MSOI thePost Numero 74

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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SPECIALE: IL CODICE DI CONDOTTA PER LE ONG NEL MEDITERRANEO

Tra la tutela della vita in mare e la regolamentazione dei flussi migratori: un profilo giuridico

Di Luca Imperatore e Pierre Clément Mingozzi L’attuale crisi migratoria che investe il Mediterraneo, pur non rappresentando un fenomeno completamente nuovo nella storia del genere umano, ha indubbiamente assunto connotati almeno parzialmente differenti rispetto agli esempi cronologicamente più risalenti. In tale condizione, gli Stati costieri che si affacciano sul mare nostrum sono chiamati a dover gestire un fenomeno dai contorni labili, sfumati e spesso di difficile interpretazione. Le politiche nazionali ed internazionali degli ultimi anni hanno, talvolta, mirato a regolamentare l’accoglienza nei Paesi di approdo, adottando quindi un approccio ex post del fenomeno migratorio. In altre circostanze, si è preferita una gestione ex ante diretta ad anticipare o impedire gli sbarchi. Occorre segnalare come entrambe le alternative abbiano spesso comportato una serie di condanne per altrettante violazioni di diritti e libertà fondamentali, dalle quali il nostro Paese non è

rimasto immune. Ciò che sino ad alcune settimane or sono ha goduto di minore risonanza è stata la componente centrale del flusso migratorio, qui intesa come il momento che intercorre tra l’inizio del viaggio e lo sbarco sul territorio nazionale di uno Stato europeo. In tale, delicatissima, fase assumono fondamentale rilevanza le molteplici operazioni di soccorso in mare, condotte ora da agenti statali nello svolgimento di mansioni ufficiali, ora da enti non governativi e addirittura da laici improvvisati che si sono trovati a dover prestare la propria assistenza, in scenari complessi, con lo scopo di salvare vite umane. Anche in questa sede, in passato, si è provveduto ad approfondire la tematica delle operazioni di ricerca e soccorso (c.d. Search and Rescue Operations ovvero operazioni SAR, si rinvia per riferimenti di dettaglio al numero LXXII del luglio 2017). La materia è stata giuridicamente regolata da una pluralità di convenzioni e trattati internazionali che si sono occupati di tracciare i confini e le modali-

tà per operare in sicurezza (tra le quali figurano la Convenzione UNCLOS sul diritto del mare del 1982 e la Convenzione SOLAS in materia di operazioni SAR del 1914). Rileva, a tal proposito, anche l’apporto dell’Unione europea il cui ultimo esempio è rappresentato da un Piano d’azione sulle misure per sostenere l’Italia, ridurre la pressione lungo la rotta del Mediterraneo centrale e accrescere la solidarietà (sulla base di un documento della Commissione europea del 7 luglio 2017). Facendo seguito a ciò, il Governo italiano ha predisposto un Codice di condotta per le ONG impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare (di seguito Codice di condotta o CdC), qualificandolo come un documento modificabile ad adesione volontaria con il sostegno politico dell’Unione europea. Il Codice di condotta pare porsi in una posizione anomala nell’ambito delle fonti del diritto. L’atipicità di tale atto deriva in primo luogo dalla commistione tra il carattere intrinsecamente MSOI the Post • 3


non vincolante del soft law (cui appartengono tradizionalmente guidelines e codici di condotta) e le previsioni sanzionatorie stabilite in caso di mancata firma del documento. In secondo luogo, il CdC mira alla regolamentazione dell’attività di navi, anche battenti bandiera di uno Stato terzo, al di fuori dei confini territoriali della giurisdizione italiana. Quest’ultima circostanza pare presentare un’anomalia con quanto previsto dal diritto internazionale, anche consuetudinario, in materia di navigazione marittima.

anche battenti bandiera di uno Stato terzo. Il CdC si conclude con una previsione, in forza della quale “la mancata sottoscrizione di questo Codice di Condotta o l’inosservanza degli impegni in esso previsti può comportare l’adozione di misure da parte delle Autorità italiane nei confronti delle relative navi” e ancora che “il mancato rispetto degli impegni previsti […] sarà comunicato […] allo Stato di bandiera e allo Stato in cui è registrata l’ONG”. Il corpo centrale del testo è

contatti con i soggetti dediti al traffico di migranti. Comunicare all’MRCC (Maritime Rescue Co-ordination Centres) competente l’idoneità della nave o dell’equipaggio per le attività di soccorso anche di un gran numero di persone. Tale previsione ha lo scopo di garantire che le imbarcazioni che svolgono operazioni SAR siano debitamente equipaggiate e che il personale a bordo sia formato e addestrato. Rilevano leeccezioni derivanti da cause di forza maggiore e

Dal punto di vista meramente formale, il CdC si compone di una nota introduttiva (una sorta di preambolo) che rileva l’incremento della pressione migratoria e richiama il principio di solidarietà ex art. 80 TFUE. Viene, in seguito, richiamato l’esito dell’incontro tra i Ministri della Giustizia e degli Interni del 6 luglio a Tallinn, per lasciare spazio alla definizione ratione personae, in forza della quale, il Codice di condotta si applica a tutte le ONG firmatarie, senza specificazione alcuna circa lo Stato di registrazione delle stesse. In assenza di una più chiara demarcazione, è da intendersi che le disposizioni del CdC sono applicabili a tutte le Organizzazioni non governative firmatarie, che operano con imbarcazioni nel Mediterraneo,

rappresentato da un articolato di 13 punti, in base ai quali, le ONG firmatarie si impegnano a: - Non entrare nelle acque territoriali libiche (entro le dodici miglia nautiche dalla costa), salvo situazioni eccezionali, e non ostacolare le operazioni SAR condotte dalla Guardia costiera libica. - Non spegnere o ritardare le trasmissioni dei segnali AIS (AutomaitcIdentification System) e LRIT (Long RangeIdentification and Tracking). - Non effettuare comunicazioni o inviare segnalazioni luminose per agevolare la partenza di imbarcazioni sulla costa. Tale disposizione viene giustificata con lo scopo di non facilitare i

di trasporto in situazioni di emergenza (rispettivamente artt. IV e V della Convenzione SOLAS). Informare l’MRCC competente, nel caso di operazioni SAR che avvengano fuori da una zona di ricerca e soccorso prestabilita, informando altresì gli Stati di bandiera coinvolti. Tenere costantemente aggiornato il competente MRCC dell’andamento delle operazioni. Non trasferire persone soccorse su altre navi a meno di espressa richiesta dell’MRCC e sotto suo coordinamento. La disposizione aggiunge poi che la condotta ordinaria prevede, al termine dell’operazione,

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lo sbarco delle persone soccorse in un porto sicuro. Tenere costantemente aggiornate le autorità dello Stato di bandiera in ossequio al principio di giurisdizione. Cooperare con l’MRCC competente informando, ove possibile, con preavviso delle eventuali iniziative. Ricevere a bordo, su richiesta delle Autorità italiane, funzionari di polizia giudiziaria con finalità di indagine. La disposizione è lenita dalla dichiarazione per la quale, l’attività conoscitiva condotta da tali ufficiali non ostacolerà lo svolgimento delle operazioni di soccorso e che non vi sarà pregiudizio alcuno per l’autorità del comandante della nave e dei differenti mandati del personale a bordo della stessa. Dichiarare tutte le fonti di finanziamento delle loro attività di soccorso in mare nel rispetto del principio di trasparenza. Cooperare lealmente con

le Autorità di Pubblica Sicurezza, facilitando anticipatamente l’invio della documentazione relativa all’evento ed alla situazione a bordo. - Recuperare per quanto possibile le imbarcazioni ed i motori fuoribordo impiegati dai trafficanti di migranti, informando i responsabili dell’operazione Triton e l’MRCC competente. Tale disposizione ha lo scopo di controllare la sicurezza e l’inquinamento delle aree interessate. L’adozione del Codice di condotta ha suscitato un ampio dibattito e un gran numero di reazioni da parte dei soggetti in causa e non solo, stimolando, di fatto, anche interventi provenienti da realtà non direttamente implicate nella questione. Il dibattito tuttavia, si è visto sin da subito polarizzarsi verso posizioni estremamente antitetiche a causa, probabilmente, dell’alto tasso di politicizzazione che l’argomento inevitabilmente porta con sé, e anche, in ultima analisi, dallo spessore e importanza della “posta in gioco”

politico-strategica. I “13 impegni” promossi dal Viminale hanno visto il dibattito dividersi tra favorevoli e contrari, con qualche rara eccezione costituita da alcune ONG che hanno espresso la volontà di un’accettazione futura nel caso in cui alcune parti contestate del testo fossero state modificate. L’adozione del Codice di condotta ha visto in prima fila la soddisfazione dei promotori del documento, ovvero il Governo italiano, tramite il ruolo di primo piano giocato dal Ministro degli interni Marco Minniti, la Commissione europea e l’insieme degli Stati membri UE: è lo stesso Ministro ad aver dichiarato, infatti, “una posizione quasi unanime” sui nodi principali in discussione. Per quanto riguarda le ONG invece, la situazione si è mostrata da subito più complessa poiché il CdC è stato immediatamente recepito soltanto da parte di due tra esse, ossia: Save The Children e Moas. Per quanto riguarda Proactiva Open Arms invece, il Viminale, tramite nota, ha ricordato che quest’ultima “ha fatto pervenire una comunicazione con la quale ha annunciato la volontà di sottoscrivere l’accordo”, che infatti è stato sottoscritto successivamente. In maniera differita, ha anche firmato SOS Méditerranée. Riassuntiva dei punti di vista favorevoli al Codice è stata la dichiarazione di Save The Children, la quale, dopo aver prontamente firmato il testo, ha dichiarato: “gran parte dei punti del codice di condotta indicano cose che già facciamo e ci sono stati chiarimenti su un paio di punti che ci preoccupavano, quindi non abbiamo avuto problemi a firmare. Siamo convinti - ha aggiunto - di aver fatto la cosa corretta e mi dispiace che altre ong non ci abbiano seguito, ma evidentemente avevano altre sensibilità”. Se dal fronte dei favorevoli le voci

