MSOI thePost Numero 79

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Pilar d’Alò, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clément Mingozzi, Luca Imperatore, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Federica Allasia, Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Giulia Capriotti, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso,Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Sabrina Di Dio,Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Kevin Ferri, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Efrem Moiso, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Viola Serena Stefanello, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zuniga Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole

REFORMING EUROPE

Plans for reforming Europe presented by French President Emanuel Macron

Di Lola Ferrand

GERMANIA 9 ottobre. Il nuovo Presidente del Parlamento tedesco sarà Wolfgang Schäuble, ex-Ministro delle Finanze e architetto dell’austerity. L’estrema destra ha presentato come candidato vicepresidente dell’AfD Albrecht Glaser, ex-CDU che fece scalpore per le sue dichiarazioni sulla popolazione musulmana tedesca.

ISLANDA 6 ottobre. Un leak di documenti rivela che il primo ministro Bjarni Benediktsson vendette quasi tutte le sue azioni della banca Glitnir nell’ottobre 2008, solo un giorno prima che lo Stato rilevasse la banca per scongiurarne il fallimento. Le azioni di Benediktsson non sono illegali, ma potrebbero costargli le elezioni, imminenti il prossimo 28 ottobre. PAESI BASSI 11 ottobre. Jeroen Dijsselbloem, il cui commento sui Paesi del sud Europa raccolse critiche da mol-

On September 26th French President Emmanuel Macron presented his plans for reforming Europe. These ambitious guidelines included the creation of an European defence strategy, but also the establishing of common taxation and social rules, a common investment budget and the need for a stronger and more integrated Eurozone, notably by creating a finance Ministry and an appropriate budget. But the European Union’s agenda ultimately depends on key member states’ national politics. On most of the addressed topics, Macron can count on much high profile support, such as ALDE’s leader Guy Verhofstadt and Italy’s EU affairs minister Sandro Gozi, who said the speech would inspire European leaders into action. Junker’s State of the Union address was also in line with Macron’s ideas, notably when he talked about establishing a European finance Ministry and expanding the EU-level budget. Furthermore, German Foreign Minister Sigmar Gabriel, a senior member of the Social Democrats (SPD), hailed Macron’s speech “a passionate plea against nationalism and for Europe”, adding he could count on the SPDs support. In the press, on the other hand, while centre-left newspapers welcomed the ambition of the French President, conservative newspapers were a little more

sceptical. The Frankfurter Allgemeine Zeitung, for example, focused on the economic issues of Macron’s ideas, criticizing them with gusto. Indeed, it saw in his ideas of reform for Europe another step towards a “transfer union, a system of transfers from richer member states to the less wealthy”. The issue today is that the reform agendalaid out by Macron requires the buy-in of the German electorate, opening a “window of opportunity” for EU-level reforms. But they seemingly moved in the opposite direction. During the campaign, the Free Democratic Party (FDP) spoke against providing the EU with a fiscal capacity. Other FDP proposals, namelythe temporary withdrawal from the common currency for over-indebted MSs, could also makes finding a consensus on euro zone reforms complicated. Alexander Lambsdorff, an FDP MEP, reacted to Macron’s speech saying“a euro zone budget would set exactly the wrong incentives”. FDP leader Christian Lindner also warned that a Eurozone budget where German money would “land in France for public expenditure or in Italy to repair for Berlusconi’s mistakes”is out of the question. The German political centre has shifted away from Macron’s ideas. As a result, the euro zone’s institutional design and other ambitious moves will likely remain where they are, for now.

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EUROPA ti politici italiani, lascia la politica nazionale in seguito a recenti delusioni elettorali. Rimarrà comunque a capo dell’Eurogruppo fino a gennaio. POLONIA 6 ottobre. Si è dimesso l’ambasciatore polacco a Bruxelles, Jarosław Starzyk, dopo il ritrovamento di un documenti che suggeriscono la sua collaborazione con l’ex regime comunista del Paese. REPUBBLICA CECA 9 ottobre. Andrej Babiš, miliardario ceco e candidato Primo Ministro, è stato formalmente accusato di frode. Babiš, indagato da mesi, era stato privato della sua immunità parlamentare dalla Camera ceca a settembre.

SPAGNA 10 ottobre. In un discorso al Parlamento catalano, il leader Carles Puigdemont ha espresso il proprio supporto per l’indipendenza, ma ha rimandato una dichiarazione ufficiale a data da definirsi. A cura di Elena Amici

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EL CAMINO A LA INDEPENDENCIA

A 9 giorni dal referendum, la Catalogna si proclama indipendente

Di Simone Massarenti Il momento è arrivato: il 10 ottobre, il Presidente della regione autonoma di Catalogna Carles Puigdemont, in un discorso di fronte al Parlamento di Barcellona, ha proclamato l’inizio del “cammino catalano” verso la formazione di uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica. Il Presidente ha affermato come “la volontà del popolo catalano sia chiara, vista la vittoria schiacciante del ‘sì’ al processo di autodeterminazione”, assumendo cosi quello che egli stesso ha definito “mandato del pueblo”. Dopo le dichiarazioni di apertura, però, Puigdemont ha sospeso la dichiarazione d’indipendenza appellandosi alla necessità di aprire un dialogo con Madrid per non incorrere in violazioni costituzionali. Questo stop è dovuto alla vera arma a disposizione dell’Esecutivo centrale: l’articolo 155 della Costituzione, che prevede un’azione diretta del Governo nel caso in cui venga minato l’ordinamento giuridico nazionale “attentando agli interessi generali della Spagna”. Inserito all’interno del Titolo VIII della Costituzione sull’Integrità Territoriale Spagnola, il testo prevede

l’utilizzo di qualsiasi mezzo al fine di preservare l’integrità del territorio unito: il Governo centrale può utilizzare la forza militare, ma non può smembrare l’organigramma dell’autonomia, per esempio sollevando Puidgemont dal proprio incarico. La posizione di Madrid, dopo le durissime contestazioni dovute al pesante intervento per impedire il referendum, si complica ulteriormente davanti alla necessità di ammorbidire la propria posizione e aprirsi al dialogo. Il premier Mariano Rajoy, durante una riunione del Consiglio dei Ministri, ha affermato: “Se Puidgemont rispettasse la legge si potrebbe porre fine a un periodo di illegalità e incertezza”. L’obiettivo dell’Esecutivo sembra, quindi, essere quello di riportare certezza e chiarezza in Spagna. Intanto le forze indipendentiste catalane si preparano a velocizzare il processo di autodeterminazione: il CUP (Candidatura d’Unitat Popular), partito anticapitalista indipendentista di estrema sinistra, ha lanciato il guanto di sfida al presidente Rajoy e, insieme al movimento Junts pel Sì (“Insieme per il Sì”), sono pronti a chiedere al parlamento di Barcellona di formalizzare la dichiarazione.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI 8 ottobre. Dopo essere stata accusata da vari protagonisti della politica, sia democratici sia repubblicani, Hillary Clinton rompe il silenzio sulla vicenda Harvey Weinstein. “Sono scioccata e sconvolta, le sue azioni non possono essere assolutamente tollerate” ha dichiarato. Ci si aspettava una presa di posizione da parte della ex candidata alle presidenziali poiché Weinstein figurava tra i suoi maggiori donatori individuali.

