MSOI thePost Numero 76

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clément Mingozzi, Luca Imperatore, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA DISCORSO SULLO STATO DELL’UNIONE 2017 L’annuale discorso del Presidente della Commissione Europea

Di Claudia Cantone Ogni anno, nel mese di settembre, il Presidente della Commissione Europea pronuncia dinanzi al Parlamento Europeo il discorso sullo stato dell’Unione, introdotto dal Trattato di Lisbona e previsto nell’Accordo quadro sui rapporti tra Parlamento europeo e Commissione europea (2010/2118 - ACI), stabilendo, al punto 11, che “il presidente della Commissione intrattiene un dialogo regolare con il presidente del Parlamento sulle grandi questioni orizzontali e sulle principali proposte legislative [...]”. Nel discorso di quest’anno, intitolato “Il vento nelle vele”, il presidente Jean-Claude Juncker ha illustrato le 5 priorità per l’Europa del 2018. In primo luogo, il rafforzamento dell’agenda commerciale, in maniera da favorire la conclusione di accordi commerciali, tra cui quelli con l’Australia e la Nuova Zelanda, In seconda battuta, un maggiore supporto all’industria, settore chiave per l’economia, che va aiutata con l’obiettivo di “rimanere o diventare leader mondiali dell’innovazione, della digitalizzazione e della decarbonizzazione”.

Il terzo punto del discorso è stato dedicato alla lotta contro i cambiamenti climatici: dopo l’Accordo di Parigi e il passo indietro degli Stati Uniti, sarà compito dell’Unione porsi alla guida di questa nuova sfida, e nei prossimi mesi la Commissione s’impegnerà a presentare proposte per ridurre le emissioni di carbonio nel settore dei trasporti. Al quarto posto la cybersicurezza: nell’era digitale la grande minaccia sono i cyberattacchi, che “possono essere più pericolosi delle armi e dei carri armati”. Per questo motivo sarà necessario attivare nuovi strumenti di prevenzione, come un’agenzia europea per la cybersicurezza. Infine, la questione immigrazione: Juncker ha ricordato i progressi nella protezione delle frontiere esterne, nella riduzione dei flussi irregolari e delle morti in mare, complimentandosi con l’Italia per il ruolo cruciale che sta svolgendo ed esprimendo, al contempo, preoccupazione per le condizioni disumane dei centri di detenzione in Libia e per gli ancora troppo frequenti naufragi. La Commissione proporrà, per il prossimo anno, di lavorare su tre fronti: le procedure di rimpatrio

(effettive solo per il 36% dei migranti irregolari), solidarietà e finanziamenti all’Africa, e promozione della migrazione legale nel continente europeo, agevolando l’ingresso di migranti qualificati grazie alla Carta blu. Da segnalare anche l’intenzione di estendere lo spazio Schengen di libera circolazione a Bulgaria e Romania, e rendere la Croazia membro Schengen a pieno titolo. Juncker, infine, ha escluso l’adesione della Turchia all’UE durante il mandato di questa Commissione. Nelle sue conclusioni, il presidente della Commissione ha ricordato quali siano i valori cui l’Europa s’ispira, le basi per costruire “un’Unione più unita, più forte e più democratica”: la libertà, l’uguaglianza, da applicarsi in ambito economico, al mondo del lavoro (“chi fa lo stesso lavoro nello stesso posto ha diritto alla stessa paga”), e tra i consumatori e lo Stato di diritto, ovvero legge e giustizia esercitate da una magistratura indipendente e, soprattutto, rispetto delle sentenze definitive e del ruolo della Corte di Giustizia UE. MSOI the Post • 3


EUROPA ELEZIONI GERMANIA: DI NUOVO UNA GRANDE COALIZIONE? SPD di Schulz a picco nei sondaggi, AfD verso il terzo posto.

Di Giuliana Cristauro Domenica 24 settembre si terranno le elezioni federali tedesche del 2017. L’appuntamento alle urne determinerà la composizione del ramo elettivo del Bundenstag, il Parlamento tedesco, che a sua volta eleggerà il nuovo Cancelliere. Evento politico molto importante, è atteso non soltanto dal popolo tedesco ma da tutta l’UE. La netta favorita sembra essere ancora una volta Angela Merkel, in carica dal 2005 e appoggiata dalla CDU/CSU (Unione CristianoDemocratica di Germania). Il suo principale sfidante è Martin Schulz, candidato del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) e presidente del Parlamento Europeo dal 2012 al 2014. Le precedenti elezioni, tenutesi nel 2013, avevano portato a una coalizione di larghe intese tra la CDU/CSU e la SPD. Essendo quello tedesco un sistema proporzionale puro, sarà interessante capire quali alleanze nasceranno da queste elezioni e se potrà parlarsi ancora una volta di Große Koalition (grande coalizione). Dai sondaggi emerge che la CDU 4 • MSOI the Post

potrebbe vincere per la quarta elezione di fila, avendo così un’alta probabilità di ottenere il maggior numero di seggi nel Bundenstag. La SPD guidata da Schulz è crollata al 20%, 17 punti dietro la CDU, e nei giorni scorsi Schulz ha posto le condizioni per una nuova collaborazione con Angela Merkel. Alcuni ritengono che si tratti di un modo per ottenere voti dai Verdi nel rush finale: molti tedeschi, infatti, potrebbero decidere di votare il partito ambientalista per evitare che nei prossimi 4 anni all’opposizione ci sia una grossa forza politica. L’AfD (Alternativa per la Germania), partito politico euroscettico e di estrema destra guidato da Alice Weidel e Alexander Gauland, nell’ultimo sondaggio firmato Yougov è al 12% e sembra galoppare verso il terzo posto. Per la prima volta nella storia del dopoguerra tedesco un partito a destra della CDU/ CSU potrebbe conquistare il Parlamento, godendo soprattutto del sostegno delle regioni dell’ex Germania dell’est. Il think tank inglese YouGov ha calcolato che l’AfD potrebbe incassare 85 seggi su 686. Molti dei candidati in corsa per l’AfD hanno più volte fatto parlare di sé a causa di dichiarazioni di

natura omofoba, xenofoba, anti-semita e anti-islamista. Da ultima quella del candidato Alexander Gauland, che durante un incontro con l’ala “voelkisch”, quella più radicale, ha rivendicato orgoglio per l’operato dei soldati tedeschi durante le due guerre mondiali. A seguire ci sarebbero l’FdP (Partito Democratico Libero) con il 9,5%, in lieve aumento di mezzo punto rispetto la settimana scorsa. In calo invece sia la Linke che i Verdi con il 7,5%. L’entusiasmo generato nei primi mesi del 2017 dalla novità “effetto Schulz” pare essere in gran parte svanito. La vittoria della quasi ormai “eterna” Mutti sembrerebbe il risultato più probabile, la soluzione di sempre, un riparo rassicurante di quasi 12 anni di governo. Da questo punto di vista, è impressione generale che il popolo tedesco voglia riconfermare un Paese sostanzialmente stabile nella conformazione del sistema partitico, rispetto altre grandi democrazie europee. Tuttavia, sotto questa apparente stabilità, si cela una Germania dagli umori contrastanti, come si evince dai sondaggi politici che delineano uno scenario mai visto prima.


