MSOI thePost Numero 75

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clément Mingozzi, Luca Imperatore, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso,Daniele Ruffino , Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Martina Unali, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA ESTONIAN PRESIDENCY OF THE EU COUNCIL The Country’s objectives and its achievements thus far

By Lola Ferrand Estonia took over the 6 month role of Presidency of the Council of the EU on July 1st 2017. Their Presidency’s slogan – “Unity through Balance” – sums up the most important task for the Estonian Presidency: to maintain Europe’s unity whilst ensuring that nobody feels left behind. Since the launch of the Estonian Presidency, the country has hosted 40 meetings of Ministers, Commissions, and experts, with a further 200 meetings hosted in Brussels. As usual the priorities follow the working plan of the European Council’s strategic agenda, but the Estonian Presidency also builds on the common goals formulated during the 60th anniversary of the Treaty of Rome. The Country’s field of expertise and objectives seem to be conveniently aligned with the Commission’s plans: indeed an open and innovative European economy, a safe and secure Europe, a digital Europe and the free movement of data, and an inclusive and sustainable Europe are important objectives for both Estonia and the Commission. The open and innovative econ-

omy priority addresses single market legislation. The aim is to create a simple environment that enables job creation and companies to grow and operate without unnecessary barriers. The European services e-card, the issue of regulated professions and the reform of EU company law are all important dossiers on the table. A quick pre-agreement has already been reached on the 2018 EU budget position and the EU-Japan trade and economic partnership was enhanced under this Presidency. A safe and secure Europe means acting together, preserving a united foreign policy and ensuring the safety of citizens, while also promoting peace, prosperity and stability on the global stage. The Estonian presidency priorities include contributing to the implementation of the “Security Union Package”, a mechanism designed to strengthen the fight against terrorism and organised crime, strengthen internal security as well as the protection of the EU’s external borders. Headway was given on the alleviation of the migration situation and an agreement

on the “Blue Card Directive”, legislation under which highly qualified workers from third Countries could be granted a living and working permit valid throughout the EU, was reached. The Estonian Presidency’s work programme places great emphasis on establishing a digital united Europe and the free movement of data, meaning that member states should keep up with technological advancements. Under the Estonian presidency telecommunications ministers of 28 EU member states and Norway signed a 5G declaration that will spark the development of super-fast Internet connections. A line of driverless shuttles was also opened in Tallinn, giving citizens the opportunity to experience the development of new technologies. In the area of sustainability the Estonian EU Presidency is focusing on climate change, the circular economy and eco innovation. Thus far the Presidency is focusing on measures to facilitate recycling, and the Presidency has also seen the EU environment ministers reaffirm their commitment to the Paris Agreement. MSOI the Post • 3


EUROPA QUASI AMICI

Il duello televisivo tra Angela Merkel e Martin Schulz

Di Daniele Reano Politica estera, ordine pubblico, migranti, pensioni, questioni sociali. Questi sono solo alcuni dei temi che sono stati toccati durante il dibattito televisivo di un’ora e mezza del 4 settembre da parte di Angela Merkel, attuale cancelliera della Germania e leader della coalizione di centrodestra composta dai CristianoDemocratici (CDU) e dall’Unione Cristiano-Sociale bavarese (CSU), e Martin Schulz, ex presidente del Parlamento Europeo e segretario del Partito Socialdemocratico (SPD). Un dibatto pacato, asciutto, privo di scontri veri e propri, dove entrambi i candidati hanno dimostrato di concordare su gran parte delle questioni fondamentali. Mentre Schulz ha posto l’accento sulle questioni sociali, dall’emergenza abitativa all’innalzamento dell’età pensionistica, Merkel si è dimostrata in grado di dare risposte più soddisfacenti alle domande su politica interna e di sicurezza. Il candidato socialdemocratico ha insistito sui problemi di occupazione precaria, e la Cancelliera conservatrice ha espresso soddisfazione per i risultati raggiunti durante i suoi 12 anni di premiership, promettendo

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più investimenti in caso di riconferma. Uno degli argomenti su cui Angela Merkel e Martin Schulz concordano è la fine dei negoziati per l’ingresso della Turchia nell’UE. Più interessanti le reazioni dei due sfidanti in merito al rapporto della Germania con gli Stati Uniti, in particolare con Donald Trump. La Merkel ha sottolineato quanto la distanza sia grande ma di come non sia possibile fare a meno di un alleato strategico nell’attuale scenario internazionale, mentre Schulz ha lasciato intendere che una sua eventuale vittoria porterebbe a un raffreddamento dei rapporti con il Presidente americano, intensificando le relazioni con Messico e Canada. Sulla questione “migranti”, Schulz, che conosce bene le dinamiche di Bruxelles, ha incalzato l’avversaria per non aver reso partecipe l’Unione Europea durante l’accoglienza di un milione di profughi nel 2015. Pur riconoscendo di aver commesso qualche errore, Merkel ha risposto che non si pente delle decisioni prese e ribadisce come in quel momento non ci fosse nessuna alternativa. A proposito dell’economia tedesca, che tutti gli indicatori segnalano come la più forte

dell’Eurozona, Schulz ha dichiarato: “La Germania è un Paese ricco ma ciò non vuol dire necessariamente che tutte le persone siano benestanti”, ponendo l’accento sull’esistenza di un milione di tedeschi disoccupati a cui è necessario offrire una risposta, esponendo la sua proposta di abolizione dell’Haarz IV, la riforma del lavoro fortemente voluta dal secondo governo Schröder e uno dei punti più controversi dell’Agenda 2010. La Cancelliera è passata al contrattacco, mettendo alle corde il candidato dell’SPD quando ha dichiarato la sua intenzione di non stringere alleanze né con l’estrema destra populista dell’Alternativa per la Germania (AFD) né con la sinistra radicale della Linke. Al contrario, il candidato dell’SPD non ha potuto escludere un governo rosso-verde-rosso con la Linke e i Verdi. I sondaggi post-dibattito hanno certificato la vittoria della Merkel. Difficile ipotizzare che Schulz sia in grado di recuperare il distacco,dimoltipuntipercentuali, e impedire che Mutti venga rieletta Cancelliera per la quarta volta alle elezioni politiche del Bundenstag, previste per il 24 settembre.


NORD AMERICA RELAZIONI INSTABILI

La furia dell’uragano Harvey non rallenta la lotta del Presidente Trump contro il NAFTA

Di Erica Ambroggio Proseguono senza sosta le attività di soccorso e di contenimento dei danni frutto della devastazione causata dall’uragano Harvey nel sud degli Stati Uniti. A partire da venerdì 25 agosto, infatti, la forza della natura ha messo in ginocchio la potenza americana provocando, secondo un bilancio provvisorio, più di 47 vittime e lasciando isolate ed inaccessibili moltissime delle zone colpite. Più di 32.000 persone sono state costrette a fuggire e ad abbandonare la propria dimora; diverse esplosioni si sono verificate presso lo stabilimento chimico Arkema, situato a nord-est della città di Houston, incrementando il terrore delle vittime e gettando il Paese nel caos. Di fronte all’emergenza, sono state innumerevoli le dimostrazioni di solidarietà e vicinanza provenienti da altri Paesi. Il Messico si è immediatamente reso disponibile offrendo aiuti e coordinamento ed anche Ottawa ha annunciato la propria partecipazione. Nel pomeriggio del 31 agosto, infatti, il leader

statunitense si è rivolto telefonicamente al premier canadese Justin Trudeau per porgergli i propri ringraziamenti. Seppure la telefonata tra i due fosse finalizzata a discutere delle delicate e preoccupanti condizioni di Texas e Louisiana, Trump ha colto l’occasione per rimarcare le sue intenzioni in merito al futuro del Nord American Free Trade Agreement (NAFTA). L’ex tycoon, come in moltissime altre occasioni, ha così potuto ricordare a Trudeau il suo desiderio di raggiungere un differente accordo entro la fine dell’anno. Il dialogo tra i due Capi di Governo è giunto, inoltre, alla vigilia dell’apertura, a Città del Messico, dei 5 giorni di colloqui finalizzati alla rinegoziazione dei termini dell’intesa, ai quali seguirà alla fine del mese un ulteriore incontro dal 23 al 27 settembre, nella città di Ottawa. “Il Canada, gli Stati Uniti e il Messico condividono l’obiettivo di raggiungere un accordo reciprocamente vantaggioso”, ha dichiarato Chrystia Freeland, Ministro degli Affari Esteri canadese, al termine delle giornate di negoziati.