10 ottobre. Il Vice Presidente si trova in California. A seguito dei devastanti incendi (3.500 case distrutte che hanno portato a 600 dispersi e 25 morti) Pence ha dichiarato che il governo “sarà con la California ogni giorno finché l’ultimo fuoco sarà spento”. Ha fatto inoltre sapere che sono in arrivo degli aiuti per le famiglie che hanno perso le loro abitazioni. 11 ottobre. È attesa in questi giorni la nomina di Kirstjen Nielsen, un membro della squadra del capo dello staff John Kelly, come capo del dipartimento della Homeland Security. Nielsen è un’esperta di cyber-sicurezza, ma la sua nomina dovrà essere ratificata dal Senato. 12 ottobre. Secondo alcune indiscrezioni, gli Stati Uniti sarebbero prossimi a ritirarsi, pur mantenendo lo status di Paese osservatore, dall’UNESCO. Ciò sarebbe dovuto alla decisione

HIGH STAKES POLITICS WITH CHILDREN’S FUTURE

Trump cancels Deferred Action for Childhood Arrivals policy

By Kevin Ferri In September, the Trump administration ended the “Deferred Action for Childhood Arrivals” policy (D.A.C.A.), which began in 2012 under former president Barack Obama. The program allowed nearly 800.000 so-called “Dreamers” to work legally in the United States without being deported. The aforementioned policy was aimed at young people who came to the United States illegally as children. On Sunday, the White House released a list of “hard-line immigration principles”, thus threatening to derail a deal in Congress to allow hundreds of thousands of younger undocumented immigrants to remain in the country legally. Accordingly to a document distributed to the Congress, the administration’s wish list includes the funding of a wall between Mexico and the U.S., a crackdown on the influx of Central American minors and curbs on federal grants to “sanctuary cities”. However, the list released by the administration would represent a major tightening of immigration laws. Indeed, cuts to legal immigration are also included. And, while Democrats have called for a path to citizenship for all the Dreamers (1.5 million people), on Sunday night, a White House aide said that the administration

is “not interested in granting a path to citizenship” in a deal to preserve the Deferred Action for Childhood Arrivals program. “The administration can’t be serious about compromise or helping the ‘Dreamers’ if they begin with a list that is anathema to the Dreamers, to the immigrant community and to the vast majority of Americans”, Schumer and Pelosi said in a joint statement on Sunday. President Trump has previously said that funding for the wall could be addressed separately and suggested that he did not expect it to be included in any D.A.C.A. bill. Lujan Grisham also condemned the decision to use the futures of hundreds of thousands of people to further White House policy goals. “It is immoral for the president to use the lives of these young people as bargaining chips in his quest to impose his cruel, anti-immigrant and un-American agenda on our nation”, she said in a statement. While Trump’s list will appeal to a number of conservative Republicans, some lawmakers in the party are wary of sweeping reforms. At a Senate hearing last week, Thom Tillis, a Republican from North Carolina who has proposed legislation to protect D.A.C.A. recipients, warned: “If Congress has proven an extraordinary ability to do anything, it’s to fail at comprehensive immigration reform”.

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NORD AMERICA dell’agenzia di dichiarare la città di Hebron, situata nella West Bank, un sito palestinese. Il segretario Tillerson, d’accordo con il Presidente, avrebbe preso la decisione già alcune settimane fa, ma starebbe aspettando che il nuovo Direttore Generale venga scelto e si insedi. Questa presa di posizione arriva al culmine di un percorso che ha visto il governo statunitense tagliare progressivamente, ed in modo deciso, i fondi ad essa destinati.

CANADA 7 ottobre. Segnali positivi in materia di istruzione ed occupazione. Secondo uno studio governativo la disoccupazione giovanile è al minimo dal 2011. Nel frattempo, nello stesso periodo di tempo, il numero di ragazzi che si sono iscritti ad un programma di studio superiore è il più alto in 6 anni. 11 ottobre. Inizia il tour istituzionale che porterà il primo ministro Justin Trudeau ed alcuni suoi ministri negli Stati Uniti prima ed in Messico poi. “Il Canada e gli Usa sono vicini ma soprattutto amici” ha dichiarato il primo ministro canadese che ha poi proseguito dicendo che “il nostro rapporto stretto farà sì che affronteremo e risolveremo insieme le sfide comuni”. Fra queste si discuterà di NAFTA, energia e commercio estero. A cura di Alessandro Dalpasso 6 • MSOI the Post

USA: NUOVE TASSE PER IL CANADA Si incrinano i rapporti con Ottawa

Di Martina Santi Si stringe la morsa del protezionismo di Trump, con l’arrivo di nuove imposizioni sui prodotti di importazione canadesi in territorio statunitense. Di fronte ad una campagna elettorale in cui è stato ripetutamente promesso dal tycoon repubblicano di riportare gli Stati Uniti ai fasti di un tempo (all’insegna dello slogan “America first!”), una rivoluzione nei rapporti commerciali con Cina e Messico era prevista. Lo stesso non si può dire per il Canada, storico alleato e partner commerciale degli USA. Ad aprile, la decisione di imporre una tassa per il 20% del valore sull’importazione di legname dal Canada, aveva suscitato lo scontento delle imprese canadesi. La decisione è stata qualificata come misura anti-dumping. La convinzione delle industrie americane, infatti, è che il Canada finanzi, tramite sussidi statali, le proprie imprese, così che queste possano vendere i loro prodotti ad un prezzo inferiore, negli USA. In risposta, Jutin Trudeau ha esortato al raggiungimento di un accordo a lungo termine tra le due potenze. Con una certa amarezza, Ottawa ha però ricordato che la compromissione di un rapporto bilaterale che lega i due Paesi da anni, non potrà

che danneggiare entrambi i fronti. A distanza di pochi mesi, Washington si appresta a giocare un nuovo braccio di ferro con il vicino. Questa volta, è l’azienda canadese Bombardier, specializzata nel settore aerospaziale, ad essere finita nel mirino delle lobbies americane. L’azione è partita dalla Boeing, l’equivalente statunitense del colosso canadese, che ha recentemente attaccato la Bombardier accusandola di aver venduto i suoi jet serie C a prezzi inferiori negli USA, rispetto a quelli a cui sono venduti in Canada. Il presidente Trump non ha tardato a schierarsi a sostegno della Boeing, imponendo una maxi tassa del 220% sull’importazione degli aerei della multinazionale canadese. L’accusa è stata, però, rigettata dalla Bombardier, che ha fatto pervenire la propria risposta: “The U.S. government should reject Boeing’s attempt to tilt the playing field unfairly in its favour and to impose an indirect tax on the flying public through unjustified import tariffs.” La questione è stata commentata anche dal primo ministro inglese, Theresa May, la quale si è detta “bitterly disappointed”. La Bombardier, infatti, impiega migliaia di lavoratori in Irlanda del Nord.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole IRAN 10 ottobre. Gli osservatori politici iraniani hanno avvertito che le politiche di Trump, e in particolare le sue minacce, potrebbero demoralizzare i riformisti e far ricadere il Paese nuovamente in un periodo di incertezza politica e recessione economica. LIBIA 9 ottobre. A Sabratha, la città chiave libica nell’ambito della migrazione, in quanto punto di partenza della maggior parte di barconi, sono finiti gli scontri che erano in corso da qualche settimana. La milizia del governo di unità nazionale di al-Serraj è stata sconfitta. La milizia, che era anche stata fortemente sostenuta dall’Italia, ha perso il controllo della città.

LE IDENTITA’ NEGATE: #WHERE IS MY NAME?

La lotta social delle donne afghane private delle loro identità dalle usanze tribali

Di Maria Francesca Bottura In occidente capita spesso di associare il nome al volto di una persona, come se la fisionomia umana derivasse dal nome scritto sul documento di identità. Nessuno potrebbe immaginarsi con un nome diverso dal proprio. Eppure, per la donne afghane, è così. I loro nomi variano dalle circostanze, dalle decisioni dei loro mariti, padri, figli o addirittura dai loro insegnanti. Una volta è “la mia capretta”, la volta dopo è “la madre dei miei figli” o “la moglie di…”.

KURDISTAN 9 ottobre. Mentre l’Iraq agisce duramente verso la popolazione curda in seguito al referendum, il Kurdistan dichiara di aver ricevuto una sorta di minaccia anche da parte del vicino Iran, che ha notevolmente ridotto le riserve d’acqua destinate al Paese.

In Afghanistan dire il nome della propria moglie, figlia o sorella in pubblico non è considerato un reato agli occhi della legge, ma lo è secondo le tradizioni tribali. Nessun nome sui certificati medici, nessun nome sulle lapidi o a scuola. Nessuno chiama le donne con i loro nomi, negando loro il diritto ad avere un’identità e di essere libere.