NORD AMERICA CALIFORNIA APPROVES “SANCTUARY STATE” BILL

President Trump vows to crack down on jurisdictions that do not cooperate

By Kevin Ferri The history of sanctuary cities or states goes back thousands of years. These territories where often safe harbors where refugees could ask for asylum, hoping they were not going to be harassed by an oppressing faction of the population. In a more contemporary period, these territories aspire to limit their cooperation with the national government effort to enforce immigration law. Leaders of sanctuary cities want to reduce the fear of deportation and possible family break-up among people who are in the country illegally so that such people will be more willing to report crimes, use health and social services, and enroll their children in school. Municipal policies include prohibiting police or city employees from questioning people about their immigration status and refusing requests by federal immigration authorities to detain people beyond their release date, if they were jailed for breaking local law. On Saturday, California legislature passed a sanctuary state bill to protect immigrants without legal residency in the United States, part of a broader push by Democrats to counter expanded deportation orders

under the Trump administration. As expected, Republicans were not going to surrender without raising their voice. Thomas Homan, director of the United States immigration and customs enforcement warned of “tragic consequences,” saying the policy “will make California communities less safe.” Also, “By passing this bill, California politicians have chosen to prioritize politics over public safety. Disturbingly, the legislation serves to codify a dangerous policy that deliberately obstructs our country’s immigration laws and shelters serious criminal alien offenders.” By approving the so-called SB54 (Sanctuary Bill) the local Parliament, controlled by the Democrats, has strengthened its role as the biggest U.S. state being antagonist to president Trump and its administration after also challenging his Muslim ban and the exit from the Paris agreements on climate change. Californian sheriffs and federal authorities were immediately angered as this new bill represented for them a substantial decrease in their authority. However, governor Jerry Brown, possibly one of the democratic candidates for the 2020 U.S. presidential elections, wants

to sign the bill only after some changes are applied to it. For example, the cooperation with federal agents shall be considered mandatory if dealing with one of 800 serious entity crimes. For minor felonies and violations, the law shall require an overall protection of the illegal immigrant population. The local congress has also approved financial plans, legal assistance and college scholarships for illegal aliens and has made more difficult for entrepreneurs and government agencies to reveal the migratory status of people. “This law will prevent local police from becoming a gear in Trumps expulsion mechanism” said former Californian Senate president Kevin de Leon. Even though sheriffs and immigration officers remain solidly against the bill, the chiefs of police are slowly becoming in favor of the amendments as these keep an open window of cooperation with federal authorities. The vote also comes in a day after another legal downturn for Trumps policy against illegal immigrants: a federal judge in Chicago has temporarily suspended a measure with which the department of justice wants to stop funding sanctuary cities that are not willing to cooperate against illegal immigration.

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NORD AMERICA ALLA RICERCA DELLA VERITÀ

Il procuratore speciale Mueller mette in difficoltà l’amministrazione Trump.

Di Leonardo Veneziani L’inchiesta del procuratore speciale per le indagini sul Russiagate Robert S. Mueller III torna a fare notizia. Mercoledì 20 settembre, il New York Times ha reso pubblicamente nota la richiesta con cui Mueller ha chiesto alla Casa Bianca di ottenere materiale relativo ad alcune fra le più controverse decisioni prese da Trump. 4 dei 13 documenti che dovranno essere prodotti concernono il licenziamento di Michael Flynn, consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump dal 22 gennaio al 13 febbraio 2017. In base alle dichiarazioni ufficiali, Flynn sarebbe stato licenziato per aver mentito al vice presidente Mike Pence sul contenuto di una sua chiamata con l’allora ambasciatore russo negli Stati Uniti, Sergey Kislyak. Dalle indiscrezioni emerse, sembrerebbe che Mueller abbia anche domandato ulteriori dettagli circa la risposta, rilasciata dalla Casa Bianca al Times, su un incontro, organizzato da Donald Trump Jr. presso la Trump Tower, alla 6 • MSOI the Post

ipresenza di ufficiali russ , per ottenere informazioni riservate su Hillary Clinton. In particolare, alla domanda del Times, presentata in conferenza stampa, di vedere svelati i dettagli del meeting, il Presidente avrebbe dato un responso architettato ad arte, da lui stesso e dai membri della sua amministrazione, in cui sosteneva la ragione dell’incontro essere stata quella di discutere di adozione di bambini russi. Per tale motivo, Mueller ha chiesto gli venissero trasmesse anche tutte le comunicazioni interne della Casa Bianca rilevanti. Sulla scrivania del procuratore speciale arriverà anche la documentazione di lavoro di Paul J. Manafort, ex direttore della campagna elettorale di Trump, nonché su alcuni membri che compongono il team del Presidente per la politica estera: Carter Page, J. D. Gordon, Keith Kellogg, George Papadopoulos, Walid Phares e Joseph E. Schmitz. Di estrema rilevanza è anche il dossier sul licenziamento dell’ex capo dell’FBI James Comey. I relativi file dovrebbero coprire

Di nuovo.

tutto il processo che ha portato al suo allontanamento, inclusi gli incontri che l’ex direttore dell’FBI ha avuto con Trump, di cui ha peraltro reso conto alla Commissione Intelligence del Senato. Mueller sembra anche intenzionato ad ottenere le trascrizioni della conversazione fra Trump e il Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov avvenuta il giorno dopo che Comey è uscito di scena, nella quale sembra che Trump abbia riferito che aver mandato via Comey sia servito a liberarlo da una “grande pressione”. A tali richieste del procuratore speciale Mueller, la Casa Bianca ha risposto per voce del suo avvocato Ty Cobb. Il legale della White House ha affermato che l’amministrazione è totalmente dedita alla trasparenza del suo operato, ed ha annunciato che da questa settimana comincerà ad inviare tutti i documenti richiesti. La Casa Bianca non ha però commentato queste richieste, affermando che “non commenteremo queste richieste per rispetto verso l’Ufficio del Procuratore Generale e le sue indagini, alle quali coopereremo totalmente”.


MEDIO ORIENTE PROGETTI BOTTOM-UP E COOPERAZIONE PER RINASCERE L’iniziativa di Nicosia potrebbe essere la chiave per la stabilità della Libia

Di Lucky Dalena Che cosa sta succedendo in Libia? Le Nazioni Unite ne discutono, l’Europa la indica come priorità, l’Italia fa i conti con il fragile equilibrio di accordi per controllare la migrazione, in Libia sembra che tale equilibrio sia sul punto di rompersi. Da qualche giorno, infatti, a Sabratah - sulla costa libica, vicino al confine con la Tunisia - le forze del sedicente Stato Islamico si scontrano con il governo Serraj, riconosciuto dall’ONU. Un cessate il fuoco temporaneo permetterà alla Croce Rossa (o meglio, al Red Crescent, il corrispondente islamico) di evacuare i civili, ma non si possono prevedere le conseguenze nell’immediato futuro. Nel frattempo, non esiste un governo centrale effettivo: da un lato, il Consiglio Presidenziale di Serraj detiene il potere e gode del favore dei Paesi occidentali; dall’altro, c’è il generale Haftar che, da militare, si avvale dell’influenza sulle milizie per esercitare il controllo. Il tutto è accompagnato da una società profondamente divisa, un divario

tra le antiche Tripolitania e Cirenaica da colmare, numerosi gruppi tribali che, non avendo più un governo centrale, si ritrovano a lottare nel vuoto di potere lasciato dopo il 2011. Mentre gli occhi sono puntati sulla crisi, però, c’è chi dietro le quinte lavora per ripensare alla Libia di domani. In questo contesto di instabilità, ha preso piede la cosiddetta “iniziativa di Nicosia”. Nata a Cipro, una piccola isola nel cuore del Mediterraneo che idealmente unisce il continente europeo e quello africano, l’iniziativa di Nicosia ha l’obiettivo di rafforzare il quadro socioeconomico libico. Diverse municipalità e regioni europee hanno stabilito una sorta di gemellaggio con alcune città libiche (come, ad esempio, Sirte, Tripoli e Gharyan a nord, Zintan a ovest, Sebha nel sud, Benghazi e Tobruk ad est). In questo modo offriranno la loro expertise su vari temi in cui possono essere coinvolte le realtà municipali: smaltimento dei rifiuti, amministrazione pubblica, gestione delle acque e del sistema sanitario. Ma non solo: anche temi di carattere più sociale – come l’emancipazione delle donne

o la formazione dei giovani – sono nelle agende delle regioni, provincie e città europee che hanno aderito con l’obiettivo di trasmettere la loro conoscenza. Come nella Tunisia post rivoluzione, anche la Libia vive la stessa situazione: nel momento in cui è assente l’autorità centrale, l’apparato statale nelle sue divisioni locali mostra di non volersi bloccare e continua a mandare avanti una società che, seppur in profonda crisi, si dimostra vivida e avida di stabilità. Questo approccio “bottomup” – come definito da Fathi Suleman, facente parte del consiglio di Sirte – si inserisce nella realtà libica per mostrare un risultato a breve termine e di forte impatto per le popolazioni locali in questo momento di difficile transizione verso la democrazia. Un approccio decentralizzato che, forse in maniera un po’ inedita, cerca di intervenire su una realtà che necessita un aiuto nel più breve tempo possibile. Dove hanno fallito i governi nazionali, riusciranno i governi locali? MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE NETANYAHU SÍ, NETANYAHU NO. HAMAS SÍ, HAMAS NO. Gli equilibri in Palestina si stanno davvero scuotendo?

