MSOI thePost Numero 83

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Jessica Prietto Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole BELGIO 5 novembre: Koen Geens, Ministro della giustizia del Governo belga, definisce il mandato di cattura europeo ai danni di Carles Puigdemont e dei 4 ministri della Generalitat “una questione non politica ma giudiziaria”. Il Procuratore generale del Belgio ha già ricevuto la richiesta da parte di Madrid e, secondo le ultime indiscrezioni, il processo si celebrerà il prossimo 17 novembre. FRANCIA 4 Novembre: Caos nel Front National di Marine Le Pen. L’onda d’urto del caso Weinstein ha scosso il partito di estrema destra, con denunce di molestie presentate da donne del movimento contro alcuni esponenti dello stesso. Secondo quanto riporta il quotidiano Le Monde, questo sarebbe l’ultimo di una serie di episodi che, nel mondo delle istituzioni, coinvolgerebbe anche l’ONU, con 31 possibili casi di atteggiamenti predatori.

GERMANIA 8 Novembre: La Corte costituzionale tedesca richiede il riconoscimento legislativo per il terzo sesso. Secondo i giudici, infatti, sussistono le condizioni per le quali riconoscere un individuo come “non identificabile né nel genere maschile né in quello femminile”. Il tutto nasce dalla richiesta di una donna di essere riconosciuta come “intersessuale”. Secondo le stime ONU, una percentuale tra 0.5% e 1.7% della popolazione

MANDATO DI ARRESTO EUROPEO PER PUIGDEMONT Il clan sereno dei catalani vuole la libertà

Di Giulia Ficuciello Lo scorso 3 novembre la giudice spagnola Carmen Lamela ha firmato il mandato di arresto europeo nei confronti del presidente catalano Carles Puigdemont e dei quattro Ministri che si trovano con lui a Bruxelles. L’accusa è quella di ribellione: sia lui sia i suoi Ministri rischiano fino a 30 anni di reclusione. Il mandato di arresto europeo è una decisione giudiziaria resa da uno Stato Membro (che assume il nome di “Stato membro di emissione”), avente a oggetto l’arresto o la consegna di una persona che deve essere sottoposta a giudizio o a esecuzione penale e che si trova in un altro Paese UE (detto quindi “Stato membro di esecuzione”). Questo significa che la giustizia spagnola dovrà inviare una richiesta di estradizione alle autorità federali belghe. Per il momento Puigdemont e gli ex Ministri sono sottoposti a libertà vigilata ed è stato loro vietato di lasciare il Paese. La procura di Bruxelles, comunque, consente loro di avere contatti con la stampa e di continuare a esercitare la loro attività politica. Solo il 17 novembre, infatti, si svolgerà la prima udienza, di fronte alla Camera di Consiglio del Tribunale di primo grado belga, per decidere in merito all’esecuzione del mandato.

Nel frattempo, altri 8 ex Ministri catalani sono stati arrestati a Madrid. Questo ha provocato manifestazioni in tutta la Catalogna, coinvolgendo migliaia di persone al grido di “Libertat!” ed esigendo il rilascio di quelli che gli indipendentisti definiscono “detenuti politici”. I loro avvocati e i leader secessionisti hanno lanciato appelli alla popolazione catalana affinché mantengano la calma. A proposito dei fermi, De Vigo, portavoce del Governo spagnolo, ha dichiarato che questi Ministri potranno candidarsi alle elezioni del 21 dicembre perché non ancora sottoposti a condanna definitiva. Nonostante in passato abbia dichiarato di non volersi ripresentare, in queste settimane Puigdemont si è detto pronto a candidarsi, anche dall’estero. Egli non avrebbe però intenzione, almeno per il momento, di tornare in Spagna, sostenendo che sia in corso un processo politico nei suoi confronti. Un suo recente tweet recita: “Il governo legittimo della Catalogna è stato incarcerato per le sue idee e per essere stato fedele al mandato approvato dal parlamento catalano. Il clan furioso della 155 [la legge che è stata applicata da Madrid per destituire il governo, nda] vuole il carcere. Il clan sereno dei catalani, la libertà”.

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EUROPA mondiale si condizione.

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REGNO UNITO 6 novembre: Nello scandalo Panama Papers appare il nome della regina Elisabetta II. Secondo le ultime rivelazioni dell’International Consortium of Investigative Journalists, che ha acquisito oltre 13,4 milioni di documenti, Sua Maestà britannica avrebbe depositato in conti offshore oltre 10 milioni di sterline, generati da proprietà private. Il denaro sarebbe stato investito, in particolare, in conti alle Cayman, attraverso il ducato di Lancaster. Tra i nomi illustri appare anche Lord Ashcroft, ex dirigente del partito conservatore, che avrebbe depositato in conti esteri una cifra pari a 450 milioni di sterline. SPAGNA 8 Novembre: La Catalogna si ferma: lo sciopero, indetto da tutte le sigle sindacali, ha bloccato l’intera regione, con uno stop totale di tutte le attività inclusi i trasporti regionali e nazionali. La protesta è legata alla “dura e inaccettabile violazione dei diritti umani da parte di Madrid”, mostrando così un sostegno forte all’ormai destituito Carles Puigdemont. Lo stesso ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro le decisioni di Madrid. A cura di Simone Massarenti