PALESTINA 9 ottobre. Sembra che si sia raggiunto un accordo tra le due

La campagna #whereismyname è nata ad Herat, ed ha già ottenuto numerosi consensi tra politici, artisti e personalità di spicco del governo, tra cui il presidente Ashraf Ghani che soli pochi anni fa osò nominare il nome della moglie durante una cerimonia pubblica, creando grande scalpore. Anche il cantante afghano

Farhad Darya ha dimostrato la sua solidarietà alla campagna pubblicando una foto con sua moglie e scrivendo nella didascalia entrambi i loro nomi. Secondo quanto riportato nell’intervista del New York Times al sociologo afghano Hassan Rizayee, “il corpo, il volto e persino l’identità di una donna appartengono, secondo le usanze tribali, all’uomo”. A supportare questa tesi ci sarebbe anche una legge, come ha sottolineato un video girato per la BBC da Thompson-Reuters, che impedirebbe al nome delle madri di essere segnato sui certificati di nascita dei loro figli. A parlare nel video è Zuhura Baham, giornalista afghana presso il giornale londinese The Guardian, secondo cui “Questa usanza ha creato una situazione in cui le donne non prendono piena parte alla vita sociale, [...] gli uomini iniziano a sentirsi come i proprietari delle donne a cui sono legati”. “Ho deciso di partecipare perché sono stanca di vivere nel Medioevo quando siamo nel XXI secolo”, scrive una delle ragazze aderenti alla campagna al France Presse. In Afghanistan sussistono ancora oggi numerosissime restrizioni per le donne, come quelle di non poter trattare con mercanti di sesso maschile o di indossare vestiti dai colori vivaci.

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MEDIO ORIENTE forze rivali palestinesi Hamas e Fatah, per favorire, tramite la riconciliazione, la stabilità nel Paese.

TUTTO PER UNA BANDIERA La repressione delle autoritá egiziane contro la comunitá LGBTQ+

QATAR 6 ottobre. Il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha visitato ufficialmente il Qatar dopo la riapertura delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi avvenuta ad agosto. 7 ottobre. Il governo assicura che in nessun caso l’attuale crisi del Golfo causerà dei problemi per la prevista Coppa del Mondo di calcio del 2022 che si svolgerà, appunto, in Qatar. TURCHIA 10 ottobre. Il presidente Erdogan ha definito “rattristante” la decisione del governo statunitense di sospendere tutti i visti per i cittadini turchi che vogliono visitare gli Stati Uniti senza il proposito di immigrare. A cura di Lucky Dalena

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Di Martina Terraglia Si potrebbe quasi dire che, ovunque vadano, i Mashrou’ Leila si lasciano dietro una scia di repressione. Se prima era toccato alla Giordania, ora è il turno dell’Egitto. Il 22 settembre si è tenuto al Cairo il concerto della band libanese, durante l’evento alcuni ragazzi hanno sventolato una bandiera arcobaleno. Il giorno seguente, le autorità hanno dato il via a una serie di arresti che, ad oggi, ha visto la detenzione di oltre 50 persone. La maggior parte degli arresti ha colpito uomini, i quali sono stati sottoposti ad esami anali e, secondo testimonianze riportate dai maggiori outlet internazionali e INGO, a percosse da parte di altri carcerati, spesso incitati dagli agenti di polizia. Amnesty International ha richiesto l’immediata scarcerazione di chiunque sia stato colpito, sottolineando come gli esami anali siano illegali secondo le leggi internazionali ed equiparabili ad atti di tortura. Le autorità egiziane hanno dichiarato che gli esami sono svolti da un medico, nel pieno rispetto dell’etica e della professione. Attualmente, l’omosessualità non è considerata illegale dal-

la legislazione egiziana, ma lo sono atti omosessuali in luogo pubblico: ciò ha fornito un pretesto agli arresti, con le aggravanti di dissolutezza e oscenità; d’altro canto, sono proibiti i riferimenti all’omosessualità nei media, a meno che non si adottino toni denigratori. Intanto, il parlamento egiziano discute un disegno legge che criminalizzerebbe l’omosessualità. Questi eventi giungono in un momento particolare per l’Egitto. Il governo di al-Sisi sembra cercare di mantenersi in un equilibrio assai precario: le accuse di violazioni dei diritti umani gli sono costati milioni in sussidi dagli USA. Ciononostante, l’Egitto è rimasto fermo nella suo non-sostegno dei diritti della comunità LGBT+ anche nelle sedute delle Nazioni Unite. Al governo simili posizioni hanno guadagnato il plauso della parte più conservatrice del Paese, sia tra i copti sia tra i musulmani. Mentre l’Egitto fa il gioco della politica, ragazzi tra i 20 e i 30 anni sono in carcere, dove subiscono vessazioni fisiche e verbali. Mentre gli esiti dei processi sono attesi per la fine di ottobre, molti altri vivono nel terrore: “Rischiamo la galera e l’umiliazione per il solo fatto di esistere”.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole MONTENEGRO 12 ottobre. In vista dell’adesione alla NATO, il Montenegro manderà i in pensione gli ufficial che hanno iniziato la loro carriera sotto l’ormai non più esistente Armata Popolare Jugoslava. Il Ministro montenegrino sottolinea che questa azione serve a inserire nei ranghi dell’esercito i nuovi giovani ufficiali. NAGORNO-KARABAKH 12 ottobre. Concluso senza incidenti il monitoraggio sulla regione contesa fra Azerbaijan e Armenia condotto sotto il mandato dell’OSCE: queste le dichiarazioni del Ministro della Difesa azero. Il monitoraggio è stato condotto sul fronte azero da Simon Tiller e Ghenadie Petrica, sul fronte armeno da MIkhail Olaru e Ognjen Jovic. L’Armenia, tuttavia, non ha ancora implementato le 4 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 1994 sul ritiro delle forze armate dalla regione. RUSSIA 11 ottobre. Procedono i lavori per la costruzione del ponte di 19 km sul Mar Nero, che connetterà la Russia con la Crimea. Il progetto, dichiaratamente politico, che cerca di cementare anche fisicamente i collegamenti con la Crimea, aprirà alle auto nel dicembre 2018. I passaggi ferroviari saranno invece possibili a partire dal 2019.

9 ottobre. Facebook ha confermato che circa il 5% dei messaggi pubblicitari apparsi sulle

“BUON COMPLEANNO, PRESIDENTE!” Centinaia di russi scesi in piazza per protestare contro il governo Putin

Di Andrea Bertazzoni Sabato scorso, in diverse città della Russia, sono scese in piazza centinaia di cittadini. Nonostante fosse il 65° compleanno del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, i manifestanti non si sono riuniti per fargli gli auguri, bensì per criticarlo e chiederne le dimissioni. Gran parte dei contestatori ha voluto far sentire la propria voce soprattutto per chiedere alle autorità di permettere ad Aleksej Navalny di candidarsi alle presidenziali del 2018. Il blogger e oppositore russo non potrà infatti presentare la propria candidatura, in quanto a febbraio era stato condannato con la condizionale dal tribunale distrettuale di Kirov per peculato. Recentemente è inoltre finito in carcere, dove sconterà 20 giorni, in quanto avrebbe “invitato a partecipare a eventi non autorizzati”. Oltre alle bandiere russe, i seguaci di Navalny hanno sventolato poster e cartelloni con diversi slogan, tra cui “Per una Russia senza Putin”, “Putin, vattene, non siamo fatti l’uno per l’altro” o l’ironico “Buon compleanno, Presidente”. Le persone intervistate dalle emittenti locali e straniere hanno posto l’accento sul fatto che, più che trattarsi del primo oppo-

sitore di Putin, quello che chiedevano i protestanti è ottenere la possibilità di poter trovare sulla scheda elettorale gli esponenti di una vera opposizione al governo in carica. Tuttavia, se a Mosca la polizia si sarebbe limitata a esortare i manifestanti a disperdere la protesta in quanto “non autorizzata”, nelle altre città si sono verificati diversi scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine, le quali sono intervenute caricando la folla. Secondo quanto riportato dalla ONG OVD-Info, nelle 26 città coinvolte dalla protesta sarebbero state arrestate in totale 290 persone, mentre le autorità locali hanno parlato di “poco meno di una quarantina”, che sarebbe stata rilasciata in tarda serata. Sui social network sono stati pubblicati i filmati e le fotografie di alcuni giornalisti arrestati, tra cui due corrispondenti di Radio Svoboda, e di alcuni ragazzi che hanno riportato fratture. Queste ultime, secondo la polizia, sarebbero state causate dagli stessi manifestanti finiti sotto una camionetta delle forze dell’ordine nel tentativo di attaccarla. Aleksej Navalny, intervistato dai giornalisti in carcere, si è limitato a dichiararsi soddisfatto delle proteste degli attivisti e ha definito il comportamento della polizia “un gioco del Cremlino”.

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RUSSIA E BALCANI sue piattaforme (Facebook e Instagram) durante la campagna elettorale per la presidenza americana erano stati acquistati dalla Russia. Di particolare rilevanza il contenuto dei messaggi pubblicitari: immigrazione, legislazione sulle armi, e argomenti LGBT+.