L’obiettivo delle tre potenze, secondo quanto riportato dal Ministro Freeland, sarebbe mantenere in vita e migliorare quanto del NAFTA già funzioni. Tra le tematiche affrontante vi sono state quelle della proprietà intellettuale, degli appalti pubblici e il Non-immigrant NAFTA Professional Visa, questione di speciale rilievo per il Canada e per le società che inviano il proprio personale oltre confine. Oggetto di discussione è stato, inoltre, il cambiamento climatico, sul quale il Canada ha voluto mettere l’accento. A dispetto di tutto ciò, tuttavia, il presidente Trump, impegnato nella gestione dello stato di emergenza post-Harvey, ha ancora avanzato dichiarazioni critiche del NAFTA: “Siamo nel processo di rinegoziazione del Nafta (il peggiore accordo commerciale mai fatto) con Messico e Canada. Essendo entrambi molto difficili, forse bisogna mettervi fine?” L’esito dei negoziati, insomma, sembra essere ancora avvolto in una coltrice di contraddizioni e ostacoli e gli attori coinvolti, in sostanziale allerta, sono in attesa che questa si depositi. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA THE DONALD’S LIES

Quando i fakes sposano la Casa Bianca

Di Martina Santi ‘Trump è un bugiardo’. Senza troppi mezzi termini, è così che le pagine del NYT lo descrivono pubblicamente in una “umile lista” (con tanto di grafici e tabelle), che elenca meticolosamente tutte le menzogne finora diffuse dal Presidente americano. Nonostante i ripetuti attacchi alla stampa statunitense, accusata di diffondere fake news sul suo conto, è il presidente Trump ad aggiudicarsi la medaglia d’oro in questa competizione. I dati raccolti dal giornale newyorkese sono stati ordinati su un calendario, che mostra in rosso i giorni in cui Trump ha pubblicamente dichiarato il falso. Che si sia trattato di una mezza verità o di vere e proprie bugie, partendo dalla data del suo insediamento, si deve attendere fino al 1 marzo 2017 per trovare un giorno in cui il presidente non si sia abbandonato a uno spergiuro. Le bufale, così catalogate, appaiono come un manuale del bugiardo , che va dalle banali esagerazioni alle fandonie più spudorate: basti ricordare quando, lo scorso febbraio, Trump si inventò un 6 • MSOI the Post

attacco terroristico in Svezia, potendo così rivendicare le politiche isolazioniste da lui sostenute. Sfortunatamente per il Presidente, nessuna notizia da Stoccolma denunciava un simile attacco e la questione venne ironicamente commentata dall’ex primo ministro svedese, Carl Bildt, su Twitter: “Sweden? Terror attack? What has he been smoking? Questions abound.” Che il Presidente tenda, poi, a “gonfiare” le situazioni non è certo una sorpresa: il 16 febbraio 2017 sostenne che le passate elezioni presidenziali avessero registrato i maggiori consensi del collegio elettorale dai tempi di R. Reagan. Tuttavia, come il NYT si affrettò presto a dimostrare, risultati simili, se non migliori, sono attribuiti anche a George H.W. Bush, Bill Clinton e al vicino Barack Obama, tutti Presidenti con un largo margine di vittoria elettorale alle spalle. Per par condicio, le esagerazioni “trumpiane” sono spesso affiancate da immodeste moderatezze. Basti pensare alle cifre che il Tycoon approssimò sui viaggiatori americani che stavano vivendo forti disagi a seguito del decreto “Travel Ban”: 109 per l’esattezza, a

fronte dei 60.000 stimati dal New York Times. La retorica del Presidente non è stata dunque delle più limpide, così come non lo è tuttora la sua presidenza; ma quanto a lungo può durare questa commedia? L’America di Trump è davvero tanto assuefatta da non curarsi di ciò che sta veramente avvenendo alla Casa Bianca? Dati rassicuranti arrivano sempre dal NYT, che in un grafico mostra come sia calata la fiducia degli americani nel proprio Presidente e, di contro, come sia a aumentata la diffidenz (il 60% dichiara di non ritenerlo un Presidente onesto). La semplicità con cui le parole vengono affiancate l’una all’altra, dando forma all’ennesima menzogna, è forse indice di qualcosa di più temibile: come sia diventata “prassi”, per la politica, trasformare la realtà in “irrealtà”. “He (Trump) is trying to create an atmosphere in which reality is irrelevant”, per dirla con il New York Times. Citando Khaled Hosseini: “Quando dici una bugia, rubi il diritto di qualcuno alla verità”. Evidentemente, dietro al tycoon americano vi è proprio questo: la convinzione che le persone non abbiano diritto alla verità.


MEDIO ORIENTE RAQQA (QUASI) STRAPPATA AL DAESH DALLE SDF Ma quale futuro per la città?

Di Martina Scarnato Venerdì 1° settembre le forze democratiche siriane (Syrian Democratic Forces, SDF), composte da una coalizione arabo-curda sostenuta dagli Stati Uniti, hanno annunciato di aver strappato al sedicente Stato Islamico la città vecchia di Raqqa. L’assedio alla cosiddetta “capitale del Califfato” era cominciato il 6 giugno scorso. Secondo quanto riporta il Middle East Eye, le SDF avrebbero già conquistato il 60% della città, compresa una parte della provincia settentrionale circostante. Tuttavia, gli scontri continuano nel quartiere di Mansur, nella parte nord-occidentale della città. Inoltre, la situazione dal punto di vista umanitario è molto grave: secondo le stime dell’ONU vi sarebbero ancora 25.000 civili intrappolati nella città. L’Alto Commissariato dei Diritti dell’Uomo dell’ONU ha denunciato come, tra il 1° e il 29 agosto, la città sia stata bombardata più di 1.000 volte e come il Daesh abbia utilizzato i civili quali scudi umani durante gli scontri. Stando ad un rapporto delle Nazioni Unite, circa 200.000 persone sarebbero fuggite dalla città.

Molti sono stati poi ospitati nei campi per Internally Displaced People (IDP). Alla luce dei fatti, seppur la città non sia ancora caduta totalmente in mano alle SDF, ci si comincia a chiedere quale futuro avrà una volta libera. Non è ancora chiaro, infatti, chi la amministrerà garantendole i servizi di base. Inoltre, è ancora incerto quale sarà il rapporto di Raqqa con il regime di Bashar Al-Assad. Molto probabilmente, secondo il ricercatore dell’Institut de hautes études internationales et du développement (IHEID), Jordi Tejel, un ruolo di primo piano lo svolgeranno gli Stati Uniti, i quali dovranno decidere come spartire la zona in modo tale da ricompensare tutti, anche i curdi del PKK, per il servizio prestato contro le milizie del Califfato. Ciò potrebbe comunque essere un problema, dato che la città di Raqqa è oggigiorno costituita al 99% da arabi sunniti e che i curdi e i cristiani hanno dovuto abbandonare la zona. Le SDF avrebbero già provveduto nel mese di aprile alla creazione di un consiglio di amministrazione della città sul modello di quello istituito nella città di Manbij, attualmente

composto da capi tribù e dignitari locali. Tuttavia, mentre a Manbij il consiglio era nelle mani delle YPG curde, per Raqqa potrebbe essere diverso, dato che, come riporta il Syria Deeply, si vuole evitare che la coalizione curda ceda i territori e i villaggi conquistati alle forze governative di Bashar al-Assad per dissuadere le forze turche dall’attaccare. A supporto di ciò, Nasr Haji Mansour, consigliere delle SDF, ha escluso la possibilità di una collaborazione con il governo siriano. Mansour, infatti, ha affermato che il consiglio di Raqqa è stato pensato per “rappresentare tutti i gruppi [etnici e religiosi] a Raqqa, e non c’è spazio per il governo siriano nella città”. Tuttavia, sarà difficile per la città gestirsi da sé senza l’aiuto del governo, visto il sistema fortemente centralizzato dello Stato siriano. Infine, non bisogna dimenticare che, seppur sconfitto, il Daesh continuerà comunque ad esistere nella Regione, grazie al sostegno dei suoi simpatizzanti che sono rimasti nelle zone sottratte al suo potere. Il futuro di Raqqa quindi resta più che mai incerto. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE IL TRIANGOLO NUCLEARE