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sono quasi unanimi nell’evidenziare la volontà di una regolamentazione approfondita delle azioni SAR e degli effetti benefici del CdC, è sul fronte dei contrari che si sono viste esprimere il maggior numero di opinioni, sottolineando criticità differenti e lacune importanti. Innanzitutto i soggetti principali: le cinque grandi organizzazioni, Amnesty International, ActionAid, Emergency, Oxfam e Medici Senza Frontiere. Tutte hanno espresso il loro parere fortemente contrario, tramite lettera indirizzata al Corriere, nei confronti del Codice di condotta, rifiutandosi di firmarlo. Le motivazioni sono molteplici, ma i punti più fortemente contestati e controversi sono essenzialmente due: il divieto di trasbordi di migranti da una nave ad un’altra e la possibilità di accettare a bordo agenti di polizia giudiziaria armati. Per quanto riguarda il primo punto è Gabriele Eminente, direttore di MSF a dichiarare che: “limitando i trasbordi si fa crescere il numero di viaggi, il che rende le missioni economicamente meno sostenibili soprattutto per le Ong più piccole. E si rallentano le operazioni di soccorso, quando i minuti possono fare la differenza tra la vita e la morte”. Dietro tale norma dunque, secondo MSF, vi sarebbe la volontà manifesta di rallentare le operazioni di salvataggio, di fatto mettendo a repentaglio la vita di migliaia di migranti. Il secondo punto invece, risulta inaccettabile poiché comprometterebbe dall’interno l’azione presente e futura delle ONG. Innanzitutto, secondo le parole di Marco De Ponte, segretario generale di ActionAid, violerebbe l’art. 4 “del codice di condotta della Federazione internazionale della Croce Rossa (…) avallato da tutti gli Stati parti delle quattro convenzioni 6 • MSOI the Post

di Ginevra che regolano il diritto umanitario e delle vittime di guerra” in quanto impone il principio secondo cui “le Ong si impegnano a non ospitare nelle proprie operazioni agenti di alcuno Stato”. È ancora De Ponte a ricordare che “il principio di neutralità degli attori umanitariè una norma di diritto internazionale” e che, inoltre, “sta alla base della fiducia per cui tutte le parti in una controversia ci lasciano andare a visitare i feriti e portare medicinali e cibo alla popolazione coinvolta in conflitti. Se lo si infrange anche una sola volta e in un solo luogo, è finita”. Oltre che dal mondo delle ONG, direttamente coinvolto nell’adozione del Codice, anche altre pareri si sono levati - se non apertamente contrari almeno critici -, nei confronti della sua adozione e applicazione. Certamente rilevante, per statura morale e conoscenza dell’argomento, è il parere rilasciato, tramite editoriale sulla Stampa, da Vladimiro Zagrebelsky, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo.L’attenzione del giurista è focalizzata sulle ripercussioni giuridiche che tale documento può avere per l’Italia, condizionata dall’effettività con la quale verrà applicato, dal momento che: le “responsabilità italiane esistono anche fuori delle sue acque territoriali. La Libia non ha ratificato alcuno dei trattati internazionali sui rifugiati e in generale sui diritti umani, ma l’Italia è vincolata a tutti i trattati in materia. In particolare l’Italia è parte della Convenzione europea dei diritti umani”. Inoltre, sempre secondo il giurista, anche la collaborazione con la Marina libica è problematica poiché è ben noto che “i campi in cui i migranti vengono riportati sono generalmente ritenuti orribili, inumani e nessuna

cernita le autorità libiche faranno per identificare coloro che avrebbero diritto allo status di rifugiato in Italia o alla protezione umanitaria italiana. Ai libici ciò non interessa, ma all’Italia sì, poiché non può rendersi partecipe di violazioni delle norme sui rifugiati e sul divieto di trattamenti inumani”. Quest’ultimo punto è condiviso anche dal Professor De Sena, docente di Diritto internazionale all’Università Cattolica di Milano, il quale ricorda che “vi sono testimonianze attendibili secondo cui il trattamento riservato a costoro nei centri anti-immigrazione nelle carceri libiche sarebbe contrario alle più elementari norme sui diritti umani. Quindi affidare i migranti alla guardia costiera libica potrebbe implicare conseguenze gravi” dal momento che “le stesse persone interessate potrebbero citare l’Italia davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo come è avvenuto col caso Hirsi in cui l’Italia è stata condannata”. La posta in gioco dunque, sarebbe alta. Oltre a ciò, è da aggiungere anche la chiara preoccupazione, da parte delle ONG, di trovarsi a soccombere tra il fuoco incrociato di interessi diversi, fungendo da capro espiatorio e pedina della politica estera e governativa dei Paesi UE, peraltro traballante. Un gioco, questo, dal quale ovviamente le ONG vogliono tirarsi fuori. Nei tempi a seguire potremo constatare con maggior chiarezza lo svolgersi della situazione, senza mai dimenticare che solo la ricerca di un giusto bilanciamento tra i vari interessi in causa potrà essere il miglior modo per difendere sia i legittimi interessi statali, sia la primaria difesa e soccorso della vita umana, in mare come sulla terra ferma.


EUROPA PER UN EURO IN PIÙ

La vita (e la retribuzione) dei pensionati italiani all’estero

Di Giulia Capriotti Non è una novità, bensì una tradizione che sembra venire da lontano, quella delle pensioni percepite dagli italiani residenti all’estero. La nascita di questa prassi odierna, infatti, è da ricercare nell’istituzione dell’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia e della pensione di reversibilità, attraverso le quali molti italiani “salpati” all’estero hanno avuto diritto alla retribuzione pensionistica di trattamenti maturati in Italia. I dati INPS del 2016 hanno però mostrato uno scenario molto chiaro riguardo questo tipo di pensioni, che si discosta dal passato nei Paesi sia europei sia extraeuropei. Il fenomeno odierno non riguarda più solo gli italiani che vivono all’estero sin dalla giovane età, emigrati per cercare lavoro o per un futuro migliore, ma

anche chi ha lavorato in Italia per moltissimi anni e ha deciso di emigrare negli anni della pensione. Le motivazioni di quest’ultimo fenomeno, più recente ma in rapida evoluzione, riguardano in particolare costi della vita e regimi fiscali dei Paesi esteri. Le pensioni pagate agli italiani all’estero sono così oltre 200.000, con un importo medio di poco superiore ai 230 euro. Emerge un dato di fatto non trascurabile: per una fetta di connazionali un certo tipo di tassazione favorevole è diventato una priorità. Le mete più gettonate e “remunerative” in Europa sembrano essere Portogallo e Cipro. Nel primo caso, dai dati emerge che per 10 anni i “residenti non abituali” sono esentati da qualsiasi tipo di tassazione sulle pensioni. Nel secondo invece, la tassazione per i pensionati si attesta al 5% massimo. Inoltre, chi decide di

vivere l’età pensionistica lontano dal Bel Paese, percepisce un importo mensile decisamente più alto rispetto a chi ha vissuto e lavorato in Italia per pochi anni prima di trasferirsi all’estero. L’opinione di Tito Boeri, presidente dell’INPS, è che l’Italia dovrebbe rendersi un Paese “appetibile” per i cittadini stranieri: ciò aumenterebbe parallelamente la domanda interna e le entrate fiscali. Invece, per quanto riguarda le pensioni pagate all’estero a cittadini che per molto tempo hanno vissuto e lavorato in Italia, Boeri ricorda anche che in questo senso il Paese è contro corrente, poiché altrove quel tipo di servizi viene erogato soltanto nel Paese natale. Sottolinea, infine, che questa prassi riduce l’onere sociale di altri Paesi, causando così una perdita secca per l’Italia. MSOI the Post • 7


EUROPA BARCELLONA: CORTEI CONTRO IL TERRORISMO

Patto antiterrorismo firmato a metà: una semplice dichiarazione di intenti

Di Giuliana Cristauro “No tinc por” (“non ho paura”) è stato il grido di migliaia di persone levatosi in Plaça de Catalunya a Barcellona, a pochi giorni dall’attentato avvenuto sulle Ramblas e a Cambrils il 17 agosto. Hanno partecipato alla marcia circa 100.000 persone, di cui 30.000 in piazza e 70.000 nelle città vicine. Al catalano “No tinc por” si è unito il castigliano “No tengo miedo”, in un grido che ha unito tutti lasciando sullo sfondo le questioni separatiste. Sono intervenuti i leader dei principali partiti spagnoli, nonchè re Felipe VI, che ha affermato che “tutta la Spagna è Barcellona e le Ramblas torneranno a essere di tutti”. Seguiti da migliaia di persone, anche straniere, il Re Felipe, il premier Rajoy, il presidente catalano Puigdemont e la sindaca Colau hanno simbolicamente riconquistato in corteo la Rambla ferita. Anche le comunità islamiche di Barcellona hanno manifestato, in un corteo che si è snodato da Plaça de Catalunya alle Ramblas, per esprimere la propria estraneità e la più ferma condanna per l’attacco che ha colpito con violenza la città. Nel corso della manifestazione è stata ribadita l’esigenza di un 8 • MSOI the Post

maggior collegamento con le istituzioni, per far sì che la politica d’indifferenza che finora è prevalsa non assuma i caratteri dell’ostilità. A questa manifestazione, volta anche a contrastare spinte xenofobe e islamofobiche, non hanno preso parte le autorità, così come le organizzazioni islamiche non hanno aderito a quella antiterrorista convocata per sabato prossimo. La protesta ha ricevuto scarsa attenzione dai media, forse a causa della coincidenza temporale con la conferenza stampa tenuta da Puidgemont e dal capo dei mossos (la polizia catalana).