ANNA POLITKOVSKAJA DIMENTICATA NELLA RUSSIA DI PUTIN Nessuna commemorazione per l’anniversario della morte della giornalista di denuncia

Di Ilaria Di Donato

SERBIA 10-11 ottobre. Il presidente turco Erdogan è in visita in Serbia. Dopo la prima giornata, martedì, nella quale si sono svolti gli incontri politici ed economici più importanti a Belgrado (sono stati firmati 12 accordi), nella giornata di mercoledì Erdogan e il presidente serbo Aleksander Vucic si sono recati insieme a Novi Pazar, la capitale della regione serba a maggioranza musulmana Sandzak, al confine col Kosovo, dove sono stati firmati altri 4 trattati. UCRAINA 10 ottobre. Tensioni fra l’Ucraina e l’Ungheria. Il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijiarto, ha deciso che chiederà all’EU di poter visionare i trattati in vigore con l’Ucraina perché, secondo l’Ungheria, questi sono stati violati. Una nuova legge ucraina, infatti, sancisce che le lezioni nelle scuole secondarie siano obbligatoriamente in ucraino. Questo, secondo l’Ungheria, discrimina la minoranza ungherese che abita nella regione della Transcarpazia. A cura di Elisa Todesco 10 • MSOI the Post

“Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano”. Le parole pronunciate da Anna Politkovskaya nel 2005 durante la conferenza di “Reporters sans Frontières” svoltasi a Vienna, sono state purtroppo profetiche: il 7 ottobre dell’anno successivo – giorno del compleanno del presidente Putin – la giornalista dei diritti umani è stata uccisa sotto la propria casa, a Mosca. Undici anni dopo questo omicidio che ha scosso l’opinione pubblica mondiale, nessuna commemorazione le viene riservata nella sua madrepatria. Una simile mancanza, del resto, era prevedibile stando al precedente dello scorso anno, quando in Russia scese in piazza solo una persona – il giornalista Konakov – per onorare la memoria della collega. Che la Politkovskaya fosse una voce disallineata rispetto alla massa di informazioni divulgate dai media russi, lo si deduce osservando il suo lavoro. Anna aveva lavorato per il giornale di inchiesta Novaya Gazeta, seguendo maggiormente le vicende sul conflitto armato in Cecenia, territorio nel quale si recò in prima persona. L’esperienza sul campo le permise di testimoniare i costanti abusi perpetrati dal Servizio di Si-

curezza Federale (FSB) – successore del KGB – che avevano il controllo delle operazioni svolte dalla Russia in quella regione. Uccisione di civili innocenti, corruzione, violazioni dei diritti umani: queste ed altre le denunce messe nero su bianco dalla Politkovskaja in due libri di inchiesta dopo la sua permanenza in Cecenia. Tematiche tabù per il governo russo, che aveva già mostrato nel 2001 di mal tollerare la libertà di narrazione della giornalista: quell’anno, infatti, militari russi arrestarono la Politkovskaja provando a dissuaderla dalla sua attività con la minaccia di un’esecuzione. A seguito di tali avvenimenti, Anna decise di lasciare il Paese e fuggire a Vienna, ma non restò a lungo lontana dal suo Paese. Nel 2005 pubblicò il suo libro più celebre, “La Russia di Putin”, un’inchiesta sul governo di Putin, sulla gestione del dissenso da parte del presidente e sulle responsabilità del governo nelle guerre cecene. A più di un decennio dalla sua uccisione, il processo contro i suoi assassini ha portato alla condanna degli esecutori ma nulla si sa sui veri mandanti del delitto. Un’empasse, quella che si verifica nelle aule di tribunale, cui fa da pendant il silenzio del mondo dell’informazione in Russia.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole COREA DEL NORD

LA BREXIT ALLONTANA L’OCEANIA In campagna elettorale i Neozelandesi discutono se rimanere sudditi di Sua Maestà

10 ottobre. L’U.S. Air Force ha permesso a due bombardieri strategici B1-B di sorvolare la penisola Coreana, questo martedì. Dopo essere decollati dalla base aerea di Guam i due bombardieri, scortati da due caccia F-15, sono entrati nello spazio areo della Corea del Sud, hanno eseguito manovre di attacco simulato. Sempre martedì, in una conferenza tenuta in un’università Sud Coreana, l’ex presidente USA Jimmy Carter ha dichiarato di voler incontrare il dittatore Nord Coreano nel tentativo di avviare un processo di pacificazione duraturo.

FILIPPINE 11 ottobre. Il Presidente Rodrigo Duterte, dopo 15 mesi di lotta alla droga, ha ordinato alla polizia la cessazione di tutte le operazioni anti-droga. Secondo un memorandum rilasciato pubblicamente ad occuparsi della lotta alla droga sarà la Philippine Drug Enforcement Agency (PDEA). Secondo fonti autorevoli, sono più di 2.000 i morti conseguenti della lotta alla droga iniziata sotto il governo Duterte.

INDIA 11 ottobre. La corte suprema di Nuova Delhi, mercoledì, ha apportato modifiche ad una parte del codice legale del Paese, che permetteva agli uomini di avere rapporti sessuali con le loro mogli minorenni. Una decisione che secondo gruppi in difesa dei diritti umani sarebbe un importante passo

Di Luca De Santis La corsa elettorale in Nuova Zelanda non si è ancora del tutto conclusa. Il premier uscente Bill English, conservatore, ha ottenuto con il suo Partito Nazionale il 47,04% dei voti. La sfidante socialdemocratica Jacinda Ardern, Partito Liberale, il 25,13%. Infine, il 10,7% è andato ai Verdi, guidati da James Shaw, mentre l’ultradestra conservativa e populista ha ottenuto l’8,66%. Nessun partito è risultato in grado di formare autonomamente un governo. La Nuova Zelanda usa il mixed-member proportional system (MMP), proporzionale e con soglia di sbarramento al 5% per eleggere la Camera dei Rappresentanti. Ogni elettore esprime un voto per un partito politico e uno per un candidato locale. Dei 120 seggi, 71 sono occupati da parlamentari eletti col maggior numero di voti. I restanti 49 vengono assegnati sulla base di liste chiuse. Il partito politico o la coalizione con la maggioranza dei seggi in Parlamento forma il Governo. Sono tutt’ora in corso le consultazioni fra i vari partiti per formare una coalizione vincente in grado di governare la Nuova Zelanda. Il futuro sembra essere nelle mani del nazionalista Peters e del suo New Zealand First. Chi riuscirà a sedurlo? Il Partito Laburista ha promesso di ridurre l’immigrazione di

almeno 20-30000 unità annue. I suoi esponenti affermano di voler introdurre una legge restrittiva che assicuri ai neozelandesi di essere assunti prima degli stranieri. I negoziati potrebbero durare settimane. Tra i temi dibattuti in campagna elettorale è tornata in auge l’opportunità di rimanere una monarchia costituzionale o di tagliare piuttosto i ponti con la famiglia reale inglese. L’insofferenza verso la Corona è andata crescendo nel Paese dopo la Brexit. Sono stati a favore della Repubblica sia la Ardern sia Bill English. La discussione ha preso piede anche in Australia e l’eventualità di un congedo da Londra divide i contendenti. Le elezioni sono previste tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019. Da un lato, il premier Malcolm Turnbull conferma di non essere intenzionato ad indire un referendum Monarchia-Repubblica con Elisabetta II ancora vivente (ha dichiarato “sono un repubblicano ma anche un elisabettiano”). Dall’altro, il leader dell’opposizione Bill Shorten ha assicurato che in caso di vittoria consulterà gli australiani senza attendere la morte della regina. Un recente sondaggio ha rilevato che, ad oggi, il 51% degli elettori vorrebbe un Capo di Stato australiano, il 38% sarebbe per la monarchia e l’11% indeciso. MSOI the Post • 11


ORIENTE avanti nella difesa dei diritti delle giovani donne.

CAMBOGIA: DEMOCRAZIA A RISCHIO

Il governo di Hun Sen mette a tacere le forze di opposizione

MYANMAR 10 ottobre. L’ufficio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha riportato informazioni, secondo cuileforzedisicurezzadelMyanmar hanno allontanato dalle proprie case mezzo milione di musulmani Rohingya e per evitarne il ritorno hanno bruciato, distrutto tutto, compresi gli alberi. Jyoti Sanghera, respondabile della sezione Asia Pacifico dell’ONU per i diritti umani, ha chiesto al Myanmar la cessazione immediata delle violenze. Secondo quanto documentato dal New York Times, le violenze sarebbe molto più gravi di quello che si crede, con stupri ai danni di giovani donne ed omicidi, anche di bambini.