Washington, Vienna e Teheran mettono a rischio l’accordo del 2015

Di Samantha Scarpa “The worst deal ever negotiated”. Così il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha definito il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), accordo firmato nel 2015 dall’amministrazione Obama che prevede il ridimensionamento della produzione nucleare iraniana in cambio dell’annullamento di alcune sanzioni e dell’embargo sul petrolio del Paese. Oltre all’Iran e agli Stati Uniti, i firmatari dell’accordo sono gli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Germania e UE. Il JCPOA prevede l’IAEA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Energia Atomica, come organismo di controllo per il rispetto degli standard pattuiti. Al quartier generale dell’IAEA a Vienna Nikki Haley, ambasciatrice USA presso le Nazioni Unite, ha portato le sue rimostranze per la troppa indulgenza verso Teheran. In un’intervista per Reuters, Haley ha dichiarato: “In passato, molte azioni pericolose in Iran sono state portate avanti sotto copertura in siti militari, università e simili. […] Coloro che si occupano di sorvegliare

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l’attività nucleare iraniana tengono conto di questi fatti? Possiamo essere sicuri che i controlli siano attuati anche in queste aree?” La possibilità di entrare in siti militari, proposta più volte dagli USA, è stata sistematicamente bocciata sia dall’Agenzia sia dall’Iran. Il presidente iraniano Rouhani ha definito “un mero sogno” la possibilità che Washington – e l’intelligence israelo-statunitense – possa accedere ai siti militari iraniani. A seguito delle nuove sanzioni imposte dalla Casa Bianca e del tentativo di modifica e ritiro dal JCPOA dell’aprile 2017, l’Iran si è dichiarato pronto a tornare alla produzione originaria di materiale bellico nucleare. Intanto, le Nazioni Unite sottolineano come l’accordo sia particolarmente preciso circa le condizioni per un’investigazione in aree militari. Il JCPOA permette controlli a tappeto di tale genere solo in presenza di dati, argomentazioni e testimonianze, di cui la Casa Bianca è attualmente sprovvista. Alla stipulazione dell’accordo, l’Iran aveva accolto osservatori ONU nel sito militare più controverso per la produzione nucleare, quello di Parchin.

Da allora, tuttavia, non vi sono state ulteriori ricognizioni. “Se gli Stati Uniti vogliono ritirarsi dall’accordo, lo faranno”, ha dichiarato un portavoce dell’IAEA. “Noi non forniremo loro, tuttavia, un falso pretesto”. Il viaggio della Haley a Vienna e le pressioni statunitensi sempre più insistenti coincidono con il terzo report dell’Agenzia sulla produzione nucleare del Paese. Al 21 agosto 2017, lo stock iraniano di uranio arricchito risulta di 88,4 kg, ben inferiore alla soglia limite di 202,8 kg. Anche la quantità di acque pesanti, usate per alcuni reattori e contenenti plutonio, risulta essere di 111 tonnellate, sotto il limite di 130. Tale limite è stato leggermente sorpassato in varie occasioni, ma il Paese ha più volte ovviato all’inconveniente vendendone alcune decine di tonnellate all’Oman, uno degli acquirenti più interessati. Tale mossa, criticata da alcuni, è tuttavia tollerata dagli standard dell’Agenzia. Nonostante i dati siano irreprensibili, gli Stati Uniti si dicono pronti a dichiarare l’Iran “non-compliant” nel report trimestrale che il Congresso è tenuto a pubblicare sulla condizione degli altri stati firmatari.


RUSSIA E BALCANI SCIOGLIMENTO ARTICO

Gli effetti del cambiamento climatico: cargo russo compie passaggio storico nel Mare Artico

Di Daniele Baldo La Christophe de Margerie, una nave da carico russa costruita per attraversare le acque ghiacciate dell’Artico, ha completato un viaggio da Hammerfest, in Norvegia, a Boryeong, Corea del Sud, in soli 19 giorni, con una rotta più veloce del 30% rispetto a quella convenzionale attraverso il Canale di Suez. La nave, di proprietà della compagnia di Stato russa Sovcomflot, è stata la prima a completare la Northern Sea Route senza l’aiuto di imbarcazioni rompighiaccio specializzate. Tale successo arriva dopo una lunga attesa da parte del presidente Putin, il cui governo ha da tempo indicato di voler avvantaggiarsi politicamente ed economicamente dei cambiamenti climatici in corso nell’Artico. Da sempre i navigatori hanno cercato un passaggio a nord ovest navigabile, in modo da collegare l’Atlantico ed il Pacifico in maniera più rapida e breve attraverso il Polo Nord. Storicamente, però, lo spesso strato di ghiaccio ha reso impraticabile la rotta e solamente nell’ultimo secolo l’utilizzo di navi rompighiaccio ha reso possibile il viaggio nei mesi più caldi, in un arco di tempo dunque molto limitato.

Meno di 500 imbarcazioni hanno attraversato la rotta dalla sua apertura nel 1906, ma la Sovcomflot è convinta che questo viaggio diventerà presto routine, se le temperature nella zona artica continueranno a permetterlo. Un rapporto dello scorso anno, stilato dalla Copenhagen Business School, afferma in questo senso che il commercio trans-artico diverrà economicamente vantaggioso a partire dal 2040. Ad oggi, infatti, i costi restano molto alti per via delle elevate tariffe assicurative e delle spese per la sicurezza, motivo per il quale la rotta resta ancora chiusa alle imbarcazioni convenzionali. La Christophe de Margerie venne costruita per trarre vantaggio dal continuo scioglimento del ghiaccio artico, e per consegnare gas dal nuovo impianto da 27 milioni di dollari nella Penisola di Yamal, uno dei progetti energetici più grandi ed ambiziosi promossi dal Presidente russo. Nel suo viaggio inaugurale, la petroliera ha utilizzato unicamente la sua punta rompighiaccio per attraversare banchise aventi spessore fino a 2 metri, attraversando la sezione più a nord della rotta, nell’artico russo, nel tempo record di 6 giorni e mezzo.

La Christophe de Margerie, la prima di altre 15 imbarcazioni simili che verranno costruite, oltre che a velocizzare i tempi di viaggio estende la finestra di navigazione per la Northern Sea Route da 4 mesi all’intero anno, navigando verso ovest. Se dunque il 2013 è stato l’anno più intenso per la rotta artica con 15 transiti intercontinentali, il governo russo prevede una moltiplicazione dei trasporti di combustibili fossili da qui al 2020. L’auspicio di Mosca è quello di poter sfruttare a pieno ritmo il collegamento con il Pacifico, tramite una strategia che permetterebbe di ridurre il bisogno della Russia di vendere il proprio gas tramite i condotti che attraversano l’Europa. Questo incremento nell’accesso alla rotta artica ha portato con sé diverse tensioni politiche. Il Canada sostiene di avere competenza territoriale sulle acque dell’arcipelago artico, trovando l’opposizione degli Stati Uniti e altri paesi. La Groenlandia, regione autonoma danese, afferma di avere diritto ad un’immensa parte di costa, facente parte della propria piattaforma continentale che si estende per centinaia di chilometri al di sotto dell’Oceano Artico.

