MSOI thePost Numero 82

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 1 novembre. Scade lo stato di emergenza dagli attentanti di Parigi del 13 novembre 2015 al termine della sua sesta proroga votata a luglio. Al suo posto il presidente Emmanuel Macron ha promulgato lunedì 30 ottobre nuove norme anti terrorismo. ISLANDA 29 ottobre. Si sono tenute le elezioni parlamentari in Islanda dalle quali è emerso un quadro frammentato. Il Partito dell’Indipendenza è risultato essere il più votato. Il Movimento di Sinistra-Verde e l’Alleanza Socialdemocratica hanno conseguito rispettivamente il 17% e il 12,1%. Lo scenario probabile è un governo di coalizione.

MALTA 8 direttori di quotidiani ed emittenti internazionali hanno scritto una lettera al primo vicepresidente della Commissione UE Frans Timmermans per far luce sull’ assassinio della giornalista Daphne Caruana Galizia. La Commissione UE ha risposto ai direttori: “Non finirà nel silenzio”. Il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani domani parteciperà ai funerali su invito della famiglia. REGNO UNITO 2 novembre. Dopo 10 anni la Bank of England ha aumentato il tasso di interesse da 0,25 a 0,5 per evitare il rischio di inflazione. Infatti, nei mesi successivi al referendum la Sterlina ha perso drasticamente valore e i prezzi dei beni importati dall’estero

WE TOO

The debate about sexual harassment has arrived at the European Parliament

By Ann-Marlen Hoolt It started off with accusations against famous Hollywood director Harvey Weinstein. More and more women came forward with their stories and slowly it is coming to surface: Hundreds of girls and women had been sexually harried or assaulted by 65-year old Weinstein, who exploited his power position, with many knowing but anyone denouncing it. This raised questions about the position of women in the film industry and with the hashtag #metoo coming up, in all our society. In all social media women are now telling their stories. And it was only a matter of time before the debate reached the European Parliament. Within the last week dozens of assistants to sitting members have come forward and accused their employers of sexual harassment. Additionally, female representatives have told their stories, carrying signs ready “We too”, like German Terry Reintke or Italian Eleonora Forenza. While the Plenum is debating on how to fight harassment and assault, the subject

of the matter are not only the member states but also Parliament itself. Female representatives and employees wrote a letter to Parliament, talking about their experiences. Subject line: We too. They tell about assaults in elevator, text messages with sexual innuendos, or pats on the back uncomfortably low, and the overpowering fear of speaking up against their powerful employers. Some of them are said to be former Ministers, coming from all over the political spectrum. The Parliament scheduled an emergency meeting, and the discussions led to outrage but little surprise. Sexism can be found in all aspects of society. Even the European Parliament is not free of sexism and harassment. The Debate reveals that we are far away from equality between the sexes. Even though the issue raised awareness for the situation of women, the debate cannot stop there and actions will have to follow. So far Parliament stated that extern experts would now have to examine the accusations as well as possible consequences.

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EUROPA sono aumentati. La decisione è stata presa dal Monetary Policy Committee, l’organismo della Banca Centrale per le politiche monetarie. 1 novembre. Damian Green, segretario di Stato e numero due del governo di Theresa May, è stato nuovamente accusato di molestie. Le nuove rivelazioni al Times sono di Kate Maltby, un’attivista Tory. Nel frattempo il ministro della Difesa britannico Michael Fallon, accusato anch’egli di molestie dalla giornalista Julia Hartley-Brewer, si è dimesso. Al suo posto viene nominato Gavin Williamson. 29 ottobre. Il leader laburista britannico Jeremy Corbyn non andrà alla cena per le celebrazioni del centenario della Dichiarazione Balfour. L’ambasciatore israeliano a Londra, Mark Regev, ha dichiarato che chi si oppone alla storica dichiarazione è un “estremista” che rifiuta l’esistenza di Israele. SPAGNA 2 novembre. Il presidente del Parlamento catalano destituito Carles Puigdemont resta a Bruxelles e non si presenta al processo a Madrid: la procura chiede il mandato di arresto europeo contro di lui e i suoi 4 Ministri. La giudice Carmen Lamela ha ordinato la detenzione provvisoria del vicepresidente Oriol Junqueras e di sette ministri del Governo Catalano destituito. 27 ottobre. Il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy ha annunciato lo scioglimento del Parlamento catalano, ne ha destituito il presidente Carles Puigdemont e ha indetto elezioni anticipate per il 21 dicembre 2017. A cura di Giuliana Cristauro

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PUIGDEMONT DA BRUXELLES: “NON QUI PER L’ASILO POLITICO”

La portavoce di Juncker: “La nostra posizione resta invariata””

Di Giulia Marzinotto Bruxelles, 31 ottobre. “La denuncia del procuratore spagnolo persegue idee e persone e non un reato, […] dimostra le intenzioni bellicose del governo di Madrid. Noi non abbiamo mai abbandonato il governo, noi continueremo a lavorare”. Queste le prime affermazioni dell’ex presidente catalano Carles Puigdemont da Bruxelles, alla conferenza stampa convocata per esporre le sue considerazioni in merito alla situazione catalana e le intenzioni per il prossimo futuro. Accompagnato dai cinque Ministri che hanno lasciato con lui Barcellona per il Belgio, dopo l’incriminazione per ribellione notificatagli dal procuratore generale spagnolo, Puigdemont ha smentito le voci di una richiesta di asilo politico: “Abbiamo sempre voluto la strada del dialogo, ma in queste condizioni questa via non era percorribile. […] Non sono qui per chiedere asilo politico. Se mi fosse garantito un processo giusto, allora tornerei subito in Catalogna per continuare a lavorare”. Lo scontro con Madrid, fattosi acceso sin dall’apertura delle urne in occasione del referendum per l’indipendenza catalana tenutosi lo scorso 1° ottobre, non accenna a ridimensionarsi e il leader secessionista ha voluto

chiarire che: “Non sfuggiremo alla giustizia, ma ci confronteremo con la giustizia in modo politico”. Egli ha poi fatto appello alla comunità internazionale e all’Europa: “il caso e la causa catalana mettono in questione i valori su cui si basa l’Europa”. “La nostra posizione resta invariata”, ha chiarito la portavoce del presidente Jean Claude Juncker circa un eventuale cambiamento di opinione della Commissione Europea che,all’indomani del referendum catalano, aveva definito il voto per l’indipendenza “non legale”, rinnovando la fiducia nel primo ministro spagnolo Rajoy e classificando come inopportuni tali “argomenti divisivi e frammentazione”. Il premier belga Charles Michel, e in una nota ufficial , ha chiarito che l’ex presidente catalano “non è in Belgio né su invito, né per iniziativa del Governo belga”, escludendo un coinvolgimento del Paese in soccorso di Puigdemont e aggiungendo che “la libera circolazione nello spazio Schengen gli permette di essere presente in Belgio senza altre formalità. Sarà trattato come qualsiasi altro cittadino europeo, disponendo degli stessi diritti e doveri […] né più, né meno”.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

STATI UNITI 28 ottobre. La CNN riporta che, nell’ambito del caso Russiagate, sono stati individuati i primi capi d’accusa. I primi arresti potrebbero arrivare già dal . 30 ottobre. I primi capi d’accusa del caso Russiagate hanno colpito Paul Manafort, ex capo della campagna elettorale di Donald Trump, e il suo socio Rick Gates. Entrambi si sono consegnati spontaneamente all’FBI e si sono dichiarati non colpevoli. Le accuse nei loro confronti, non direttamente collegate alla campagna elettorale, sono di cospirazione contro gli USA, riciclaggio, omessa registrazione come agenti stranieri, mancata denuncia di conti in banche estere, dichiarazioni false e fuorvianti. 31 ottobre. L’FBI ha annunciato la diffusione di tutto il materiale precedentemente secretato sull’assassinio del presidente John Fitzgerald Kennedy. I file verranno divulgati dagli archivi nazionali nelle prossime settimane. 31 ottobre. Un camion ha travolto la folla nei pressi di Ground Zero, a Manhattan. La polizia locale ha dichiarato che si tratta terrorismo. L’aggressore è Sayfullo Habibullaevic Saipov, un ventinovenne di origini uzbeke arrivato negli Stati Uniti

LA RICERCA DEGLI ALLEATI

Rex Tillerson inaugura la sua prima visita in India in qualità di Segretario di Stato

