per ridurre le emissioni, proteggere e ricostituire le foreste per i loro servizi economici ed ecosistemici, ed incrementare la produzione di energia elettrica ottenuta da fonti rinnovabili. La peculiarità dell’Etiopia risiede nella sua produzione di energia idroelettrica, grazie alla quale si dovrebbe poter arrivare a risparmiare il 42% delle emissioni di CO2. Il Sud Africa, invece, pianifica di diminuire le sue emissioni fino al 54% nel 2050. Per elaborare il “National climate change response” si sono riuniti con successo scienziati, politici ed economisti, che hanno concordato sulla necessità di introdurre tasse ingenti per le maggiori industrie produttrici di CO2, affinché possano essere reincorporate le esternalità negative nei loro bilanci, dando invece sussidi alle aziende che fanno uso di energie rinnovabili, come ad esempio l’energia solare. Il Kenya, invece, rappresenta un

esempio virtuoso nel processo di riforestazione: nei prossimi 20 anni la nazione conta di piantare 7,6 bilioni di alberi. La Nigeria è un caso controverso, poiché si è mostrata desiderosa di avviare un proprio processo verso la crescita più sostenibile, ma non possiede le risorse per attuarlo. Infatti, a febbraio, il Ministro dell’Ambiente della Nigeria ha annunciato che entro il 2030 il Paese ridurrà del 20% le emissioni di gas climalteranti. Tuttavia un esperto dell’ambiente della Banca Mondiale, Benoit Bosquet, ha sollevato dubbi circa le buone intenzioni nigeriane, considerato l’elevato costo di tale provvedimento, che potrebbe venire a costare 140 miliardi di dollari, un cifra enorme per lo Stato africano. Come la Nigeria, molti altri Stati africani non sono nelle condizioni di rispondere alle sfide presentate dal cambiamento climatico. Stati come Repubblica Centrafricana, Congo, Sudan, Burundi e Niger sono afflitti da fenomeni quali dittature, corruzione, povertà e guerre, e per questo non considerano come priorità i problemi ambientali e climatici.

MSOI the Post • 13


AFRICA PRESIDENZIALI IN RUANDA: DUE CANDIDATI SFIDANO PAUL KAGAME

Per la prima volta dal genocidio del 1994 un partito d’opposizione potrebbe governare

Di Francesca Schellino Venerdì 7 luglio la Commissione Elettorale ruandese (NEC), ha annunciato la lista definitiva dei candidati per le presidenziali del prossimo 4 agosto. Per la prima volta dal genocidio ruandese del 1994, due candidati d’opposizione, uno dei quali indipendente, sfideranno il presidente uscente Paul Kagame, al potere da diciassette anni. In precedenza il NEC aveva rifiutato quattro candidature indipendenti per l’incompletezza dei loro dossier e aveva concesso loro cinque giorni per regolare e completare la propria candidatura. Tra i quattro candidati indipendenti, l’unico a essere considerato idoneo per la corsa alla presidenza è stato Philippe Mpayimana. L’aspirante presidente è un giornalista, ha 46 anni, è fuggito dal Ruanda nel 1994 a causa del genocidio e, dopo un periodo nella Repubblica Democratica del Congo, si è trasferito in Francia. Proprio da Parigi, Mpayimana è tornato nel febbraio 2017 per annunciare la propria candidatura, considerata singolare in quanto il candidato

14 • MSOI the Post

è semi-sconosciuto nel suo Paese natale. Mpayimana ha annunciato di candidarsi come Presidente del Paese in nome dell’“alternanza”. Il secondo candidato è Frank Habineza, ex militante del Front patriotique rwandais, che ha abbandonato per diventare il leader del Partito Democratico Verde, piccola formazione d’opposizione, nonché l’unica a essere autorizzata dal governo a operare nel Paese. La sua candidatura era stata presentata a dicembre e immediatamente convalidata insieme con quella del Presidente uscente. Gli altri tre candidati indipendenti sono stati definitivamente esclusi dalla Commissione elettorale, non senza polemiche. Secondo il NEC non sarebbero riusciti a raccogliere le seicento firme da parte dei cittadini richieste per essere ammessi alla corsa elettorale. La Commissione ha inoltre accusato Diane Rwigara, figlia di un anziano finanziere ruandese, di aver falsificato un consistente numero di firme. La candidata aveva presentato più di 1.100 sponsorizzazioni, ma solo 572 sono state considerate valide.