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NO EXPANSION IN SIGHT

Most EU-membership candidates might not meet their admission criteria

By Ann-Marlen Hoolt Over the past few centuries the European Union has rapidly grown and expanded. It is now made up out of 28 Member States, and it does not stop here: many countries desire to enter the protective shield the European Union provides, even though Brexit and populism have deemed it less attractive. According to article 49 of the Union’s Treaty every European country can apply for an EU-membership, but in order to be admitted the candidates must meet certain criteria. For instance, they have to demonstrate that they value EU-beliefs and integrate EU-law into their national legislation. Right now the Union has atotal of five membership candidates: Turkey and Macedonia since 2005, Montenegro since 2010, Serbia since 2012 and Albania since 2013. A new study on EU expansion recently concluded that by 2023 only one of the candidate countries will be able to meet the admission criteria. Researchers from the University of St. Gallen carried out the study “Forecasting Candidates Status”, that measures the probability for either of the memberships candidates join-

ing the European Union up to 2050. They have concluded that only Macedonia will be ready do join the Union by 2023, while Serbia, Montenegro and Turkey will be meeting the requirement only by the middle of 2030, the researchers believe. Due to the current conditions in Albania, the study sees it probable that the Country will meet that joining criteria by 2050 at the earliest. The study’s conclusions may come as a surprise to many. While no one expected the candidates to meet all requirements in the next few years, the prospect of having to wait that long for any new European Union members seems like a retrogressive step. Others, though, might be glad to hear the news because the rapid EU-Expansion has its critics. As the EU community grows, it will become harder to make decisions, and in many fields unanimityIS required. Hence some people demand a stop to the admission negotiations in order for the European Union to adapt and develop. Even though the study has been conducted by a renowned institute, these are only hypothesis and only time will tell if the candidate Countries will actually meet the admission criteria according to the study’s findings.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

GIOVANI E SOCIALISTI

Il socialismo conquista i Millenials

Di Lorenzo Bazzano STATI UNITI 6 novembre. Ennesimo episodio di violenza con arma da fuoco. Un uomo armato è entrato, durante una funzione, nella First Baptiste Church a Sutherland Springs, in Texas, e ha ucciso 26 persone. Il killer è stato colpito a morte dalle forze dell’ordine che sono intervenute sul posto. 7 novembre. Si sono svolte le elezioni governatoriali in Virginia. A risultare vincitore è stato il democratico Ralph Norton che ha superato il candidato repubblicano Ed Gillespie (53.9% contro il 45% del candidato del GOP). Pronta la replica dello sconfitto che ha affermato che il suo avversario “è adatto al ruolo”. Uguale successo democratico anche nelle elezioni, valevoli per il posto da Governatore, nello Stato del New Jersey. Qui il democratico Phil Murphy ha superato nelle preferenze la repubblicana italo-americana Kim Guadagno (55.6% a 42.3%). 8 novembre. Intervistata dall’emittente televisiva ABC durante il “Late Night with Seth Meyers”, Hillary Clinton, ad un anno dalla débâcle elettorale, ha affermato che il Paese sta uscendo dalla “febbre post-elettorale” e sta tornando “su una strada lontana dalle ideologie repubblicane”. 9 novembre. Primi risultati concreti raggiunti dal presidente Trump durante il suo viaggio in Asia. Oggi il Presidente ha an-

YouGov è una piattaforma online britannica che si occupa di ricerche di mercato e di sondaggi di opinione. In questi giorni, il sito ha attirato l’attenzione dei media in seguito alla pubblicazione di un sondaggio condotto sulla popolazione statunitense e finalizzato a misurare la popolarità dei sistemi politici all’interno del Paese. I risultati del sondaggio relativi alla fascia di popolazione dei Millenials sono sorprendenti. Il 44% degli intervistati vorrebbe vivere in una società socialista, mentre il 42% preferisce una società capitalista. Il rimanente 14% si è diviso equamente tra favorevoli a una società comunista o a una società fascista. Le posizioni estremistiche, quindi, non risulterebbero essere la maggioranza. Inoltre, il 23% degli statunitensi, compresi fra 21 e 29 anni d’età, considera Stalin un eroe, percentuale simile a quella di chi ha una percezione positiva del dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Solo il 71%, invece, è convinto che la libertà di parola sia un bene da proteggere a ogni costo. Va osservato che lo studio si è anche occupato di testare la conoscenza delle forme di governo da parte dei soggetti sondati, e ciò che emerge è che solo il 71% dei Millenials è in grado di definire il comunismo e conosce le differenze dei sistemi