Di Erica Ambroggio Recentemente, le relazioni intercorrenti tra gli Stati Uniti ed alcuni Paesi dell’Asia meridionale hanno iniziato a ricoprire un ruolo di particolare rilievo nell’agenda dell’amministrazione Trump. Il segretario di Stato americano, Rex Tillerson, ha infatti da poco intrapreso un viaggio multi-tappe nei territori di Arabia Saudita, Qatar, Afghanistan, Iraq e Pakistan, terminando l’itinerario asiatico a New Delhi al fine di farsi portavoce delle politiche e dei progetti che la Casa Bianca. La visita a Nuova Delhi era già stata pubblicamente annunciata nelle settimane precedenti come un’occasione fondamentale per instaurare nuovi e produttivi rapporti economico-diplomatici tra India e Stati Uniti. La notte di martedì 24 ottobre, il Segretario di Stato USA è atterrato presso l’aeroporto internazionale “Indira Gandhi”, così da poter prendere parte – il giorno seguente – ad un incontro con il ministro degli Affari Esteri indiano Sushma Swaraj. Entrambi hanno sottolineato l’importanza di coltivare congiuntamente una partnership strategica. “I nostri rapporti sono per noi di alta priorità. Gli Stati Uniti sono un alleato indispensabile per l’India, in tutti i

settori”, ha dichiarato il Ministro indiano. Oltre che sulle reciproche relazioni commerciali, l’incontro tra Swaraj e Tillerson si è concentrato sulle comuni strategie in tema di sicurezza e di antiterrorismo, ponendo un chiaro accento sulla possibilità di rendere più concreta la “strategia di Trump”. Inoltre, al termine del meeting tra Tillerson e Swaraj, è stato annunciato che, nel prossimo futuro, si terrà un incontro trilaterale fra India, Stati Uniti e Pakistan, al fine di discutere ufficialmente della possibile attuazione di tecniche più incisive finalizzate ad un radicale smantellamento dei gruppi terroristici presenti in specifiche zone. Come più volte asserito da Tillerson, con riferimento al suddetto incontro trilaterale, è fondamentale ricordare come l’India potrebbe ricoprire una posizione cruciale nel tentativo di riportare una concreta stabilità politica ed economica nell’area indo-pacifica. “Le azioni provocatorie della Cina sfidano il diritto internazionale per il quale sia gli Stati Uniti sia l’India si battono”, ha commentato il Segretario di Stato. Le parole di Tillerson facciano quindi ben sperare per l’instaurazione di una cooperazione di lunga durata con i Paesi asiatici.

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NORD AMERICA nel 2010. Vicino al furgone che avrebbe poi utilizzato per l’attacco, l’attentatore aveva lasciato un biglietto nel quale aveva scritto di aver agito per Daesh. Otto i morti e almeno 15 i feriti. 31 ottobre. Donald Trump ha espresso la sua rabbia per l’attentato in un tweet, dove ha definito l’attentatore un animale, una persona malata e folle. Ha poi polemizzato contro la politica statunitense di concessione del diritto di soggiorno. 2 novembre. Sparatoria in un supermercato a Thornton, vicino a Denver, Colorado. Almeno due morti e una donna ferita. I sospetti si sono dati alla fuga. Le forze dell’ordine non hanno ancora fornito ipotesi o moventi.

CANADA 28 ottobre. Il presidente Justin Trudeau, a proposito della crisi catalana, ha dichiarato: “Il Canada sostiene una Spagna unita”. Trudeau ha inoltre aggiunto che comprende che la questione richiederà delle discussioni, ma si augura che queste avvengano nel rispetto della legalità e della Costituzione. 1 novembre. Il governo canadese ha annunciato la sua intenzione di ospitare circa un milione di immigrati nei prossimi tre anni, allo scopo di diminuire l’età media della popolazione e di favorire l’innovazione attraverso l’integrazione. A cura di Lorenzo Bazzano 6 • MSOI the Post

CANADA: DIVERGONO LE OPINIONI NELL’ÈLITE POLITICA Il Paese si divide di fronte alla secessione catalana

Di Martina Santi Gli episodi di Barcellona delle scorse settimane hanno fatto alquanto discutere l’opinione pubblica internazionale, riportando alla luce antichi dissensi all’interno della classe dirigente canadese. Venerdì scorso, a poche ore dal voto del Parlamento catalano con cui veniva proclamata l’indipendenza della regione, il primo ministro Trudeau teneva un discorso nel Canada più secessionista, il Québec, in merito alla crisi spagnola, affermando: “Canada recognizes one united Spain”. Fino a quel momento, il Primo Ministro non si era ancora espresso in merito alla questione, ritenendola un affare interno alla Spagna. Ma, a seguito delle accuse provenienti dal Parti Québécois (partito politico che rivendica la sovranità nazionale del Québec), Trudeau ha preferito chiarire la posizione del Paese. Le critiche che hanno fatto seguito a tale dichiarazione si sono prevalentemente concentrate sulla non-condanna, da parte del Governo canadese, della linea assunta da Madrid nell’impedire lo svolgersi del referendum per l’indipendenza della Catalogna. Da anni, infatti, un atteggiamento solidale si è consolidato fra i cittadini quebecchesi e la provincia catalana; solidarietà che, anche in questa occasione,

non è mancata: nel Paese nordamericano la gente si è riversata in strada per festeggiare la “vittoria dei compagni catalani”. Perfino alcuni esponenti della classe politica canadese hanno dimostrato il proprio consenso ad una Catalogna indipendente, attraverso alcuni gesti significativi, come diffondere sui social network l’immagine della bandiera catalana. Particolarmente importante è stato l’intervento di Jean-François Lisée, leader del Parti Québécois. Rispolverando la storia del Paese, egli ha paragonato i fatti di Barcellona, in cui la violenza è stata utilizzata contro i cittadini, con episodi simili avvenuti in Canada, negli anni in cui il movimento separatista québecchese rivendicava l’indipendenza della provincia: “The brute force that has been used to arrest people, to accuse them of sedition, to make raids […] it’s akin to the War Measures Acthere in 1970”. Una posizione più moderata è stata invece assunta da Couillard, Primo Ministro del Québec, il quale ha auspicato una risoluzione pacifica fra Madrid e Barcellona. Egli ha, inoltre, definito ‘risky’ il confronto fra il caso catalano e quello quebecchese, il cui ultimo referendum indipendentista risale al 1995, quando l’ala federalista del ‘No’ all’indipendenza vinse con appena il 50,58 % dei voti.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole ARABIA SAUDITA 30 ottobre. Dal 2018 alle donne sarà permesso entrare in alcuni stadi di Riad, Jeddah e Dammam in occasione di manifestazioni sportive. Dopo la recente concessione della patente di guida, si tratta indubbiamente di un’altra minima ma significativa conquista per la parte femminile della popolazione.

RAQQA DOPO LA LIBERAZIONE

Dopo mesi di assedio da parte delle Forze Democratiche Siriane e dalla coalizione guidata dagli USA, i cittadini possono tornare alle loro vite, anche se c’è chi non è d’accordo

Di Maria Francesca Bottura

IRAQ 31 ottobre. Kurdistan iracheno: dopo 12 anni in carica, il premier Barzani ha rassegnato le dimissioni. La decisione è stata presa alla luce delle conseguenze politico-economiche del referendum del 25 settembre scorso, che già avevano costretto il leader del KDP a rimandare le elezioni (originariamente previste per novembre 2017) a luglio 2018. 1 novembre. Il presidente iracheno al-Abadi ha dichiarato di voler riprendere al più presto le operazioni militari (sospese il 27 ottobre scorso) volte a riconquistare i territori di confine con Turchia e Siria, secondo Baghdad impropriamente controllati dai curdi, che li occupano da quando furono scenario di scontro tra i peshmerga e Daesh. ISRAELE 1 novembre. In un clima di grande tensione, dovuta alla morte di 9 palestinesi in un tunnel attaccato dall’esercito

Raqqa è libera. Il sedicente Stato Islamico l’aveva nominata capitale, il cuore del Califfato, ma ora, grazie all’intervento delle Forze Democratiche Siriane e della Coalizione guidata dagli Stati Uniti, è tornata ad essere una città libera dagli Jihadisti. E’ durato parecchi mesi l’asserragliamento intorno a Raqqa da parte delle SDF (Syrian Democratic Forces). Dopo la conquista da parte di Daesh nel gennaio del 2014, Raqqa era diventata un obiettivo molto importante a livello internazionale, cosa che aveva reso indispensabile la conquista dei villaggi circostanti, al fine di potersi avvicinare sempre di più. Un’operazione che è partita solo il novembre scorso e che ha visto protagonista la città stessa solo negli ultimi tre mesi. Ora su Raqqa sventola la bandiera del SDF, gruppo composto da militanti di diverse etnie (curdi, arabi e cristiani) nato nel 2015 e capeggiato dalle milizie dell’Unità di Protezione Popolare, meglio conosciuti come YPG. Nonostante il grande fermento per la notizia di Raqqa liberata, c’è chi invece teme che il termine “liberazione” non sia stato usato correttamente.