I due candidati rimasti, Philippe Mpayimana e Frank Habineza, si trovano di fronte ad una sfida difficile: Paul Kagame è, infatti, un leader apprezzato dall’Occidente, che lo sostiene dalla sua ascesa al potere nel 2000. La sua storia è legata a uno dei genocidi più violenti del XX secolo. Nel 1994, in seguito all’uccisione del presidente di etnia hutu Juvénal Habyarimana, alcuni gruppi estremisti hutu massacrarono nel giro di tre mesi tra gli 800 mila e un milione di ruandesi di etnia tutsi, di ogni sesso ed età. Paul Kagame, di etnia tutsi, era a capo delle milizie che fermarono il massacro. Kagame divenne prima Vicepresidente e in seguito Presidente del Paese. Egli è sostenuto da personalità influenti come Tony Blair e Bill Gates che l’hanno definito un ottimo leader, nonostante sia stato spesso screditato dalla stampa e dalle organizzazioni internazionali per i suoi metodi repressivi e intimidatori e per i suoi mai del tutto rapporti con le chiariti milizie estremiste congolesi, protagoniste di conflitti civili sanguinari.


SUD AMERICA “IL POPOLO DELLA TERRA”

La lotta dei Mapuche in difesa delle terre in Patagonia

Di Giulia Botta I Mapuche, “Popolo della Terra” in mapudungun, sono una comunità amerinda stanziata in Patagonia, nel sud dell’Argentina e al confine con il Cile, le cui origini precedono l’istituzione dei due Stati. Di etnia variegata, si compongono di numerosi gruppi che condividono lingua e struttura sociale, religiosa ed economica. Nelle enormi estencias nell’area tra il fiume Aconcagua e la pampa argentina, le famiglie Mapuche, guidate da un lonco (capo), praticano un’economia basata su agricoltura e pascolo, e condividono il culto per le Ngen (forze della natura) e la venerazione per la Wallmapu (la propria terra). Il legame indissolubile tra le comunità e le loro terre ancestrali, si scontra, tuttavia, con la recente “invasione” delle multinazionali, interessate ad acquistare appezzamenti nell’area per sfruttarne le ricchezze naturali, anche a discapito delle popolazioni locali. La resistenza Mapuche, però, rimane tenace. Nonostante in Argentina siano riconosciuti i diritti delle popolazioni indigene di autodeterminazione, di territorio e accesso alle risorse naturali

(previsti nella Costituzione argentina soltanto a partire dal 1994, con l’inserimento art. 75, comma 17 e con la ratifica della Convenzione n. 169 dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro), i Mapuche continuano a incontrare ostacoli nella rivendicazione dei propri diritti. In un clima di crescente stigmatizzazione, l’escalation di tensione e violenze ha richiamato l’attenzione di Amnesty International e di altre ONG. Attualmente, la controversia col colosso italiano Benetton è tra le più accese. Benetton è presente nell’area a partire dal 1991, in seguito all’acquisto della Compañía de Tierras Sud Argentino (CTSA) e di 900.000 ettari abitati dai Mapuche. I nativi sono stati costretti ad abbandonare le loro terre per lasciare spazio a 260.000 capi di bestiame che producono circa 1.300.000chili di lana all’anno, interamente esportati in Europa, e 16.000 bovini destinati al macello. Oltre alle accuse a Benetton di occupazione e sfruttamento delle terre, con gravi danni ambientali (in particolare per le deviazioni al Rio Chubut), Amnesty International denuncia violazioni dei diritti umani

nel marzo 2015 da parte della Gendarmeria argentina ai danni della comunità di Cushamen in seguito al tentativo di un gruppo Mapuche di ri-occupare il territorio vicino alla città di Esquel. La controversia ha raggiunto il culmine nella notte tra il 10 e 11 gennaio scorsi, in cui, secondo le testimonianze dei locali, gli abitanti di Cushamen, compresi donne e bambini, sono stati vittime di maltrattamenti, irruzioni nelle abitazioni e uccisioni di animali. Il caso “Mapuche vs Benetton” si pone all’interno di una delicata controversia tra diritti legali e legittimi: infatti, se da un punto di vista legale Benetton rivendica i territori interessati come propri in quanto acquistati prima che la Costituzione venisse modificata, i Mapuche riaffermano legittimamente i propri diritti. Tuttavia si spera in una riconciliazione nel rispetto dei diritti umani, come auspicato dal Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel, secondo il quale “se i Mapuche vengono cacciati dal proprio territorio, vengono uccisi i loro valori, la loro cultura e spiritualità, condannandoli a morte”. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA LA LEGGE ANTI-ABORTO DEL SALVADOR