economici socialista e capitalista. Ma al di là di quest’ultimo aspetto, quello che colpisce è il fatto che il socialismo, considerato un vero e proprio tabù negli Stati Uniti, goda di un così ampio consenso nella fascia dei Millenials, ovvero quella parte della popolazione da cui nascerà la futura classe dirigente. Va precisato che la declinazione odierna di socialismo non è quella ortodossa, ma è una declinazione che si traduce in richieste di maggiore giustizia sociale, di maggiore uguaglianza economica, di parità di accesso all’università, di tutela dell’ambiente e di tutela del mercato del lavoro e dell’economia dalle dinamiche della globalizzazione. Secondo Paolo Mastrolilli de La Stampa, il successo riscosso tra i giovani americani delle politiche socialiste, così intese, deve ricondursi soprattutto al successo elettorale ottenuto durante le primarie democratiche da Bernie Sanders, auto-definitosi ‘socialista’. Quello che rivela il sondaggio, dunque, è come la politica statunitense tenda sempre di più a uscire dai canali tradizionali dei due partiti principali per assumere sfaccettature più complesse ed eterogenee. Sarà interessante capire se queste istanze influenzeranno anche Democratici e Repubblicani, oppure se le posizioni incarnate da Sanders continueranno ad essere elettoralmente consistenti, ma minoritarie.

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NORD AMERICA nunciato di aver raggiunto un accordo con l’omologo cinese, il presidente Xi Jinping su due importanti tematiche. Primariamente emerge la volontà comune di procedere alla completa denuclearizzazione lungo il 50º parallelo, mentre il partner asiatico si impegna direttamente a mantenere un approccio più incisivo nei confronti della Corea del Nord. In secondo luogo, Xi ha annunciato che nei prossimi mesi la Cina investirà per un valore di 250 miliardi di dollari sul territorio statunitense.

CANADA 7 novembre. Non si placano le polemiche dopo la pubblicazione dei “Paradise Papers”. Stephen Bronfman, uno dei principali finanziatori delle campagne del primo ministro Justin Trudeau, nonché suo consigliere senior, avrebbe evaso il fisco canadese per svariati milioni di dollari. Le rivelazioni si inseriscono in un momento complicato per l’amministrazione che da un mese si sta battendo per una nuova normativa fiscale particolarmente invisa ai piccoli imprenditori. 9 novembre. Il ministro delle finanze del Québec, Carlos Leitao, ha proposto una nuova tassazione a livello provinciale per compagnie di streaming online. Il tentativo della regione francofona di agire autonomamente arriva dopo il rifiuto di Ottawa di adottare una soluzione condivisa ed armonica a livello nazionale. A cura di Alessandro Dalpasso

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TRUMP SI RECA IN VISITA A TOKYO Si rafforzano i rapporti fra le due potenze

Di Martina Santi È cominciato alle Hawaii il tour diplomatico di 6 tappe che il presidente Trump compirà assieme a sua moglie Melania, in Asia. Dopo la commemorazione della USS Arizona, distrutta durante l’attacco giapponese a Pearl Harbor, il tycoon e la First Lady sono arrivati, domenica mattina, alla base aerea Yokota, per la visita ufficiale con il primo ministro giapponese, Shinzo Abe. Al suo arrivo, il presidente Trump si è rivolto agli apparati militari di stanza a Yokota elogiandone il lavoro e lodando la stretta alleanza fra le forze militari statunitensi e giapponesi. In riferimento alla questione nordcoreana, il Presidente ha poi rinnovato l’impegno degli Stati Uniti nella difesa del Giappone, evitando espliciti riferimenti a Kim Jong-un e abbandonando i toni provocatori che hanno contraddistinto tale vicenda negli ultimi mesi. Se, a seguito della visita del primo ministro Abe negli Stati Uniti, il rapporto fra i due leader era salito ad un livello superiore rendendo Tokyo il partner privilegiato di Washington, il viaggio del Presidente in Giappone rinforza ancor più tale legame. La tematica al centro dell’incontro è stata la crisi nordcoreana, la quale si è drasticamente aggravata in seguito all’insediamento dell’Amministrazione Trump alla Casa Bianca e del

recente lancio di due missili balistici nordcoreani sopra i cieli del Giappone, evento che aveva ulteriormente inasprito i toni contro Pyongyang. In risposta alla minaccia, il leader giapponese aveva assunto una linea piuttosto dura, ritenendo necessario un incremento della capacità bellica del Giappone e mostrando di aderire alla posizione assunta dal Presidente americano in merito alla questione. Risulta dunque chiaro ciò che Abe cerca in Washington: un alleato forte che condivida la stessa determinatezza e intransigenza con cui il Giappone guarda alla Corea del Nord. Tuttavia, sebbene le politiche dei due Presidenti convergano in campo strategico-militare, lo stesso non si può dire per quel che riguarda l’ambito commerciale. La decisionedi Trump di ritirare gli USA dal Trans-Pacific Partnership aveva fatto alquanto discutere il Primo Ministro giapponese, che ha sfruttato quest’ultimo incontro per tentare (invano) di convincere il tycoon a rientrare nel trattato. Da parte sua, Trump ha invocato un aumento degli investimenti giapponesi in America ed una maggiore apertura del mercato interno, specie nel settore automobilistico. Al termine della visita nel Paese del Sol Levante, il viaggio istituzionale del Presidente statunitense proseguirà in altre 4 tappe: Corea del Sud, Cina e Vietnam, perconcludersi il 13 novembre a Manila, Filippine.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