VIETNAM 11 ottobre. Violente inondazioni, hanno ucciso almeno 37 persone nel Vietnam del Nord. Secondo le autorità del Vietnam centrale e del Nord, è la più grave perdita di vite umane dovute ad inondazioni nella storia del Vietnam. Secondo l’autorità vietnamita per la prevenzione dei disastri, almeno 200 case sono andata distrutte e circa 18.000 sommerse o danneggiate. Preoccupante per la popolazione vietnamita è anche l’innalzamento del livello del mare, più di 3.260 km di costa hanno subito danni a causa delle inondazioni.

A cura di Emanuele Chieppa 12 • MSOI the Post

Di Virginia Orsili Venerdì 6 settembre, il governo cambogiano, guidato dal primo ministro Hun Sen, si è rivolto alla Corte Suprema per richiedere lo scioglimento del principale partito di opposizione, il Partito di Salvezza Nazionale Cambogiano (CNRP). La comunicazione è stata inoltrata dal ministro dell’Interno Phnom Penh, il quale sostiene che il CNRP abbia intrapreso una collaborazione segreta con altri Paesi, tra cui gli Stati Uniti, per far cadere il governo attuale. Per la medesima ragione, circa un mese fa, il Presidente del partito, Kem Sokha, è stato arrestato a causa di un filmato risalente al 2013, in cui discute di come gli USA abbiano ingaggiato alcuni esperti e professori universitari per “suggerire una strategia per sostituire la classe dirigente” cambogiana. Il prossimo anno, in Cambogia si terranno nuove elezioni. Nelle precedenti, svoltesi nel 2013, il CNRP si era avvicinato, contro ogni previsione, a vincere le parlamentari. Il partito di opposizione riscuote notevole successo tra la fascia dei giovani educati del Paese, che spera in una maggiore libertà e giustizia politica e sociale. Diversi membri del partito si sono apprestati a lasciare il Regno sotto minaccia di ulteriori arresti da parte del

Premier. Tra di essi, spicca il vice-capo del partito Mu Sochua, che ha dichiarato: “La democrazia in Cambogia sta arrivando ad un punto in cui non è rimasta nessuna forza di opposizione per combattere la dittatura”. Il Partito Popolare Cambogiano di Hun Sen, al potere da 35 anni, si avvale da un lato dell’appoggio della Cina, sotto forma di investimenti, e dall’altro di un apparato militare ed istituzionale degno di un regime dittatoriale. Recentemente, il governo ha ordinato la chiusura dell’Istituto Democratico Nazionale, finanziato dagli USA, di alcune stazioni radio indipendenti, come Radio Free Asia e Voice of America, e ha imposto al Cambodia Daily il pagamento di un’imposta che di fatto l’ha costretta alla chiusura. Diversi attivisti politici e per i diritti umani sono stati arrestati e Hun Sen ha affermato di poter “eliminare anche 100 persone” se necessario a proteggere la “sicurezza nazionale”. Dall’Occidente sono giunte critiche per l’arresto di Kem Sohka, chiedendone rilascio immediato in vista delle elezioni. Nessuna azione concreta è stata però intrapresa a questo scopo. Mu Sochua ha lanciato un appello: “è necessario che la comunità internazionale chiarisca che il prossimo governo non sarà riconosciuto, se non ci saranno elezioni giuste e libere.”


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

COSTA D’AVORIO 9 ottobre. Il capo di protocollo dell’Assemblea Nazionale ivoriana, Souleymane Kamarate Koné, è stato arrestato per l’accusa di “complotto contro lo Stato”. Koné sarebbe coinvolto in un affare giudiziario riguardo la scoperta di un nascondiglio di armi scoperto a Bouaké, città nel centro del Paese. KENYA 11 ottobre. La polizia ha aperto il fuoco contro un gruppo di manifestanti che, nella baraccopoli di Kondele a ovest del Paese, chiedeva una revisione della commissione elettorale istituita per le elezioni presidenziali del 26 ottobre prossimo. Lo scontro ha causato una 4 feriti gravi. NIGER 10 ottobre. Più di 500 dipendenti della filiale Somaïr del gruppo nucleare francese Areva, perderanno il posto di lavoro a causa dei problemi economici dell’azienda che necessita di una riforma interna. I sindacati dei lavoratori hanno dichiarato che tale misura avrebbe effetti disastrosi sulla società e sull’economia del Paese. Il Niger, infatti, pur essendo uno dei maggiori produttori di uranio al mondo, rimane un paese povero. RUANDA 10 ottobre. Human Rights Watch, organizzazione in difesa dei diritti dell’uomo, ha accusato,

MALI: LA SITUAZIONE RESTA TESA Tra terrorismo e malnutrizione

Di Guglielmo Fasana Significativi passi in avanti verso la stabilizzazione sono stati compiuti ad agosto, quando è stata raggiunta una tregua, e successivamente a settembre, quando tra le parti sono stati presi ulteriori impegni a cessare le ostilità. Tuttavia, sebbene il momento peggiore della crisi che minacciava il processo di pace in Mali possa sembrare ormai superato, rimane sempre alto il rischio che corrono quotidianamente la popolazione civile e i peacekeepers della missione MINUSMA. A tutti gli effetti, come afferma Mahamat Saleh Annadif, Rappresentante Speciale per il Mali e capo del MINUSMA, le questioni relative alla sicurezza nel Paese rimangono l’ostacolo principale da affrontare, vista la quasi quotidiana perdita di vite umane registrata tra i militari dell’esercito maliano e i Caschi Blu dell’ONU, a causa del gran numero di ordigni esplosivi improvvisati. Intanto anche il Consiglio di Sicurezza ha fatto sentire la propria voce e, dopo aver approvato un nuovo regime di sanzioni economiche, il 6 ottobre 2017 ha rilasciato una dichiarazione nella quale reitera il proprio sostegno al Group of Five per la regione del Sahel.

Secondo i 15 Paesi membri del Consiglio, l’impegno deve essere mantenuto costante nella lotta al terrorismo e nell’affermazione del diritto internazionale, per mettere fine agli abusi e alle violazioni dei diritti umani. Inoltre, si è messo l’accento sulla tabella di marcia dell’implementazione degli accordi presi, con il termine ultimo nel 2018. In questo scenario incerto, a pagare il prezzo più elevato sono come sempre le categorie più deboli, e in particolare i bambini. L’UNICEF ha infatti messo in guardia la comunità internazionale sul rischio di malnutrizione, che si fa sempre più concreto per circa 165.000 bambini. I livelli più gravi si sono riscontrati nelle aree più esposte al conflitto, a causa del peggioramento generale delle condizioni di vita della popolazione, con incrementi del 15% a Gao e Timbuktu. Con il processo di pace ormai definito nei suoi aspetti cruciali, e grazie all’intervento delle Nazioni Unite a sostenere la lotta alle formazioni terroristiche nel Paese, l’attenzione deve concentrarsi sulle condizioni di vita della popolazione. Questa, a causa delle violenze, si è trovata costretta ad affrontare una migrazione forzata, di fronte al collasso del Paese. MSOI the Post • 13


AFRICA in un rapporto dettagliato di 91 pagine, il governo e l’esercito ruandese di aver detenuto illegalmente e torturato 104 persone tra il 2010 e il 2016. La condanna arriva dopo pochi mesi dalla vittoria elettorale di Paul Kagame, che già in passato era stato accusato di autoritarismo e violazione dei diritti umani. SENEGAL 6 ottobre. Lo Stato ha negato l’accesso a scuola per 3.000 studenti sotto disposizione del Ministero dell’Interno che, con una delibera di settembre scorso, ha ordinato la chiusura degli istituti scolastici Yavuz Selim. Queste scuole sarebbero vicine a Fethullah Gülen, predicatore turco esiliato nel 1999 negli Stati Uniti e considerato dal governo turco di Erdogan come attentatore.