“i terroristi non potranno mai sconfiggere un popolo unito che ama la libertà”. Tuttavia il patto contro gli estremisti jihadisti è stato condiviso soltanto da PP, PSOE e Ciudadanos. Non hanno aderito Podemos e neanche le forze nazionaliste come ERC (la sinistra repubblicana catalana), PdeCat (il Partito Democratico Catalano) e il PNV (il partito basco). L’esortazione del ministro degli Interni spagnolo Zoido a sedere tutti allo stesso tavolo per manifestare concretamente contro la follia al terrorismo è rimasta, di fatto, una semplice dichiarazione di intenti.

Il presidente del Parlamento europeo Tajani, in occasione del colloquio svoltosi con il Re Felipe VI, ha affermato che l’Europarlamento si impegnerà ad accelerare i lavori della commissione speciale sul terrorismo. Nel frattempo il governo di Madrid ha convocato una riunione con i principali partiti spagnoli per rinnovare il patto antiterrorismo, che prevede l’adozione di misure speciali per combattere i jihadisti. Nel documento si ribadisce anche l’impegno del Governo a tenere tutte le parti informate sullo sviluppo delle indagini e sull’esistenza di eventuali minacce per la Spagna.

Dalla strage della Rambla a oggi le acredini tra Madrid e Barcellona si sono acuite, anche a causa di dichiarazioni improvvise e operazioni di polizia prima dichiarate terminate e poi smentite, come quella relativa alla cattura dell’autore materiale della strage, ucciso ieri. O, ancora, come la dichiarazione del ministro degli Interni catalano Forn, il quale aveva dichiarato tra le vittime della Rambla due catalani e due spagnoli. Questo aveva scatenato l’ira del premier Rajoy, poiché una simile affermazione potrebbe alimentare le istanze separatiste su una questione delicata come quella delle vittime del terrorismo.

A tal proposito Rajoy ha twittato:


NORD AMERICA LE AMBIGUITÁ DI TRUMP

Polemiche dopo le dichiarazioni di Trump sugli scontri di Charlottesville

Di Lorenzo Bazzano Charlottesville, una città universitaria della Florida, a maggioranza democratica, è stata teatro della più grande manifestazione dei suprematisti bianchi americani degli ultimi anni. Il motivo che ha spinto una cinquantina di manifestanti del Ku Klux Klan a scendere in piazza è stata la decisione del consiglio comunale di rimuovere la statua equestre del generale sudista Robert Lee, uno dei simboli dell’estrema destra suprematista statunitense (l’altright). I partecipanti alla protesta provenivano dalla Carolina del Nord, indossavano gli abiti tradizionali del KKK, erano armati (lo consente la legge della Florida) ed esibivano manifesti con slogan razzisti e antisemiti. La situazione è precipitata quando il corteo dell’estrema destra si è scontrato con il contro-corteo antirazzista, che si è riversato per le strade di Charlottesville. Un’auto di colore grigio ha travolto 5 persone tra i contromanifestanti: una ragazza è morta e almeno 30 persone sono rimaste ferite. Il conducente

dell’auto è stato arrestato e, stando alle prime indicazioni della polizia, che ha aperto un’inchiesta, si tratterebbe di un incidente intenzionale. I fatti di Charlottesville hanno dimostrato quanto l’alt-right sia radicata all’interno degli Stati Uniti e hanno offerto ad alcuni commentatori il pretesto per tornare sulla delicata questione del bilanciamento tra la memoria storica e la cancellazione di un passato drammatico. Ciò che però ha fatto maggiormente discutere a seguito dei disordini sono state le dichiarazioni del presidente Trump. Dopo aver tardivamente condannato l’estrema destra, per contenere lo sdegno causato da una sua precedente ambigua dichiarazione, Trump ha ritrattato, puntando il dito anche contro gli anti-nazisti, che a suo avviso avrebbero condiviso le stesse responsabilità per quanto avvenuto durante le manifestazioni. I primi a criticare il Presidente sono stati i repubblicani stessi, a conferma del fatto che l’ex tycoon non goda di un buon consenso all’interno del proprio partito.

A livello internazionale si è fatta sentire anche la premier britannica Theresa May, che ha dichiarato che “non si può mettere sullo stesso piano chi ha visioni profondamente fasciste e chi si oppone a queste”. Yair Lapid, leader del partito centrista israeliano, ha dichiarato: “Non ci sono due parti responsabili. Quando i neo-nazisti marciano a Charlottesville e urlano slogan contro gli ebrei ed a sostegno della supremazia bianca, la condanna deve essere senza ambiguità”. L’ambiguità di Trump si può spiegare con il fatto che il principale artefice della sua campagna elettorale, Steve Bannon, attraverso il suo sito di informazione e piattaforma ideologica Breitbard News, ha raccolto attorno a Trump il consenso dell’alt right e dei suprematisti bianchi. Un consenso che Trump deve quindi maneggiare con cura e che, sembra ormai evidente, non ha intenzione di erodere. A conclusione delle polemiche, in seguito agli scontri di Charlottesville, è arrivata la notizia del licenziamento di Bannon dalla posizione di consigliere strategico della Casa Bianca. MSOI the Post • 9


NORD AMERICA TRUMP LICENZIA STEVE BANNON

In 7 mesi, sono più di 50 i funzionari che hanno lasciato la Casa Bianca

di Federico Sarri Steve Bannon, ex capo stratega e consigliere anziano della Casa Bianca, ha accompagnato Donald Trump fin dalla campagna elettorale. La sua uscita di scena (per molti solo temporanea), è solo l’ultima in ordine cronologico: da quanto Trump è diventato Presidente, 7 mesi fa, sono più di 50 i funzionari (segretari, consiglieri, membri di commissioni) che lo hanno abbandonato o che sono stati cacciati. Sempre in agosto, infatti, si sono dimessi 13 dei 14 membri della Commissione cultura presieduta dalla First Lady e molti dei consulenti sull’economia digitale. Nei mesi precedenti si possono invece ricordare i licenziamenti del consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, del portavoce John Spicer, del suo successore Anthony Scaramucci e del capo dello staff Rience Preibus. Ma torniamo all’ex banchiere d’investimento: il comunicato ufficiale diramato dalla Casa Bianca riporta come “Il capo dello staff John Kelly e Steve Bannon hanno concordato insieme che oggi sarà l’ultimo giorno di Steve”. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è giunta con

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gli scontri di Charlottesville, complice una telefonata dello stratega al giornalista Robert Kuttner. La conversazione con il corrispondente di The American Prospect sarebbe dovuta rimanere confidenziale, ma è stata invece pubblicata: in essa Bannon critica molte delle ultime scelte del Presidente, a partire dall’atteggiamento troppo condiscendente nei confronti della Cina e di quello eccessivamente aggressivo rispetto alle minacce della Corea del Nord. Bannon, peraltro, ha chiamato i suprematisti bianchi coinvolti nella manifestazione di Charlottesville “un branco di clown”, a dispetto delle voci che lo volevano tra i più o meno taciti sostenitori di questa frangia dell’estrema destra. I commentatori sottolineano però che, nella tornata elettorale di novembre, Trump ha vinto anche grazie al loro supporto. Ad ogni modo, la vicenda non fa che aggiungersi a diversi altri episodi in cui il consigliere anziano di Trump si sarebbe trovato, a Washington, in una posizione scomoda. Le difficoltà nei rapport i con la figlia di Trump, Ivanka, e con il genero Jared Kushner, non sono un mistero. Così come non lo sono gli screzi con il nuovo capo dello staff, il generale John Kelly.

Bannon, in effetti, aveva già dichiarato di aver consegnato le proprie dimissioni il 7 agosto. Queste sarebbero però state congelate proprio a causa dei fatti di agosto in Virginia. Quali siano i reali termini della relazione tra il Presidente e l’ormai ex stratega è difficile a dirsi. Quel che è certo è che Bannon sia tornato in fretta al proprio quartier generale, riprendendo le redini di Breitbart, una media company di estrema destra. L’editor in chief è stato salutato dai propri collaboratori con l’hashtag “#war”, riprendendo una delle prime dichiarazioni di Bannon all’uscita da Washington: “Sarò chiaro: ho lasciato la Casa Bianca per andare in guerra al fianco di Trump, contro i suoi nemici che cospirano al Congresso, tra i media e nella finanza”. Insomma, Bannon sta preparando una nuova crociata. L’obiettivo è mettere a tacere i cosiddetti “globalist”, ovvero coloro che credono ancora nell’impegno globale degli Stati Uniti (tra cui è possibile annoverare molti generali dell’esercito, compreso Kelly), e i “Rino”, i “Repubblicani solo nel nome” accusati di essere più vicini agli ambienti dem che al GOP.


MEDIO ORIENTE ANCORA SPOSE BAMBINE Quando il velo è una condanna

Di Clarissa Rossetti Negli ultimi mesi la Giordania ha attirato l’attenzione della comunità internazionale sulla condizione delle donne nel Paese, in seguito a modifiche sostanziali alla legislazione. Oltre all’eliminazione della legge sul matrimonio riparatore per colpevoli di violenza sessuale, i quali avrebbero potuto evitare di essere perseguiti sposando la vittima del crimine stesso, nel luglio scorso il Regno Hashemita ha fatto discutere anche per la riforma della legge sull’età matrimoniale. Nonostante già 15 anni fa l’età legale per il matrimonio era stata alzata da 15 a 18 anni per le ragazze, la legislazione prevedeva alcune eccezioni legittimate da circostanze particolari, in realtà non chiaramente definite. La riforma più recente stabilisce una differenza massima di 15 anni tra la sposa bambina e il marito, il quale non deve avere già una moglie. Inoltre, il marito deve garantire che l’unione non impedisca alla moglie di ottenere un’istruzione. La ragazza ha il diritto di porre condizioni a suo beneficio ed entrambi gli sposi dovranno completare un corso matrimoniale e presentarne prova prima di ufficializzare l’unione.