LA CULTURA DELLO STUPRO NELLA LIBIA POST-CONFLITTO

Storie di donne e di uomini violati sotto i riflettori

ARABIA SAUDITA 5 novembre. Un missile, il cui lancio è stato rivendicato dai ribelli yemeniti Houthi, esplode nelle vicinanze dell’aeroporto di Riad. L’Arabia Saudita accusa l’Iran. 5 novembre. Il principe Mohammed Salman lancia un’operazione anticorruzione. Arrestati principi e ufficiali d’alto rango, inclusi il capo della Guardia Nazionale e il Ministro dell’Economia e della Pianificazione. Congelati i conti. 6 novembre. Annunciata visita del presidente palestinese Mahmoud Abbas, al fine di discutere possibili accordi bilaterali e futuri sviluppi della questione palestinese. BAHREIN 5 novembre. Il Bahrein rivendica il possesso di una parte delle coste del Qatar. La disputa era già stata risolta a favore del Qatar nel 2001. EGITTO 5 novembre. Il vice Ministro degli Esteri egiziano ha convocato gli ambasciatori di Italia, Germania, Gran Bretagna, Canada e Paesi Bassi in relazione ad una nota mandata dagli stessi in merito all’arresto dell’avvocato per i diritti umani Ibrahim Metwally. Il Ministro ha definito la nota “un’ingerenza evidente e inaccettabile negli affari interni egiziani”. IRAQ 6 novembre. Il tribunale di Baghdad ha dichiarato il tentativo di secessione curdo incostituzionale.

Di Lucky Dalena È il 26 marzo del 2011. Iman al-Obeidi entra in un hotel internazionale di Tripoli e confessa ai numerosi giornalisti stranieri di essere stata violentata da un gruppo di soldati dell’esercito del Colonnello Gheddafi. Mentre la sua storia scuote la stampa internazionale, in Libia viene additata come ‘prostituta’ e le sue accuse scompaiono sotto al velo della guerra civile che divide il paese. Sei anni dopo, questa storia resta in una pagina di Wikipedia e in qualche articolo nell’archivio online di un giornale. Ma quante sono state le donne e gli uomini che hanno subito violenze sessuali da parte dei soldati? Nel mondo arabo, ancor più che nel nostro occidente, dove basta un #metoo perché la solidarietà porti al coraggio, confessare una violenza sessuale è una vergogna indicibile. Per le donne, ma soprattutto per gli uomini. Nella paura, alcuni hanno avuto il coraggio di andare a fondo sulla questione. Cercando rifugio in Tunisia, alcune vittime hanno deciso di ricostruire la storia, con un dossier di 650 storie di uomini e donne che è passato sotto le mani di esperti di giustizia penale internazionale. Ciò che ne

esce è un’immagine della Libia post-conflitto costellata da casi del genere. Céline Bardet, una degli esperti che ha analizzato la questione, con un’esperienza di unità di giustizia per crimini di guerra in Bosnia, ha creato una ONG (“We are not weapons of war”, non siamo armi di guerra) per aiutare coloro che sono stati vittime di stupro durante e dopo la guerra civile, aiutandoli a presentare le loro istanze davanti alla Corte Penale Internazionale. Ciò che emerge da queste analisi è un quadro devastante: nel silenzio e nella vergogna, lo stupro in Libia è utilizzato come un’arma pianificata, sistematica, contro le donne e contro gli uomini, indistintamente. Il dossier, dall’autunno del 2016, è passato all’attenzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, oltre che alla Corte Penale Internazionale. Tra i perpetratori di violenza, appare il nome di Mahmoud Al-Werfalli, uno degli uomini del generale Haftar, che governa l’Est del paese. Aprire un’inchiesta sulla Libia, quindi, alle condizioni attuali, significa aprire un vaso di pandora che scavi a fondo negli ultimi sei anni di guerra e che porterà, senza dubbio, ad un cambiamento della situazione politica libica odierna.

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MEDIO ORIENTE ISRAELE 3 novembre. L’esercito israeliano ha espresso solidarietà ai drusi del villaggio siriano di Hader, ai confini col Golan, coinvolto nei combattimenti col gruppo islamista al-Nusra.