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RUSSIA E BALCANI LA GUERRA DELLE AMBASCIATE

La cooperazione tra Stati Uniti e Russia sembra essere in crisi. Sarà possibile trovare un punto di incontro?

Di Giulia Bazzano

Generale delle Nazioni Unite.

L’ultima crepa nei rapporti tra Stati Uniti e Russia è stata definita “guerra delle ambasciate”. Washington ha recentemente ordinato la chiusura di tre consolati russi. Questa decisione, tanto immediata quanto inaspettata, è in realtà una reazione alla precedente decisione di Putin di tagliare drasticamente il numero di impiegati nelle sedi diplomatiche americane in Russia. Mosca aveva infatti ordinato a Washington di richiamare in patria 755 membri del personale diplomatico statunitense. Un gioco a somma zero fatto di mosse e contromosse, in cui per ora non sembra esserci un vincitore.

Quali sono, a questo punto, gli obiettivi comuni tra queste due potenze? Le immagini di Trump e Putin mentre si stringevano la mano soddisfatti dopo un incontro, sembrano appartenere ad un’altra epoca. Il rapporto tra Russia e Stati Uniti si è trovato ad affrontare diverse discrepanze: divergenze sulla questione siriana ed ucraina, e soprattutto sul ruolo di Mosca nelle presidenziali americane di novembre. Quest’ultimo, in particolar modo, ha rappresentato una minaccia nei rapporti bilaterali tra le due potenze. Il Russiagate ha infatti innescato la spirale di provvedimenti e ritorsioni di cui ci ritroviamo a parlare oggi. Le due potenze devono risolvere al più presto le loro divergenze, in quanto sono ancora molti gli ambiti che necessitano della loro cooperazione: ad esempio, entrambe hanno firmato il New Start, un trattato sul nucleare in cui le potenze si impegnano a non dotarsi di un numero di testate nucleari superiori a 1550 entro il febbraio 2018. Inoltre, sono entrambe presenti nell’accordo sul nucleare iraniano. Un nuovo fronte di collaborazione è stato aperto solamente la scorsa settimana: è stata infatti creata in Kazakistan

La portavoce del Dipartimento di Stato, Heather Nauert, ha commentato la decisione presa dal governo statunitense parlando di una misura drastica, pur ammettendo che “questa azione sia ingiustificata e dannosa per la relazione globale tra i due Paesi”. Il rammarico è stato espresso anche dal ministro degli esteri Lavrov, che ha parlato di “dispiacere per l’escalation della tensione nelle relazioni bilaterali”. Lavrov cercherà di rappresentare gli interessi del Paese ad ottobre, durante l’Assemblea 10 • MSOI the Post

la prima banca mondiale per l’uranio a basso arricchimento, ed entrambe le potenze si sono impegnate a proteggerla. Dopo la decisione del senato americano (poi ratificata, seppur definendola incostituzionale, da Trump) di imporre sanzioni alla Russia, Putin aveva parlato di “isteria antirussa”. Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha sottolineato come questi continui “ricatti” portino con sé minacce per diversi Paesi e per “l’imprenditoria internazionale”. Un esempio su tutti è il Gasdotto della Gazprom Nordstream 1, che una volta completato dovrebbe fornire gas dalla Russia alla Germania. Se le sanzioni alla Russia venissero effettivamente applicate, anche un partner commerciale come Berlino si ritroverebbe danneggiato e coinvolto nella crescente tensione che stanno attraversando Mosca e Washington. Questa guerra diplomatica che viene portata avanti da un “principio di reciprocità”, così definito da Lavrov, alla lunga potrebbe risultare pericolosa poiché potrebbe portare a misure sempre più consistenti che minerebbero il precario equilibrio nei rapporti tra i due paesi.


ORIENTE LA GUERRA ALLA DROGA TORNA IN INDONESIA Jokowi si rifà a Duterte e legittima la violenza

Di Giusto Amedeo Boccheni A fine luglio, a ridosso del sequestro di un imponente carico di metanfetamine dirette a Taiwan, il presidente indonesiano Joko “Jokowi” Widodo ha sollecitato le forze armate a sparare senza esitazioni ai narcotrafficanti stranieri che tentassero di entrare nel Paese “qualora opponessero un po’ di resistenza”. “Sparategli!” ha detto, “Non abbiate pietà”. Un recente studio condotto dall’Università di Melbourne indica che la polizia indonesiana avrebbe ucciso circa 49 sospetti spacciatori nei primi sei mesi del 2017, con un considerevole aumento rispetto ai 10 e ai 14 di 2015 e 2016. Sebbene per questo tipo di crimine il 98,3% degli arrestati sia di nazionalità indonesiana, almeno il 16% delle vittime riportate sarebbero state straniere. In più di un terzo dei casi, peraltro, le uccisioni sarebbero avvenute ben dopo l’arresto, durante il trasporto del sospetto presso un terzo luogo per la ricerca di complici, narcotici ed armi. I verbali quasi sempre riportano un tentativo di fuga all’origine delle fatalità, anche se il regolamento della polizia indonesiana esclude che si possano impiegare armi da fuoco contro

i sospetti – se non come ultima risorsa per proteggere la vita o l’incolumità di agenti o terzi. Il 9 agosto, il capo della polizia di Jakarta si è espresso con parole che riecheggiano quelle del presidente filippino Rodrigo Duterte, che ha fatto della guerra alla droga per vie non convenzionali ed estranee allo stato di diritto la sua bandiera. Ha infatti affermato che la priorità – prima dell’arresto e della persecuzione per vie legali degli spacciatori – dovrebbe essere”mandarli al creatore” e che si sarebbe fatto carico lui stesso della responsabilità per i suoi subordinati, qualora avessero sparato ai narcotrafficanti durante una retata. Secondo Widodo c’è un’emergenza narcotici in Indonesia, con 5 milioni di consumatori ed un 27% di “consumatori attivi” – termine usato per distinguere chi regolarmente si procura le sostanze da chi invece ne fa uso sporadico e occasionale. Già nel 2015, tra simili retoriche, Widodo aveva promosso un forte incremento delle esecuzioni capitali per crimini legati alla droga, come forma di deterrente. In realtà, nei mesi successivi alle esecuzioni, c’era stato un aumento nell’incidenza del

narcotraffic , delle misure o coercitive adottate dalla polizia e del sovraffollamento delle carceri. I fruitori di narcotici erano stati allontanati dai centri di recupero, per evitare di essere scoperti dal governo, che domandava alle strutture sanitarie il rilascio dei dati sensibili. Il prezzo delle droghe era cresciuto, portando gli utenti a optare per prodotti più scadenti, con maggior rischio di overdose. Al di là degli sforzi del 2015, stando ai dati delle Nazioni Unite la percentuale di consumatori di stupefacenti tra la popolazione indonesiana è stabile dai primi del 2000 e si attesta a livelli simili a quelli di Vietnam e Myanmar, molto al di sotto di Stati Uniti e Europa. La guerra alla droga ripaga però in termini populisti. Lo sprezzo per i diritti umani importati dall’Occidente aveva attribuito nel 2015 a Jokowi il ruolo di paladino della sovranità nazionale. Il ritorno a retoriche violente è un segno di debolezza politica di Widodo, che si dimostra incapace di risollevare il dibattito politico indonesiano – già sprofondato, tra accuse di discriminazioni razziali e religiose, nel corso delle scorse elezioni per il Governatore di Giacarta.