Di Martina Terraglia Sarah spende i soldi pubblici in cene e il giovane Yair pubblica vignette antisemite su Facebook. Poi ci sono le violazioni ai diritti umani denunciate non solo da UN, ma anche dallo State Comptroller. Senza tralasciare le accuse di concussione, ma chi siamo noi per giudicare? Scajola docet. Il tutto condito dalla polemica sul lancio dell’IPBC, l’Israeli Public Broadcasting Corporation. Il povero Netanyahu non ha avuto affatto un’estate – anzi, un 2017 – facile. Addirittura, si sente l’odore di una grave crisi di governo: in fondo, già dopo i fatti dell’IPBC lo stesso Netanyahu si era detto pronto ad indire elezioni anticipate. Le domande da porsi sono due: Netanyahu sta davvero per lasciare la scena politica israeliana? Se sì, assisteremo a un radicale cambiamento di questa scena? Netanyahu, in carica dal 2009, è uno dei Primi Ministri israeliani più longevi di sempre. Eppure, sembra che non goda più del supporto di tutto il gabinetto, in cui alcuni elementi aspirano in realtà a prendere il suo posto, tra cui Naftali Bennet, il ministro dell’educazione noto alla stampa internazionale per le sue affermazioni in seguito 8 • MSOI the Post

alla vittoria di Trump nelle elezioni del 2016. Bennett è leader del partito sionista di destra Jewish Home, il quale si oppone a qualsiasi concessione ai Palestinesi e preme per l’annessione della zona C della West Bank. Come potrebbe essere il post-Netanyahu? Vale la pena ascoltare la campana di Stanley L. Cohen, attivista e colonnista di al-Jazeera. Secondo Cohen, niente cambierà dopo Netanyahu. Guardando alla storia delle relazioni Israele-Palestina, nonostante l’avvicendarsi dei PM e delle tragedie, la retorica sembra essere rimasta la stessa: ogni attacco ai Palestinesi è volto a estirpare ogni nascente minaccia alla sicurezza israeliana. Una simile retorica ha instillato nella popolazione l’odio e il terrore nei confronti dei Palestinesi: d’altronde, Israele ha fatto del negazionismo e del revisionismo, e non soltanto storici (qualora ve lo foste dimenticato, nel 2016 Petra era in Israele). Dopo Netanyahu, ci potranno essere nuovi nomi, politiche più o meno aggressive, ma non un radicale cambio di rotta. Intanto, Hamas sembra seguire la strada della rappacificazione con Fatah. Già a marzo il movimento si era

detto disposto a retrocedere nelle sue richieste ai confini pre-1967. Recentemente, il comitato istituito da Hamas a Gaza è stato sciolto e le porte del dialogo con Fatah aperte, includendo la volontà di indire nella West Bank elezioni amministrative, le prime dal 2006. La decisione di creare un fronte unito potrebbe indicare un’alta probabilità di fine per il governo Netanyahu, al quale la leadership palestinese teme possa succedere una figura molto più rigida e problematica. Rimangono dubbi anche su quanto ancora possa durare Mahmoud Abbas a capo di Fatah, non solo per la sua età avanzata, ma anche per le numerose critiche che gli sono state mosse. E di nuovo: chi gli succederebbe? Al momento, il candidato più papabile sembrerebbe essere Marwan Barghouti, leader dello sciopero della fame iniziato nelle prigioni israeliane nell’Aprile 2017 e durato 40 giorni. Quel che appare chiaro è che la scena politica palestinese attraversa un momento di grande fermento, all’ombra dei grandi cambiamenti internazionali che continuano a riversarsi sulla regione. Attendiamo impazienti la fine del 2017.


RUSSIA E BALCANI DA BELGRADO UN INVITO AL CAMBIAMENTO Si registrano progressi per i diritti della comunità LGBT in Serbia

Di Adna Camdzic Anche quest’anno si è tenuto a Belgrado, capitale serba, il Gay Pride, la cosiddetta “Parata dell’orgoglio”. La manifestazione principale ha avuto luogo domenica 17 settembre, a conclusione di una settimana ricca di eventi che hanno coinvolto la comunità LGBT locale e numerose organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti dei gay in Serbia. Tra gli avvenimenti, una Conferenza Internazionale, un Pride forum, varie esposizioni, spettacoli teatrali, proiezioni cinematografiche, seminari, lezioni e feste. Il corteo si è aperto all’insegna degli slogan “Za promenu” (“Per il cambiamento”) e “Na Prajd se dolazi, na Prajd se ne poziva” (“Al Pride si viene, al Pride non si viene invitati”) e ha visto la partecipazione di Cedomir Jovanovic, figura di spicco del panorama politico serbo, il rappresentante UNICEF per la Serbia, Michael Saint-Lot, i ministri Ruzic e Djordjevic, il sindaco di Belgrado e, ancora più importante, l’attuale premier serba, Ana Brnabic, che si è posta alla guida della marcia. Significativa, inoltre, la presenza delle forze di polizia in tenuta antisommossa, che hanno

ricordato gli scontri provocati negli anni passati da gruppi di estremisti e ultranazionalisti. Si ricorda come nel 2010 più di 100 persone, soprattutto poliziotti, rimasero feriti in seguito ad un attacco da parte di facinorosi omofobi. Domenica, non è stato registrato nessun episodio di violenza e la manifestazione ha potuto svolgersi in maniera pacifica. Gli attivisti di opposizione alla parata dell’orgoglio si sono riuniti in un’area separata, sventolando striscioni ed esponendo cartelli, ma non è stato riportato alcun incidente. La giornata si è, infine, conclusa con l’intervento dell’ambasciatore del Gay Pride di Amsterdam, Hans Van Hoven, che ha voluto complimentarsi per i progressi fatti dal governo serbo in fatto di tolleranza e di diritti delle minoranze e per il coraggio dimostrato dal primo ministro. Da poco eletta, la nuova leader dell’esecutivo è la prima Premier donna e dichiaratamente omosessuale a guidare un governo in Serbia ed è anche la prima a prendere parte ad un evento per i diritti della comunità LGBT. “Il governo assicurerà il rispetto dei diritti per tutti i cittadini. Vogliamo mandare un

segnale per dimostrare che la diversità rende la nostra società più forte”, ha dichiarato Brnabic. Si tratta di un passo importante che migliora l’immagine del Paese e che potrebbe avvicinare Belgrado all’ingresso nell’Unione Europea. Nonostante i miglioramenti, rimangono però delle lacune. La Costituzione serba esclude ancora i matrimoni tra persone dello stesso sesso e specifica che il matrimonio si basa esclusivamente sull’unione “tra un uomo e una donna”. In aggiunta, continuano ad essere frequenti le discriminazioni contro gay e lesbiche In base ad un articolo pubblicato su La Repubblica, che cita una ricerca effettuata in Serbia due anni fa, quasi 4 serbi su 10 avrebbero affermato che l’omosessualità è una malattia. Secondo quanto riportato da un articolo di Reuters, in un discorso reso pubblico la scorsa settimana, il capo della Chiesa Ortodossa Serba avrebbe comparato l’omosessualità alla pedofilia e all’incesto. Resta da vedere quanto potrebbero evolversi in futuro le opinioni delle persone, nella speranza che le cose possano cambiare. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI CASCHI BLU NEL DONBASS