Sarmad al-Jilane, cofondatore del gruppo Raqqa is Being Slaughtered in Silence, non è d’accordo: sembra aver ben inquadrato l’attuale situazione nella città, asserendo che “[…] Raqqa è passata dall’occupazione dell’Isis [sic] a quella delle Forze Democratiche Siriane”. In un’intervista a Il Fatto Quotidiano, al-Jilane sottolinea che la stessa coalizione guidata dagli Stati Uniti e il SDF, hanno mietuto circa tremila vittime civili solo negli ultimi cinque mesi. A ribattere contro la tesi di al-Jilane, nella stessa intervista, è Rashed al Rashed, attivista originario di Raqqa. “Io non so se ci troviamo di fronte ad un’occupazione. […] Se guardiamo la situazione dal punto di vista di un civile, a questo non interessa più chi è il gruppo militare che occupa la città, ma cerca solo la sicurezza: sopravvivere”. Secondo Rashed, ora che la città è in mano al YPG (composto da curdi), bisognerebbe trovare un compromesso democratico e di condivisione del governo. Sottolinea, infine, che la popolazione curda di Raqqa è composta da circa il 4%, contro una maggioranza araba, cosa che renderebbe impossibile al YPG di governare senza raggiungere un accordo. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE di Gerusalemme, è avvenuto il passaggio del controllo dei valichi della striscia di Gaza da Hamas all’Autorità Nazionale Palestinese, presieduta dal primo ministro Rami Hamdallah. Tale operazione era prevista dagli accordi di riconciliazione nazionale palestinese firmati al Cairo.

L’EREDITÀ BRITANNICA IN TERRA SANTA Storia di un documento e delle sue colpe

Di Clarissa Rossetti

LIBANO 30 ottobre. Approvate le pesanti sanzioni finanziarie da parte degli USA contro il movimento sciita Hezbollah (che gode dell’appoggio di Teheran): il già vacillante sistema economico dell’intero Paese, il cui governo ha approvato recentemente la prima legge di bilancio degli ultimi 12 anni, subirà gravi conseguenze. YEMEN 2 novembre. Un raid aereo ricondotto alla coalizione saudita ha colpito nella giornata di mercoledì un mercato e un albergo nella provincia di Saada (territorio a Nord controllato dai ribelli Houthi): il bilancio in continuo aggiornamento recita 29 vittime, tra le quali alcuni bambini, e una decina di feriti.

Ricorre il 2 novembre il centenario della dichiarazione di Balfour, uno dei documenti più controversi nella storia contemporanea del Medio Oriente. Per citare il giornalista anglo-ungherese Arthur Koestler, nella lettera inviata da Arthur Balfour, allora Segretario agli Affari Esteri, a Lord L.W. Rotschild, esponente di spicco della comunità ebraica nel Regno Unito, “Una nazione prometteva solennemente a un’altra nazione il territorio di una terza” (che, in realtà, era già sotto il controllo di una quarta al tempo, l’impero Ottomano). Nella lettera, Balfour confermava l’approvazione della creazione di uno Stato ebraico nei territori palestinesi da parte del Re Giorgio V e l’impegno del governo a facilitare il raggiungimento di tale obiettivo.

La decisione, oltre che identificare come futuro Stato ebraico A cura di Lorenzo Gilardetti un territorio dove la comunità araba costituiva oltre il 90% della popolazione, presentava contraddizioni con precedenti accordi riguardo la Palestina formulati dallo stesso Regno Unito. Nel 1915, infatti, il Regno Unito aveva promesso sostegno all’allora Sharif della Mecca Hussein bin Ali per la creazione di uno Stato arabo indipendente dall’Impero Ottomano. Risale tuttavia al

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1916 anche l’accordo segreto di Sykes-Picot sulla spartizione in sfere di influenza dei territori appartenenti allo sconfitto Impero Ottomano, le cui negoziazioni tra Francia e Inghilterra portarono all’assegnazione della Palestina ad un’amministrazione internazionale su cui anche la Russia avrebbe dovuto essere consultata. La dichiarazione di Balfour conteneva, inoltre, due conditio sine qua non: il rispetto dei diritti civili e lo status politico della comunità ebraica in qualsiasi altro Stato, e il rispetto dei diritti civili e di espressione religiosa di qualsiasi comunità non ebraica già residente nei territori prescelti. Una promessa mai mantenuta ma piuttosto una condanna per la comunità araba palestinese, da allora sotto occupazione. L’impatto tra le decisioni del 1917 e la questione israelo-palestinese odierna è dibattuto; è tuttavia innegabile la responsabilità britannica nell’introduzione di un forte elemento di squilibrio in Medio Oriente con la dichiarazione di Balfour, che ha tracciato la strada per la Nakba del 1948 e i successivi conflitti. In Palestina e nel mondo, intanto, gli attivisti reclamano il diritto del popolo palestinese alle scuse ufficiali del governo britannico.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole

AZERBAIGIAN 30 ottobre. È stato inaugurato il corridoio ferroviario Baku-Tbilisi-Kars. L’infrastruttura è il frutto di un accordo firmato a Tblisi nel 2007 e prevede una connessione diretta tra Azerbaigian e Turchia attraverso la Georgia. Alla cerimonia hanno partecipato il presidente dell’Azerbaigian Aliyev e quello della Turchia Erdogan, oltre ai Primi Ministri di Georgia, Kazakhstan e Uzbekistan. Si rafforza cosí il ruolo strategico dell’Azerbaigian nella regione. 1 novembre. Si sono incontrati a Teheran il presidente russo Vladimir Putin, il suo omologo iraniano Hassan Rohani e quello dell’Azerbaigian Ilham Aliyev per discutere di cooperazione tra i loro Paesi, terrorismo, estremismo, traffico di droga e criminalitá transnazionale. KOSOVO 1 novembre. Il presidente Thaci ha esortato il governo e il Parlamento ad approvare la ratificazione dell’accordo sulla finalizzazione dei confini con il Montenegro. Dopo uno stallo politico durato quasi 3 mesi, tale ratifica si pone come prioritá per il nuovo esecutivo, che punta sull’avvio della liberalizzazione dei visti per l’ingresso in UE. RUSSIA 24 ottobre. La Russia ha usato il

BAD RABBIT ATTACCA DA EST

Nuova ondata di cyberattacchi in arrivo in tutta Europa

Di Davide Bonapersona Nell’ultimo anno la questione dei cyberattacchi è stata spesso al centro delle notizie e dei dibattiti. Nel corso del mese di maggio è apparso il malware WannaCry che ha infettato oltre 250mila computer in oltre 150 Paesi nel Mondo. A fine giugno e luglio, invece, è stata la volta di NotPetya che dall’Ucraina si è diffuso in Europa, Russia e Stati Uniti, contagiando decine di sistemi informatici di istituzioni pubbliche e private. Dopo qualche mese di quiete apparente ecco apparire Bad Rabbit. Questo è il nome del nuovo ransomware che, dopo aver iniziato a mietere vittime in Russia e Ucraina, si sta rapidamente diffondendo in Europa. Anche se il suo modus operandi presenta delle similitudini con i suoi predecessori NotPetya e WannaCry, i ricercatori di Kasperky Lab e di Cisco Talos spiegano che in realtà è ben diverso. Bad Rabbit si presenta sotto forma di aggiornamento di Flash Player, ma una volta che l’utente accetta l’aggiornamento, si inserisce nel sistema del computer bloccandolo e rubandone i dati, lasciando solo la possibilità di cliccare su un link che conduce ad un sito dove è possibile effettuare il pagamento di un riscatto di 0,05 Bitcoin (circa