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ORIENTE QUEL MYANMAR CHE NON CONOSCE TREGUA

Ancora diritti violati nel Paese; a rischio anche la libertà di stampa

Di Carolina Quaranta Era lo scorso 25 agosto quando un gruppo di militanti Rohingya, la minoranza musulmana concentrata prevalente nella regione birmana del Rakhine, è insorto contro l’esercito che da mesi controlla e opprime il gruppo etnico. Gli scontri sono avvenuti principalmente nei dintorni di Rathedaung, municipalità in cui negli ultimi tempi il governo birmano ha rafforzato la presenza dell’esercito e aumentato le centrali del controllo governativo. La misura è stata intrapresa in seguito a una serie di omicidi, avvenuti di recente nella zona, e a una massiccia fuga verso il confine con il Bangladesh. Si è trattato di un attacco premeditato: nella mattinata di venerdì 25 gli insorti hanno colpito una ventina di punti di guardia, utilizzando armi quali pistole ed esplosivi di fortuna. Secondo le autorità, durante la prima giornata di scontri avrebbero perso la vita 12 ufficiali di sicurezza e 59 militanti Rohingya. Da allora, le tensioni non si sono ancora fermate. In una settimana di scontri tra la resistenza birmana e la controffensiva governativa hanno perso la vita oltre 400 persone, in quella che è stata 12 • MSOI the Post

definita la più violenta mossa repressiva da parte dell’esercito da quando la zona del Rakhine è sotto la sorveglianza governativa. Formalmente si tratta di una situazione che prosegue da circa un anno; nonostante l’etnia Rohingya abbia sempre ripudiato la violenza, è emerso di recente un gruppo di attivisti, l’ARSA. L’Arakan Rohingya Salvation Army si pone a capo di un movimento insurrezionalista volto a liberare la minoranza musulmana dall’oppressione birmana. Il governo, a sua volta, etichetta gli attivisti definendoli un gruppo di stampo jihadista che al momento avrebbe la sua base tra le montagne appena oltre il confine con il Bangladesh. La versione delle forze governative è che i Rohingya stiano dando fuoco alle proprie abitazioni, così che l’intervento dell’esercito sarebbe volto a limitare i danni causati da questi gruppi definiti terroristici. Attualmente il Myanmar ha bloccato qualsiasi aiuto umanitario da parte delle Nazioni Unite ai civili, coinvolti loro malgrado nei sanguinosi scontri che proseguono nel Rakhine. Le Nazioni Unite hanno dichiarato che gli interventi sono stati sospesi perché “la situazione

attuale della sicurezza e le restrizioni all’ingresso nella zona, imposte dal governo, ci rendono impossibile portare assistenza”. La situazione è aggravata dai limiti imposti alla libertà di stampa in relazione ai fatti avvenuti nella regione. L’ingresso nella zona è proibito ai giornalisti e le informazioni di cui si dispone provengono da immagini e da frammenti di video girati da alcuni attivisti che si trovano sul luogo e che li trasmettono principalmente tramite smartphone. L’organizzazione newyorkese Human Rights Watch ha inoltre diffuso delle immagini satellitari che mostrano diversi incendi nella parte settentrionale dello stato del Rakhine, e che costituiscono una delle pochissime fonti di informazione disponibili. “Questi dati provenienti dai satelliti dovrebbero smuovere le agenzie delle Nazioni Unite, affinché sollecitino le autorità birmane a rivelare le reali condizioni degli scontri nello stato del Rakhine” ha dichiarato Phil Robertson, direttore della divisione Asia di Human Rights Watch. “Scaricare tutte le responsabilità sugli insorti – ha aggiunto – non solleva il governo dai suoi compiti di mantenere l’ordine e investigare sulle violenze perpetrate”.


AFRICA L’ESITO IRREGOLARE DELLE PRESIDENZIALI IN KENYA La Corte Suprema di Nairobi annulla l’elezione di Kenyatta

Di Francesca Schellino Per la prima volta nella storia del continente africano l’esito di un’elezione politica viene annullato per brogli e irregolarità. Dopo le presidenziali keniane dell’8 agosto, la Corte Suprema ha accettato un ricorso da parte delle opposizioni; così, il Kenya è diventato un modello per molti partiti d’opposizione africani. Il presidente uscente Uhuru Kenyatta era stato rieletto ad agosto con il 54,31% dei voti, mentre il suo sfidante Raila Odinga aveva ottenuto il 44,81% delle preferenze. Nel precedente confronto fra i due leader, vinto da Kenyatta, Odinga aveva fatto ricorso, ma solo per vederlo immediatamente respinto. L’esito è stato diverso, per queste elezioni, che si dovranno quindi ripetere entro 60 giorni. L’8 agosto non si è votato solo per il Presidente, ma anche per i membri delle due camere del Parlamento e per quelli dei governi locali. Dopo la comunicazione dei risultati degli scrutini, Odinga, a capo dell’opposizione, aveva accusato il governo di aver

modificato i risultati elettorali attraverso la manipolazione del sistema informatico usato per raccogliere i voti. Non sono mancati violenti scontri tra i sostenitori dei due candidati, in diverse città keniane, al netto dei quali 20 sono le vittime accertate. Il presidente della Commissione elettorale del Kenya, Wafula Chebukati, ha confermato che durante le votazioni c’è stato un tentativo di attacco al sistema elettorale, aggiungendo però che lo stesso non ha avuto successo. La comunità internazionale ha fatto sentire la propria voce tramite una delegazione composta da 24 diplomatici, fra cui gli ambasciatori britannico, americano e francese, i quali hanno dichiarato che, nonostante il processo elettorale dello Stato africano possa essere migliorato, non verrà a mancare il sostegno per il Kenya in questo importante lavoro di trasparenza e giustizia. Secondo quanto proclamato dal presidente della Corte suprema, David Maraga, la commissione elettorale “ha ignorato e mancato” di organizzare la condotta del voto “secondo la

Costituzione”. Odinga ha accolto la decisione della Corte Suprema come un segnale positivo e importante per il raggiungimento di una democrazia sempre più limpida, non solo per il Kenya ma per l’intero continente africano, definendolo un risultato storico. Il Presidente uscente, invece, ha dichiarato di rispettare la decisione della Corte suprema di Nairobi, pur non condividendola. In un discorso alla nazione, Kenyatta ha detto di essere pronto a un nuovo voto, sottolineando che la volontà dei kenioti non può essere cambiata dalla decisione della Corte Suprema. La commissione elettorale ha fissato le prossime elezioni per il 17 ottobre, ma il leader dell’opposizione ha ribattuto di non voler partecipare, se non a certe condizioni. Odinga ha avanzato obiezioni, sostenendo che la data sia stata scelta unilateralmente, evidenziando infine l’esigenza di un’inchiesta interna alla commissione, per verificare le responsabilità dei singoli membri e stabilire di conseguenza un cambio d’organico. MSOI the Post • 13


AFRICA CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE Il risultato già scritto delle elezioni in Angola

Di Francesco Tosco L’Angola alle urne ha confermato la fiducia al partito di governo, il Movimento di liberazione dell’Angola, con il 61,1% dei voti. Il nuovo presidente è Joao Lourenço, ex Ministro della Difesa e braccio destro dell’uscente Josè Eduardo dos Santos. Quest’ultimo è il secondo Capo di Stato più longevo dell’intero continente africano. L’ex Presidente, infatti, salì al potere alla morte del suo predecessore Nieto nel 1979. Da allora, elezione dopo elezione, ha continuato a governare fino al 25 agosto scorso. In 38 anni di governo, il Presidente uscente ha sfruttato le risorse dello stato, dirottando gran parte dei proventi nelle proprie mani o in quelle della sua cerchia ristretta di seguaci. La figlia, Isabel dos Santos, è considerata la donna più ricca dell’Africa e, dal 2016, è a capo di Sonangol, la compagnia responsabile delle risorse petrolifere del Paese. Il figlio di dos Santos, Filomeno, è invece alla guida del Fundo Soberano de Angola che controlla circa 5 miliardi di dollari. Quest’anno, a differenza dei suoi vicini in Ruanda, Congo e 14 • MSOI the Post