La tragedia delle donne imprigionate in seguito a violenze e gravidanze interrotte

Di Anna Filippucci L’8 luglio 2017 un tribunale di El Salvador ha emesso una sentenza durissima nei confronti di una ragazza di 19 anni vittima di stupro, la quale ha subito, in seguito, un aborto spontaneo. La condanna per Evelyn Hernandez Cruz è di 30 anni di carcere con l’accusa di “omicidio aggravato”. La ragazza, violentata all’età di 18 anni a Los Vasquez, il piccolo villaggio dove viveva, ha raccontato di non essersi accorta di essere incinta e di non aver denunciato lo stupro per paura. Solo in seguito a forti dolori sarebbe stata ricoverata in una struttura sanitaria ed infine, grazie all’aiuto della madre, trasferita nell’ospedale di Cojutepeque, dove avrebbe avuto un aborto spontaneo. La sua versione è però stata contestata, Evelyn è quindi stata denunciata e tradotta in carcere. Il caso di Evelyn è da considerarsi nel contesto più ampio, che riguarda la gestione da parte dello Stato centramericano dell’aborto, dei diritti delle donne e delle violenze sessuali. Secondo la legge del Salvador, in vigore dal 1998, l’aborto è illegale in qualsiasi circostanza: anche in caso di stupro. Qualora vi sia un’interruzione della gravidanza, volontaria o 16 • MSOI the Post

meno, le donne vengono imprigionate. La pena di 30 anni è considerata la minima possibile; infatti, la norma prevede condanne fino a 40/50 anni di carcere. Se prima di questa data il divieto era solo parziale, su pressioni dell’arcivescovado nei confronti del governo esso è stato reso più rigido. Inoltre, lo scorso anno il parlamento ha rinforzato ulteriormente la legge aggiungendovi una clausola nella quale si afferma che la vita inizia nel momento del concepimento. Anche i medici sono considerati responsabili: se sospettano che una donna abbia abortito e non informano immediatamente la polizia possono incorrere in una pena che varia dai 2 agli 8 anni. Il trattamento di Evelyn, analogo a quello riservato a molte altre donne nel Salvador, ha portato le organizzazioni in difesa dei diritti umani, in particolare Amnesty International, a mobilitarsi contro la legislazione del paese e la situazione drammatica delle donne. Sul sito della citata associazione si definisce la legge anti-aborto in vigore come “retrograda” e “causa di dolore e sofferenze”. Essa viene considerata una chiara violazione dei diritti delle donne alla vita, alla salute, alla vita privata, così come all’equo pro-

cesso. Amnesty sottolinea, inoltre, come El Salvador sia il Paese più pericoloso al di fuori di una zona di guerra, soprattutto per le donne. Un ottavo delle donne del Salvador dichiara di aver subito violenze fisiche e psicologiche. Lo stupro è quasi un’istituzione a causa dalle gang in lotta tra loro per la gestione del traffico della droga, che controllano ampie zone del territorio. Recentemente, oltre alle organizzazioni che si muovono a livello internazionale, anche le associazioni locali di attivisti, supportate da numerosi avvocati e medici, si sono organizzate per manifestare il loro dissenso alla legge, in particolar modo nel 2016. Ciò dovuto alla diffusione del virus Zika, a causa del quale il numero degli aborti è aumentato. In effetti, i medici hanno riscontrato, basandosi su dati di donne incinte in quel periodo, una maggiore probabilità di complicazioni durante la gravidanza tra le donne che avevano contratto il virus, e dunque un maggior rischio di aborto. Nonostante ciò, con l’applicazione rigida della legge, ben 49 donne sono state dichiarate colpevoli e 26 condannate per omicidio.