280$), prezzo che aumenta con il passare del tempo. Attualmente il 65% degli attacchi sono stati registrati in Russia. Tra le principali vittime degli attacchi informatici vi è l’agenzia di notizie “Interfax”, il sito “Fontanka.ru” e una terza agenzia il cui nome non è stato rivelato. Inoltre, la Banca Centrale Russa ha dichiarato che circa una ventina di istituzioni finanziare del Paese sono state oggetto di attacchi, ma nessuno di questi è riuscito a violare i sistemi. Altri importanti attacchi sono stati registrati in Ucraina, dove nella lista delle vittime c’è il sistema dell’Aeroporto Internazionale di Odessa e della metropolitana di Kiev. Ulteriori attacchi sono stati segnalati in Bulgaria e altri Paesi dell’Est Europa, e sembra che l’infezione si sia diffusa anche in Germania e Turchia. Alcuni dei più importanti player internazionali attivi nell’ambito della cybersecurity ammettono che i primi attacchi di Bad Rabbit sono stati registrati già in estate. Ciò nonostante, dei sistemi di prevenzione efficaci ancora non sono pronti e, inoltre, non è nota l’identità degli autori. Tuttavia, non viene nascosto il dubbio che, dietro al lancio di questo virus, vi potrebbe essere lo stesso gruppo di hacker che lanciò NotPetya. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI UN PRESIDENTE SOSPESO, UN PAESE SPACCATO

Lo scontro tra governo e Presidente rivela una Moldavia divisa in due

suo potere di veto per bloccare il rinnovo del meccanismo investigativo congiunto di ONU e OPAC, incaricato di indagare sull’uso di armi chimiche in Siria. Il suo mandato terminerá cosí il 18 novembre. È l’ottava volta che Mosca usa il suo potere di veto al Consiglio di Sicurezza per bloccare l’azione contro l’alleato siriano. SERBIA. 1 novembre. Ratko Mladic, ex comandante dell’esercito serbo, condannato dal tribunale dell’Aja per crimini commessi durante la guerra in ex Jugoslavia, ha richiesto il rinvio del verdetto previsto per il 22 novembre, in attesa dei referti neurologici e cardiologici che attestino il suo stato di salute. A cura di Adna Camdzic

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Di Vladimiro Labate È la sospensione del presidente della Repubblica Igor Dodon da parte della Corte costituzionale a gettare la Moldavia in una grave crisi istituzionale e politica. La vicenda ruota attorno alla mancata nomina da parte del Presidente del nuovo Ministro della Difesa proposto dal governo, non accettato da Dodon in quanto poco esperto nel settore militare. Con tale rifiuto, secondo la Corte, il Presidente non avrebbe adempiuto ai propri obblighi istituzionali: ciò ne ha determinato la sospensione temporanea. Questo episodio è l’apice di un lungo conflitto politico tra il governo e il Presidente, sorto dopo le elezioni presidenziali dell’ottobre 2016. Igor Dodon, ex-presidente del Partito dei Socialisti, minoranza in Parlamento, rappresenta l’anima filo-russa del Paese: oltre a voler rinsaldare i legami politici ed economici con Mosca, tra i suoi progetti vi è la creazione di una federazione che riunisca la Moldavia e la regione separatista della Transnistria, con la quale vige un cessate il fuoco da 25 anni. Al contrario, il governo del primo ministro Pavel Filip, la cui coalizione è guidata dal Partito Democratico, segue una linea politica di maggiore apertura verso l’Occidente, in particolare verso la NATO e l’Unione Europea. Ciò va a

rappresentare una spaccatura che divide in due il Paese. L’intensità dello scontro si era alzata già negli scorsi mesi, quando il presidente Dodon, forte della legittimazione elettorale, aveva programmato un referendum popolare per la fine di settembre con l’intenzione di assumere maggiori poteri. Tuttavia, la Corte costituzionale lo ha annullato dichiarandolo incostituzionale. La politica estera resta il campo di maggiore scontro. L’Accordo di associazione con l’Unione Europea del 2014 garantisce aiuti finanziari in cambio di riforme a tutela dei diritti umani e dello stato di diritto. Il governo, inoltre, nell’ultimo periodo ha instaurato una collaborazione sempre più stretta con la NATO, fatto che ha acuito lo scontro con il Presidente Dodon. Quest’ultimo ha siglato nell’aprile scorso un memorandum di cooperazione con la Comunità economica eurasiatica, l’organizzazione che riunisce la Russia e alcuni degli exPaesi sovietici, spingendo per l’avvicinamento della Moldavia all’antico alleato. La crisi diplomatica della primavera scorsa ha tuttavia allontanato i due Paesi, il cui rapporto si collega direttamente alla risoluzione della situazione in Transnistria, la regione separatista filo-russa dove la Russia stessa è presente con circa 2.000 soldati.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole CINA 31 ottobre. La Cina e la Corea del Sud hanno comunicato la ripresa delle normali relazioni di scambio e cooperazione. L’annuncio è stato dato congiuntamente, dopo un incontro avvenuto tra il direttore dell’Ufficio della sicurezza nazionale di Seoul Nam Gwanpyo, e il ministero degli Esteri di Pechino Kong Xuanyou. Le relazioni tra le due nazioni erano entrate in crisi a seguito dell’installazione, da parte della Corea del Sud, del sistema missilistico Thaad, avvenuta nel luglio 2016. La normalizzazione delle relazioni è avvenuta nonostante i due Paesi non abbiano risolto la disputa sul dispiegamento del sistema missilistico, che la Cina percepisce come una questione di sicurezza nazionale. 31 ottobre. Prima uscita pubblica per il comitato permanente deciso dopo il XIX Congresso del Partito Comunista Cinese. Il presidente Xi Jinping -insieme a Han Zheng, Wang Huning, Wang Yang, Li Keqiang, Zhao Leji e Li Zhanshu- sì è recato nel luogo in cui nel 1921 ci fu il primo congresso del PCC. COREA DEL NORD 31 ottobre. L’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap ha riportato la notizia di un incidente avvenuto il 10 ottobre nel sito nucleare di Punggye-ri, in Corea del Nord. Più di 200 persone sarebbero rimaste uccise a seguito del crollo di un tunnel sotterraneo. Al momento non si hanno conferme da parte dei media nordcoreani. COREA DEL SUD 1 novembre. Nel secondo discorso alla nazione, il presidente Moon Jae ha ribadito che la Corea del

MANDATO DI ARRESTO PER NAWAZ SHARIF

L’ex Primo Ministro del Pakistan sotto accusa per lo scandalo dei Panama Papers

Di Virginia Orsili Giovedì 26 ottobre, il National Accountability Bureau (NAB) ha emesso un mandato di arresto con cauzione nei confronti di Nawaz Sharif, ex Primo Ministro del Pakistan. Nel mese di luglio Sharif ha subito l’interdizione dai pubblici uffici per effetto di una sentenza della Corte Suprema pakistana. Il caso giudiziario, che ha portato alla prima deposizione di Sharif dalla carica per vie legali, è partito con la divulgazione dei Panama Papers, dai quali è emerso che i tre figli dell’ex Primo Ministro fossero in possesso di compagnie offshore registrate nelle Isole Vergini. Attraverso di esse, diverse proprietà a Londra e due grandi fabbriche in Arabia Saudita sono state ricondotte ai figli del fu Capo di governo. Sharif, che si è visto altresì escludere dal ruolo di leader dell’Assemblea Nazionale, è riuscito a mantenere il controllo del suo partito, la Pakistan Muslim League – Nawaz (PML-N), che continua a trovarsi al governo. Il 19 ottobre, al momento del rinvio a giudizio voluto dal NAB davanti alla Corte speciale anti-corruzione, l’ex Premier si trovava a Londra per assistere

la moglie malata di cancro. Il mandato di arresto è stato emesso dopo che Sharif, anziché rimpatriare, come aveva più volte promesso, si è recato in Arabia Saudita per un pellegrinaggio religioso e poi ancora una volta in Inghilterra. Sharif è arrivato ad Islamabad solamente giovedì 2 novembre scorso, alla vigilia della nuova udienza di fronte alla Corte anti-corruzione. Il ritorno di Sharif scongiura la possibilità di un nuovo mandato di arresto senza cauzione che avrebbe imposto l’incarcerazione, in questo caso immediata ed inevitabile, al rientro nel Paese. Prima dell’imbarco, a Londra, Sharif avrebbe dichiarato di rispettare, pur senza condividerla, la decisione della Corte Suprema pakistana e di non aver mai avuto intenzione di ritardare o addirittura evitare la propria udienza. I parenti dell’ex Premier hanno insinuato di essere state vittime di un complotto orchestrato dalle Forze Armate pakistane, già responsabili di aver deposto Sharif con la forza nel 1993 e nel 1999. “Abbiamo già affrontato processi finti in passato”, ha dichiarato Sharif, “ma non siamo mai fuggiti, e anche stavolta adempieremo alle nostre responsabilità”. MSOI the Post • 11


ORIENTE QUALE FUTURO PER I PROFUGHI CHE GIUNGONO IN AUSTRALIA? Chiude il centro di detenzione sull’isola di Manus

Sud non avvierà piani per lo sviluppo di armi nucleari e non accetterà la presenza sul suo suolo di armi atomiche tattiche fornite dagli USA con lo scopo di deterrenza. GIAPPONE 1 novembre. Shinzo Abe è stato rieletto Primo Ministro dopo aver vinto le elezioni in ottobre. La coalizione liberale di governo guidata da Abe detiene i due terzi dei seggi alla camera bassa. In una telefonata avvenuta il 30 ottobre, Abe e Trump avevano concordato sull’importanza di continuare gli sforzi per contrastare lo sviluppo nucleare di Pyongyang.