Sebbene da alcuni sia considerata un inasprimento delle circostanze in cui è permesso per una ragazza sposarsi tra i 15 e i 18 anni, la revisione della legge ha principalmente attirato critiche, essendo vista come un regresso rispetto alle aspettative collettive. Mantenere le eccezioni, peraltro non ben specificate dalla legge, e la cui valutazione viene affidata ai giudici caso per caso senza stabilire chiari criteri, perpetua un clima sociale e culturale in cui la componente femminile della popolazione è ancora oggetto di imposizioni che ne compromettono gravemente il diritto ad avere un’infanzia, un’istruzione e la libertà di scelta. Secondo la legge giordana, un minore non viene reputato dotato di piena capacità decisionale per compiere scelte politiche e votare, o guidare con responsabilità nei confronti della propria sicurezza e quella degli altri. In questa logica, una donna non avrebbe raggiunto nemmeno la maturità necessaria a decidere a chi legarsi personalmente e legalmente per il resto della propria vita. Eppure, la legge recita, in parte, altrimenti; pertanto, le sedicenti eccezioni straordinarie all’età legale per il matrimonio in Giordania appaiono come mere

limitazioni al libero arbitrio di una giovane donna che potrà certo imporre le proprie condizioni, ma soltanto sulla carta. L’incidenza dei matrimoni precoci è stata rilevata da UNICEF negli ultimi anni intorno al 10%, ma la situazione si è drammaticamente aggravata con l’arrivo dei rifugiati siriani, tra cui è molto diffuso il matrimonio di minori, già pratica comune prima del conflitto e adesso una delle strategie di adattamento più utilizzate per le popolazioni sfollate o rifugiate nei territori limitrofi. La stessa agenzia delle Nazioni Unite ha riportato inoltre un tasso di circa il 30% di matrimoni precoci tra tutte le unioni celebrate tra rifugiati siriani in Giordania. Oltre a suscitare controversie di tipo etico, la frequenza delle unioni che coinvolgono ragazze ancora adolescenti comporta anche gravi rischi per la vita e la salute riproduttiva delle spose bambine. Vi sono poi ostacoli considerevoli nel processo di istruzione, che il più delle volte termina con l’abbandono scolastico fenomeno destinato a perpetuare l’esclusione della popolazione femminile dalla partecipazione economica in società.

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MEDIO ORIENTE IL (NUOVO) MURO DELLA VERGOGNA

Una barriera sotterranea sulla striscia di Gaza potrebbe scatenare un nuovo conflitto

Di Samantha Scarpa Un nuovo, preoccupante scenario si prospetta attorno alla striscia di Gaza, dove il timore di un altro conflitto armato diventa di settimana in settimana sempre più concreto. Negli scontri del 2014 oltre 2.100 Palestinesi, molti dei quali civili, hanno perso la vita, mentre una settantina di Israeliani -tra personale civile e militare - ha incontrato la stessa sorte. Il nucleo principale dei nuovi attriti risiede nella costruzione da parte di Tel Aviv di un muro lungo il fianco orientale del confine tra Israele e la Striscia di Gaza, un progetto lungo 60 km e largo diverse decine di metri. Con tecnologie all’avanguardia e sensori dedicati, il muro è stato definito “la controparte terrestre dell’Iron Dome (l’intercettore israeliano di missili a corta gittata, nda)” da Eyal Zamir, maggior generale in comando per le forze meridionali, nel contesto di una press conference lo scorso giovedì 10 Agosto. Durante il briefing con i media nazionali ed esteri, il generale ha fornito un quadro estrema-

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mente dettagliato del progetto: attiva in 6 punti del confine da settembre 2016, l’obiettivo principale della barriera sarà quello di bloccare i tunnel sotterranei che i Palestinesi di Gaza hanno ripetutamente sfruttato nel 2014 per attuare attacchi a sorpresa. La barriera, infatti, scenderà di dozzine di metri sotto terra e si innalzerà di 6 metri in superficie. I militari israeliani hanno altresì stimato il termine della costruzione nel giro di due anni, utilizzando manodopera moldava, spagnola e di richiedenti asilo africani. I lavori andranno avanti per 24 ore tutti i giorni, escluso il sabato. Le spese militari stimate sforano il miliardo di dollari. Durante la presentazione del progetto non sono mancate accuse e minacce direttamente indirizzate ad Hamas. Mostrando alcune immagini aeree, il maggiore Zamir ha indicato due edifici che, sosteneva, sarebbero stati usati come copertura per il collegamento dei tunnel. Una delle costruzioni sarebbe di proprietà di un membro di Hamas e unirebbe i tunnel ad una

moschea. “Questi due bersagli, per ciò che mi riguarda, sono legitimate military targets, e nell’eventualità che possa scoppiare una nuova guerra, chiunque vi risieda starà mettendo se stesso e la propria famiglia in pericolo, e tale responsabilità ricadrà senza dubbio su Hamas”, ha annunciato il militare, il quale ha concluso ritenendo ogni impedimento a costruzione della barriera ” “sufficiente per scatenare un nuovo conflitto. La risposta palestinese a queste minacce non troppo velate è arrivata pochi giorni dopo. Oltre ad accusare Tel Aviv di belligeranza, Fawzi Barhoum, portavoce per Hamas, ha apostrofato le dichiarazioni israeliane come “bugie e costruzioni mediatiche il quale scopo risiede unicamente nel danneggiare l’immagine della resistenza palestinese e giustificare i massacri alla popolazione di Gaza”. Negli incontri mediatici più recenti, il genio militare israeliano ha inoltre previsto la costruzione di un blocco sottomarino nel Mediterraneo per prevenire infiltrazioni in Gaza attraverso canali marittimi.


RUSSIA E BALCANI VIA I MONUMENTI SOVIETICI DALLA POLONIA

Mosca indignata per lo smantellamento delle opere celebrative dell’Armata Rossa

Di Ilaria Di Donato Dal memoriale dei soldati sovietici a Varsavia, alla statua raffigurante i soldati russi all’attacco nel centro della capitale, fino alla sezione dedicata ai caduti russi che occupa uno spazio consistente nel cimitero di Cracovia: sono solo alcuni dei 500 monumenti sovietici, installati lungo il territorio polacco, che Varsavia vorrebbe smantellare e che stanno contribuendo ad acuire le tensioni con Mosca. Fin dalla vittoria elettorale, avvenuta nell’ottobre del 2015, il partito conservatore di maggioranza assoluta a Varsavia ha iniziato la propria crociata contro i monumenti sovietici. Quello stesso anno, il governo ha incaricato l’Istituto per la memoria nazionale (IPN) di trasportare lontano dalle città le opere inneggianti l’avanzata russa in Polonia, in particolare stipandole in un vecchio bunker atomico dove adesso sorge il Museo della Guerra Fredda, nella città di Podborsko. I monumenti in questione sono tutti dedicati alla memoria della trionfante avanzata dell’Armata Rossa verso Berlino, quando, subendo gravi perdite ed esibendo un’elevata efficienza militare, le truppe sovietiche riuscirono a scaccia-

re le forze armate naziste dal Paese, contribuendo in maniera decisiva alla vittoria alleata contro l’Asse. Tali opere, però, a giudizio del presidente polacco Andrzej Duda, non trovano più spazio in vista della realizzazione del progetto di “decomunistizzazione” del Paese, promosso dal governo nazionalconservatore di Varsavia. Non solo, dunque, la messa al bando dei simboli del totalitarismo, ma anche la richiesta di un cospicuo risarcimento avanzato dalla Polonia nei confronti della Germania, per le atrocità commesse sul territorio dal regime di Hitler. La Russia ha manifestato apertamente il proprio dissenso verso una simile intenzione, bollando come “oltraggiosa” e “provocatoria” la decisione polacca, minacciando conseguenze laddove fossero messi a rischio i memoriali. “L’URSS”, contesta il Cremlino, “ha pagato il prezzo più alto per liberare la Polonia. Nelle battaglie col nemico sono morti, e sono poi stati sepolti, oltre 600.000 soldati e aufficiali dell’Armata ross ”. Stando a quanto dichiarato dal ministro degli Esteri della Federazione russa, Sergej Lavrov, la Polonia “è leader europeo in termini di dissacrazione dei monumenti ai soldati sovietici

caduti per liberare l’Europa e il mondo dall’Asse”. Non di eguale avviso Jaroslaw Szarek, presidente dell’IPN, il quale ha così argomentato l’azione dell’Istituto: “Non possiamo accettare la glorificazione del regime totalitario sovietico. Nessuno di quei monumenti è espressione di genuina gratitudine polacca verso i sovietici che poi ci occuparono, non ci portarono la libertà bensì l’instaurazione di una dittatura.” La differenza di vedute, infatti, è proprio questa: la Polonia ritiene che quelle dell’URSS non erano forze di liberazione, ma di occupazione totalitaria. La Russia demanda a gran voce l’azione degli Stati europei affinché intervengano “ in relazione all’insulto alla memoria dei soldati caduti”. La Polonia, che nella sua qualità di Stato est europeo più importante nell’ambito dell’UE e della NATO conserva rapporti tutt’altro che distesi con la Federazione Russa, continua a condurre la propria azione di smantellamento delle opere che ricordano la dominazione di Mosca, ritenendo di collocare le stesse in un parco educativo all’interno del quale i visitatori possano vedere i monumenti ed apprendere in quali circostanze furono costruiti. MSOI the Post • 13