Zimbawe, dos Santos ha deciso di non modificare la Costituzione e di non ricandidarsi per l’ennesima volta. Voci di corridoio imputano questa scelta alle sue precarie condizioni di salute. Nonostante non si sia candidato, come già si poteva presumere, il potere resterà nelle sue mani, dopo l’elezione del suo delfino, Lourenço. L’Angola fino a qualche anno fa era considerata uno dei Paesi africani più promettenti, infatti ancora oggi costituisce uno dei maggiori esportatori mondiali di petrolio, dopo la Nigeria. Sebbene la ricchezza prodotta dal mercato petrolifero non sia mai stata realmente ridistribuita, lo sviluppo dell’economia angolana è stato notevole, almeno fino al crollo del prezzo del greggio degli ultimi anni. Con un sistema basato in gran parte, se non esclusivamente, sull’estrazione del combustibile fossile, l’abbassamento da 51 a 37 dollari al barile ed il successivo crollo della domanda di mercato hanno portato l’inflazione a salire fino al 40%, nel 2016. Il primo punto del programma del neo-eletto presidente Joao Lourenço consiste nell’approvazione di un progetto di diversificazione economica che investa nei settori

dell’agricoltura, della pesca e della salute. Inoltre, il nuovo esecutivo dovrà andare incontro alle sempre più frequenti rispetto dei richieste di diritti umani che arrivano dal basso, cioè dalla classe media, composta principalmente da giovani, che inizia a far pesare la propria voce. La speranza – purtroppo poco realistica – è che il nuovo governo porti, in qualche misura, ad una cesura con il passato, dando maggior ascolto all’opposizione e ponendo fine al dispotismo dell’ex Presidente. Dos Santos, infatti, ha sempre avuto il controllo assoluto sui media, i quali, anche in occasione di queste ultime elezioni, non hanno fatto che elogiare e supportare la candidatura di Lourenço. In passato è stata approvata una legge che permetteva di controllare le linee editoriali e di punire chiunque parlasse di corruzione all’interno del governo. Oggi il Paese versa in una condizione di grave recessione e le sfide che il nuovo esecutivo dovrà portare avanti sono molte, così come le promesse fatte in campagna elettorale.


SUD AMERICA LA GUERRIGLIA AL TEMPO DEGLI ACCORDI DI PACE

Dopo la svolta politica delle FARC la Colombia guarda all’Esercito di Liberazione Nazionale

Di Daniele Pennavaria Il passaggio alla politica delle FARC, le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia ora costituitesi nel partito Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, ha suscitato reazioni contrastanti sia nei colombiani sia negli altri Paesi della regione. Il partito è stato presentato il 1° settembre con un nuovo simbolo e un nuovo nome (ma lo stesso acronimo), irrigidendo le posizioni sorte durante il processo di pace che vedono divisi i sostenitori della trasformazione e i detrattori, che la considerano una mossa di trasformismo per sfuggire alle condanne. La lotta armata in Colombia vede oggi come indiscusso protagonista l’Esercito di Liberazione Nazionale. L’ELN, d’ideologia marxista-leninista e ispirato dalla rivoluzione cubana del 1959, è stato fondato nel 1964 ed è sempre rimasto diviso dalle FARC, anche a causa delle posizioni religiose del primo. I due gruppi armati hanno avuto un percorso parallelo, ma all’espansione delle FARC non è corrisposto un ingrossamento delle file dell’ELN, che finora era infatti rimasto in secondo piano.

L’obiettivo del Governo, attualmente, è invece un accordo di pace con l’Esercito di Liberazione Nazionale, la cui minaccia è cresciuta notevolmente. Le trattative dovrebbero concludersi prima delle elezioni presidenziali di maggio 2018. Al Partito Liberale Colombiano (PLC) del presidente Santos questa pacificazione potrebbe portare ulteriori consensi, sempre a patto di evitare le misure controverse che nell’accordo con le FARC hanno spaccato l’opinione pubblica e alimentato le proteste dell’opposizione. Ci sono, tuttavia, dei passi decisivi che devono essere fatti prima di poter parlare di pace. La struttura dell’Esercito di Liberazione Nazionale, la cui gerarchia non è chiara, in passato ha complicato le negoziazioni e potrebbe farlo ancora. Inoltre, si deve tenere in conto che i negoziati svolti nel 2002 e nel 2007 si erano conclusi senza risultati e che, in più di un’occasione, l’ELN non aveva rispettato la promessa di fermare i rapimenti e gli attacchi alle infrastrutture. Non tutti gli incontri, però, sono risultati infruttuosi: lo scorso febbraio, parallelamente al processo di pacificazione con le FARC, s’è ripreso anche il dialogo con l’ELN, ove i portavo-

ce si sono dimostrati aperti ad avviare una normalizzazione, a patto che fosse coinvolta anche la società civile. Grazie alla mediazione dell’Ecuador, lo scorso 4 settembre i rappresentanti dell’ELN e del governo colombiano hanno firmato a Quito un cessate il fuoco bilaterale, che durerà dal 1° di ottobre al 12 gennaio. A ciò ha contribuito anche l’imminente visita del Papa, iniziata lo scorso mercoledì 6 settembre e che si concluderà il prossimo lunedì 11 settembre. Molti confidano che l’influenza di Francesco I possa consolidare il lavoro diplomatico svolto finora, ma per il momento per il Pontefice non sono previsti incontri dedicati esclusivamente alla mediazione coi guerriglieri. Tuttavia, essendo una delle tematiche più dibattute nel Paese, è possibile che durante la visita il processo di pace e i suoi sviluppi verranno discussi. A prescindere da tutto ciò, resta il fatto che, oltre ad influire sui risultati delle presidenziali di maggio, dal rispetto del cessate il fuoco dei prossimi mesi e dallo sviluppo dei negoziati, potrebbe dipendere l’intero processo di integrazione in società dei guerriglieri.

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SUD AMERICA DOV’È SANTIAGO MALDONADO?

La scomparsa dell’argentino risveglia i fantasmi della dittatura

Di Elisa Zamuner A un mese dalla scomparsa di Santiago Maldonado, ventottenne argentino, circa 250.000 persone si sono riunite in Plaza de Mayo, a Buenos Aires, per chiedere al Governo delle risposte. Santiago, impegnato nella lotta ai diritti civili, è stato avvistato per l’ultima volta a Cushamen, nella provincia di Chubut, in Patagonia, mentre protestava con un gruppo di Mapuche per chiedere la liberazione di Facundo Jones Huala, leader del Mapuche Ancestral Resistance (RAM), gruppo che rivendica il diritto di riappropriarsi delle terre indigene di proprietà del Benetton Group. La Gendarmeria, polizia federale argentina, era intervenuta per disperdere gli attivisti, e i testimoni sostengono che Maldonado sia stato trattenuto e che non sia più ricomparso. Gli agenti hanno subito negato ogni coinvolgimento nella vicenda, ma le perplessità intorno al caso non sono poche, soprattutto considerando che le forze dell’ordine argentine sono state spesso criticate per l’utilizzo di metodi violenti. Secondo il Coordinamento contro la repressione Poliziesca

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e Istituzionale argentina, infatti, dalla fine della dittatura militare (1978-1983) a oggi, sono ben 210 i casi in cui le polizie locali o la Gendarmeria sono sospettate di essere coinvolte nella scomparsa di una persona. Dov’è Santiago Maldonado? A questo interrogativo deve rispondere urgentemente il presidente Macri, perché la scomparsa di Maldonado ha riportato alla luce i fantasmi della dittatura argentina: i desaparecidos. L’attivista rischia di diventare il primo desaparecido dell’era Macri, risvegliando ancora una volta nel popolo argentino la paura e il ricordo delle violenze perpetrate durante la dittatura, una delle più sanguinose dell’America Latina. Non stupisce, quindi, che la notizia abbia avuto un’eco così forte da far sorgere un movimento per chiedere di far luce sulla vicenda, riunendo persone di ogni estrazione sociale in massicce manifestazioni e campagne social. Il Governo ha difeso la versione della polizia, ma ha anche offerto circa 30.000 dollari a chiunque sia in possesso di informazioni di rilevanti sul ventottenne. Una delle tesi più sostenute è che Maldonado non fosse nemmeno presente alla protesta e che

sia stato ferito durante un assalto dei Mapuche circa 10 giorni prima; ma le teorie sugli avvenimenti di quel giorno e quelli precedenti rimangono molte, confuse e in contraddizione tra loro. Il 30 agosto il capo di Gabinetto Marcos Peña ha dichiarato che non ci sono indizi per parlare di “una scomparsa forzata” e che “tutte le ipotesi sono ancora aperte”. L’opposizione si è prontamente schierata contro il Governo, cavalcando l’onda di indignazione che ha coinvolto il Paese. L’ex-presidente e leader Cristina Fernández de Kirchner ha più volte parlato della vicenda, invitando il presidente Macri ad andare a fondo alla questione, e su Twitter, ha recentemente postato “Santiago deve riapparire. E deve riapparire vivo”. L’intera situazione rischia di influire pesantemente sulle elezioni parlamentari previste per ottobre. Infatti, anche per questa ragione, la maggioranza politica sta cercando di smorzare i toni sulla sparizione nonostante abbia dichiarato di non voler lasciare nulla d’intentato nella ricerca di Santiago Maldonado.