MYANMAR 2 novembre. Il consigliere di Stato Aung San Suu Kyi si è recata nello stato occidentale di Rakhine, luogo della recente crisi umanitaria che ha coinvolto almeno 600.000 musulmani Rohingya. È la prima visita del capo di Stato del Myanmar nelle zone interessate dalle violenze. Aung San Suu Kyi ha annunciato che il governo si impegnerà per il rimpatrio e la fornitura di aiuti per coloro che sono fuggiti in Bangladesh. A cura di Emanuele Chieppa 12 • MSOI the Post

Di Luca De Santis A poco tempo dalla chiusura programmata del centro di detenzione di profughi e richiedenti asilo nell’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, dichiarato illegale e incostituzionale dalla Corte Suprema Australiana, resta incerto l’avvenire delle persone ivi detenute, molte tra le quali godono delle garanzie dello status di rifugiato. Quando lo stabilimento sarà finalmente chiuso, i detenuti saranno costretti a spostarsi altrove, in una differente parte della Papua Nuova Guinea o in una diversa nazione. Il campo di Manus è stato ampiamente criticato sin dalla sua riapertura nel 2012. Le Nazioni Unite e gli osservatori sui diritti umani hanno descritto le condizioni nel centro come orride, dicendo che i rifugiati che vivono all’interno sono soggetti ad abusi e negligenze. Il Ministro dell’Immigrazione della Papua Nuova Guinea, tramite una dichiarazione, ha affermato che l’Australia sia responsabile legalmente, finanziariamente e moralmente per i rifugiati trattenuti a Manus. Il Ministro ha asserito che coloro i quali non accetteranno l’offerta di reinsediamento in Papua Nuova Guinea non vi saranno

costretti. La dichiarazione è chiaramente diretta alle autorità di Canberra. I due governi discutono su come gestire i richiedenti asilo che non hanno ottenuto lo status di rifugiati, ma si rifiutano di lasciare il Paese. Parte di essi proviene dall’Iran, che non accetta i rimpatri forzati. Se la richiesta di un rifugiato sarà ritenuta valida, questi verrà prima trasferito dall’isola di Manus in un transit camp vicino la città di Lorengau, dove potrebbe essere preparato a inserirsi nella comunità di Papua Nuova Guinea. Molti rifugiati rinchiusi nel campo hanno però espresso timori sulla loro sicurezza se dovessero essere trasferiti a Lorengau. Diversi incidenti hanno coinvolto i rifugiati cui era stato garantito asilo, che sono spesso stati maltrattati dalla popolazione locale. Quanto ai profughi le cui richieste non siano ritenute valide, il futuro appare particolarmente oscuro: ove non sembrasse sicuro per loro essere rimpatriati, infatti, verranno ristabiliti in nazioni differenti da Australia o Papua Nuova Guinea, o tenuti indefinitamente in detenzione in uno dei campi offshore, dove già hanno dovuto spendere parecchi anni delle loro vite.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

BURKINA FASO: IL CASO ZONGO

François Compaoré e 3 militari accusati di omicidio

BURUNDI 27 ottobre. Il termine di un anno, necessario per completare il processo di uscita dalla International Criminal Court, è scaduto, e il Burundi sarà il primo Paese ad abbandonare tale istituzione. La causa di questa decisone è da ricercarsi nella volontà della ICC di iniziare una investigazione sui crimini di guerra che il presidente Pierre Nkurunziza avrebbe commesso. CONGO 27 ottobre. L’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Nikki Haley è arrivato in Congo per incontrare il presidente Kabila. Il diplomatico ha invitato il leader africano a evitare ulteriori rinvii relativi alla data delle elezioni presidenziali, nonché a farsi da parte pacificamente una volta terminato il suo ultimo mandato. ERITREA 1 novembre. Dimostrazioni nella capitale eritrea Asmara hanno portato ad una escalation di violenza. I report dell’ambasciata americana parlano anche di colpi di arma da fuoco. Fonti non verificate individuano come origine delle proteste l’arresto di un esponente di spicco di una scuola islamica. KENYA 31 ottobre. Uhuru Kenyatta si è aggiudicato la vittoria nella ripetizione delle elezioni presidenziali, stando alle dichiarazioni della commissione elettorale. Con 8 candidati a contendersi la carica, il presidente uscente Kenyatta ha ottenuto 7,5 milioni di voti, vale a dire il 98% delle preferenze. Questa percentuale così netta è dovuta al fatto che il più influente membro dell’opposizione, Raila Odinga, ha dato istruzioni ai suoi supporters di

Di Jessica Prieto Nel 1998, in un’auto abbandonata all’uscita sud di Sapouy, una cittadina a cento chilometri dalla capitale Ouagadougou, venne rinvenuto il corpo carbonizzato di Norbert Zongo, insieme a quelli del fratello, di un collega e del suo autista. Zongo era giornalista ed editore del quotidiano L’Indépendant, che al tempo indagava sulla morte sospetta dell’autista di François Compaoré, fratello del Presidente Blaise Compaoré. Zongo aveva scritto diversi articoli sulle possibili cause dell’omicidio dell’autista, che pareva essere stato torturato e ucciso per aver rubato delle grosse somme di denaro. La tragica fine del giornalista provocò una decisa mobilitazione da parte della popolazione, che costrinse l’allora Presidente ad organizzare una commissione d’inchiesta per indagare sull’accaduto. A tre anni dall’omicidio, nel 2001, venne identificato come unico colpevole Marcel Kafando, allora capo della sicurezza del Presidente, che nel 2006 venne però prosciolto da tutte le accuse per insufficienza di prove. Il verdetto apparve come l’ennesimo schiaffo alla giustizia

e solo nel 2014, con l’uscita di scena di Blaise Compaoré, è stato possibile riaprire le indagini. A 19 anni di distanza dalla morte del giornalista, sono stati accusati di omicidio tre militari della vecchia guardia di sicurezza presidenziale e il fratello del Presidente, François Compaoré, per incitamento all’omicidio. Proprio il fratello del Presidente è attualmente sottoposto ad un mandato di arresto internazionale: il 29 ottobre scorso, è stato fermato all’aeroporto Roissy di Parigi e interrogato ancora una volta sul caso Zongo. Tuttavia, già l’indomani è stato rilasciato dietro la promessa di partecipare a tutte le future convocazioni giudiziarie. Ciò che preoccupa la difesa delle vittime è il supporto che alcuni attori dello scenario internazionale, come il Presidente della Costa d’Avorio, stanno mostrando nei confronti dei due fratelli Compaoré, rendendo la prospettiva di un loro arresto assai più difficile. Ancora una volta, la società civile chiede giustizia e verità per Zongo, ennesimo burkinabè morto per aver cercato di rendere la stampa e l’informazione le più corrette e più libere. MSOI the Post • 13


AFRICA boicottare il voto. MALI 27 ottobre. È di tre morti e due feriti, tutti di nazionalità chadiana, il bilancio di un attentato contro i peacekeepers dell’ONU avvenuto nel nord del Paese e successivamente rivendicato da Boko Haram. NIGERIA 1 novembre. La Russia ha siglato un accordo per la costruzione di due impianti nucleari in Nigeria, mentre la più grande economia africana cerca di mettere fine alla propria crisi energetica. La compagnia statale russa Rosatom costruirà una centrale nel sud e un’altra nel centro del Paese, come confermato da fonti interne alla Nigeria Atomic Energy Commission, per un totale stimato di 20 miliardi di dollari. ZIMBABWE 31 ottobre. Il presidente Robert Mugabe ha rifiutato la partecipazione di gruppi di osservatori elettorali occidentali alle elezioni presidenziali in programma per il 2018, affermando che alle NGO finanziate dall’Occidente non sarà consentito di entrare nel Paese. A cura di Guglielmo Fasana