Luci e ombre della proposta di Putin per il conflitto ucraino

Di Vladimiro Labate Una missione di peacekeeping sotto l’egida dell’ONU nel Donbass. È questa l’ultima proposta del presidente russo Vladimir Putin, che ha riportato l’attenzione mondiale sull’immobile scacchiere ucraino. Il 5 settembre scorso, durante una conferenza stampa a margine di un incontro dei Paesi BRICS a Xiamen, in Cina, Putin ha annunciato che la delegazione russa alle Nazioni Unite avrebbe presentato al Consiglio di Sicurezza una bozza di Risoluzione per il dispiegamento di un contingente multilaterale nell’Est ucraino. Il progetto russo si articola attorno a 4 punti chiave. Innanzitutto, i Caschi Blu sarebbero incaricati esclusivamente di garantire la sicurezza dei 600 osservatori OSCE, che, in base agli accordi di Minsk del 2015, si occupano di monitorare il cessate il fuoco. In secondo luogo, l’impiego e l’attività delle forze di peacekeeping dovrebbero essere accettati e coordinati da tutti i protagonisti del conflitto. Secondo Dmitry Peskov, portavoce di Putin, “la Russia non è parte del conflitto nell’Est ucraino”: interlocutori istituzionali di Kiev devono essere quindi le se-

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dicenti Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk. Come terzo punto, il contingente ONU dovrebbe essere dispiegato esclusivamente lungo la linea di contatto tra le truppe di Kiev e i separatisti filo-russi. Infine, quarto ed ultimo punto, condizione necessaria perché avvenga il dispiegamento della missione di pace è il ritiro degli armamenti pesanti da parte dei due schieramenti, previsto già negli accordi di Minsk. Le reazioni da parte ucraina non si sono fatte attendere. Il presidente ucraino Petro Poroshenko non ha chiuso del tutto le porte a questa iniziativa (l’Ucraina aveva già avanzato delle proposte simili), ma ha fortemente sottolineato i punti critici. I dubbi ucraini riguardano l’area in cui la missione dovrebbe agire e il ruolo concesso alle sedicenti Repubbliche di Donetsk e Lugansk. Il timore è che, nel caso in cui la missione dovesse concentrarsi solamente sulla linea di contatto, ciò potrebbe consolidare il controllo dei separatisti nella regione e lasciare libertà ai presunti flussi di armi e combattenti provenienti dalla Russia. Per questo, gli ucraini impongono come condizione che il contingente sia libero di agire in tutto il Donbass fino al confine con la Russia.

Inoltre, essi non vogliono accettare come interlocutori i separatisti della regione, perché ciò significherebbe accettare la loro leadership e la loro dignità istituzionale. Per Poroshenko, la missione deve promuovere la pace, non consolidare “l’occupazione della Russia” di parte del suo Paese. L’inviato speciale USA per il conflitto in Ucraina, Kurt Volkes, oltre a riprendere le preoccupazioni ucraine, ha però sottolineato come la proposta di Mosca sia “un passo avanti” e che dia nuovi spazi di manovra per una risoluzione pacifica del conflitto. Il ministro degli Esteri tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, ha trovato l’annuncio di Putin “sorprendente” e si è detto “molto compiaciuto” per una proposta che “mostra un cambiamento nella politica russa che non dobbiamo gettare al vento”. In una telefonata tra Merkel e Putin, il Presidente russo si è mostrato flessibile circa la zona di dislocamento della missione, tuttavia sempre dipendente dai luoghi d’azione degli osservatori OSCE. Il Cancelliere, per parte sua, ha ribadito la necessità di implementare appieno gli accordi di Minsk prima di accettare di rivedere le sanzioni contro Mosca.


ORIENTE MYANMAR: AUNG SAN SUU KYI ROMPE IL SILENZIO Primo discorso della leader sul genocidio dei Rohingya

Di Virginia Orsili In seguito alle sollecitazioni di politici e attivisti da tutto il mondo, la leader birmana Aung San Suu Kyi rompe il silenzio sulla questione Rohingya. La minoranza musulmana in Myanmar viene da tempo costretta alla fuga verso il Bangladesh da quello che l’ONU ha definito “un esempio da manuale di pulizia etnica” da parte delle forze armate birmane. Nell’ultima ondata di violenza, scaturita da un attacco contro l’esercito da parte di alcuni Rohingya occorso il 25 agosto scorso, più di 420.000 esponenti della minoranza musulmana sono stati costretti a rifugiarsi in Bangladesh. La mattina del 19 settembre la leader ha esposto il suo punto di vista durante un convegno a Naypidaw, capitale del Paese, di fronte a diversi funzionari di governo stranieri. Il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi si dice “profondamente preoccupata per le persone colpite” dall’ondata di violenza che ha caratterizzato il conflitto nello Stato del Rakine, nel sudovest del Myanmar. La leader ribadisce inoltre la condanna da parte dello suo governo delle ripetute violazioni dei diritti umani compiute ai

danni della minoranza musulmana. Durante il discorso, tuttavia, Aung San Suu Kyi ha fornito una versione inedita dei fatti riguardanti il conflitto in corso, mantenendosi distante dalla definizione di “genocidio”: solamente la metà dei villaggi musulmani, spiega, sarebbero stati attaccati – e tra le vittime si troverebbero anche membri di altre comunità. Nessuna critica invece alle forze armate, che al contrario starebbero tentando di prendere ogni misura necessaria per non colpire “civili innocenti” ed evitare “danni collaterali”. Inoltre, non è stato proposto nessun piano per un’azione immediata: la strategia adottata dal governo del Myanmar si basa su un’attenta verifica delle accuse e delle controaccuse prima di prendere qualsiasi tipo di provvedimento. Aung San Suu Kyi non teme il giudizio internazionale rispetto a tale approccio, dal momento che lo Stato è in ogni caso pronto a “prendersi le proprie responsabilità” e ad adoperarsi al fine di “porre termine alle sofferenze di tutti”. Le dichiarazioni della leader birmana giungono dopo mesi di sollecitazioni da parte di numerosi Paesi, che hanno chiesto ripetu-

tamente ad Aung San Suu Kyi di agire per fermare le violenze. Ancora adesso, i rappresentanti delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani continuano a richiedere provvedimenti che consentano di prestare soccorso in maniera più efficace. Riguardo l’attuale situazione, il segretario degli Affari Esteri britannico, all’indomani di una riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha dichiarato:“Lo Stato del Myanmar ha compiuto grandi passi verso la democrazia. È fondamentale comprendere che la violazione dei diritti umani e gli atti di violenza nello Stato del Rankine devono immediatamente cessare”. Negli ultimi mesi Aung San Suu Kyi, passata alla storia come simbolo della resistenza birmana alle forze armate che controllavano il Paese e come difensore dei diritti umani, è stata oggetto di aspre critiche per il suo silenzio sulla questione. I rapporti di forza nel Paese svolgono un ruolo decisivo nella gestione della crisi, dal momento che la vecchia giunta ha ancora il controllo delle forze militari. Nel suo discorso la leader birmana ha tenuto a ricordare che il Myanmar è “un Paese giovane e fragile con molti problemi: dobbiamo affrontarli tutti”.