ECONOMIA SOCIAL LENDING

Il prestito alternativo alla banca

di Ivana Pesic Risulta sempre più difficile ottenere prestiti dalle banche, ma i cittadini continuano ad averne bisogno e a tassi non da usura. Per questo motivo sono sempre più coloro che decidono di affidarsi a sistemi di finanziamento alternativi. Uno di questi è il social lending, noto anche come peer-to-peer lending o P2P lending. Si tratta di un prestito personale erogato da privati ad altri privati tramite il ricorso a piattaforme online che permettono di evitare l’intermediazione di banche e società finanziarie. Tali piattaforme specializzate non danno né ricevono credito, ma si limitano a garantire il funzionamento delle stesse, mettendo in contatto chi ha bisogno di un prestito con chi ha denaro e vuole investirlo in forme alternative di investimento. L’idea è nata in Inghilterra nel 2005, con un sito web chiamato Zopa, e sta riscuotendo sempre più successo, in particolar modo negli Stati Uniti, in Cina e in India. In Italia il sistema è giovane, ma il settore sta registrando un’importante crescita. Il meccanismo alla base è semplice. Il richiedente richiede un finanziamento. Qualora possieda i requisiti di merito creditizio definiti dalla

piattaforma, viene inserito nell’elenco di richieste. Il prestatore, invece, mette a disposizione un certo capitale, da cui trarrà profitto con i tassi d’interesse, e il quale verrà usato dalla piattaforma per finanziare i richiedenti. Nel momento in cui il richiedente riceve un numero di quote sufficiente a coprire il denaro richiesto, ottiene il prestito tramite bonifico bancario, e lo rimborserà tramite addebito diretto SEPA in modo automatico attraverso rate mensili, come con qualsiasi altro finanziamento. Il cuore del sistema è un sofisticato algoritmo, che gestisce un sistema di aste e determina i tassi di interesse. Il programma, che gira simultaneamente su un complesso di server, mette in relazione le caratteristiche di migliaia di profili - quelli di chi vuole prestare e quelli di chi cerca il prestito - individuando la combinazione perfetta. I vantaggi del social lending di cui possono beneficiare i richiedenti sono in primo luogo i tassi di interesse di gran lunga più competitivi rispetto a quelli bancari, la velocità nell’erogazione e la riduzione al minimo dei costi. Non mancano i benefici per i prestatori: buon rendimento,

suddivisione del capitale in quote per minimizzare i rischi, esclusione dall’elenco richieste di protestati e persone con precedenti di insolvenza, possibilità di scegliere i prestiti da finanziare o di lasciare tale compito alla piattaforma. Questi, inoltre, attivando la modalità di investimento automatico vedranno reinvestita la cassa disponibile, operazione che premette di ottimizzare l’investimento e di ottenere maggiori guadagni. Negli Stati Uniti, il principale operatore del settore, Lending Club, nel solo secondo trimestre, ha visto passare dal suo sito oltre 2 miliardi di dollari (+10% rispetto al primo). Il secondo operatore statunitense, Prosper, nello stesso periodo ha permesso prestiti per 775 milioni di dollari (+32%). In Cina, dove negli ultimi anni è cresciuto potentemente il fenomeno, sono presenti oltre 2500 piattaforme, dalle quali nel 2016 sono passati prestiti per 121 miliardi di dollari. Il fenomeno ha attirato l’attenzione, tanto che la Banca centrale cinese ha deciso sottoporre le piattaforme ad una serie di controlli ai quali finora non dovevano sottostare, inserendole nel suo periodico rapporto “macro-prudenziale” allo scopo di monitorarle più da vicino.

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ECONOMIA ACCORDO CINA-UE PER LA TUTELA DEI PRODOTTI ENOGASTRONOMICI

Continua la lotta alla contraffazione delle indicazioni geografiche di eccellenza

Di Francesca Maria De Matteis Sembra ormai definitiva la decisione di intraprendere, per vie legali, il processo di protezione e salvaguardia di alcuni dei più importanti marchi enogastronomici del nostro continente. L’accordo. Il 2 giugno scorso, a Bruxelles, l’Unione Europea e la Repubblica Popolare Cinese hanno siglato un’intesa per la pubblicazione e protezione di 200 indicazioni geografiche (100 per parte). È il punto di partenza di un accordo bilaterale da concludersi ufficialmente entro la fine del 2017. Dei 100 prodotti europei coinvolti, 26 sono esclusivamente di provenienza italiana. La selezione dei prodotti, operata dall’UE sulla base dei soli criteri del volume di mercato che ciascuno di essi ricopre in Cina e il livello di rischio di contraffazione a cui vanno incontro, lascia al di fuori dell’accordo ancora molti marchi. Ulteriori trattative sono in corso e mirano a coprire con la propria garanzia l’intero patrimonio enogastronomico europeo (si stanno considerando almeno altre 162 produzioni). Le radici dell’accordo risalgono al 2012, quando 20 IG, 10 europee (di cui 2 italiane, Grana

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Padano e Prosciutto di Parma) e altrettante cinesi, sono state riconosciute bilateralmente. Complicazioni. Questo processo, però, ha subito un rallentamento. Secondo la Grecia, Paese portavoce della trattativa, durante la seconda fase di negoziati dello scorso 27 luglio, la Cina si sarebbe rifiutata di intervenire contro i marchi contraffatti relativi alle indicazioni geografiche europee, che si è impegnata comunque a riconoscere. Tale rifiuto ha portato alla decisione di intraprendere una causa legale da parte dei Paesi direttamente coinvolti. Nuovo regolamento UE. Tutto ciò è possibile grazie al regolamento UE 608/2013, che ha sostituito, abrogandolo, il precedente numero 1383/2003. Approvato il 12 giugno 2013, esso prevede il blocco delle merci contraffatte, difendendo marchi, brevetti, design e denominazioni commerciali. Giustifica la richiesta di un intervento doganale sia tramite domanda unitaria, sia per iniziativa di una singola nazione dell’Unione. I paesi coinvolti. I diretti interessati all’interno dell’Unione sono, al momento,

otto, ai quali appartengono più di 25 marchi agroalimentari e immessi contraffatti sul mercato, nonostante l’Indicazione Geografica. Vini e alcolici, olii, aceto balsamico e feta sono i principali prodotti soggetti a falsificazioni e alterazioni. Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Germania, Ungheria e Romania stanno facendo fronte comune nel tentativo di arginare il fenomeno. I paesi di provenienza dei prodotti falsi sono asiatici: la Cina in testa, seguita da Vietnam e Pakistan per il commercio di sigarette, e da Singapore per quello di alcolici di ogni genere. Alcuni dati. Le Indicazioni Geografiche registrate nell’Unione Europea sono 3.300, per un valore di mercato di 54,3 miliardi di euro, corrispondenti circa al 15% delle esportazioni totali di alimenti e bevande. Già a giugno la Coldiretti aveva dimostrato il proprio sostegno all’accordo bilaterale UE-Cina. La principale associazione agricola italiana vede, infatti, nella difesa dei marchi DOC italiani un’occasione per incentivare le esportazioni dei nostri prodotti. Dall’altro lato, i nomi non comunitari, protetti con accordi bilaterali precedenti, sono 1250.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO UOVA AL FIPRONIL IN ITALIA E IN EUROPA Tracciabilità dei prodotti alimentari