SUDAN 6 ottobre. Gli Stati Uniti hanno revocato l’embargo economico nei confronti del Sudan. Le sanzioni sono state applicate nel 1997 a causa del legame del Paese con i gruppi radicali jihadista. L’amministrazione di Barack Obama aveva già sospeso per 6 mesi l’embargo riconoscendo l’impegno del Presidente Omar Al-Bashir, nonostante la presenza ancora massiccia dei gruppi terroristici. A cura di Chiara Zaghi

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KENYA: NUOVO ATTACCO AGLI STUDENTI

Colpiti gli universitari kenioti nel pieno del periodo pre-elettorale

Di Francesco Tosco Un gruppo di uomini armati ha aperto il fuoco nel campus universitario di Kwale, a 35 km da Mombasa, in Kenya. Secondo quanto riferito dalla polizia, circa una decina di attentatori sarebbero usciti dalla boscaglia ed avrebbero sparato su di un autobus che stava portando nelle aule gli studenti. Sono decedute due donne che lavoravano presso l’ateneo, ma il numero dei feriti non è ancora sicuro. Nonostante resti ignota l’identità e l’affiliazione degli attentatori, si teme che questo possa essere un altro attacco ad opera del gruppo jihadista somalo al-Shabaab, presente nel Paese dal 2006. Al-Shabaab è responsabile anche dell’attacco all’Università di Garissa del 2 aprile 2015, quando un commando armato aveva fatto irruzione nel campus universitario occupandolo: il bilancio delle vittime è stato di 148 studenti uccisi. Dopo l’attentato, il governo ha messo in atto misure molto severe per garantire la protezione delle università. Questa minaccia terroristica non poteva arrivare in un momento peggiore per il Paese africano. Il Kenya, infatti, è da due mesi in uno stallo politico molto pericoloso. Le elezioni di agosto sono

state vinte dal presidente uscente Uhuru Kenyatta, ma la Corte Suprema le ha annullate in seguito alla denuncia per brogli elettorali presentata dal leader dell’opposizione Raila Odinga. La data fissata per le nuove elezioni sarà il prossimo 26 ottobre, motivo per cui, in tutto il Paese, il fermento e la tensione pre-elettorale sono ai massimi livelli. L’Università di Nairobi è stata chiusa “per motivi di sicurezza” in seguito alle proteste contro il Presidente che han portato al ferimento di 27 studenti da parte delle forze di polizia. Il capo dell’opposizione, Odinga ha fatto sapere di voler rinunciare alla candidatura poiché: “la Commissione Elettorale che vigila sulle elezioni non ha alcuna intenzione di impedire che avvengano altri brogli elettorali”. Mentre il presidente Kenyatta provoca l’avversario intimandogli di desistere, si moltiplicano in tutto il Paese manifestazioni di protesta in favore dell’opposizione che chiedono nuove regole per prevenire i imbrogli. Il clima sociale di questi giorni è caratterizzato da una forte tensione e dall’incertezza, destinate a crescere giorno per giorno fino alla data delle elezioni, quando forse il Kenya potrà voltare le spalle alla crisi.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole ARGENTINA 12 ottobre. Una serie di arresti condotti tra Palermo, Bagheria, Roma e Tolmezzo ha portato alla luce un traffico internazionale di droga tra l’Italia e l’Argentina. L’operazione ha anche portato al sequestro di 5 chili di cocaina all’aeroporto di Buenos Aires. Le forze politiche dei rispettivi Paesi non hanno ancora espresso alcun parere in merito.

COLOMBIA 10 ottobre. L’ex-gruppo rivoluzionario FARC ha ultimato il suo passaggio da gruppo armato a partito politico. Questa trasformazione segna l’epilogo di un lungo processo di pace con il governo colombiano, cominciato l’anno scorso, anche grazie la mediazione del Papa e di Cuba.

BRASILE 7 ottobre. Un tribunale federale brasiliano ha accolto la richiesta di rilascio avanzata dalla difesa di Cesare Battisti, concedendogli la libertà. Nelle ultime ore però sembra sempre più probabile l’ipotesi che il governo brasiliano estradi l’ex- terrorista poiché il presidente brasiliano Tamer avrebbe intenzione di re-

L’EDERITÀ DELLA PRESIDENTE DEL CILE Aborto e matrimonio “egualitario”

Di Sveva Morgigni Mancano solo sei mesi alla conclusione del suo secondo mandato, ma prima di fare un bilancio, Michelle Bachelet vuole aspettare: dichiara di avere ancora leggi da presentare e sostiene che le conseguenze di alcune delle sue riforme si vedranno solo con il tempo. Durante le sue amministrazioni, Bachelet ha promosso una serie di riforme liberali e di stampo conservatore, ma non sono mancate iniziative più “rivoluzionarie”. Una di queste è stata la parziale depenalizzazione dell’aborto. La legge è riuscita a trovare l’appoggio di entrambi i rami del Parlamento,derogando, in tre soli casi, la penalizzazione sancita dalla Costituzione del 1989 sotto la dittatura militare di Pinochet. Nel messaggio che ha accompagnato il progetto, la Bachelet ha dichiarato: “uno Stato che rispetta i diritti umani non può essere orgoglioso di minacciare col carcere quelle donne che devono affrontare [questo] dramma”. Quello del Cile non è un caso eccezionale: l’aborto, infatti, è una delle pratiche più discusse nella società latino-americana. Le argomentazioni morali, religiose e politiche hanno sviluppato realtà giuridiche che trascendono il dualismo semplicistico di “a favore” e “contro” e sono espressione di un dibattito complesso che spesso si pone su

un piano diverso da altre questionirelative alla parità di genere. Per esempio, mentre nella maggior parte della Regione il matrimonio tra coppie omosessuali è garantito da tempo, negli stessi Paesi l’interruzione della gravidanza è permessa solo in alcuni, restrittivi casi. Le legislazioni nazionali dei paesi dell’America Latina sono, quindi, il riflesso di una realtà varia e controversa che spesso risulta contraddittoria: mentre cerca di mantenersi al passo con gli standard internazionali di rispetto dei diritti umani,mancaancora di riconoscere che gli uomini godono di enormi privilegi rispetto alle donne. In una Regione che, nell’ultimo decennio, ha visto al potere governi di centro-sinistra eredi dei socialismi dei primi anni ‘70, il Cile si è sempre caratterizzato per il suo forte carattere conservatore. In questo panoramala Presidente ha dichiarato che cercherà di colmare il divario coi Paesi vicini e legalizzare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La prima Presidente donna del Cile è riuscita ad avviare un processo di grandi cambiamenti sociali e culturali che mostrerà i suoi frutti più importanti soltanto nei prossimi anni. Solo il tempo, infatti, potrà dire se il contributo di Michelle Bachelet alla “modernizzazione legislativa” del Paese sarà foriero di una maggiore giustizia sostanziale. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA vocargli l’asilo.

DISCORSO SULLO STATO DELLA RIVOLUZIONE

Il sogno di Cuba a 50 anni dalla morte di Ernesto Che Guevara

11 ottobre. Una nuova inchiesta dell’UNICEF ha denunciato l’altissimo numero di adolescenti tra i 12 e i 18 anni assassinati nello Stato sudamericano. Le cifre, confermate anche dal Fondo delle Nazioni Unite, parlano di 3,65 giovani uccisi ogni 1.000. MESSICO 11 ottobre. In un carcere messicano, vicino a Monterrey, a seguito di uno scontro tra carcerati e poliziotti, sono morte 13 persone. Le guardie carcerarie erano intervenute per sedare una rissa tra gang rivali all’interno della prigione; uno di loro è in gravi condizioni, mentre due dei detenuti rimasti uccisi presentano delle ferite da arma da fuoco. VENEZUELA 8 ottobre. Il giornalista italiano Roberto Di Matteo è stato rilasciato dalle autorità venezuelane, insieme ad altri due colleghi. I reporter erano stati fermati il giorno precedente mentre cercavano di entrare all’interno di un carcere dello Stato di Aragua per condurre un’inchiesta. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha definito il rilascio “una buona notizia”. A cura di Elisa Zamuner

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Di Daniele Pennavaria A Santa Clara, Cuba, davanti a Istituzioni e Società Civile la mattina dell’8 ottobre si è svolta la Commemorazione per i “Cinquant’anni dalla Caduta in Combattimento del Guerrillero Heroico e dei suoi compagni”. Il primo a rendere omaggio è stato Raúl Castro, presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri, oltre che Primo Segretario del Partito Comunista cubano. Dopo diverse performance artistiche e discorsi di giovanissimi leader studenteschi, l’evento si è concluso con l’intervento di Miguel Díaz-Canel Bermúdez, membro dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale del Partito e primo vicepresidente dei Consigli di Stato e dei Ministri, che ha reso omaggio a Ernesto Guevara definendolo, nelle parole di Fidel Castro, un “esempio colossale che perdura e si moltiplica giorno dopo giorno”. Il principale contributo di Díaz-Canel Bermúdez, però, è da trovarsi in un rinnovato discorso antimperialista e nell’ottimismo per il futuro dell’Isola, in uno scenario in cui è ancora difficile individuare, nell’attuale leadership cubana, una figura che riesca a dimostrare l’autorevolezza di Fidel o il consenso internazionale che “El Che” riscosse all’epoca.