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ORIENTE PAKISTAN, LA POLITICA DINASTICA DEGLI SHARIF

La già first lady Sharif si aggiudica il seggio di Lahore, “feudo politico” storico della famiglia

Di Tiziano Traversa Kulsoom Sharif, moglie dell’ex primo ministro pakistano Nawaz Sharif, ha vinto alle elezioni straordinarie del 17 settembre, conquistando il seggio di Lahore. Il seggio è storicamente la roccaforte della famiglia Sharif, nonché uno dei seggi più importanti del Paese. Le elezioni, che dovevano determinare l’assegnazione del seggio vacante, hanno visto Kulsoom Sharif sconfiggere il principale avversario, la candidata del partito PTI (Pakistan Tehreek-iInsaf) Jasmin Rashid. La destituzione a fine luglio di Sharif, costretto dalla Corte Suprema a dimettersi poiché coinvolto nello scandalo dei “Panama papers”, aveva portato fin da subito a ipotizzare una “successione dinastica” al potere – tradizione radicata nella politica del Pakistan. In un primo momento era emerso il nome della figlia di Sharif, Maryam, che da qualche anno è coinvolta nelle attività del padre; il suo nome è stato poi accantonato perché figura, insieme a quello del padre e dei fratelli, nelle varie attività illecite emerse dai “Panama papers”. La vittoria schiacciante di Kulsoom Sharif dimostra

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come i rapporti tra attività di governo e famiglia siano ancora importanti nella scena politica pakistana. Nawaz Sharif ha infatti coinvolto tutti i famigliari nel suo cursus politico e altrettanto si può dire per le attività economiche: nel corso degli anni i suoi quattro figli, in modo più o meno accentuato, hanno assunto tutti dei ruoli di rilievo in Pakistan. Durante la campagna elettorale di Kulsoom Sharif, gestita in toto dalla figlia Maryam, la consorte dell’ex Premier non si è mai fatta vedere di persona a Lahore, essendo a Londra per curare un grave carcinoma della laringe. Questa assenza non stupisce l’elettorato: in Pakistan, i rapporti tra cittadini e politici sono perlopiù mediati da potenti locali o da figure non direttamente coinvolte nelle elezioni. Maryam Sharif ha dunque gestito personalmente la campagna politica della madre, conclusasi in una vittoria e nella conquista del seggio, con 59.000 voti contro 36.000. La giovane figlia di Sharif ha immediatamente affermato che il risultato è la prova del malcontento popolare che si cela dietro la decisione della Corte Suprema di destituire

il padre. Nawaz Sharif è stato effettivamente un politico piuttosto apprezzato e in molti si sono schierati apertamente in sua difesa, sia all’interno degli organi del governo sia tra membri della pubblica opinione e della società civile. La figlia dell’ex Premier ha inoltre sottolineato come l’elettorato non si sia fatto intimidire dalle pressioni e dagli episodi di violenza commessi ai danni del Pakistan Muslim League-Nawaz (PML-N), il partito degli Sharif. Maryam non ha fatto nomi, ma ha alluso a minacce e tentativi di rapimento che, secondo Sharif, avrebbero messo in pericolo i militanti del PML-N. Secondo molti analisti, dunque, le cause della vittoria della famiglia di Sharif nel seggio di Lahore andrebbero ricercate nell’apprezzamento dell’opinione pubblica nei confronti del marito di Kulsoom. Il successo della candidata sarebbe dunque una prova della fedeltà politica dell’elettorato nei confronti di Nawaz Sharif: bisognerà però aspettare le elezioni del 2018 per capire se il popolo sia rimasto a tutti gli effetti vicino all’ex Primo Ministro o se la situazione sia mutata.


AFRICA UN NUOVO ANNO ALLE NAZIONI UNITE Il punto sui protagonisti provenienti dall’Africa

Di Guglielmo Fasana Come ogni anno, anche questo settembre New York ospita il più importante forum multilaterale esistente al mondo. Il 12 settembre si è infatti aperta, proprio nella metropoli statunitense, la 72^ Session dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, chiamata ad esprimersi, attraverso le voci delle migliaia di diplomatici provenienti dai 193 Paesi membri, su una varietà estesissima di argomenti, dal cambiamento climatico alla tratta degli esseri umani. Più nello specifico, va sottolineato il leitmotiv che accompagnerà il lavoro delle varie commissioni: “mettere l’essere umano al centro degli sforzi per l’ottenimento della pace e una vita dignitosa su un pianeta sostenibile”. Come circa due terzi dei Paesi membri, la maggior parte degli Stati africani presenti in queste settimane di dialoghi al quartier generale dell’Organizzazione sono considerati come “in via di sviluppo” dalle statistiche prodotte dall’ONU stessa. Sarà dunque compito dei rappresentanti di questi 54 Paesi portare all’attenzione

dell’intera comunità internazionale sia i risultati delle policies implementate durante quest’anno sia le loro nuove proposte per raggiungere i Sustainable Development Goals. Più di 20 milioni di persone in Somalia, Yemen, Sud Sudan e Nigeria si trovano ancora a rischio di carestia, e la loro sorte sarà sorvegliata da agenti diplomatici e agenzie umanitarie. Inoltre, l’ONU ha appena rilasciato il rapporto State of the Food Security, che mette in guardia sul trend di lungo termine riguardante la riduzione della denutrizione, che a quanto pare è giunto ad una battuta di arresto e addirittura potrebbe essersi pericolosamente invertito. L’intera giornata di giovedì 21 è stata dedicata alla lotta alla fame. La comunità umanitaria ha tentato di far pressione sui principali contributori, affinché mantengano le promesse fatte in passato, a fronte della minaccia concreta di tagli ai fondi. Sempre durante la giornata di giovedì, il Sud Sudan è stato al centro di un convegno di alto profilo, convocato dall’Unione Africana, che ha avuto ad oggetto l’applicazione dei diritti

umani nel Paese. In un discorso a tinte forti tenuto a Ginevra dall’alto commissario per lo Human Rights Council, Zeid Ra’ad al Hussein, il funzionario ha denunciato come il Sud Sudan stia venendo “semplicemente distrutto”. Per quanto riguarda invece le missioni di peace-keeping, l’attenzione si è spostata sulla Repubblica Centrafricana e sul Mali; Nel primo caso, l’organizzazione ha intenzione di aumentare di 750 unità il contingente di Caschi Blu già presenti sul terreno, così da far fronte a quello che è stato definito un “vuoto di sicurezza”, mentre si cerca di fare chiarezza sulle accuse di abusi sessuali perpetrati proprio dal braccio armato del Palazzo di Vetro. Nel secondo caso, invece, nel mirino della commissione è finita quella che è attualmente la missione ONU più pericolosa, nella quale due peacekeepers hanno perso la vita soltanto nell’ultimo mese. Questa Assemblea Generale ha visto il debutto in vesti onusiane non solo di Donald Trump, ma anche di diversi Presidenti africani neo-eletti. È questo il caso del ghanese Nana Addo Dankwa Akufo-Addo, di Adama Barrow dal Gambia e Mohamed Abdullahi Farmajo dalla Somalia.

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AFRICA CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ IN BURUNDI

La Corte per i Diritti Umani delle Nazioni Unite accusa il Governo Nkurunziza

Di Chiara Zaghi Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, durante la sua 36^ sessione a Ginevra, ha approvato un rapporto riguardo le gravi violazioni dei diritti dell’uomo che sono avvenute in Burundi tra il 2015 e il 2016 da parte di alcune milizie filo-governative. L’inchiesta è iniziata il 30 settembre del 2016, quando il Consiglio, in seguito al rendiconto denominato EINUB contenente alcuni importanti dati riguardo la situazione del Burundi, ha promulgato una risoluzione per la creazione di una Commissione d’indagine sulle violenze del regime e sul tentativo di dare avvio a un genocidio contro l’etnia Tutsi. La Commissione d’inchiesta ha raccolto più di 500 testimonianze che confermerebbero l’accusa e ha chiesto alla Corte Penale Internazionale di occuparsi del caso. Nonostante il Burundi abbia avviato un anno fa l’iter di ritiro dalla Corte, suscitando lo scalpore della Comunità Internazionale che non aveva mai assistito al recesso da parte di uno Stato dall’Organo, il Paese è ancora sotto la giurisdizione del Tribunale fino al compimento dell’uscita che dovrebbe avvenire entro il mese di ottobre.