ECONOMIA AD AGRIGENTO IL PRIMO FORUM ECONOMICO ITALO-LIBICO Libia partner d’eccezione per l’Italia

Di Francesca Maria De Matteis Con l’obiettivo di offrire uno spunto concreto ad una riflessione bilaterale sui temi della cooperazione economica, commerciale, infrastrutturale ed energetica, si è tenuto ad Agrigento, l’8 luglio scorso, il primo Forum economico italo-libico. Promosso dal ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Angelino Alfano, e nato da un’idea di pochi mesi fa, sviluppata in accordo con il vice primo ministro libico, Ahmed Maiteeg, il meeting ha avuto, come tema principale, le possibilità di espansione e sviluppo all’interno del mercato libico per le imprese italiane, pubbliche e private. L’incontro è stato preceduto da una conferenza stampa, alla quale ha fatto seguito la firma di una Dichiarazione congiunta tra i due Paesi sul rilancio della cooperazione economica. Il 7 luglio, infatti, presso la Valle dei Templi di Agrigento, è stata confermata la volontà comune di impegnarsi attivamente per la ricostruzione della Libia e il rafforzamento e lo sviluppo degli aspetti economico-sociali

nelle relazioni bilaterali. Telecomunicazioni, banche e finanza, energia e idrocarburi, infrastrutture e trasporti (con particolare attenzione per il trasporto aereo). Questi i settori al centro della collaborazione strategica, volta al miglioramento dei servizi e della situazione di benessere del Paese nord-africano. All’incontro dell’8 luglio sono intervenute personalità di spicco del mondo dell’imprenditoria e della finanza italiane e libiche, rappresentanti complessivamente più di 100 imprese, oltre ai vertici di governo libici. Tra i presenti, per l’Italia, Eni, Unicredit, Leonardo, Confindustria e FSI. Alfano, nel suo discorso di apertura, ha sottolineato come la scelta di tenere l’incontro in Sicilia non sia casuale: la posizione strategica della stessa città di Agrigento, posta di fronte alle coste africane, ad una distanza media, in linea d’aria, tra Roma e Tripoli, ricorda l’obiettivo di “lanciare un messaggio di unità tra le due sponde del Mediterraneo”. La sicurezza come elemento imprescindibile di sviluppo economico, e la necessità di adottare tutte le

misure necessarie per la tutela del personale, altri punti chiave dell’intervento del Ministro italiano. La scelta della regione italiana come location del Forum, ha anche un significato rilevante sul lato dello sviluppo delle telecomunicazioni. Un importante hub posizionato in Sicilia, rappresenta il fulcro del traffico Internet del Mediterraneo e si pone al centro del programma di potenziamento delle reti mediatiche libiche, per la posa di nuovi cavi e il miglioramento di quelli già presenti sul territorio. Il Vice Primo Ministro libico è intervenuto sottolineando come la Libia, “affacciandosi a una fase di ricostruzione e sviluppo”, ha bisogno di sforzi uniti e ha ricordato come l’Italia, da questo punto di vista, sia sempre stato un “Paese vicino e amico”. Maiteeg e Alfano hanno anche dichiarato, infatti, la riattivazione della Commissione Italo-Libica per la realizzazione di un’autostrada costiera in Libia, secondo il Trattato di Amicizia del 2008. MSOI the Post • 17


ECONOMIA LA TRINITÀ IMPOSSIBILE Una scelta difficile tra tre opzioni

Di Ivana Pesic In economia, con il termine “Trinità Impossibile” si fa riferimento alla teoria elaborata nei primi anni ’60 dall’economista Robert Mundell secondo cui un Paese non può conciliare contemporaneamente tre aspetti: una politica monetaria indipendente, un conto dei movimenti di capitale aperto e un tasso di cambio fisso. È, infatti, possibile avere, nello stesso momento, al massimo due di queste tre condizioni. La prima parte della teoria riguarda una politica monetaria indipendente. Con questo si allude alla possibilità della Banca Centrale di uno Stato di fissare i tassi di interesse a suo piacimento. Per esempio, una Banca Centrale può decidere di allentare la politica monetaria per aiutare la propria economia, mentre un’altra Banca Centrale restringe la propria al fine di prevenire l’inflazione. Per perfetta mobilità di capitali si intende, invece, la capacità di spostamento dei capitali secondo la più economica delle distribuzioni tra i diversi possibili impieghi. Si fa, quindi, riferimento alla capacità degli investitori di portare i loro soldi dentro e fuori dal Paese in modo semplice e rapido.