RUSSIA E BALCANI GELO SULL’ASSE MOSCA-WASHINGTON La visita di Putin in Crimea e le freddissime relazioni USA-Russia

Di Vladimiro Labate Tra il 18 e il 20 agosto, il presidente russo Vladimir Putin ha effettuato una visita in Crimea, la penisola sul Mar Nero che dal marzo del 2014 è stata annessa alla Russia. Il viaggio del leader russo nella regione ha incluso la città di Sebastopoli, dove insieme al primo ministro russo Dmitry Medvedev ha reso omaggio ai caduti della Seconda Guerra Mondiale e ha incontrato gruppi filo-russi. Le condanne da parte del governo ucraino si sono levate immediatamente. Il ministro degli Esteri Pavlo Klimkin ha inviato una nota di protesta al Cremlino nella quale criticava “il cinico disprezzo di Mosca per le norme generalmente accettate del diritto internazionale”. La visita rappresenta “un’evidente violazione della sovranità dello Stato ucraino e della sua integrità territoriale”. “La Crimea e Sebastopoli”, ha aggiunto il ministro “sono e rimarranno parti integranti dell’Ucraina dentro i suoi confini internazionalmente riconosciuti”. La Crimea si è separata dall’Ucraina ed è stata annessa alla Russia in seguito ad un referendum tenutosi nel marzo del 2014, organizzato su impulso di Mosca in risposta alla nascente crisi ucraina. 14 • MSOI the Post

L’esito della consultazione popolare non è però mai stato riconosciuto dalla comunità internazionale: una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo ha invalidato, imponendo di non riconoscere alcuna alterazione dello status quo. Questa visita, la nona che Putin compie nella penisola dal 2014, si colloca all’interno di un quadro politico complesso per la zona, in particolare per ciò che concerne le relazioni tra Russia e Stati Uniti. In risposta all’esplosione dello scandalo Russia-gate e all’espulsione di 35 diplomatici russi da parte dell’amministrazione Obama, a fine luglio Putin ha annunciato di voler ridurre di 755 membri il corpo diplomatico USA in territorio Russo. La decisione arriva in risposta all’approvazione di un nuovo piano di sanzioni contro la Russia da parte del Congresso americano, a seguito dei nuovi sviluppi sul caso “Russiagate” e dell’ipotesi di un tentativo del Cremlino di influenzare le presidenziali dello scorso autunno e alle aggressioni militari russe in Ucraina e Siria. Le nuove sanzioni, che colpiscono in particolare i settori dell’energia e del credito, minano gli sforzi del presidente Trump di migliorare le relazioni, in questo momento

freddissime, con Mosca, che, dal canto suo, parla di “guerra commerciale su larga scala”. A questa situazione vanno aggiunti due nuovi elementi: sul tavolo del presidente Trump c’è la proposta, appoggiata dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato, di fornire all’Ucraina armi letali, secondo un piano molto simile a quello già respinto da Barack Obama. Questa prospettiva indicherebbe la volontà americana di guidare l’evoluzione politica nell’Est ucraino, giocando un ruolo di maggiore rilevanza anche all’interno del gruppo di Minsk. Inoltre, il 20 agosto il Cremlino ha annunciato che Anatoly Antonov sarà il nuovo ambasciatore russo a Washington. Andrà a sostituire Sergey Kislyak, il diplomatico che è stato coinvolto nello scandalo riguardante possibili collusioni tra Mosca e la campagna presidenziale di Trump. Antonov, attuale viceministro degli Esteri, è considerato un fautore della linea dura e per il suo ruolo nella crisi ucraina è stato oggetto delle sanzioni UE. Per questo motivo, la sua nomina appare provocatoria: rispetto al più discreto Kislyak, ci si aspetta che Antonov imponga un cambio di passo negli affari dell’ambasciata.


ORIENTE ISLAMOFOBIA: CRESCE LA PAURA IN AUSTRALIA

La parlamentare Hanson cavalca della paura in seguito ad un tentato attacco

Di Luca De Santis Lo scorso 29 luglio, in Australia, sono stati arrestati alcuni uomini che stavano progettando di far precipitare un aereo utilizzando del gas o un ordigno artigianale. Tra i terroristi, che secondo le autorità avevano già elaborato dei “piani avanzati” per un attentato, vi sarebbero due cittadini australiano-libanesi. Secondo il Sydney Daily Telegraph, gli uomini stavano studiando la possibilità di portare a bordo di un velivolo un dispositivo in grado di provocare un’esplosione. I materiali necessari per costruire l’ordigno erano arrivati a bordo di un aereo cargo dalla Turchia. Michael Phelan, vice commissario della Sicurezza Nazionale in Australia, ha spiegato che questi tentativi si inserirebbero nel quadro di un complotto “ispirato e diretto” dal gruppo IS. Le comunicazioni tra gli individui arrestati in Australia e gli estremisti jihadisti erano iniziate ad aprile e, sulla base di istruzioni fornite da un comandante non identificato, un sospettato avrebbe costruito “un ordigno esplosivo artigianale pienamente funzionante”. Il dispositivo, ha spiegato il portavoce della polizia, era stato

nascosto in un frullatore e sarebbe dovuto esplodere come una potente granata, creando uno squarcio nel velivolo. Uno dei sospettati è riuscito a portare il dispositivo in aeroporto, senza però passare i controlli. “Il Daesh ha una base in Turchia, grazie alla quale riesce a mandare fuori dal Paese esplosivi di tipo militare su voli cargo”, ha affermato Greg Barton, esperto di sicurezza della Deakin University di Melbourne. “Presumibilmente Sydney non è un caso isolato e tenteranno questa strategia altrove: è un livello di rischio che prima non esisteva”, ha aggiunto. Cavalcando l’onda della paura, la senatrice Pauline Hanson si è presentata al Parlamento australiano indossando un burqa, reiterando la sua richiesta di vietarlo per ragioni di sicurezza nazionale. Hanson ha così ribadito ancora una volta il suo punto vista: il velo integrale islamico deve essere vietato nell’ottica della lotta al terrorismo, indipendentemente da considerazioni relative alla libertà religiosa. Tuttavia, il gesto della fondatrice e leader del partito di estrema destra australiano One Nation non ha avuto i risultati sperati.

Al suo ingresso in aula per la sessione di domande e risposte, è stata accolta dai mormorii degli altri senatori, tanto che la seduta è stata più volte interrotta per riportare il silenzio. Quando a Hanson è stata data la parola, la senatrice – invitata a togliere l’indumento – ha replicato che lo avrebbe tolto volentieri, in quanto estraneo al Parlamento e alla cultura nazionale. La leader di One Nation si è poi rivolta al rappresentante del governo in Senato, George Brandis, sottolineando ancora una volta l’importanza, secondo lei, di vietare il burqa nei luoghi pubblici. “Se un individuo indossa un passamontagna o un casco entrando in una banca o in qualunque edificio, come il piano terra di un tribunale, deve toglierselo. Perché non vale lo stesso per qualcuno che copre interamente il suo volto, senza poter essere identificato?”, ha chiesto, argomentando che il velo integrale islamico dovrebbe essere proibito per ragioni di sicurezza e lotta al terrorismo. In attesa di risposte definitive da parte del governo, le autorità hanno intensificato controlli e perquisizioni e l’onda islamofobica continua a crescere. MSOI the Post • 15


ORIENTE ATTIVISMO POLITICO IN CINA

La crescente repressione silenzia il dissenso?

Di Giulia Tempo Nonostante il rapido sviluppo e l’evoluzione economica cinese, Pechino continua a osteggiare ogni forma di innovazione politica. Un’analisi svolta nel 2016 da China File, periodico cinese online, sottolinea come la centralizzazione implichi un sistema fortemente gerarchizzato, all’interno del quale nessuna riforma “spontanea” è davvero tale e non vi sono voci fuori dal coro. In un esame delle politiche governative cinesi e dei loro più recenti sviluppi, la rivista Foreign Affairs rileva come, da due anni a questa parte, Xi Jinping abbia represso con crescente violenza l’attivismo proveniente dal basso. L’illiceità di ogni forma di protesta pubblica impedisce alle ONG di mobilitare i cittadini ed è loro fatto divieto di coordinare eventuali manifestanti isolati: questo, secondo alcuni analisti, spiegherebbe perché l’interesse internazionale nei confronti dell’attivismo cinese sia andato scemando negli ultimi anni. A riportare l’attenzione sul ruolo degli attivisti in Cina è stata tuttavia la morte di Liu Xiaobo, lo scorso 13 luglio. Liu, prigioniero di coscienza e premio Nobel per la pace, era da

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8 anni in carcere per la stesura di una petizione favorevole alla democrazia, nota come Charter 08, che gli era valsa una condanna a 11 anni. Ammalatosi di tumore al fegato, l’attivista si è visto negare dal governo la possibilità di recarsi all’estero per ricevere cure mediche. Liu non ha mai esortato all’insurrezione violenta: sosteneva piuttosto la necessità di un dibattito democratico. Lottava contro l’esistenza di un partito unico, pur continuando a esortare i giovani manifestanti e i colleghi intellettuali alla pacatezza dei toni e alla ribellione pacifica. La sua voce più di ogni altra ha risvegliato l’opinione pubblica occidentale, ma non è l’unica. Di stampo nettamente diverso è l’azione di Wu Gan, le cui proteste non convenzionali gli hanno valso il soprannome di “Super Vulgar Butcher”. Wu è noto per il suo abile impiego dei social media, attraverso i quali mobilita con messaggi forti la popolazione: il suo principale obiettivo è quello di sensibilizzare i cittadini in relazione ai loro diritti e agli strumenti sui quali possono far leva per vederli rispettati. La sua posizione fieramente antigovernativa e la militanza attiva per i diritti umani gli hanno

però procurato un’accusa di sovversione: Wu, in carcere da 27 mesi, deve ora fronteggiare i giudici. Durante il periodo di detenzione, l’attivista è stato torturato ripetutamente e alla sua famiglia è stato impedito di vederlo. Wu, come Liu Xiaobo prima di lui, è una delle voci che continuano a farsi sentire, nonostante la feroce repressione. La BBC, in uno speciale a lui dedicato, riporta come l’attivista abbia spesso preso le parti delle vittime di una giustizia oppressiva e autoritaria. In un sistema in cui il 99.9% dei processi termina con una condanna, Wu è riuscito a evitare che Deng Yujiao fosse incriminata. La donna rischiava infatti il carcere per aver ucciso il suo stupratore, un ufficiale del Partito comunista. Grazie all’impegno incessante dell’attivista cinese, inoltre, è stata risparmiata la condanna a 4 uomini che erano stati incriminati erroneamente. Wu è riuscito a mobilitare altri attivisti e a ottenere risultati concreti. La sua incarcerazione dimostra che il percorso è ancora lungo e tortuoso, ma la sua attività ha apportato senza dubbio un importante contributo alla causa dei diritti umani in Cina.