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Le Nazioni Unite sostengono che ci siano prove che il Governo del Burundi sia artefice di quelle torture, repressioni e sparizioni avvenute nel Paese dopo che Pierre Nkurunziza, ex Presidente, ebbe preso illegalmente il potere del Paese nel luglio 2015 violando la Costituzione (il documento vieta, infatti, che una stessa persona possa ricoprire più di un mandato presidenziale). Secondo il rapporto pubblicato, sarebbero coinvolti nell’inchiesta alcuni alti ufficiali dell’esercito, alcuni comandanti della polizia, i dirigenti dei Servizi Segreti nazionali, le milizie Imbonerakure. Il gruppo dei dirigenti governativi è accusato di aver compiuto torture, violenze sessuali, detenzioni extragiudiziarie che hanno causato anche la fuga di 400.000 persone dal Paese. Un membro della Commissione ha dichiarato: “la mancanza di cooperazione da parte del governo burundese [...] rende difficile per noi documentare gli abusi ai diritti umani commessi dai gruppi armati d’opposizione” e questa situazione è sgradevole perché il Burundi è membro del Consiglio per i Diritti Umani e quindi avrebbe il dovere di collaborare. Le

Nazioni

Unite

hanno

richiesto il rilascio immediato dei prigionieri politici da parte del Governo Nkurunziza, tuttavia, i rapporti tra UN e Burundi non sono pacifici. Il Paese, infatti, ha respinto la presenza della Commissione di indagine indipendente e ha rifiutato la presenza sul suo territorio dei 228 poliziotti che nel luglio del 2016 era stata ritenuta necessaria dall’ONU. Potrebbe essere d’aiuto, secondo la Commissione d’indagine, l’intervento e la presa di posizione dell’Unione Africana. Il governo burundese non accetta l’accusa di essere colpevole di crimini contro l’umanità e violazione dei diritti umani e l’Ambasciatore del Burundi alle Nazioni Unite, Albert Shingiro, ha dichiarato la situazione una “cospirazione internazionale”. Il Portavoce del Presidente, Willy Nyamitwe, ha invece, commentato il rapporto delle Nazioni Unite definendolo “propaganda di guerra” attuata per “mostrare al mondo che la situazione è tragica mentre è calma”. La Comunità Internazionale in seguito all’uscita del Burundi dalla Corte Penale Internazionale e dell’opposizione di cui il Paese si è servito nei confronti delle Nazioni Unite, ha congelato i rapporti diplomatici.


SUD AMERICA CARAIBI: SINTESI DI UNA CATASTROFE Il “massacro” dell’uragano Irma nei Caraibi

Di Sveva Morgigni Gli abitanti delle isole caraibiche ricorderanno a lungo Irma, uno degli uragani più potenti a essersi mai formati nell’Atlantico. Con venti oltre i 300 chilometri orari, la tempesta ha raggiunto terra per la prima volta nella notte tra mercoledì 6 e giovedì 7 settembre, a Barbuda, facendo diverse vittime e distruggendo la quasi totalità delle abitazioni. Il primo ministro di Antigua e Barbuda, Gaston Browne, ha dichiarato alla BBC che sull’isola caraibica la situazione è quella di un “massacro totale, ed è una delle esperienze più dolorose che abbia mai vissuto”. Ciò che è rimasto dopo il passaggio dell’uragano è stato descritto come un paesaggio apocalittico, tanto da spingere Browne a invocare l’intervento della comunità internazionale per aiutare la popolazione nella ricostruzione. Irma ha poi proseguito la propria corsa verso nordovest, dirigendosi verso aree più densamente popolate, puntando in particolare la Repubblica Dominicana, Haiti e le Bahamas. Le conseguenze sono state una distruzione senza precedenti. Le paure di Ascension Matinez, direttore di Save the Children

ad Haiti, secondo cui l’uragano rischiava di “colpire le comunità più povere, ancora sofferenti per le conseguenze dell’ultimo uragano”, si sono infatti avverate. Diverse squadre umanitarie, tra cui una inviata dal governo italiano, si sono recate sul luogo per aiutare nella gestione del disastro, mentre funzionari ONU a Haiti sono impegnati a offrire l’appoggio necessario all’esecutivo locale. Nella Repubblica Dominicana le forze armate e la polizia continuano a operare insieme ai soccorritori per evacuare civili in diciassette province nel nordest del Paese. Tra le ONG, Save the Children e Oxfam lavorano nell’immediato per assistere le persone più vulnerabili, soprattutto nella parte settentrionale di Haiti e Repubblica Dominicana. “La nostra preoccupazione principale riguarda lo stato delle infrastrutture sanitarie e idriche colpite da piogge e inondazioni” ha dichiarato Gabriele Regio, responsabile degli interventi di Oxfam Italia nella regione. E mentre detriti galleggiano per le strade di Cap-Haïtien, il rischio di diffusione di colera e di altre malattie aumenta, tanto che Oxfam avrebbe messo a disposizione il materiale necessario per la prevenzione dell’epidemia.

Si rischia dunque di assistere nuovamente a un episodio di rapido contagio, come avvenuto ad Haiti dopo il terremoto del 2010, dove l’epidemia di colera che si è diffusa in tutto il Paese ha provocato un numero di vittime che ha superato rapidamente il bilancio dei colpiti dal terremoto, paralizzando il lavoro della comunità internazionale. Al momento però, è ancora troppo presto per poter valutare il lavoro che le organizzazioni internazionali stanno svolgendo per arginare i disastri causati da Irma e lo spettro del colera. Tuttavia, come dichiarato da Regio, “la nostra speranza è che il peggio sia passato e che le persone siano riuscite a scampare all’’uragano”. I Caraibi però non possono ancora trovare pace, poiché lo statunitense National Hurricane Center ha già segnalato l’arrivo di una nuova perturbazione. L’uragano Maria, rafforzatosi a categoria 5, si sta muovendo lungo lo stesso percorso e minaccia pesantissime conseguenze per la regione. A questo punto, c’è solo da augurarsi che le autorità siano pronte a mettere in atto tutti i rimedi necessari, per non dover assistere a nuove catastrofi. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA UN ALTRO COLPO AL GOVERNO BRASILIANO

Crescono le accuse contro Temer e le incertezze di un Paese in crisi

Di Daniele Pennavaria Il 14 settembre il procuratore generale del Brasile, Rodrigo Janot, ha formalmente esposto le accuse di ostruzione alla giustizia e organizzazione a delinquere per il presidente Michel Temer. Janot ha dichiarato che il Partito del Movimento Democratico Brasiliano (PMDB), partito di Governo, avrebbe ricevuto tangenti per quasi 190 milioni di dollari, inserendosi in uno schema di scambi di influenze politiche e di favori. Degli 8 accusati, di cui 6 già in carcere come risultato delle precedenti indagini, ci sono Eliseu Padilha, capo dello staff del Governo, e il segretario generale Wellington Moreira Franco. Temer ha dichiarato che le accuse “sono piene di assurdità”, ritenendo che il Procuratore Generale stia attaccando il Governo in maniera irresponsabile per coprire i suoi stessi fallimenti. Il lavoro degli inquirenti è stato criticato con le stesse parole anche dal PMDB, che ha difeso il Presidente e gli altri accusati affiliati. Per ottenere la sospensione di sei mesi necessaria perché Temer sia processato, seve un voto a maggioranza di due terzi della Camera dei Deputati, di 513 membri. Nel caso la mozione fosse respinta le accuse verrebbero sospese fino alla fine dell’attuale mandato presidenziale, il 31 dicembre 16 • MSOI the Post