14 • MSOI the Post

KENYATTA VINCE LA RIPETIZIONE DELLE ELEZIONI PRESIDENZIALI Continua il braccio di ferro con l’opposizione tra episodi di violenza ed ingerenze governative

Di Simone Esposito Il presidente uscente del Kenya Uhuru Kenyatta è stato dichiarato vincitore della discussa ripetizione delle elezioni presidenziali della scorsa settimana. Kenyatta ha conquistato il 98% delle preferenze. Il boicottaggio operato dal leader dell’opposizione Raila Odinga ha fatto scendere l’affluenza al 39% – meno della metà di quella del voto di agosto. La ripetizione del voto è stata sospesa in 25 circoscrizioni nella parte sudoccidentale del Paese, roccaforte dell’opposizione, per timore di un’ondata di proteste violente. La Commissione elettorale ha dichiarato che la chiusura non avrebbe comunque influito sull’esito del voto, descrivendo le elezioni come “libere e giuste”. Tuttavia, la società civile ha denunciato numerose anomalie. La scorsa settimana, lo stesso presidente della Commissione elettorale aveva dichiarato di non poter garantire una votazione legittima a causa di ingerenze governative all’interno della Commissione, mentre uno dei suoi componenti ha lasciato il Paese sotto minaccia di morte. Il leader dell’opposizione Odinga si era già chiamato fuori dalle nuove elezioni, per

contestare la mancata riforma della Commissione elettorale, sebbene la Corte Suprema avesse evidenziato vizi procedurali nella votazione precedente, in cui il Presidente uscente si era rivelato vincitore. Il presidente Kenyatta, che si appresta dunque a cominciare il secondo mandato, ha proferito un appello per la pace, annunciando che accetterà il risultato di un eventuale ricorso alla Corte Suprema da parte del suo principale sfidante. Più di 50 persone sarebbero rimaste uccise nel corso degli scontri successivi alle elezioni dell’8 agosto. La chiusura di numerose circoscrizioni rischia di polarizzare ulteriormente il Paese e di macchiare un processo elettorale già turbato da accuse verso la Commissione di incompetenza e cattiva fede, e da intimidazione verso i giudici della Corte Suprema. I kenioti sono ormai stanchi di schermaglie politiche e non hanno alcuna voglia di tornare alle urne, ma è improbabile che il Paese riesca a mettersi questa vicenda definitivamente alle spalle. Odinga ha già annunciato il rifiuto dell’esito del voto, ma non ha parlato di alcun ricorso in tribunale, per il momento. Le sue azioni, nelle prossime settimane, determineranno la traiettoria del Kenya per anni a venire.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

SPECCHIARSI NELL’HARIBO CHECK

Gli schiavi brasiliani dell’industria dolciaria permettono una riflessione sul contraltare italiano

Di Davide Mina CARAIBI 30 ottobre. La Comunità dei Caraibi (CARICOM), con l’appoggio del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD), ha richiesto la convocazione di una riunione di potenziali donatori statunitensi; l’obiettivo è di raccogliere i fondi necessari per affrontare la situazione catastrofica in cui versano i paesi dei Caraibi in seguito al passaggio degli uragani Irma e Maria. La conferenza è prevista per il 20 e 21 novembre a New York.

Ridenti come i bambini che li comprano, gli orsetti gommosi sono parte dei nostri ricordi di infanzia. Eppure il volto dell’azienda dolciaria di Bonn, la Haribo, ha capovolto la parentesi del sorriso in una smorfia inquietante.

COLOMBIA 31 ottobre. È stata approvata oggi al Senato la riforma, a lungo dibattuta in seno al Parlamento, che ha come obiettivo di assicurare il monopolio delle armi allo Stato colombiano e vietare così la costituzione di altri gruppi paramilitari. L’iniziativa, proposta dalla maggioranza e messa in pratica attraverso la modalità “Fast Track”, passerà ora al vaglio della Corte Costituzionale.

Il documentario The Haribo Check ha messo in luce come la cera di carnauba (lucidante adoperato nell’industria automobilistica, cosmetica, calzaturiera e dolciaria) sia estratta nelle regioni brasiliane di Piaui, Ceara, Maranhao, Bahia e Rio Grande do Norte da lavoratori in condizioni di schiavitù, alcuni minorenni. Sprovvisti di acqua potabile, se non quella che reperiscono nei fiumi, non gli è concesso raggiungere i servizi igienici durante l’orario di lavoro. Trascorrono la notte all’aperto o nei camion. Il valore dell’esportazione della cera ammonta ogni anno a 100 milioni di dollari, mentre è di 12,76 dollari al giorno (40 real) lo stipendio dei lavoratori.

CUBA 30 ottobre. Si apre la 35° edizione della Fiera Internazionale de l’Avana (FIHAV), inaugurata nel centro Expocuba, con la presenza di 3400 espositori provenienti

Nonostante nel Paese sia stata vietata dalla Ley Áurea del 1888, la schiavitù persiste de facto. Secondo il Global Slavery Index 2016, spesso si tratta di lavoratori emigrati da altri Paesi

che vivono in condizioni di emarginazione sociale, senza avere accesso a cure mediche e, spesso, ad un’abitazione. Che il Brasile permetta questo genere di pratiche, però, non è un fulmine a ciel sereno: già nel 2011, la multinazionale Zara fu condannata dal Tribunale di Brasilia per le condizioni dei lavoratori. Alcuni erano quattordicenni pagati la metà del minimo sindacale, costretti a lavorare 12 ore al giorno e senza il rispetto delle norme locali sulla sicurezza. Zara si difese affermando che si era trattato di una terziarizzazione non autorizzata, contraria al suo codice di condotta. Ma il quadro italiano non è certo migliore. Il nostro Paese, pur rientrando nell’area geografica europea, che ha con il minor indice percentuale di schiavitù moderna rispetto alla popolazione ha la percentuale più alta tra i Paesi dell’Europa occidentale. In Brasile il numero totale di schiavi moderni registrati è inferiore all’Italia, nonostante la popolazione brasiliana sia maggiore di quella italiana. Secondo il Global Slavery Index, quindi, il Brasile registra una percentuale di schiavitù moderna rispetto alla popolazione dello 0,078%, a fronte del 0,211% italiano. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA da oltre 70 Paesi. Si tratta di una Fiera commerciale annuale e il suo successo dimostra, come afferma Rodrigo Malmierca, il presidente del comitato organizzativo, che, nonostante il blocco commerciale, il paese continua a suscitare interesse come luogo d’affari a livello internazionale. 1 novembre. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato oggi con il sostegno di 191 dei suoi 193 membri una nuova risoluzione che esige la fine del blocco economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti contro Cuba. SALVADOR 30 ottobre. L’ambasciatrice cubana in Salvador, Iliana Fonseca, è stata insignita dal ministro salvadoregno degli affari esteri, Hugo Martinez, per il suo impegno nello sviluppo di rapporti stabili tra i due paesi latinoamericani, in particolare per alcune iniziative messe in atto tra le quali la creazione dei collettivi culturali Las Colmenitas e l’apertura del Centro Oftalmologico di San Vicente. VENEZUELA 31 ottobre. L’Assemblea Nazionale Costituente ha approvato la Legge del Consorzio Alimentare del Sud (AGROSUR), la quale ha come obiettivo di permettere un coordinamento tra le aziende produttive e industriali del Paese, per rafforzare la sovranità agroalimentare e affrontare efficacemente la crisieconomica.