IL LIBANO È SENZA PRIMO MINISTRO Le dimissioni di Hariri e le dinamiche regionali

8 novembre. L’area intorno alla Striscia di Gaza viene dichiarata zona militare chiusa. LIBANO 3 novembre. Il premier libanese Saad Hariri ha annunciato le sue dimissioni. Riferimenti a Iran e Hezbollah nel discorso. Netanyahu: “Una sveglia per la comunità internazionale”. LIBIA 6 novembre. Attacco aereo non rivendicato nella città di Derna. QATAR 3 novembre. Il ministro degli Esteri al-Thani ha espresso la volontà del Qatar di aprire un dialogo per risolvere la crisi. 8 novembre. Il Qatar introdurrà salario minimo e un sistema di monitoraggio per tutelare i lavoratori immigrati. SIRIA 3 novembre. L’esercito siriano ha conquistato Dayr al-Zor, nella Siria orientale, precedentemente controllato da ISIS. TURCHIA 6 novembre. L’ambasciata statunitense ha annunciato che riaprirà il processo di rilascio di visti per i cittadini turchi, sebbene in numero limitato. YEMEN 6 novembre. La coalizione araba, guidata dall’Arabia Saudita, ha ordinato la chiusura dello spazio aereo yemenita. Chiusi gli aeroporti di Aden e Sayun. Chiuso da un anno, invece, l’aeroporto internazionale di Sana’a. A cura di Martina Terraglia

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Di Sofia Ercolessi Sabato 4 novembre, tramite un messaggio trasmesso dall’Arabia Saudita, il primo ministro libanese Saad Hariri ha dato le dimissioni. Il motivo, ha detto, sarebbe un complotto contro la sua vita, simile a quello che, nel 2005, ha portato all’assassinio di suo padre, l’ex Primo Ministro Rafiq Al-Hariri. Nel messaggio, Hariri ha rivolto parole ostili all’Iran, accusandolo di portare “devastazione e caos” e di aver imposto con le armi la preminenza politica di Hezbollah in Libano. Non è un caso che le dimissioni siano arrivate dall’Arabia Saudita: viene spontaneo inserirle nel quadro della “guerra fredda” tra l’Iran sciita e l’Arabia Saudita sunnita, le cui tensioni si fanno sentire in numerosi punti caldi della regione, tra cui Siria e Yemen. Il caso del Libano è particolarmente delicato perché il Paese si regge su un fragile equilibrio interconfessionale: il 40% della popolazione è cristiana, soprattutto maronita, il 27% è musulmano sunnita e il 27% sciita. Per garantire un certo equilibrio di rappresentanza, è previsto che il Presidente della Repubblica sia un cristiano maronita, il Primo Ministro un sunnita e il Presidente del Parlamento uno sciita. Hezbollah, il braccio politico

dell’Iran, ha un considerevole peso politico: il Presidente del Parlamento e il presidente della Repubblica Aoun vi sono affiliati, mentre nella fragile coalizione che Hariri portava avanti da un anno, 4 ministri vi appartenevano. Hariri, invece, è profondamente legato all’Arabia Saudita, di cui ha persino la cittadinanza: suo padre vi aveva aperto una grossa impresa di costruzioni, che l’aveva reso miliardario. Tra Hezbollah e l’ex Primo Ministro, negli anni, non sono mancate le tensioni, esacerbate dai sospetti su Hezbollah per la morte del padre. La precarietà del Libano rende queste dimissioni particolarmente destabilizzanti: già prima dell’elezione di Aoun, nel 2016, il Paese era rimasto due anni senza capo di Stato per uno stallo politico. Secondo molti analisti, l’Arabia Saudita avrebbe sfruttato la particolare situazione libanese per spingere Hariri alle dimissioni, al fine t di mettere in difficol à le forze affiliate all’Iran. La reazione di Hezbollah è stata di condanna, ma anche di rassicurazione, invitando a “calma, pazienza e attesa finché le ragioni [delle dimissioni] saranno chiare”. L’Iran, d’altro canto, è stato più diretto, dicendo che l’atto ha creato “tensione nell’intera regione”.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole AZERBAIJANI 6 novembre. Il ministro degli Esteri Mammadyarov, durante il suo recente viaggio in Svezia, ha incontrato il primo vice ministro del Riksdag, Finne. Durante il loro colloquio è stato trattato il tema della cooperazione tra i due Stati in molteplici ambiti. Inoltre Mamadyarov ha informato Finne sui diversi progetti d’infrastrutture energetiche. BIELORUSSIA 5 novembre. Statkevich, leader del Congresso Nazionale della Bielorussia, è stato liberato. Il 3 novembre era stato incarcerato per aver partecipato ad una manifestazione contro l’esercitazione militare degli eserciti russo e bielorusso, Zapad. L’esercitazione, che si tiene annualmente dalla fine della Guerra Fredda, coinvolge oltre 12 mila soldati. BULGARIA 1 novembre. Il vice primo ministro, Simenov, ha perso la causa ed è stato condannato per aver tenuto, al Parlamento, un discorso d’odio nei confronti dei Rom. Due giornalisti, presenti al discorso, hanno denunciato Simenov. Dopo tre anni la Corte ha stabilito che le parole pronunciate dal Vice Primo Ministro offendono la dignità della persona. La decisione finale è soggetta ad appello 3 novembre. Si sono incontrati a Sofia, il presidente Radev e la presidente della Confederazione Svizzera Leuthard. Durante il colloquio sono stati trattati i temi riguardavano la politica europea, i rapporti bilaterali tra i due Stati e la politica internazionale. Sono stati valutati in modo molto positivo i rapporti