di Chiara Montano Lo scandalo delle uova contaminate è iniziato nei Paesi Bassi il 2 agosto scorso e ha poi coinvolto altri Paesi, europei e non. Oltre all’Italia, gli Stati europei interessati sono: Belgio, Svezia, Francia, Gran Bretagna, Austria, Irlanda, Lussemburgo, Polonia, Romania, Slovenia, Slovacchia e Danimarca. Fra gli stabilimenti italiani coinvolti ci sono un laboratorio di pasta fresca a Roma, un allevamento in provincia di Ancona e altri due allevamenti avicoli in Umbria, ma si parla anche della città di Milano e della Campania. I controlli, però, non sono ancora terminati e il bilancio delle uova e dei prodotti derivati che sono stati contaminati potrebbe ulteriormente aggravarsi. A contaminare le uova sarebbe stato il Fipronil, un insetticida utilizzato principalmente per prevenire i pidocchi negli animali, vietato dall’Ue per i prodotti destinati al consumo umano. Le norme sulla sicurezza alimentare attualmente vigenti sono quelle stabilite dall’Ue. Quest’ultima, infatti ha sancito delle regole ben precise sulla

tracciabilità dei prodotti, in modo tale da essere in grado di tracciare il percorso degli alimenti lungo l’intera filiera produttiva nel caso in cui un prodotto risulti contaminato, ad esempio a causa di malattie che colpiscono gli animali o di intossicazioni alimentari. Le funzioni di tracciabilità sono svolte dal 2006 da TRACES (Trade Control and Expert System), che è una piattaforma informatica veterinaria che consente agli Stati membri di disporre dei dati riguardanti le importazioni di merci. TRACES, infatti, si occupa di segnalazioni, certificazioni e controllo delle importazioni, delle esportazioni e in generale degli scambi di animali e di prodotti di origine animale. L’Ue ha inoltre istituito un sistema di allarme rapido (RASFF), che consente di individuare gli alimenti non conformi alla normativa europea. Se un pericolo viene rilevato, l’allarme è diffuso in tutta l’Ue. Talvolta, è sufficiente bloccare un singolo lotto o tutte le partite di un determinato prodotto dell’azienda, della fabbrica o del porto d’ingresso, ma se necessario, i prodotti che si trovano nei negozi o nei depositi possono essere ri-

tirati, come nel caso delle uova contaminate. Una delle modalità con cui l’Ue incrementa la sicurezza alimentare è la chiarezza delle etichette. Grazie alle norme europee sull’etichettatura, infatti, i consumatori ricevono più informazioni precise e dettagliate. A questo proposito, da Coldiretti arriva l’intenzione di introdurre la certificazione “Fipronil free”, realizzata con l’avvio immediato di un campionamento a tappeto su tutti i capannoni di galline ovaiole, allo scopo di certificare l’assenza di contaminazioni dell’insetticida. In conclusione, lo scorso 30 agosto ha avuto luogo a Bruxelles la riunione del Comitato PAFF, nella Sezione che si occupa della sicurezza alimentare, durante la quale la Commissione europea ha chiesto agli Stati membri di raccogliere dati utili al monitoraggio delle ovaiole in allevamento, sulle uova e sulla carne. È stato, infine, richiamato l’obbligo per gli operatori del settore alimentare di adottare misure idonee a garantire la sicurezza dei prodotti immessi sul mercato.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IN FIN DI VITA

L’etica nella Corte europea dei diritti dell’uomo Di Stella Spatafora Bioetica: si tratta di un termine che investe questioni che si inerpicano tra “morale e scienza” legate a diritti riproduttivi, procreazione medicalmente assistita, suicidio assistito, conservazione e donazione di materiale biologico a scopo di ricerca, ecc. Temi di carattere scientifico ma con implicazioni etiche, tra cui si crea un vero e proprio duello alla ricerca del logico e del giusto. La Corte europea dei diritti dell’uomo è spesso chiamata a esprimersi su queste tematiche, come se, tramite essa, si cercasse di garantire e bilanciare la tutela dei diritti umani, in linea con il rispetto dei principi democratici e delle libertà fondamentali. Tuttavia, le implicazioni etiche risultano ardue da maneggiare, tanto per l’assenza di precise disposizioni convenzionali, quanto in mancanza di una visione comune in materia, fra gli Stati parte. Le argomentazioni che la Corte offre sono spesso accompagnate da un ampio margine di apprezzamento legato al bisogno di maggiore consensus a livello europeo. Se consideriamo due questioni estreme ma parallele come l’inizio e la fine della vita, notiamo che sono difficili da interpretare per ideali e opinioni diversi. Due recenti casi: Parrillo c. Italia (2015) e Charlie Gard c. Regno Unito (2017), offrono riflessionial di là di un mero insegnamento morale. In entrambi i casi la Corte EDU

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si è rivelata essere ancora distante da una posizione concreta a fronte di questioni etiche. Nel caso Parrillo, la Corte, con sentenza del 27 agosto 2015, non ha rilevato una palese incompatibilità con l’art. 13 della legge 40/2004, che sancisce per l’Italia il divieto di donare embrioni alla ricerca scientifica, ritenendolo dunque conciliabile con gli articoli 8 CEDU e 1 Protocollo 1. In tal senso, ha rigettato il ricorso della ricorrente, che, dopo la morte del compagno, aveva deciso di non procedere all’impianto di embrioni sottoposti precedentemente a crioconservazione, ma di donarli alla scienza. La Corte ha manifestato un atteggiamento passivo approvando il divieto previsto dalla legge italiana. L’ampio margine di apprezzamento riconosciuto a livello statale sembra coincidere con la volontà di mantenere una posizione limitata sulla sensibile questione dello status di embrione. Infatti, seppur esprimendo la necessità di non poter considerare l’embrione un mero “bene”, si è di fatto limitata la portata dell’art. 8, evitando di pronunciarsi su“quando la vita abbia inizio”. In merito alla questione relativa alla fine della vita, nel caso Charlie Gard c. Regno Unito, la Corte EDU ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dai genitori di un neonato affetto dall’incurabile sindrome da deplezione del DNA mitocondriale. Qui pare nuova-

mente sussistere una forma di assenso da parte della Corte di Strasburgo nei confronti dei tribunali inglesi, espressi nei tre gradi di giudizio a favore dell’interruzione di cure mediche che mantenevano in vita il neonato. L’atteggiamento della Corte ha concesso nuovamente ampio margine di manovra a livello nazionale nella “sfera dell’accesso alle cure sperimentali per malati terminali e nei casi che sollevano delicate questioni morali ed etiche”, rilevando la priorità delle autorità statali nel sancire i “best interests of the child”, dunque una non violazione, in particolare, degli artt. 2 e 8 CEDU. Ancora una volta non c’è stata effettiva posizione sulla delicata questione della vita. La Corte sembra attestare un’insicurezza di fondo nel gestire situazioni che manifestano una pluralità di visioni. Evince come un potenziale e prezioso strumento di salvaguardia dei diritti umani sia ancora incerto nel posizionarsi in maniera netta in mancanza di consensus, ampliando discrezionalità e libertà di scelta agli Stati. Quella stessa libertà, però, che per essere tale dovrebbe vestirsi di una risolutezza meno ingenua. Forse è un terreno ancora troppo fresco e sgretolabile per poter essere trattato senza remore. Gli sviluppi futuri saranno, forse, di grande aiuto alla comprensione della materia.


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