A cura di Anna Filippucci

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ANALISI DI 55 ANNI DI EMBARGO CONTRO CUBA Trump ha frenato la distensione e ora la cancellazione del “bloqueo” resta un miraggio

Di Tommaso Ellena Dopo la decisione del giugno 2017 da parte di Donald Trump di cancellare l’accordo firmato dall’amministrazione Obama che riavvicinava Cuba e Stati Uniti, la tensione tra i due Paesi è ritornata ai livelli precedenti il 2014. I rapporti si sono ulteriormente aggravati dopo il caso scoppiato lo scorso settembre in seguito ai malori (mal di testa, perdita dell’udito e dell’equilibrio) accusati da 22 diplomatici statunitensi dell’ambasciata di l’Avana. Washington, ritenendo che questo attacco fosse stato operato da alcune spie castriste tutt’oggi non ancora identificate, ha reagito riducendo il numero di funzionari nella capitale cubana del 60% e allertando i cittadini statunitensi presenti nell’isola caraibica a prestare estrema attenzione. D’altra parte, il ministro degli Esteri cubano Parrilla ha respinto le accuse, definendo gli attacchi acustici “totalmente falsi, una manipolazione politica”. Le maggiori ripercussioni di questa rinnovata tensione diplomatica ricadranno sull’economia dell’isola caraibica: per la Camera di Commercio Americana la politica di Trump “rallenterà i cambiamenti positivi di Cuba e farà perdere opportunità economiche ad altri Paesi”. Le conseguenze del bloqueo hanno riguardato nel corso degli anni tutti i settori economici:

la perdita di guadagni legati all’impossibilità di esportare prodotti come lo zucchero e il nichel, l’aumento dei costi dovuto al riorientamento geografico dei flussi commerciali (costi legati al trasporto e all’imballaggio dei beni) e l’accesso limitato alla tecnologia e alle moderne strumentazioni in tutti i settori industriali. Uno dei problemi maggiori resta però la restrizione monetaria e finanziaria, che ha impedito a l’Avana di rinegoziare il debito con l’estero e di entrare a far parte delle grandi istituzioni finanziarie internazionali a causadella netta opposizione di Washington. L’ONU ha da sempre mostrato grande attenzione alla questione dell’embargo. Dal 1992 al 2013 l’Assemblea Generale ha approvato 22 Risoluzioni di condanna dell’embargo unilaterale statunitense. Le votazioni hanno registrato una diminuzione degli astenuti e sempre più Stati hanno votato a favore del documento. Nel 1998 e nel 1999 solo due Paesi si dichiararono contrari alla risoluzione ONU: USA e Israele. L’Italia si è astenuta dal ’92 al ’94, mentre in seguito ha sempre votato a favore. Gli strumenti a disposizione della diplomazia internazionale sono comunque ridotti: sono i Presidenti di USA e Cuba gli unici soggetti in grado di fermare l’embargo e ricucire un rapporto in crisi da ben 55 anni.


ECONOMIA

WIKINOMICS: L’AFRICA RIPARTE!

Nuove prospettive economiche dall’African Economic Outlook 2017

Di Francesca Maria De Matteis African Economic Outlook 2017. Imprenditoria e industrializzazione sono stati i temi centrali della sedicesima edizione dell’African Economic Outlook di quest’anno, rilasciato il 22 maggio scorso durante il 52esimo meeting annuale dell’African Development Bank Group. Tra i temi principali presenti nel documento vi sono le prospettive macroeconomiche del continente, i flussi finanziari provenienti dall’estero e i profitti derivanti dalla tassazione interna, le politiche commerciali e l’integrazione regionale, lo sviluppo umano e la governance politica ed economica. La domanda interna sta diventando un sempre più importante fattore di traino per la crescita interna, gli investimenti in infrastrutture pubbliche stanno aumentando velocemente e la resilienza del continente è rafforzata dalla rete commerciale instauratasi tra i Paesi africani. Dati. Dal 2015 al 2016, la crescita del PIL è scesa dal 3,4% al 2,2%. Molti sono i fattori di ostacolo alla crescita economica, tra i quali sembrano assumere particolare importanza anche i postumi della Primavera Araba. Ma, nonostante la recessione dell’anno scorso,

le aspettative di crescita per il continente africano sono positive. Ci si aspetta, infatti, una ripresa in termini di PIL fino al 3,4% nel 2017 e al 4,3% nell’anno successivo. I settori privati dimostrano dinamicità e spirito imprenditoriale, ma è necessario investire in capitale umano: prerogative principali sono l’educazione e la formazione delle nuove generazioni. In occasione del vertice del G7, tenutosi a Taormina il 27 maggio scorso, il presidente del Kenya, Uhuru Kenyatta, ha sottolineato come le previsioni attuali attribuiscano all’Africa opportunità di business per un valore di 5,6 miliardi di dollari, raggiungibili entro il 2025. Prospettive. “That’s why our returns on investment are some of the highest in the world,” ha affermato Kenyatta “and that’s why members of the G7 will find, as others have found, that African markets are well worth their interest.” Ed è per questo che molti Paesi hanno iniziato a rivolgere la propria attenzione all’Africa. Nel 2016, la Cina ha raggiunto i 38,4 miliardi di dollari investiti e gli Emirati Arabi i 14,9. Terza è l’Italia, con 11,6 miliardi di dollari, dei quali 8,1 di Eni. Il gruppo sta portando avanti progetti in 16 Paesi e sono previsti ulteriori estensioni.

Già dal 2015, infatti, la società italiana è partner di Expo 2015 nel progetto ‘Energy, Art and Sustainability for Arica’, mirato al miglioramento della condizione femminile, della salute e dell’istruzione, accanto alla lotta alla povertà e alla scarsità di energia elettrica che rallenta lo sviluppo del territorio. Capitale umano. Il territorio del continente africano gode di ricchissime risorse. È necessaria, dunque, una riforma strutturale che contrasti l’esclusione sociale e incrementi il tasso di sviluppo umano, per fare in modo che esse possano essere sfruttate appieno. La creazione di posti di lavoro qualificati, accanto alla riduzione dei costi ambientali, sembra dover essere lo strumento principale dal quale partire per fare in modo che l’economia del ‘continente nero’ possa finalmente raggiungere forza e indipendenza. L’Africa gode, infatti, del più alto tasso di adulti imprenditori al mondo, che stanno iniziando o continuano ad alimentare una propria attività, spesso però appartenente a settori a bassa produttività, per lo più nel settore manifatturiero. Incrementare la diversificazione porterebbe a una maggior resilienza della crescita economica e allo stabilizzarsi di una classe imprenditoriale locale.

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ECONOMIA LA GRECIA PROVA A RIMANDARE LE SCADENZE

Un debt-swap da 30 miliardi per sopravvivere alle proprie obbligazioni

Di Efrem Moiso Allo scopo di rafforzare la liquidità del suo portafoglio e facilitare la vendita di nuove obbligazioni in futuro, il governo greco sta pianificando uno debtswap senza precedenti: uno scambio di valore pari a 29,7 miliardi di euro. Secondo due alti funzionari di banca a conoscenza del piano di scambio, che non è ancora stato reso pubblico, ma che potrebbe essere lanciato già a metà novembre, il Governo intende scambiare 20 titoli emessi dopo la ristrutturazione del debito greco detenuto da investitori privati, ​​avvenuta nel 2012, con ben cinque nuove obbligazioni a cedola fissa. Le scadenze delle nuove obbligazioni potrebbero essere uguali a quelle delle note esistenti, che vanno dal 2023 al 2042. “La mossa mira ad affrontare l’attuale illiquidità del mercato obbligazionario greco”, hanno detto gli analisti di Pantelakis Securities SA ad Atene. Sarà anche “fissata una curva di rendimento appropriata, facilitando così il ritorno del Paese ai mercati del debito pubblico”. Con questo piano, la Grecia si vuole senz’altro preparare in previsione del termine del suo attuale programma di salvataggio, previsto 18 • MSOI the Post

nell’agosto del 2018. Lo scambio di debito vuole essere un passo verso il pieno ritorno del Paese ai mercati, necessario per evitare il rischio di dover ricorrere nuovamente ad un altro programma di salvataggio. Il governo intende così accedere al mercato delle obbligazioni nel 2018 per raccogliere almeno 6 miliardi di euro ed essere in grado di creare un buffer adeguato ad onorare gli obblighi di debito legati alle obbligazioni. Il governo sembra non aver ancora deciso con precisione le tempistiche dello swap, ma la transazione potrebbe essere avviata il 13 novembre e la risoluzione potrebbe avvenire nell’arco di una settimana. L’obiettivo è quello di concludere lo scambio prima dell’arrivo della delegazione dei creditori del Paese, programmato per l’ultima settimana di novembre. Il ministro delle Finanze Euclid Tsakalotos ha affermato in ottobre che un accesso repentino ai mercati non avrebbe l’obiettivo di ottenere denaro fresco, bensì di gestire meglio il debito del Paese e rendere i suoi titoli più attraenti. Le nuove obbligazioni, a seguito dello swap, dovrebbero essere caratterizzate da una cedola fissa e dallo stesso valore di quelle emesse precedentemente.