18 • MSOI the Post

L’ultimo elemento è il tasso di cambio fisso. Questo indica semplicemente che il valore di una valuta in relazione ad un’altra è ancorato ad un tasso fisso. Formalmente, è dal 1974, poco dopo che il presidente Nixon pose fine alla convertibilità dei dollari in oro, che tutte le principali divise hanno tecnicamente fluttuato rispetto alle altre, anche se diversi Paesi ancorano ancora le loro valute ad altre (di solito il dollaro) in modo informale, utilizzando l’intervento delle banche centrali e di altri strumenti di policy. Vediamo ora l’esempio di uno Stato che tenta di avverare la Trinità Impossibile. Il Paese A, al fine di stimolare la crescita, taglia il suo tasso d’interesse dal 3% al 2%. Nel contempo, lo Stato B, principale partner commerciale dello Stato A, ha un tasso d’interesse del 3%. Il Paese A, al fine di incoraggiare gli investimenti diretti esteri, ha anche un conto dei movimenti di capitale aperto. Infine, lo Stato A àncora il suo tasso di cambio a quello di B ad un rapporto di 10 a 1. Si tratta di un tasso di cambio per stimolare le esportazioni da A a B. Cosa succede? Gli arbitraggisti si mettono al lavoro. Prendono

in prestito denaro da A al 2% per investire in B al 3%. Questo fa sì che la Banca Centrale di A venda le sue riserve di valuta estera e stampi moneta per soddisfare la domanda di prestiti in valuta locale e gli investimenti in uscita. Stampare moneta locale esercita una pressione al ribasso sul tasso di cambio fisso e causa inflazione dei prezzi locali. Ad un certo punto, A può restare a corto di valuta estera ed essere costretto a chiudere il conto dei movimenti di capitale, o a rompere l’ancoraggio, oppure ancora, stamperà così tanti soldi che l’inflazione andrà fuori controllo e dovrà alzare i tassi d’interesse. La risposta politica può variare, ma il risultato finale è che A non può mantenere la Trinità Impossibile e sarà costretto a rinunciare ad una delle tre condizioni. Questa scelta obbligata mostra come la Trinità Impossibile venga a costituire un importante strumento analitico. Quando un Paese cerca di raggiungere la Trinità Impossibile, prima o poi il suo sistema si romperà e per questo potranno essere prese decisioni d’investimento in previsione di tale rottura. Al contrario, quando un Paese evita la Trinità Impossibile si prenderanno decisioni di investimento opposte.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL CONSIGLIO DI SICUREZZA TRA DEMOCRAZIA ED EFFICACIA Un mondo più sicuro o un mondo più democratico?

Di Federica Sanna Dopo la fine della Guerra Fredda, nel sistema legale internazionale sono prevalse tre tendenze che hanno portato gli studiosi ad ipotizzare ed intravedere una costituzionalizzazione dell’ordine mondiale. Innanzitutto, gli Stati membri operano verso una comunitarizzazione del processo decisionale, portando ad erodere la tradizionale regola dell’unanimità; in secondo luogo tendono a delegare una quota sempre maggiore di sovranità alle organizzazioni internazionali e quest’ultime, infine, estendono progressivamente il proprio ambito di intervento. Lo stesso sistema delle Nazioni Unite, un tempo evidente regime intergovernativo, presenta oggi alcuni tratti tipici di un’autorità sovranazionale, quali ad esempio un effettivo sistema di controllo giudiziario e un preciso procedimento legislativo. Tale processo, tendente verso la costituzionalizzazione del sistema, non è però avvenuto in maniera contestuale ad unanalogo processo di democratizzazione

di quello che è l’ambito di azione principale dell’ONU, il regime di sicurezza. In particolare in seguito agli attentati dell’11 Settembre 2001, il Consiglio di Sicurezza, già caratterizzato da un processo decisionale basato sulla negoziazione interstatale e dominato dalla volontà dei membri permanenti, assume le competenze di un organo legislativo, ampliando i confini delle materie che rientrano nel “mantenimento della pace” in nome della necessità di adottare misure di prevenzione del terrorismo. Il principale esempio di tale atteggiamento da parte dell’ONU è rappresentato dalle “risoluzioni” tramite le quali il Consiglio stabilisce sanzioni rivolte ad una lista di sospetti terroristi, anche quando non riesce a presentare le prove delle relazioni degli individui interessati con attività terroristiche, rovesciando l’onere della prova sui destinatari dell’atto. Tale procedura non solo ampia la discrezionalità che i Trattati concedono al Consiglio di Sicurezza, ma si pone inoltre in violazione del diritto umano a un equo processo da parte di un tribunale indipendente ed