AFRICA LE ALLUVIONI PIEGANO IL SIERRA LEONE 450 morti e 600 dispersi nella capitale Freetown

Di Sabrina Di Dio

bomba d’acqua

Lunedì 14 agosto 2017: una data che gli abitanti della Sierra Leone non dimenticheranno facilmente. Le abbondanti piogge hanno provocato danni inestimabili al territorio e diverse perdite: 450 sono le vittime, di cui 100 bambini, 600 i dispersi e oltre 7.000 gli sfollati.

Gli aiuti umanitari non hanno tardato ad arrivare: l’ONU ha mobilitato le squadre di soccorso e ha affidato al World food program il compito di assistere le 7.500 persone colpite. L’Italia, da parte sua, ha stanziato 200.000 euro per la Croce Rossa Internazionale, che si sta adoperando per arginare la potenziale diffusione di colera, tifo e dissenteria.

L’alluvione è iniziata lunedì, nel primo mattino, mentre la gente dormiva ancora. Nei pressi di Freetown, le forti piogge hanno creato una spaccatura nella collina Sugar Loaf e hanno portato al rapido crollo di un intero fianco, che ha così travolto le famiglie che vi si erano stabilite. La valanga di fango si è riversata inoltre sul sottostante quartiere di Regent, e, mescolandosi con l’abbondante acqua piovana lì riversatasi nottetempo, si è trasformata in fiumi di fango profondi diversi metri, che hanno inghiottito gran parte del paesaggio urbano. In uno dei Paesi più poveri del mondo, la miseria ha costretto migliaia di persone ad abitare nelle baraccopoli nei pressi della capitale e tali abitazioni non hanno retto alla

Il presidente Ernest Bai Koroma ha immediatamente dichiarato lo stato di emergenza e il lutto nazionale, ma la comunità internazionale e le opposizioni puntano il dito verso il suo governo, che non avrebbe adottato le adeguate misure di prevenzione. In effetti, era già accaduto che le alluvioni causassero danni ingenti, ma non era mai stato raggiunto un livello simile. Il 17 settembre 2015, mentre il Paese cercava ancora di riprendersi dall’epidemia di ebola, le precipitazioni avevano inondato la capitale, danneggiando un certo numero di edifici. Migliaia di persone furono costrette ad abbandonare le proprie case e 4 rimasero uccise.

Una seconda causa è stata individuata nella crescita urbana sregolata di Freetown, che ospita 1/5 della popolazione dell’intero Stato. La capitale si affaccia sull’oceano Atlantico e si estende fra colline e montagne. Le alture sono, infatti, state massicciamente disboscate: in parte dai cittadini meno abbienti, che vi hanno costruito abitazioni di fortuna; in parte dai più benestanti, per procurarsi uno scorcio diretto sul mare. Nessun piano regolatore ha diretto l’industria edile, che è perciò esplosa, incontrollata. Infine, da qualche anno, in Sierra Leone, la stagione delle piogge si svolge in maniera anomala: le precipitazioni non sono continue e moderate ma rare e violente. Inoltre, l’assenza di alberi non permette al terreno di assorbire l’acqua, che quindi scorre travolgendo ogni cosa. La vicenda del Sierra Leone è l’ennesima conferma che il cambiamento climatico ha effetti catastrofici sul pianeta ed in particolare sul sud globale, che spesso, peraltro, non ha i mezzi per contrastarne gli effetti. MSOI the Post • 17


AFRICA TUTTI CONTRO KABILA

Decine di associazioni firmano il “Manifesto del cittadino congolese”

Di Jessica Prieto A Parigi, tra il 15 e il 17 agosto, decine di persone appartenenti alla società civile congolese si sono riunite per firmare il Manifesto del cittadino, un documento volto a spodestare il Presidente Kabila. Joseph Kabila è, come molti altri leader africani, una personalità attaccata al potere, che da 16 anni governa la Repubblica Democratica del Congo, nonostante il suo secondo mandato sia scaduto già nel 2016. Secondo la Costituzione del Paese, infatti, un Presidente può essere rieletto solo due volte: per questo motivo Kabila ha ritardato le elezioni previste per lo scorso inverno, prolungando di quasi un anno la sua carica. Tra le associazioni firmatarie del Manifesto ci sono il movimento Les Congolais Debout (“Congolesi in piedi”, fondato dalla figlia del Presidente dell’Angola Sindika Dokolo) e il LUCHA (Lutte pour le Changement,“Lotta per il cambiamento”). Due movimenti pacifici e apolitici che da alcuni anni lottano per ottenere un Congo democratico. 18 • MSOI the Post

Attraverso tale documento, composto da diversi punti, le associazioni esortano il popolo della Repubblica Democratica del Congo a ribellarsi contro lo strapotere di Kabila, in quanto, come sottolinea Dokolo: “la chiave di tutto è la massa: la popolazione tutta deve essere protagonista e far comprendere che l’unica alternativa possibile è quella di ricreare un ambiente politico virtuoso perché si possa giungere ad un cambiamento”. Da quando Kabila è giunto al potere, nel 2001, il Paese versa in una situazione drammatica. Secondo l’ultimo rapporto FAO, pubblicato il 14 agosto, la maggior parte della popolazione vive in condizione di estrema necessità, legata alle violenze diffuse in tutto il Paese: da quelle latenti tra il Presidente e i gruppi di opposizione, a quelle che intercorrono da mesi tra le forze governative e alcuni gruppi ribelli nel Gran Kasai. In questa regione infatti, si assiste da tempo ad uno scontro tra l’esercito nazionale e la milizia Kamwina Nsapu: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR), più di 3.000 persone sono rimaste uccise,

tra cui anche due funzionari dell’ONU. Alle violenze si accompagna poi una grave crisi alimentare, con più di 7 milioni di persone che affrontano ogni giorno la fame acuta. A rischio sono soprattutto le persone che vivono nelle zone di conflitto e i bambini, il 43% dei quali soffre di grave malnutrizione. La FAO e il Programma Alimentare Mondiale (WFP) chiedono urgentemente aiuti nel fornire alimenti di prima necessità e assistenza specialistica per combattere la malnutrizione. Nei prossimi giorni entrambe le organizzazioni saranno attive nella distribuzione alimentare e per fornire capacità logistica, tra cui trasporto aereo, stradale, carburante e magazzinaggio, alla più ampia comunità umanitaria. In questa condizione di malgoverno e crisi generale, a farne le spese maggiori è la popolazione, che tuttavia dovrebbe trovare la forza di reagire e porre fine ad un governo anti-costituzionale, che, secondo quanto denunciato dalle associazioni congolesi, per ora ha portato solo sofferenza.


SUD AMERICA FRENTE FAVELA BRASIL

Il primo partito delle Favelas e la lotta contro l’emarginazione

Di Giulia Botta Secondo l’Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica (IBGS) 11,4 milioni di cittadini brasiliani, il 6% della popolazione, vivono nelle favelas: baraccopoli costruite generalmente alla periferia delle maggiori città. Insediamenti in cui povertà, degrado sociale e criminalità si sommano a condizioni di vita e d’igiene precarie, spesso in assenza di sistemi di fognatura idonei e acqua potabile. Tra le favelas più densamente abitate vi sono quelle intorno a Rio de Janeiro, come Rocinha, Parada de Lucas, Maré e Turano, in cui si stima che abiti il 19% della popolazione della città. È proprio sulle colline (morros) circostanti Rio che è sorta la prima favela, quando, dopo la guerra di Canudos (1895-1896), i soldati sfollati occuparono il territorio di Morro da Providência, denominandolo Morro da Favela - dalla pianta tipica faveleira. In seguito sono sorti gli agglomerati in cui si è trasferita la maggior parte della popolazione povera, in particolare ex-schiavi neri liberati dopo la Legge Aurea del 1888 e allontanati dal centro della città verso i sobborghi. Le favelas sono diventate

microcosmi in cui, parallelamente alla dimensione urbana circostante, si sono affermati valori, identità e sentimenti di appartenenza specifici, alimentati dall’emarginazione e segregazione. In tale panorama è nato il primo esperimento politico di democrazia diretta e di rappresentanza dei diritti e di maggiori opportunità per i favelados. Si tratta del Frente Favela Brasil, partito politico fondato nel 2016, i cui attivisti si stanno raccogliendo firme nelle favelas di tutto il Paese per ottenere il riconoscimento dall’autorità elettorale e poter partecipare alle prossime elezioni del 2018. “Ribellarsi alla propria emarginazione” è lo slogan del movimento, per riscattarsi dalla chiusura nel degrado e arretratezza e per offrire nuove opportunità e prospettive alle comunità, in cui si registrano tassi di violenza tra i più alti al mondo. Celso Athayde, già promotore dell’organizzazione Central Única das Favelas, ha fondato il partito al fine di promuovere maggiore rappresentanza per la popolazione nera, di cui l’87% vive nelle baraccopoli,

e maggiore tutela dei diritti fondamentali attraverso la partecipazione diretta al processo politico senza esclusioni. Il partito, infatti, non si schiera né a destra né a sinistra, ma s’ispira ai valori della democrazia diretta, per coinvolgere tutti nel processo elettorale e politico, in nome dell’art. 5 della Costituzione Federale (1988). Tuttavia, la strada per l’affermazione del gruppo politico è tortuosa. Secondo Anderson Quack, uno dei fondatori, i favelados sono numericamente influenti, ma non hanno mai ricevuto la dovuta attenzione da parte del Governo, né possibilità di riscatto. Inoltre, le favelas si sono sviluppate a macchia di leopardo, concentrandosi in aree specifiche intorno a grandi centri urbani, e non diffuse omogeneamente. Le divisioni interne e i contrasti sono numerosi, rendendo lunga la strada dell’affermazione di un unico movimento politico che raccolga le istanze e i valori dei suoi abitanti. In ogni caso, il Frente Favela Brasil rappresenta un primo passo verso l’unione e la cooperazione. MSOI the Post • 19