I rendimenti sui titoli greci sono scesi mercoledì con il tenore di 15 anni che ha toccato un nuovo minimo annuo al 6,03%, un livello che non veniva raggiunto dal settembre 2014. Le note a cinque anni hanno prodotto il tasso più basso delle ultime sei settimane: 4,99%. L’indice azionario di riferimento di Atene è aumentato dell’1,4%, dopo aver toccato il suo livello più alto dal 22 settembre. La Grecia era tornata sui mercati a luglio, per la prima volta dal 2014, raccogliendo fondi per 3 miliardi di euro attraverso l’emissione di nuovi titoli quinquennali. Adesso, con il piano di scambio, il governo vuole assicurarsi che possa avere accesso al mercato per raccogliere sufficienti fondi per rifinanziare i propri obblighi di debito nel 2019, che originariamente ammontavano a 19 miliardi di euro. ‘Originariamente’, poiché il Governo è riuscito, grazie all’emissione obbligazionaria di luglio, a ridurre il debito di 1,6 miliardi di euro. Nel frattempo, la terza revisione di bailout del Paese è iniziata la scorsa settimana e sia i funzionari greci sia quelli europei stimano che essa potrà essere completata alla fine di gennaio o all’inizio di febbraio.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA CITTADINANZA EUROPEA

Il diritto di soggiorno derivato nel caso Zambrano

Di Stella Spatafora La disciplina europea in materia di cittadinanza si è evoluta attraverso la promozione del mercato interno, favorendo la libera circolazione sul territorio degli Stati membri. Introdotta a Maastricht nel 1992, la cittadinanza europea si pone in maniera aggiuntiva rispetto alla cittadinanza nazionale, garantendo diritti ulteriori. Ne deriva che la cittadinanza europea prescinda dall’esistenza di una cittadinanza nazionale di uno Stato membro competente a regolamentarne le modalità di ottenimento, revoca e riacquisto. Nonostante la cittadinanza sia storicamente competenza statale, è possibile rintracciare diversi tentativi da parte delle istituzioni europee di riaffermare la necessità che gli Stati membri rispettino il diritto dell’Unione europea durante il loro esercizio in materia di cittadinanza. Inoltre, l’interpretazione giurisprudenziale offerta dalla Corte di giustizia ha altresì ampliato la tutela della circolazione e del soggiorno negli Stati membri, consentendo ai cittadini extracomunitari familiari di un cittadino dell’Unione, di godere in alcuni casi di un’estensione dei vantaggi,

derivanti dalla cittadinanza europea del proprio familiare. Il caso Ruiz Zambrano c. Office national de l’emploi (ONEm) offre alcuni spunti interessanti in questione. Con la sentenza C–34/09 del 8 marzo 2011, la Corte di giustizia è stata chiamata a chiarire alcuni aspetti relativi all’estensione dei diritti legati alla cittadinanza europea. Il caso riguarda un cittadino extracomunitario colombiano che ha fondato la sua richiesta di indennità di disoccupazione (e di non allontanamento allo Stato belga) sulla base di un diritto di soggiorno derivato, in quanto ascendente responsabile di minoricittadini europei, risiedenti sul territorio di uno Stato membroe, come tali,titolari dei diritti accordati dall’Unione europea, quale ildiritto alla libera circolazione. La Corte ha ribadito che “lo status di cittadino dell’Unione è destinato a essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”. Dunque, il diniego di soggiorno a un cittadino di uno Stato terzo nello Stato membro in cui risiedono i figli a carico produrrebbe l’effetto di veder negato il godimento reale dei diritti legati al loro status di cittadini europei. Infatti, nel

caso in cui il permesso di lavoro venisse negato al ricorrente, egli rischierebbe di non disporre di mezzi sufficienti al sostentamento della sua persona e dei propri familiari, trovandosi costretto adabbandonare insieme agli stessi – e dunque ai figli cittadini europei – il territorio dell’Unione. É indispensabile notare come la Corte, nell’assicurare la tutela dei diritti derivanti dallo status di cittadino dell’Unione, abbia considerato il diritto alla cittadinanza ex se, e non come corollario del diritto di circolazione. Infatti, il diritto di cittadinanza europea nel caso Zambrano è stato fatto valere da cittadini belgi nei confronti dello stato Belga, senza il sussistere del previo esercizio della libera circolazione da parte di questi. In conclusione, è evidente il tentativo della Corte di dare alla cittadinanza europea una rilevanza autonoma svincolandola dalla libera circolazione, cogliendo un fondamentale elemento di passaggio verso ulteriori prospettive di godimento reale ed effettivo dei diritti legati allo status di cittadino dell’Unione europea. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA CGUE E L’EFFICACIA DIRETTA DELLE DIRETTIVE: LA SENTENZA FARRELL La decisione della Grande sezione della Corte sembra segnare una svolta. Non senza problemi

Di Pierre Clément Mingozzi “Le disposizioni di una direttiva dotate di effetto diretto sono opponibili a un ente o a un organismo, anche se di diritto privato, cui sia stato demandato da uno Stato membro l’assolvimento di un compito di interesse pubblico e che dispone a tal fine di poteri che eccedono quelli dalle norme risultanti dalla norme applicabili nei rapporti fra singoli”. Con queste parole la Corte di giustizia UE, nella recente sentenza Farrell (causa C-413/15), ritorna su un tema tanto spinoso quanto dibattuto: ovvero l’efficacia diretta delle direttive. Il rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte Suprema irlandese mirava a comprendere se la direttiva 84/5/CEE – successivamente modificata dalla direttiva 90/232/CEE –, dotata di effetti diretti, fosse opponibile “a un organismo di diritto privato al quale uno Stato membro abbia demandato il compito di cui all’articolo 1, paragrafo 4, della stessa direttiva”. La vicenda processuale riguardava una signora irlandese che dopo aver subito un incidente stradale con un mezzo non assicurato, si vide rifiutare il risarcimento da parte del MIBI, un ente di diritto privato che però, secondo l’art. 78 della legge 1961 irlan20 • MSOI the Post

dese t (Road Traffic Ac ), aveva l’obbligo di aver come membri tutte le attività assicurative automobilistiche operanti in Irlanda. La Corte, definendo in maniera estensiva il tracciato del caso Foster (C-188/89), ha infatti stabilito che i parametri da prendere in considerazione per constatare la possibilità o meno impugnare direttive con effetti diretti – e precisamente il controllo dello Stato e il conferimento di poteri che eccedono quelli concessi ai privati – non devono essere interpretati cumulativamente e che, dunque, anche la presenza di solo uno di essi è rilevante affinché l’efficacia diretta della direttiva trovi luogo. Da ciò ne discende che qualsiasi ente, non solo di diritto pubblico ma anche di diritto privato, che si trovi a svolgere un’attività di interesse pubblico, o che sia stato dotato di poteri che vanno al di là di quelli generalmente riguardanti le relazioni che disciplinano i rapporti tra privati, presupponga le condizioni affinchégli individui possano far valere direttamente le direttive non trasposte contro i medesimi enti. Il diritto dell’Unione europea è sempre stato chiaro nello

stabilire che l’efficacia diretta, ossia la capacità di una norma di incidere direttamente nella sfera soggettiva degli individui, non potesse riguardare le direttive dell’Ue. Tuttavia, con il tempo la Corte di giustizia ha riconosciuto che alcune norme contenute in una direttiva possano avere un’efficacia diretta partendo dal presupposto per cui la Stato sia venuto meno al recepimento della direttiva stessa. In tal caso infatti, se si tratta di una norma che sancisce in maniera chiara un diritto direttamente invocabile, oppure che ribadisca un obbligo già precedentemente stabilito dal trattato o che costituisca una norma dettagliata, la direttiva può esser fatta valere ma solo in maniera verticale-ascendente: dall’individuo contro lo Stato. La sentenza della Corte, partendo dal perimetro di riferimento stabilito con la sentenza Foster, sembra tuttavia estendere le possibilità di diretta efficacia del diritto dell’Unione europea. La volontà appare, dunque, quella di raggiungere in futuro non solo l’applicabilità verticale delle direttive ma anche quella orizzontale, possibilità questa, costantemente discussa in dottrina.


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