INCROCI PERICOLOSI IN PARADISO I Paradise Papers svelano opacità nel rapporto tra Washington e Mosca

Di Vladimiro Labate L’inchiesta giornalistica, denominata Paradise Papers, sul sistema di elusione fiscale per grandi aziende, uomini d’affari e personalità pubbliche e politiche, adottato da uno studio legale con sede nel paradiso fiscale delle Bermuda, rischia di complicare ulteriormente il cammino del presidente americano Donald Trump. Essa, infatti, getta nuove ombre sulle relazioni tra alcuni membri della sua amministrazione e uomini vicini al Cremlino. Le nuove criticità riguardano il segretario al Commercio Wilbur Ross e il genero e consigliere del Presidente Jared Kushner. La questione che ruota attorno a Ross si riferisce a degli investimenti nella Navigator Holdings, una società che si occupa di noleggio di petroliere. Secondo le carte, tra i maggiori clienti di questa società, una delle poche nelle quali, dopo la nomina, Ross ha mantenuto un investimento, figurano un amico intimo e il genero del presidente russo Vladimir Putin, entrambi colpiti dalle sanzioni occidentali del 2014. Nel caso in cui gli interessi personali del Segretario al Commercio dovessero mettere in dubbio la sua imparzialità nell’esercizio della propria carica, questi collegamenti e questi interessi economici potrebbero sollevare un possibile conflitto di interessi, con la

conseguenza di rendere maggiormente ambiguo il rapporto tra l’amministrazione americana e il Cremlino. Il coinvolgimento di Kushner si ricollega alla figura di un ricco magnate della tecnologia e della finanza russo, Yuri Milner. Secondo i documenti scoperti, quest’ultimo, che nella sua carriera ha intrattenuto rapporti sia con il governo russo sia con i colossi della Silicon Valley. Nel 2015, egli investì parte del proprio fondo familiare nella startup avviata da Kushner e dal fratello. Ciò contraddice quanto lo stesso Kushner aveva dichiarato in precedenza in riferimento al fatto di non aver mai ricevuto finanziamenti russi per la propria attività privata. Milner, inoltre, tra il 2011 e il 2012 finanziò attraverso una sua società di investimento Twitter e Facebook. Il problema è relativo al fatto che i fondi per il finanziamento provenivano da due istituzioni finanziarie russe con stretti legami col Cremlino. Nonostante Milner assicuri che queste operazioni seguirono una logica esclusivamente commerciale, queste rivelazioni, portate alla luce dai Paradise Papers, mettono ulteriormente sotto pressione i due social media, già al centro del dibattito sull’uso spregiudicato che la propaganda russa ne ha fatto per influenzare le elezioni presidenziali del 2016. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI negli ultimi anni tra i due Stati, in particolare grazie alla cooperazione giudiziaria, economica, ambientale e culturale. Per quanto riguarda la politica internazionale, è stato trattato il tema della sicurezza, soprattutto dei Balcani occidentali, e la possibile cooperazione tra Svizzera e Bulgaria in questo settore RUSSIA 5 novembre. In tutto il Paese si sono tenute manifestazioni organizzate da Artpodgotovka, un partito d’opposizione russa, considerato un’organizzazione estremista e vietata dal governo russo. Durante queste manifestazioni sono state arrestate oltre 400 persone. 6 novembre. Nella Repubblica di Tatarstan, i procuratori stanno ampliando le loro indagini sulle presunte torture da parte della polizia. A inizio mese, il Tribunale ha condannato tre funzionari per abuso di autorità. La polizia ha ammesso di aver rapito un ragazzo, Pirkin, e di averlo torturato per fargli confessare un furto. Pirkin si è tolto la vita. Dopo questo fatto, la Procura ha iniziato ad indagare su altri sette casi con suicidio sospetto A cura di Lara Aurelie Isaia

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IL COLORE DELLA PAURA Isteria e attentati in Russia

Di Elisa Todesco Domenica 5 novembre 2017. È una giornata come tante nella capitale russa. O forse no. Domenica mattina, oltre 3500 persone si sono alzate e, dopo un brunch o un pranzo in famiglia, hanno indossato uno dei loro abiti migliori. Hanno poi preso la metropolitana, o la macchina, o il bus, e si sono recate, gioiose e spensierate, in direzione del Bolshoi, teatro storico di Mosca, famoso per l’opera e il balletto. Si riesce quasi a palpare la frenesia, l’eccitazione e la spensieratezza che avvolgono il teatro, che di lì a poco avrebbe ospitato un concerto dedicato al centenario della Rivoluzione Russa del 1917. E poi, il quasi incubo: la polizia fa evacuare il teatro. Allarme bomba. Sempre quella domenica, verranno fatte evacuare oltre 2500 persone fra clienti e dipendenti dei Magazzini Gum, centro commerciale che affaccia sulla Piazza Rossa. A queste si aggiungono un numero imprecisato di altre persone evacuate nel corso della giornata in ristoranti, caffè e negozi della capitale. Fortunatamente, tutti gli allarmi si sono rivelati dei falsi e la situazione è lentamente tornata alla normalità. Tuttavia, il segnale è chiaro: Mosca ha paura. Il rischio di un attentato c’è, è lì, sempre