imparziale. Nell’ultimo decennio sono stati intrapresi diversi tentativi di riforma del sistema di sicurezza delle Nazioni Unite, necessari per far fronte ai cambiamenti avvenuti nell’ordine mondiale. Il primo sforzo in questo senso è stato portato avanti dal cosiddetto “Coffee Club” che, su iniziativa italiana, ha lavorato per modificare la composizione del Consiglio di sicurezza, in particolare in merito al potere conferito ai membri permanenti. La proposta di quello che è oggi noto come il gruppo “Uniting for Consensus” si caratterizza anche per il contrasto con l’iniziativa del G4 (Germania, Giappone, India e Brasile), intente a promuovere, tra i loro interessi, il mantenimento del diritto di veto per i membri permanenti del Consiglio. Infine, nel 2004 l’High Level Panel ha presentato il documento “A more secure world”, basato sui principi di effettività, efficienza ed equità,lasciando però un ruolo marginale alla necessità di approfondire ed incrementare la natura democratica del Consiglio di Sicurezza.

MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO OLTRE LA GLOBALIZZAZIONE ECONOMICA

I valori economici e non economici nell’Organizzazione mondiale del commercio

Di Stella Spatafora È possibile un incontro tra l’onda economica della globalizzazione e i valori non economici? Soprattutto a partire dagli ultimi anni, la comunità internazionale sta cercando di smuovere le coscienze circa la necessità di una globalizzazione sostenibileche sin da subito ha seguito una rotta prettamente economica. Fino ad ora infatti, essa ha dimostrato di non essersi curata a sufficienza dei cosiddetti non trade values”, facilmente riconducibili alle macro categorie della tutela ambientale e dei diritti umani. Lo sviluppo di un’economia più attenta ai valori non economici è un processo in itinere, nel quale risulta centrale il ruolo di numerosi attori internazionali, generalmente focalizzati su fini economici e commerciali, ma comunque sempre più consapevoli della necessità di maggiore sostenibilità. Tra questi spicca l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) la quale, a partire dal 1995, gioca un ruolo fondamentale nella gestione dei rapporti economici e commerciali multilaterali. L’Organizzazione mondiale del commercio si è trovata sin dalle sue origini a dover far fronte a una membership piuttosto

20 • MSOI the Post

variegata, nella quale spiccano colossi economici come l’India, l’Unione europea e la Cina,punti di forza ma anche di notevole complessità per l’Organizzazione. La Cina, per fare un esempio, ha recentemente iniziato a introdurre restrizioni quantitative all’esportazione dei cosiddetti “rare earth elements”, materie prime indispensabili per la produzione di prodotti a contenuto altamente tecnologico come smartphone, computer e tablet. Tali misure restrittive hanno causato un forte aumento dei prezzi, accentuando così la fragilità di altri grandi Paesi industrializzati rispetto alla Cina. La questione ha coinvolto direttamente il Panel China–Raw Materials nel 2011, che ha visto in particolare Stati Uniti, Unione europea e Messico opporsi alle restrizioni cinesi su alcune materie prime fondamentali per l’industria europea e americana. La Cina ha motivato la sua posizione sulla base dell’Art. XX lett. g) GATT 1994, giustificando le misure restrittive come strumento utile per la salvaguardia di minerali prossimi all’esaurimento, e quindi volto alla tutela ambientale. Il Panel, al contrario, ha sancito l’avversità delle misure rispetto alle norme del

commercio internazionale, affermando non solo un danno ai rapporti commerciali multilaterali, ma anche il propagarsi di iniqui vantaggi a livello interno e dunque tra le stesse aziende nazionali cinesi. Il caso in questione mostra rilevanti punti di attrito nel contesto del commercio internazionale e quindi nel rapporto tra interessi commerciali da un lato e valori non economici dall’altro. Il superamento di questa dicotomia dovrebbe avvenire attraverso una cooperazione mutualmente vantaggiosa, che consenta un incontro e dunque un continuum tra valori economici e non-trade values. I valori non economici sono la cornice della globalizzazione, che richiede una considerazione profonda che vada oltre la suasemplice, sebbene necessaria, accezione economica. La globalizzazione infatti, nonostante abbia apportato notevoli benefici alla crescita dei consumi, necessita di uno sviluppo olistico, capace di rendere effettivo l’incontro tra i valori economici e i valori non economici in modo da supportare crescita e sviluppo, verso la creazione di un sistema armonico e sostenibile.


MSOI the Post • 21


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.