SUD AMERICA IL CASO ORTEGA DIAZ

L’ex Procuratrice generale e il marito chiedono asilo in Colombia

Di Anna Filippucci La neo-eletta Assemblea Costituente, voluta dal presidente venezuelano Nicolas Maduro, il 18 agosto ha assunto tutte le funzioni e i poteri del Parlamento. La presidente dell’Assemblea Delcy Rodríguez ha dichiarato: “la Costituente è arrivata per mettere ordine in questo Paese”, sottolineando, inoltre, che l’origine della crisi venezuelana sia dovuta a delle distorsioni del potere, che hanno minato il buon funzionamento del sistema politico in primo luogo, e di quello socio-economico in seguito. La suddetta Assemblea si è auto-attribuita anche i poteri e le funzioni dell’Assemblea Nazionale, organo politico controllato dall’opposizione che si era fermamente opposto alla volontà di Maduro e non aveva voluto riconoscere la Costituente. Durante lo svolgimento di tali fatti, l’ex procuratrice generale del Venezuela Luisa Ortega Díaz e il marito German Ferrer, sono fuggiti verso la Colombia e hanno chiesto asilo alle autorità lo-

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cali. Per comprendere il motivo della fuga occorre tornare indietro al 5 di agosto, giorno in cui la Costituente ha escluso la donna dal proprio incarico. Pochi giorni dopo il Tribunale supremo di giustizia ha ordinato l’arresto del marito della Díaz con l’accusa di corruzione. Ferrer, membro dell’opposizione, nei mesi precedenti si era mostrato contrario, come altri, ai provvedimenti di Maduro. È stato il numero due del Governo, Diosdado Cabello, anche lui nuovo membro della Costituente, a presentare al Tribunale una serie di documenti che parrebbero dimostrare la partecipazione di Ferrer a una presunta rete di estorsione all’interno dello stesso Tribunale. Questo scandalo coinvolgerebbe anche altri funzionari dell’organo giudiziario e, indirettamente, l’ex procuratrice Díaz. Alle accuse sono velocemente seguiti i fatti: il 17 agosto i Servizi Segreti, su ordine del presidente Maduro, hanno organizzato un blitz nell’abitazione dell’ex Procuratrice. Nessuno dei due coniugi si trovava in casa nel

momento dell’incursione, ma la Díaz ha subito denunciato il fatto attraverso un tweet: “È così che il governo di Maduro e Cabello pretende di porre fine alla nostra lotta per la democrazia”. La donna, costretta alla fuga e accusata a sua volta di “gravi violazioni dell’ordine costituzionale”, con i conti bloccati, il passaporto confiscato e i beni congelati, da giorni viveva rifugiandosi a casa di amici. Nelle interviste che ha rilasciato si è dichiarata vittima di “atteggiamenti dittatoriali del Governo”. La situazione drammatica della coppia, che si dichiara innocente e vittima dei fatti che stanno sconvolgendo l’ordine politico venezuelano da mesi, ne ha causato infine la fuga in Colombia. L’ex Procuratrice e il marito hanno dapprima raggiunto la costa caraibica del Venezuela, e dalla penisola di Paraguanà sono poi arrivati in barca ad Aruba, dove hanno preso un aereo privato che li ha portati a Bogotà. Insieme a loro anche due collaboratori della Procura, anch’essi ricercati dalle autorità venezuelane.


ECONOMIA L’IMPERO AMAZON PUNTA ALLA SPESA E-COMMERCE Ma Trump non ci sta

Di Edoardo Pignocco Non solo distribuzione generalista. Amazon è ormai una realtà multibusiness: infatti, nel computo dei ricavi finiscono anche gli introiti derivanti dall’attività di clouding, di piattaforme streaming e, dal giugno 2017, della distribuzione nel settore alimentare. Nel suddetto mese, infatti, Amazon ha annunciato ai mercati l’acquisizione, per un totale di 13,7 miliardi di dollari, di Whole Food, una delle dieci catene alimentari più grandi d’America. L’intenzione è chiara: conquistare fette di mercato della distribuzione alimentare attraverso l’innovazione tecnologica: la spesa e-commerce. L’azienda di Jeff Bezos sta cercando di cambiare il modo di fare business nel settore, sfruttando l’attività, insieme ai relativi know-how, che l’ha resa leader mondiale: il commercio online. Ma l’innovazione diventerà poi rivoluzione? Per conoscere la risposta esatta bisognerà attendere ancora un po’ di tempo, ma la direzione del settore sembra abbastanza delineata. Intanto, però, la società di Seattle non parte sicuramente da zero, né come skills, né come liquidità. Amazon ha, infatti, appena lanciato un maxi-bond da 16 miliardi di

dollari per finanziare l’acquisto di giugno, che, non per caso, rappresenta la quarta emissione obbligazionaria più imponente del 2017. Nel frattempo, il Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, non ha risparmiato le sue critiche all’impero Amazon: “Sta facendo un grande danno ai distributori che pagano le tasse […] Città e Stati stanno venendo urtati e molto posti di lavoro persi”. Trump individua in Amazon la causa scatenante della crisi del settore vendite al dettaglio. Infatti, importanti catene della GDO hanno chiuso moltissimi punti vendita, impotenti al cospetto della nuova frontiera dell’e-commerce. Ciononostante, la conferma dello straripante successo arriva anche dalla Borsa, con una capitalizzazione pari a circa 470 miliardi di dollari e quasi 1000 dollari ad azione. Rispetto agli anni passati, Amazon è finalmente riuscita ad ottenere anche un utile d’esercizio, seppure questo punto presenti tuttora delle criticità. Infatti, la crescita dei ricavi nell’ultimo quadrimestre, pari al 38%, ha sorpreso in positivo il mercato; tuttavia, lo stesso non si può dire per il margine di profitto netto, in calo del 77%. Se l’utile appartenente al core business, pur essendo

finalmente positivo, fatica a decollare, quello relativo alla divisione Amazon Web Service ha superato le aspettative. I ricavi, infatti, sono impennati del 42% e il reddito operativo è pari a circa un miliardo di dollari. Questo dimostra la capacità del top management dell’impresa statunitense di avere lungimiranza e di scelta d’investimento. Infatti, i nuovi mercati che si stanno sviluppando molto sono quello dell’archiviazione dati digitale e le piattaforme di streaming, principalmente riguardo film e serie tv. In relazione a quest’ultimo business, non si può non sottolineare come Amazon abbia investito 10,5 miliardi di dollari per la creazione di video originali, esattamente come il principale competitor, ovvero Netflix, il quale invece non sta vivendo momenti facili. Si pensi, inoltre, che l’altro principale competitors, HBO, emittente del successo “Game of Thrones”, investe annualmente solo 2 miliardi. Di conseguenza, si può intuire come Amazon sia sempre focalizzata sulla novità: non c’è, infatti, bisogno di spiegare quanto sia importante essere proattivi nell’intuire i bisogni dei consumatori e nell’essere capaci a trasformarli in necessità.

MSOI the Post • 21


ECONOMIA GREAT WALL MOTORS BUSSA ALLA PORTA DI FCA

La casa automobilistica cinese mira ad espandersi oltre il mercato domestico

Di Giacomo Robasto

per l’intero settore auto.

Il conto economico di Fiat Chrysler Automobiles relativo al secondo trimestre, rilasciato a fine luglio, non lascia spazio a dubbi sull’ottima performance del gruppo. Con un utile netto “rettificato” (ossia al netto delle poste straordinarie) in crescita del 52% e un utile netto a quota 1,15 miliardi di euro, più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’esercizio precedente (+125%), l’azienda ha infatti consolidato la propria leadership nel mercato americano e ciò non è passato inosservato a potenziali investitori asiatici.

Numerosi analisti del settore, tuttavia, hanno espresso dubbi sulla effettiva capacità di Great Wall di finanziare l’operazione. Infatti, pur avendo FCA una capitalizzazione di mercato pari a 16,4 miliardi di dollari, Great Wall ne capitalizza poco più di 18, e con tali numeri risulterebbe difficile una acquisizione dell’intero gruppo italoamericano. Tuttavia, l’operazione potrebbe concretizzarsi grazie a uno stanziamentodifondipubblicidaparte del governo di Pechino, previo interessamento di quest’ultimo ad ulteriori investimenti nel settore automobilistico a favore del “campione” nazionale.