2018. Per la votazione non è ancora stata stabilita una data, ma la situazione non è nuova e i precedenti sembrano favorire Temer. Ad agosto, infatti, la Camera, presieduta dall’alleato del presidente Rodrigo Maia, aveva respinto un rinvio a processo analogo, anche se le accuse si limitavano alle tangenti. La situazione sembra, però, destinata a evolversi in maniera più complessa. Mentre la Corte Suprema ha autorizzato a seguire un’altra pista di tangenti collegata a una compagnia che opera nel porto di Santos, il mandato del Procuratore Generale scadrà questa domenica, e la carica verrà assunta da Raquel Dodge, avversaria politica di Janot, lasciando intendere che le critiche sulla gestione delle indagini sono condivise anche da una parte dell’organo giudiziario. L’opinione pubblica è spaccata sul ruolo che la vicenda sta avendo per la stabilità politica del Paese. Da un lato c’è chi sostiene il lavoro del Procuratore Generale, considerandolo uno sforzo eroico per eradicare la corruzione dalla politica brasiliana, ma altri sono convinti che dietro i processi alle figure politiche di spicco ci siano degli interessi, e non confidano pienamente nella base delle accuse. Le denunce, infatti, si basano

su “delazioni premiate” di dirigenti – in particolare quelli del colosso alimentare JBS – che riceverebbero sconti della pena per confessioni che consentano alle indagini di proseguire. La criticità della situazione ha portato il generale dell’Esercito Antonio Mourao ha dichiarare che, se il caos proseguirà, le Forze Armate reagiranno per assicurare la sicurezza del Paese. L’intervento militare sarebbe garantito dalla Costituzione brasiliana, che li autorizza quando sollecitati da uno dei tre poteri dello Stato. Le dichiarazioni di Mourao, però, sono state accolte duramente dal comandante dell’Esercito Eduardo Villas Boas, che ha categoricamente negato la possibilità di un intervento. Tra le reazioni più dure c’è quella di Gleisi Hoffmann, presidente del Partito dei Lavoratori, che considera anche il semplice suggerimento d’intervenzione militare una ferita diretta alla Costituzione e una serie minaccia alla democrazia. Con le elezioni per il Congresso in programma per il 2018, la crisi politica alimenta l’incertezza su quello che sarà il futuro del Brasile. L’instabilità e la divisione interna al Paese, evidente sia nelle istituzioni sia nell’opinione pubblica, potrebbe arrivare a minare anche la ripresa economica, arrivata quest’anno dopo un biennio di recessione.


ECONOMIA PECHINO FRENA SUL BITCOIN

Le misure restrittive del governo cinese fanno crollare le quotazioni

Di Luca Bolzanin

trading a partire da fine mese.

Jamie Dimon, AD di JPMorgan, si dice pronto a licenziare qualsiasi trader della sua banca scoperto ad eseguire operazioni sul Bitcoin: “È contro le nostre regole e sarebbe da stupidi”. L’ammonimento di uno dei maggiori banchieri di Wall Street, si inserisce nel contesto - alquanto turbolento - del mercato delle criptovalute, già allarmato dall’annuncio, risalente alla scorsa settimana, da parte del governo di Pechino dell’emissione di un bando per le Ico, le offerte iniziali di valuta, utilizzate, in assenza di regole, per finanziare nuove iniziative nell’ambito delle criptovalute.

Non stupisce, d’altronde, che Pechino sia particolarmente interessata alla regolamentazione del Bitcoin, sospettato di essere utilizzato come mezzo alternativo per esportare capitali all’estero, andando a danneggiare la stabilità dello Yuan a ridosso di un evento di notevole rilevanza politica ed economica quale l’imminente XIX Congresso del Partito comunista. La Banca centrale cinese non è, dunque, intervenuta ufficialmente, ma ha lasciato filtrare in più occasioni la sua preoccupazione per un mercato che si è sviluppato al di fuori del quadro regolamentare e che mette a rischio l’ordine economico e finanziario. La Cina, infatti, è il principale mercato per le criptovalute: in passato, la quota dovuta al mercato asiatico sul totale degli scambi era arrivata a sfiorare il 90%, ma il boom delle criptovalute ha diluito la quota cinese, che si stima sia scesa a un quarto del totale.

L’intervento dei regolatori cinesi aveva agitato il mercato, lasciando presagire un divieto generalizzato per l’operatività delle piattaforme di scambio locali. Alcuni organi di stampa locali, infatti, hanno segnalato che le autorità finanziarie hanno dato istruzioni a livello verbale alle piattaforme di trading per la sospensione degli scambi. Sospensione che è diventata effettiva per i clienti residenti in Cina della BTC China, una delle maggiori piattaforme di scambio per criptovalute, per i quali verrà sospesa l’operatività sul

Scambiata a poco meno di 1000 dollari a gennaio, negli ultimi 6 mesi la criptovaluta tra alti e bassi - aveva visto le sue quotazioni in rialzo, con un’impennata che ha portato

il tasso di cambio a toccare il record di 5000 $/Ƀ. Tenuto conto che il tasso di cambio è quasi raddoppiato solo negli ultimi tre mesi, “una correzione del 2025% ci può stare”, commenta Federico Izzi, analista tecnicofinanziario specializzato in criptovalute. Dopo aver toccato il picco a inizio settembre, a seguito dell’annuncio delle autorità finanziare cinesi e del conseguente diffondersi di aspettative al ribasso sebbene i principali operatori non avessero segnalato nessun intervento effettivo da parte dei regolatori e la loro operatività fosse proseguita all’insegna della normalità -, il Bitcoin si è progressivamente indebolito ed è sceso a quota 3600 dollari, in calo di quasi il 26% in poco più di due settimane. Per il momento, gli altri due grandi operatori cinesi, OkCoin e Huobi, hanno dichiarato di non aver ricevuto nessuna indicazione da Pechino e che quindi la loro attività prosegue normalmente. Ma si attendono dichiarazioni ufficiali a seguito dell’incontro tra le due piattaforme e il governo. Ad ogni modo, tutti gli exchanger, compresa BTC China, hanno precisato che gli altri servizi, tra cui quelli di mining, resteranno operativi.

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ECONOMIA HOPING IN HARD BREXIT

Continua il dibattito interno ai conservatori

Di Michelangelo Inverso È sempre più in salita la strada verso la Brexit per la premier britannica Theresa May dopo le roventi dichiarazioni attribuite al suo ministro degli Esteri Boris Johnson. A differenza della May, Johnson è uno dei membri di spicco, tra i conservatori, dei brexiters della (quasi) prima ora. L’attuale ministro degli Esteri inglese, ed ex sindaco di Londra, ebbe infatti un ruolo chiave nella scelta elettorale anti-europea, scaricando il suo alleato di governo e collega James Cameron nel momento della scelta tra sì e no al referendum del 2016. Caduto il governo Cameron, Johnson aspirava probabilmente ad un maggior peso politico, ma venne scavalcato dalla May nei mesi immediatamente successivi alle dimissioni di Cameron. La scelta ricadde su un esponente meno esposto mediaticamente forse proprio per riuscire a trovare un accordo con l’Unione europea, almeno da buona parte dei conservatori inglesi, ancora incerti sul futuro 18 • MSOI the Post

del Regno Unito proprio a causa delle spaccature interne sulla Brexit.

“soft” brexiter, ridando così speranze a quello capeggiato da Boris Johnson.

La questione sembrava apparentemente risolta, ma la May decise di andare nuovamente alle elezioni nella primavera 2017. Questa scelta è stata presumibilmente compiuta per due ordini di ragioni. La prima, per guadagnare un maggior numero di seggi in Parlamento per i conservatori, ritenendo Jeremy Corbyn, leader dei laburisti, una facile preda. La seconda, per consolidare la propria posizione internamente ai ranghi dei conservatori grazie ad una grande vittoria.

A livello politico, le due correnti si affrontano sull’intensità futura dei legami con la Ue. Laddove la May spera in un modello elvetico, cioè di stretta collaborazione, pur restando fuori dallo spazio economico Ue, al contrario, Johnson spera in un totale scollamento dalla dimensione europea, concentrandosi probabilmente sulle relazioni transatlantiche e del Commonwealth.