La Cuba di oggi, infatti, è lontana da quella che Guevara si è lasciato alle spalle, e pur richiamandone l’esempio e le imprese, i problemi della Cuba odierna sono diversi da quelli che la Revolución si apprestava ad affrontare negli anni ‘50. Nonostante i successi istituzionali come l’abbattimento dei tassi di analfabetismo, la situazione economica, che col supporto dell’URSS era progressivamente migliorata, è tornata a complicarsi con la crisi che le sinistre latinoamericane hanno vissuto nell’ultimo decennio. In questo scenario, la distensione con gli USA avviata da Obama avrebbe garantito più stabilità e sicurezza, ma l’amministrazione Trump ha bloccato il processo e l’embargo continuerà a soffocare l’economia e la posizione internazionale del Paese. È evidente, quindi, che nonostante le manifestazioni e i richiami all’icona del Che Guevara e agli ideali della Rivoluzione, Cuba continui a dover affrontare le grandi sfide che hanno caratterizzato gli ultimi 50 anni della sua storia: la convivenza nel contesto interna ionale mantenendo un sistema considerato necessario per garantire la sovranità del Paese, e le condizioni di povertà in cui, malgrado gli interventi statali, è costretta a vivere larga parte della popolazione.


ECONOMIA BARCELLONA CONTRO - PARTE I

Cause e conseguenze politico-economiche dell’indipendentismo catalano

Di Michelangelo Inverso L’affaire catalano potrebbe presto superare il punto di non ritorno. Lunedi 16 ottobre, per l’esattezza. Ripercorriamo brevemente le tappe di questa crisi storica dello Stato spagnolo. Con una crescita nell’industria automobilistica, elettronica, chimica, tessile e, negli ultimi anni, anche nel settore agricolo e dell’alimentazione, la Catalogna rappresenta la regione più ricca della penisola iberica, detenendo il 25% della produzione nazionale. I servizi rappresentano 60% dell’attività economica, l’industria il 36% e l’agricoltura meno del 4%. Una situazione che, con le dovute misure, potrebbe essere paragonabile al nostro NordEst come punta di diamante dell’economia nazionale e traino delle altre regioni più povere. Tuttavia, a differenza del nostro Nord-Est, la Catalogna non è nuova a contestazioni e pulsioni separatiste nei confronti di Madrid. Fin dalla fine dell’800 si iniziò a discutere di maggiori autonomie rispetto al Centro, sulla base di un rudimentale nazionalismo basato sulla lingua (il catalano rispetto al castigliano) e della storia pre-unitaria della regione di Barcellona (lo Stato-Nazione

spagnolo risale al 1469). Tale battaglia sembrava, però, essere stata definitivamente persa con la fine della guerra civile spagnola, e la vittoria del fronte nazionalista guidato da Francisco Franco, che avrebbe governato fino alla sua morte nel 1975. Con la fine della dittatura e l’ingresso nell’Ue, l’economia catalana ha trascinato l’intero Paese verso la sua modernizzazione. Ma è proprio in virtù di questo successo catalano che si è ricominciato a parlare di autonomie. Infatti, con la crisi economica, per la Spagna, è iniziata una spirale recessiva profonda, che ha portato Madrid ad aumentare il drenaggio di risorse da Barcellona al fine di redistribuirle nel Paese (specialmente sotto forma di aiuti al disastrato settore bancario), provocando così un crescente malcontento tra le autorità locali e la popolazione. Se queste sono, dunque, le ragioni degli indipendentisti, altrettanto forti sono quelle del governo spagnolo. Lo Stato centrale, tradizionalmente, dovendosi scontrare su più fronti - si consideri che non solo la Catalogna, ma anche i Paesi Baschi aspirano all’autogoverno - ha sempre agito con durezza nei confronti degli indipendentismi

locali. Facilmente, la concessione di maggiore autonomia ad una regione innescherebbe un effetto a catena, che potrebbe degenerare in una disgregazione dello Stato spagnolo come entità statuale unitaria. Tenuto conto di queste ragioni, si arriva a comprendere perché Madrid ritenga inaccettabile qualunque concessione agli autonomisti baschi o catalani, come ad esempio dimostra la soppressione dello Statuto autonomo catalano, approvato tramite referendum nel 2006 e annullato dalla Corte Costituzionale nel 2010. A differenza di quanto accaduto nel recente passato democratico spagnolo, quando queste iniziative venivano disinnescate senza particolare rumore, stavolta gli eventi potrebbero evolversi negativamente, se si considera anche il fatto che nessuno sembra prendere sul serio la degenerazione dei problemi irrisolti. È avventato prodromi di parlare di guerra civile, ma due sono le novità rispetto al passato: il coinvolgimento opposto della polizia catalana e della polizia spagnola e lo scontro politico senza precedenti tra il presidente catalano Charles Puigdemont e il premier spagnolo Mariano Rajoy. (Continua...)

MSOI the Post • 17


ECONOMIA LA COMMISSIONE EUROPEA PROVA A SBLOCCARE I NEGOZIATI PER L’UNIONE BANCARIA L’esecutivo comunitario mira a completare l’opera entro il 2018

Di Giacomo Robasto

dei singoli Stati.

Il settore bancario rimane sicuramente tra quelli prioritari nell’ambito dell’agenda finanziaria internazionale, dal momento che in Europa persistono numerose criticità ad esso relative cui dare risposta. Tra queste problematiche, prima fra tutte vi è l’eccessiva quantità di crediti deteriorati (i cosiddetti NPL, “nonperforming loans”) che pesano sui bilanci delle banche, ai quali è necessario trovare una soluzione con rigore, senza però imporre una legislazione troppo severa per gli istituti e, di conseguenza, dannosa all’erogazione del credito.

Pertanto, grazie all’unione bancaria, i governi non saranno più costretti, attraverso l’aumento dell’indebitamento pubblico, a promuovere operazioni di salvataggio di gruppi creditizi più o meno grandi, pesando in tal modo sulle spalle dei contribuenti. Infatti, come ha riferito mercoledì scorso il vicepresidente della Commissione europea ed ex primo ministro lettone Valdis Dombrovskis, affinché il settore bancario sia efficiente, è fondamentale che riesca ad assorbire le crisi e condivida i rischi attraverso canali privati, riducendo il bisogno di ricorrere a fondi pubblici.

La Commissione europea, negli ultimi giorni, ha ancora una volta sottolineato la necessità e l’importanza di una maggiore integrazione sulla vigilanza degli istituti di credito del Vecchio continente, che si perfezionerà con la tanto dibattuta unione bancaria. Quest’ultima si potrà definire totalmente realizzata nel momento in cui l’attività di vigilanza sulle banche europee sarà stata trasferita dalle singole autorità nazionali alle autorità comunitarie, con l’obiettivo primario di eliminare, o quantomeno allentare, i legami che si sono creati negli ultimi anni tra i crack bancari e i debiti

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In particolare, sul fronte spinoso e delicato delle sofferenze creditizie (queste pesano a livello di Eurozona per circa 1.000 miliardi di euro), la Commissione ha presentato un nuovo pacchetto di proposte, tra cui, innanzitutto, nuove norme affinché gli istituti possano negoziare su mercati secondari i titoli di credito di bassa qualità. L’esecutivo comunitario ha, inoltre, proposto di rilanciare il negoziato su una assicurazione in solido dei depositi bancari, terzo cardine della futura unione

bancaria che contempla anche una sorveglianza unica e una risoluzione unica. In pratica, la nuova proposta prevede che l’intervento europeo in caso di crisi bancaria non copra le perdite nette, ma eroghi un prestito al sistema bancario in difficoltà. L’obiettivo è concretizzare una politica di condivisione dei rischi, vincendo le ritrosie della Germania in materia. La Commissione ha, infine, avanzato l’idea che il Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM), operativo già dal 2012, si trasformi in una sorta di “paracadute finanziario” in attesa che il Fondo europeo di risoluzione bancaria, entrato in vigore il 1° gennaio 2016, finanziato gradualmente dagli istituti di credito, sia pienamente a regime. L’esecutivo di Bruxelles si è dunque fatto avanti per portare a compimento un processo che è ancora in corso e darà vita all’unione bancaria continentale, che, secondo i piani, garantirà una riduzione dei rischi nel settore grazie a una maggiore condivisione dei rischi stessi. Ma la strada di qui alla fine del 2018 non è così breve e gli interessi dei singoli Stati sono sempre in agguato.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA DINNANZI ALLA SFIDA INDIPENDENTISTA CATALANA Quali sono gli scenari possibili?