Tra questi, è senz’altro degno di nota il gigante automobilistico cinese Great Wall Motors, primo produttore cinese privato di automobili, che proprio il 21 agosto scorso non ha nascosto al sito statunitense AutomotiveNews l’ambizione ad acquisire la casa italoamericana, o almeno una parte di essa. Essendo Great Walls specializzata nella produzione di SUV e crossover, che rappresentano al momento il 70% circa della sua produzione totale, è naturale l’interesse per almeno il marchio Jeep, con l’obiettivo - nel lungo periodo di creare un colosso mondiale in uno dei segmenti più redditizi 22 • MSOI the Post

Al momento, dal quartier generale di FCA a Londra, dove il gruppo ha la sede legale, si smentiscono le voci sull’imminenza dell’operazione, tenendo a precisare che ad ora Great Wall ha espresso solo un eventuale interesse visto l’ottimo andamento del business FCA. L’idea che l’intero gruppo FCA possa finire in mani cinesi avrebbe poco senso, a meno che Great Wall non abbia poi intenzione di cedere brand e divisioni che sono più lontane dal proprio core business. In questo caso, sarebbe piuttosto agevole valorizzare alcuni marchi, come

Jeep, ma altri, fuoriuscendo dal perimetro in cui sono inseriti, potrebbero non venire opportunamente valorizzati. Inoltre, non è assoluto interesse di Exor, principale azionista di Fiat Chrysler Automobiles, veder totalmente smembrato il gruppo così come è oggi. Infatti, il gruppo guidato da Marchionne è in fase avanzata di realizzazione del proprio business plan e nell’ultimo trimestre ha raggiunto il record di marginalità toccando quota 6,7%. Un dato che dimostra come per il Lingotto - sebbene Marchionne sia stato il primo teorizzatore di un necessario consolidamento del settore - non vi sia alcuna urgenza di trovare il partner ideale. Voci delle ultime ore parlano anche di una possibile intenzione di FCA di scorporare dal gruppo Alfa Romeo e Maserati, per focalizzare l’attenzione sulle auto mass market (marchio FIAT), rendendola più attraente per una possibile combinazione con un concorrente. Il futuro di FCA rimane dunque totalmente in discussione, anche se una operazione di consolidamento, quale la fusione con un altro colosso automobilistico, rimane più che verosimile nel lungo periodo.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO CIPRO, PROSPETTIVE DI RIUNIFICAZIONE

Da Bruxelles a Cipro per la promozione dei diritti e della riconciliazione: Vittoria Longato racconta il suo viaggio

Di Elena Carente Sebbene la Repubblica di Cipro estenda la sua sovranità su tutta l’isola, il territorio è di fatto diviso in due come conseguenza del colpo di stato militare in Grecia che favorì anche un golpe a Cipro e l’intervento delle forze armate turche, nel 1974. In seguito all’occupazione turca della parte nord di Cipro, circa un terzo della popolazione cipriota fu costretta ad abbandonare definitivamente la zona. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto la Turchia colpevole di numerose violazioni della CEDU condannandola per aver impedito la restituzione ai greco-ciprioti delle loro proprietà. Quarantatré anni dopo, l’isola si presenta ancora spaccata in due, sia dal punto di vista politico che culturale. Numerose sono le iniziative che mirano alla riconciliazione e alla promozione dei diritti. Vittoria Longato è project manager presso B&S Europe (agenzia di cooperazione allo sviluppo con sede a Bruxelles), e si occupa della direzione del progetto “Cyprus: Support to CSOsthroughtailor-made assistance”. Dopo un periodo trascorso nella zona nord di Cipro, ha raccontato ad MSOI thePost la sua esperienza. Qual è l›obiettivo del progetto?

“Si tratta di un progetto di supporto alla comunità turco-cipriota, e in particolare alle organizzazioni non governative, associazioni e fondazioni presenti sul territorio, che si battono per la tutela dei diritti e la cui attività va a beneficio del pubblico.L’obiettivo è prestare assistenza, consulenza e rinforzo, alle organizzazioni della società civile nello svolgimento delle diverse attività.Si tratta di un’iniziativa finanziata dall’UE tramite bandi di gara rivolti alle aziende che operano nel settore”. Quali aspetti positivi e negativi l’hanno colpita maggiormente durante il suo soggiorno? “Le due comunità, quella greco-cipriota e quella turco-cipriota, mirano alla riunificazione delle due parti in un’unica isola. Questo è positivo. Ci sono, infatti, diverse iniziative di pace concentrate in particolare lungo la UN Buffer Zone, ovvero l’area demilitarizzata istituita dall’ONU nel 1974 dopo l’intervento militare turco. La situazione, in generale, non è tesa, nonostante la zona sia stata anche teatro di scontri e proteste anti-turche. Oltrepassare il confine è diventato piuttosto semplice, basta mostrare il passaporto. Ma qualche resistenza sussiste, in particolare per i turchi della madrepatria. L’isola è molto piccola, è facile entrare in contatto con le

due comunità e sviluppare un network. Il risvolto negativo è che si fa fatica ad entrare nella dimensione internazionale, e questo è un ostacolo alla riunificazione. I divieti sono anche tra i più banali; per pubblicizzare un evento, non è consentito utilizzare fotografie della zona nord. A questo si aggiungono le limitazioni dei diritti che già esistono in Turchia”. Crede che il progetto abbia successo? “Il progetto ha già avuto dei risultati incredibili, soprattutto nel cercare di riportare assieme le due comunità, ma è una goccia in un oceano. La situazione è così dal 1974 per cui il supporto alle diverse organizzazioni non basta a sbloccare la situazione. Ma la strada è quella giusta”. Durante la sua permanenza nella parte nord di Cipro ha trascorso alcuni giorni di vacanza. Qual è stata la sua impressione della “Cipro turistica”? “Cipro è un’isola meravigliosa, c’è tantissimo da scoprire anche dal punto di vista storico; è bellissimo spostarsi e vedere le differenze tra una parte e l’altra. Da un lato bar e catene di abbigliamento europee, dall’altro botteghe colorate, bagni turchi e moschee. Il mare è bellissimo, è un’ottima meta di vacanza. E non mi sono sentita in pericolo”. MSOI the Post • 23


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO DALLA SICCITÀ ALLA GUERRA L’acqua come diritto umano

Di Stella Spatafora Nella prima metà del VI secolo a.C. il filosofo Talete definì l’acqua come fonte originaria di tutte le cose. Oggi siamo di fronte a una grave crisi idrica in svariate zone del pianeta. Al di là di una semplicistica questione di protezione ambientale, la siccità apre le porte a una questione più profonda: l’inasprimento dell’instabilità economica e sociale con possibilità di conseguenti tracolli istituzionali e conflitti armati. “Non c’è pace senz’acqua” (Laith Shakir, 2015) è l’espressione che meglio rappresenta la gravità di ciò. Per anni l’acqua è stata utilizzata in maniera insostenibile: oggi facciamo i conti con conseguenze ambientali, umane e sociali, tra loro interconnesse. Le alterazioni climatiche giocano un importante ruolo nell’esacerbare crisi e conflitti latenti. Ad esempio, una riduzione di umidità del suolo,causerebbe perdita di terre coltivabili e dunque erosione delle aree rurali. Ciò intensificherebbe migrazioni dalle campagne alle città, mettendo a repentaglio le condizioni di vita nei centri urbani,inasprendo l’instabilità economica e istituzionale, attraverso l’aumento della disoccupazione che a sua volta faciliterebbe impieghi marginali,in casi estremi anche attività criminali.

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Una destabilizzazione sociale dunque, in cui risorse scarse aggravano disparità e ingiustizie rischiando di tracollare in veri e propri conflitti. Purtroppo, il passaggio da crisi idrica a umanitaria è alacremente diffuso: ne è esempio la questione Israelo-Palestinese in cui la disparità dell’accesso all’acqua inasprisce i negoziati. Un altro caso lo si trova in Nord Africa, dove già da tempi remoti vi sono controversie sulle acque del fiume Nilo che, nel caso in cui aumentassero i prelievi di acqua da paesi più vicini alle fonti,si rischierebbe di crollare in un conflitto poiché ciò ridurrebbe la quantità d’acqua altrove. E poi ancora, il Medio Oriente, già pesantemente dissestato, ritrova molte delle sue debolezze nella scarsità d’acqua:in Siria l’acqua è considerata una delle principali armi nel conflitto, attraverso intenzionali interruzioni di forniture d’acqua che forzano la gente a procurarsela altrove, rischiando la vita a cause delle temperature avverse o fatali coinvolgimenti in operazioni belliche. A riguardo, è bene ricordare che privare la popolazione di riserve d’acqua è un gesto contrario a disposizioni del diritto dei diritti umani, anche internazionalmente riconosciute. In particolare, il diritto internazionale umanitario prevede una

fondamentale protezione della popolazione civile nei teatri di guerra. Il Titolo IV del I Protocollo di Ginevra 1977 è, difatti, espressamente dedicato alla popolazione civile, affermando una Protezione generale contro gli effetti delle ostilità. L’acqua non è arma di distruzione, anzi necessita di riottenere il suo vero valore di bene comune da garantire a chiunque. Il 28 luglio 2010 l’Assemblea generale ONU (Risoluzione 64/292) ha raggiunto un traguardo epocale, dichiarando l’acqua un vero e proprio diritto umano. Si tratta di un atto di Soft Law, abbondante di critiche legate a possibili ripercussioni politiche, economiche e giuridiche. Tuttavia, le responsabilità degli stati “To fulfill”, “To respect”, “To protect” agirebbero in maniera tale da: evitare interferenze con il godimento del diritto all’acqua, impedire pregiudizi nei confronti di tale godimento e adottare le misure necessarie al godimento di questo diritto umano. È dunque una proiezione al futuro, carica di determinazione nello spingere la comunità internazionale a un contributo maggiore che parta dai bisogni primari, com’è l’acqua, in modo da “reidratare” e sanificare aree e contesti estremamente e pericolosamente aridi.


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