presente, e il passato lo dimostra. Nel corso degli anni la Russia è stata vittima di molti attentati: ad esempio, il famosissimo caso della scuola Beslan (settembre 2004), quando un gruppo di terroristi ceceni ha preso in ostaggio oltre 1000 persone, per un bilancio finale di 335 vittime, delle quali 186 bambini. O il duplice attentato nella metropolitana moscovita del marzo 2010: due donne (una cecena e una daghestana) si fecero saltare in aria, causando la morte di 39 persone e il ferimento di altre 70. Più recentemente, invece, ricordiamo l’attentato che ha coinvolto un aereo russo che sorvolava il Sinai del 2015 (a bordo vi erano 224 persone), o l’ultimo attentato nella metropolitana di San Pietroburgo (aprile 2017), che ha causato 10 morti e 37 feriti. La paura è tanta, e non è probabile una rapida diminuzione. A gennaio la polizia russa ha arrestato un gruppo che progettava attentati a Mosca, fatto che dimostra che il rischio è reale. Senza contare l’ultima minaccia arrivata direttamente dal sedicente Stato Islamico: il gruppo terroristico, tramite il suo organo di comunicazione al-Wafa Media Foundation, ha divulgato l’intenzione di compiere attentati durante i Mondiali 2018, i quali si svolgeranno appunto in Russia.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

LA LOTTA PER L’INDIPENDENZA SI RIACCENDE

A Hong Kong scoppiano nuovamente le proteste

BANGLADESH 9 novembre. Descrivendo la fuga dei Rohingya come la più grave crisi umanitaria causata dall’uomo, il paese ha chiesto una soluzione definitiva e permanente alla crisi, sostenendo di non poter procedere a lungo con l’accoglienza dei rifugiati.

COREA DEL NORD 6 novembre. Nel suo viaggio in Asia, il presidente statunitense Donald Trump si è rivolto a Kim Jong Un criticando la gestione del Paese perpetrata dal padre; la Corea del Nord è stata definita “un inferno in cui nessuno merita di vivere”. Il viaggio in Asia del Presidente è attualmente in corso. 9 novembre. In seguito alle dichiarazioni di Trump in visita in Oriente, ufficiali nordcoreani hanno affermato di non prestare attenzione alcuna a ciò che comunica il Presidente statunitense, accusandolo inoltre di alimentare le tensioni tra i due Paesi in maniera sproporzionata. CINA

Di Micol Bertolini Dopo la sconfitta della “Rivoluzione degli ombrelli” nel 2014 e alla condanna degli attivisti Wong e Law, pilastri della protesta, la lotta per l’indipendenza di Hong Kong sembrava aver perso vigore. Tuttavia, al momento della riapertura delle scuole, in settembre, le rivendicazioni indipendentiste sono tornate a far sentire la loro voce. La diatriba tra indipendentisti e sostenitori del governo cinese si è riaccesa a partire dalle principali università hongkonghesi, prima fra tutte la Chinese University of Hong Kong. Manifesti inneggianti all’indipendenza affissi sulle bacheche per gli annunci hanno fornito il pretesto per uno scontro verbale e fisico tra gli aderenti alle due fazioni, durato 3 settimane. L’attuale Capo esecutivo di Hong Kong, Carrie Liam, ha condannato l’uso dei manifesti ed il dibattito sull’indipendenza, in generale, forte del sostegno dei rettori delle diverse università. Questi ultimi, in una dichiarazione comune, affermano che la libertà di espressione non è assoluta. Gli studenti hanno risposto con indignazione. Il loro timore è che le libertà, già scarse, di cui godono gli ambienti accademici vengano limitate ulteriormente dal governo, strumentalizzando i recenti scontri.

Al revival delle rivendicazioni indipendentiste ha contribuito anche la liberazione temporanea su cauzione, avvenuta il 24 ottobre, dei due attivisti incarcerati l’agosto scorso per aver organizzato una riunione illecita poco prima delle proteste del 2014. Joshua Wong si è pronunciato sui due mesi passati in prigione, sottolineando come il sistema carcerario cinese sia pensato esattamente per indurre gli individui all’obbedienza. La libertà di decisione dei detenuti è annullata e la limitatezza delle informazioni e notizie provenienti dall’esterno è frustrante, secondo l’attivista. Questa esperienza, tuttavia, non ha indebolito l’animo battagliero di Wong che si dichiara pronto a riprendere la lotta per la democrazia a Hong Kong. Una riapertura così brusca della questione indipendentista è infine conseguenza inevitabile del rafforzamento del potere del Presidente cinese. Xi Jinping, durante il XIX congresso del Partito Comunista Cinese ha lasciato intravedere una futura stretta sulle rivendicazioni hongkonghesi, soprattutto in vista dello scadere, nel 2047, del periodo di autonomia concesso a Hong Kong dalla Cina. Una scadenza sempre più prossima, che rende il problema dell’indipendenza sempre più impellente. MSOI the Post • 11