Di Luca Imperatore Il presidente della Generalidad, Carles Puigdemont i Casamajó, ha annunciato nella serata del 10 ottobre scorso, durante la seduta plenaria del Parlament, quella che pare essere l’indipendenza della Catalogna. Nello stesso momento ha chiesto al Parlamento di sospendere gli effetti di tale dichiarazione, aprendo la strada ad una incerta possibilità di dialogo con le autorità dello Stato. Ciò che si staglia all’orizzonte di Barcellona e di tutta la Spagna è un’indipendenza a tappe, un limbo che prolungherà sine die lo stato di incertezza in cui versa il Paese. Quali saranno le reazioni della Moncloa? Qual è il ruolo del diritto nazionale e di quello europeo? La vicepresidente del Governo, Soraya Sáenz de Santamaría, ha affermato che la Moncloa è pronta ad attivare l’articolo 155 della Costituzione che consente, con l’assenso previo della maggioranza assoluta del Senato, di sospendere l’autonomia di una Comunità Autonoma in stato di “ribellione” o inottemperanza. Il contesto è indubbiamente straordinario e non può non richiamare alla memoria i molti avvenimenti della storia della Spagna, nazione che pare portare nelle viscera il germe del conflitto sociale e della guerra civile. Allo stesso tempo, è stato pro-

posto il ricorso all’articolo 116 della Costituzione per la dichiarazione dello stato di emergenza (estado de excepción). L’applicazione di tale disposizione, come modificata dalla Ley Orgánica 4/1981, permetterebbe non solamente di ridurre l’autonomia della Comunità bensì di sospendere alcuni diritti e libertà fondamentali tra i quali: l’inviolabilità del domicilio, la riservatezza delle comunicazioni, la libertà di circolazione, la libertà di informazione ed i diritti di assemblea e di sciopero. Tale condizione sarebbe giustificata, secondo fonti governative, anche a livello internazionale tramite le deroghe straordinarie che l’articolo 15 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo stabilisce per far fronte a situazioni eccezionali. Pochi sono i riferimenti a questo tipo di indipendenza nel diritto internazionale (sul concetto di “autodeterminazione” e sull’inapplicabilità al caso di specie si veda, MSOI thePost, numero LXXVI, 22/09/2017). Ma se il diritto internazionale non è la chiave di risoluzione del problema, la relazione con il diritto dell’Unione europea appare ancora più sorprendente. Alcuni sostengono che l’indipendenza secessionista di una parte di uno Stato membro sia in contrasto con le radici proprie dell’integrazione europea. Ma è realmente così?

Da un lato, ovviamente, la formazione dell’attuale Unione europea si concentra sulla coesione tra le nazioni, ma le questioni di politica interna ricadono nelle competenze esclusive di ciascun Stato membro, fintantoché sia rispettato lo stato di diritto. Ciò che è certo è che nel caso in cui la Catalogna si rendesse indipendente, non vi sarebbe alcuna automatica ammissione nella UE, che verrebbe, anzi, ritardata e ostacolata. Le difficoltà deriverebbero non solamente dalla mancanza di riconoscimento internazionale di una potenziale Repubblica Catalana (atto meramente politico e privo di rilevanza giuridica), ma anche da disposizioni contenute nei trattati fondativi dell’Unione che richiedono l’unanimità dei voti in Consiglio per l’ammissione di nuovi membri (art. 49 TUE) e nel caso di specie non è peregrino immaginare una ferma opposizione non solamente di Madrid ma di tutti i Paesi che possano temere un contagio indipendentista. Gli avvenimenti delle ultime settimane hanno sottolineato le deficienze e le debolezze che derivano dalla sola, rigida, imposizione del diritto, quale monolitica via di salvezza, ed hanno segnato una sconfitta storica per il dialogo, la cooperazione e la convivenza dalla quale tutti i popoli europei dovrebbero sentirsi colpiti. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IL PATRIMONIO CULTURALE

La distruzione dei beni culturali come crimine di guerra

Di Stella Spatafora “La dignità dell’uomo esige la diffusione della cultura e l’educazione generale in un intento di giustizia, di libertà e di pace”. Il preambolo dell’atto costitutivo UNESCO guarda alla tutela del patrimonio culturale oltre la sua “materialità”, sancendo il legame tra valenza identitaria e mantenimento della pace, “Poiché le guerre nascono nella mente degli uomini, è nello spirito degli uomini che devono essere poste le difese della pace”. La cultura, parte costitutiva dell’identità, è un’idea ampia e soggettiva; diverse peculiarità culturali e identitarie, accompagnate da forti sentimenti di appartenenza a un certo gruppo, possono sollevare nel tempo incomprensioni ideologiche, spesso tradotte in veri e propri conflitti. Oggi, più che mai, siamo travolti da scontri tra culture e identità che sottolineano la relatività del concetto.A livello internazionale è quindi forte l’esigenza di tutelare aspetti identitari di ogni società, per dare valore alla cultura nella sua universalità e preservare il rispetto della dignità umana, a garanzia di pace. Nel diritto internazionale, la codifica di bene culturale deno20 • MSOI the Post

ta l’esigenza di una protezione particolare nel sensibile contesto dei conflitti armati. Il diritto internazionale umanitario si è riferito alla protezione dei beni culturali sin dalla Convenzione (IV) relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre (L’Aia, 1907), espressa nell’Art. 56 del relativo Regolamento. Si è, tuttavia, dovuto aspettare la II Guerra Mondiale perché sorgesse la percezione di emergenza e vulnerabilità di tale categoria e, dunque, la stipulazione di una Convenzione ad hoc per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (L’Aia, 1954) considerando che “i danni arrecati ai beni culturali, a qualsiasi popolo essi appartengano, costituiscono danno al patrimonio culturale dell’umanità intera, poiché ogni popolo contribuisce alla cultura mondiale”. Si aspira al superamento delle frontiere, considerando il bene culturale oltre la sua ubicazione fisica nel territorio,appartenente all’umanità intera. È un’idea alta del bene che si associa a un’identità culturale spesso minacciata e, talvolta, ancora oggi rinnegata. Il Protocollo 1999 aggiuntivo alla Convenzione 1954, ha successivamente messo in rilievo profili di responsabilità penale individuale (Capitolo IV) in materia. A compimento di ciò, lo statuto della Corte Penale

Internazionale(Roma,1998) ha fatto un’ulteriore passo, inserendo nell’ambito dei crimini di guerra (Art.8) l’attacco ai beni culturali. A riguardo, si ricorda il caso Prosecutor v. Ahmad Al Faqi Al Mahdi (ICC-01/12-01/15). La distruzione del patrimonio culturale è stata per la prima volta unico oggetto di giudizio in un processo penale internazionale per crimini di guerra. L’imputazione e la condanna a 9 anni di carcere da parte della CPI hanno riguardato diverse modalità di responsabilità penale individuale di Al Faqi, membro di un’organizzazione terroristica, relativead attacchi contro edifici religiosi e monumenti storici a Timbuctu nel contesto di un conflitto non internazionale in Mali sfociato nel gennaio 2012. Il caso ha creato un precedente giudiziario volto all’esclusiva considerazione della distruzione al patrimonio culturale come crimine di guerra, rilevando la pericolosità della relazione che intercorre tra attacco contro il bene culturale e soppressione dell’identità dei popoli, attraverso il rifiuto di ogni segno di diversità del passato, di peculiarità culturale e religiosa, svilendo la dignità umana.


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