Tuttavia, i risultati delle consultazioni hanno infranto questo progetto, portando quasi ad una situazione di pareggio tra conservatori e progressisti, situazione del tutto (immotivatamente) imprevista. Il risultato che ne è conseguito è un ulteriore indebolimento della posizione dei conservatori e in particolar modo della May e del fronte

Domani Theresa May, dalla vetrina di Firenze, che è emblematicamente legata all’Inghilterra pur essendo marginalmente integrata negli schemi di Bruxelles, terrà il suo più importante discorso dopo il suo insediamento in Parlamento. La palla torna a lei. Vedremo se chiarirà la sua posizione sui negoziati Ue e imporrà la sua linea all’interna del suo partito, e se sarà in grado di negoziare alla pari pur partendo da questa difficile situazione politica.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO INDIPENDENZA E DIRITTO INTERNAZIONALE

L’area grigia dell’autodeterminazione: esiste un diritto all’indipendenza?

Di Luca Imperatore Previsto per il primo ottobre, poi sospeso, vietato ed quindi invocato e reclamato, il referendum sull’indipendenza della Catalogna riapre un dibattito circa il diritto dei popoli all’indipendenza ed all’autonomia. Il caso spagnolo invero, non è unico nel suo genere ma si colloca in un panorama alquanto eterogeneo di realtà analoghe e globalmente diffuse. Verrebbe dunque da chiedersi: esiste realmente un “diritto all’indipendenza”? In tal senso, non è mancato chi, in queste ore di duri scontri, ha invocato il diritto internazionale quale fondamento normativo. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli, ormai assurto al rango di norma consuetudinaria del diritto internazionale, trova pratico fondamento nella Carta delle Nazioni Unite (art. 55) ed in alcune solenni Dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale ONU. Anche la Corte internazionale di giustizia ne ha avallato l’esistenza in molteplici pareri consultivi (cfr. Namibia; Sahara Occidentale; Kosovo) arrivando a definirlo “uno dei principi essenziali del diritto internazionale contemporaneo” (sentenza caso Timor Orientale del 1995, §29). Ciononostante, l’interpretazione restrittiva della

norma permane. La stessa Corte ha affermato che il principio si applica unicamente ai popoli sottoposti ad un Governo straniero, quali popolazioni e territori che siano oggetto di occupazione coercitiva o dominazione coloniale. Al momento attuale, non vi è alcuna previsione secondo la quale ogni Governo debba essere sostenuto dalla maggioranza dei cittadini in ogni porzione del suo territorio. L’indubitabile parallelo tra l’autodeterminazione quale sinonimo di democrazia e la democrazia come legittimazione del proprio Governo è assodato, ma non confluisce in un diritto all’indipendenza per quelle parti di popolazione che non si sentono adeguatamente rappresentate. Neppure la c.d. remedial secession di un’ipotetica minoranza sottoposta a discriminazioni intollerabili troverebbe fondamento giuridico nel principio. Analogamente, anche il diritto dei diritti umani tace sul tema non fornendo una definizione più precisa del “diritto all’indipendenza”. Le peculiarità della questione catalana non possono essere assimilate, come velatamente fatto dal comitato organizzatore del referendum (Junts pel Sí), ad altri contesti del recente passato quali il caso del Koso-

vo. In nuce, la Catalogna non si trova in uno stato di occupazione militare, né può essere considerata un’area sottoposta a dominazione coloniale, non soffre di una discriminatoria soppressione delle proprie autorità né di una limitazione delle proprie competenze (al netto della proposta di applicazione dell’art. 155 Cost. spagnola). Il popolo catalano gode già del proprio diritto all’autodeterminazione, rendendo azzardata se non anche illegittima qualsivoglia pretesa di applicazione di tale principio. In conclusione, l’assenza di una visione condivisa tra gli Stati sul tema priva il diritto internazionale di una chiara disciplina, lasciando il desiderio indipendentista nelle sole mani del legislatore interno, il quale verosimilmente osteggerà tale processo. Si profila dunque all’orizzonte una grey area per il diritto che pare incapace di (o recalcitrante a) delineare contorni precisi per la questione. Il tempo ci permetterà di cogliere le evoluzioni di tale contesto. Ciò che è certo al momento è che non risiede nel diritto internazionale la chiave di volta per regolare questo sistema ed è pertanto vano attribuirgli responsabilità che non gli competono. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO TRA PRIVACY E DIRITTI DELL’UOMO: LA SENTENZA BĂRBULESCU c. ROMANIA

La Corte EDU e la ricerca di un equilibrio tra l’art. 8 e l’ambiente lavorativo

Di Pierre Clément Mingozzi “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”. L’articolo 8(1) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo con queste limpide parole descrive il rispetto della vita privata e familiare. È proprio per la violazione di tale articolo che, con la sentenza sul caso Bărbulescu c. Romania, il 5 settembre scorso la Grande camera di Strasburgo ha condannato la Romania poiché non avrebbe garantito che le sue autorità interne proteggessero correttamente il diritto alla privacy del proprio concittadino. Il caso si basava sul ricorso dell’ingegnere Bărbulescu il quale era stato licenziato dal datore di lavoro poiché quest’ultimo, dopo aver monitorato le sue e-mail, constatò che il proprio dipendente utilizzava di fatto il materiale lavorativo a fini personali, avendo scambiato mail private con parenti e familiari tramite la connessione informatica in dotazione a scopo lavorativo. Il datore di lavoro, inoltre, affermava la piena legittimità del proprio comportamento dichiarando che il suo dipendente era ben consapevole di star violando il regolamento interno dell’azienda, avendo firmato, nel momento dell’assunzione, tale regolamento che espressamente vietava qualsiasi utilizzo a fine 20 • MSOI the Post

personale della connessione lavorativa. Constatazione, questa, peraltro mai negata da Bărbulescu. L’ingegnere invece, contestava totalmente il licenziamento disciplinare, il quale sarebbe avvenuto -e si sarebbe basato-, su una palese violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare. La vicenda, portata davanti ai tribunali rumeni ha dato ripetutamente torto al ricorrente, sia da parte della Country Court di Bucarest sia successivamente dalla Corte di Appello, le quali non hanno ravvisato nessun comportamento illegittimo da parte del datore di lavoro. Convinto nel far valere le proprie ragioni Bărbulescu decise di ricorrere alla Corte di Strasburgo portando in giudizio il proprio paese. Con sentenza del 12 gennaio 2016, la Corte EDU diede di nuovo torto al ricorrente stabilendo che, essendo stato debitamente informato al momento della firma del contratto, non potesse far valere una “ragionevole aspettativa di privacy” e che dunque, non vi fosse stata nessuna violazione. Tuttavia, è con il rinvio alla Grande camera -e la sua successiva sentenza-, che la Corte ribalta la sua precedente visione stabilendo che vi fu violazione dell’art. 8 della CEDU da parte della Romania, essendo stata incapace di garantire pienamente l’effettivo diritto alla privacy del proprio cittadino.

La Corte, con undici voti a favore e sei contro, ha evidenziato con vigore l’obbligo di trovare un equilibrio tra gli interessi legittimi sia dei datori di lavoro sia dei dipendenti, condannando le autorità romene, per aver “failed to strike a fair balance between the interests at stake”. Inoltre, le autorità locali sarebbero anche colpevoli per non aver valutato correttamente se il lavoratore fosse consapevole del controllo ma soprattutto, se fosse stato informato “of the nature or the extent of the monitoring, or to the degree of intrusion into his private life and correspondence”. Infatti, tra gli obblighi positivi in capo agli Stati vi è anche il dovere di vigilare costantemente che le misure adottate rispettino sempre la vita privata e familiare, bilanciando correttamente interessi contrastanti. Alla conclusione della sentenza si aggiunge la joint dissenting opinion dei giudici Raimondi, Dedov, Kjølbro, Mits, Mourou-Vikström e Eicke i quali invece, contestando parzialmente la decisone presa dalla Grande camera, evidenziano la complessità della materia e l’assenza di un consolidato consensus europeo, non riscontrando violazioni da parte della Romania poiché avrebbe agito legittimamente nel proprio margine di apprezzamento.


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