ORIENTE 9 novembre. Donald Trump e Xi Jinping si confrontano sulla situazione degli scambi commerciali tra i due paesi, delineando la situazione di pesante deficit degli Stati Uniti in relazione alle importazioni cinesi. Nel dialogo, anche la delicata situazione militare e gli equilibri nucleari con la Corea del Nord. GIAPPONE 8 novembre. Ricerche e sondaggi dell’Ufficio di gabinetto del Giappone rivelano che gli ordini e gli acquisti di macchinari industriali del Paese stanno crollando, comportando una perdita nelle vendite dell’8,1% soltanto nel mese di settembre. MYANMAR 6 novembre. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che condanna le violenze ai danni della minoranza Rohingya nel paese, che negli ultimi mesi ha portato ad una fuga di 600.000 musulmani dal Myanmar verso il Bangladesh. Questo aumenta la pressione sul Paese affinché venga trovata una soluzione alla crisi. A cura di Carolina Quaranta

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GIAPPONE IN OTTICA DI REFERENDUM COSTITUZIONALE Il Premier porta avanti il suo proposito di riforma

Di Alessandro Fornaroli Shinzo Abe è stato rieletto Primo Ministro mercoledì 1 novembre, durante una sessione parlamentare straordinaria. La sua prossima strategia politica sarà quella di vincere il terzo mandato come Presidente del Partito Liberal Democratico del Giappone (LDP), le cui elezioni si terranno nell’autunno del 2018. Oltre all’aumento della tassazione sui consumi interni, il politico conservatore mira ora alla revisione costituzionale dell’Articolo 9. Per fare ciò, al rieletto Presidente serviranno una maggioranza di due terzi in entrambe le Camere e una maggioranza dei voti espressi dal popolo per la ratifica tramite referendum nazionale. Il momento decisivo per l’LDP sarà l’estate del 2019, quando dovrà mantenere i propri numeri per le elezioni della Camera Alta. Come molte Costituzioni postbelliche, quella nipponica rinuncia alla guerra ed alla minaccia dell’uso della forza come strumento per risolvere le dispute internazionali. A questo scopo, l’Articolo 9 non permette il mantenimento di alcun potenziale bellico terrestre, aereo, navale, o di altro tipo. L’interpretazione originale del secondo comma escludeva qualsiasi forza armata capace di entrare in guerra, lasciando quindi sopravvivere solo armi minori, come il corpo di polizia.

Nel 2014, con disapprovazione da parte della vicina Cina e della Corea del Sud, il governo ha adottato un’interpretazione più ampia dell’Articolo 9, accrescendo il raggio d’azione del proto-esercito giapponese, ambiguamente denominato Forze di Auto Difesa (JSDF), e permettendo così al Paese del Sol Levante di intervenire in aiuto dei propri alleati in caso di attacco e di partecipare ad addestramenti militari congiunti con altri Stati. La Camera dei Rappresentanti dovrà affrontare tre questioni chiave avanzate dall’LDP: l’inquadramento del ruolo delle forze armate all’interno della Carta fondamentale, il bisogno di affermare il diritto all’autodifesa e la concessione di partecipare a livello militare e civile agli sforzi di sicurezza internazionale Un esito negativo del referendum potrebbe portare ad un indebolimento del mandato politico di cui l’esecutivo può adesso vantarsi. L’LDP cercherà, quindi, di instaurare un dialogo tra gruppi parlamentari durante la sessione ordinaria della Dieta, nel gennaio 2018. Ci si può aspettare che, dopo la riconferma a guida del Partito nello stesso anno, Abe vorrà accelerare il confronto nella sessione straordinaria autunnale e arrivare a proporre l’emendamento costituzionale durante la seduta ordinaria di gennaio 2019.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

ZIMBABWE 3 novembre. Arrestata la blogger statunitense Martha O’Donovan, con le accuse di oltraggio al Presidente Robert Mugabe e di cospirazione contro il Governo. Dal suo sito Magamba TV, avrebbe twittato una vignetta satirica raffigurante un uomo con catetere e la frase“We are being led by a selfish and sick man”. L’arresto di O’Donovan è il primo atto del neonato Ministero per la Cyber Security, fondato a fine ottobre. 6 novembre. Mugabe licenzia Emmerson Mnangagwa, suo Vice-Presidente e braccio destro, e nomina suo successore la moglie, Grace Mugabe. L’uscita dalla scena politica di Mnangagwa è stata interpretata come un’agevolazione della carriera politica della consorte del Presidente. LIBERIA 3 novembre. La Commissione elettorale nazionale ha annunciato che lo spareggio delle elezioni presidenziali previsto per martedì 8 novembre sarà posticipato: la Corte suprema di giustizia ha avviato delle indagini per appurare la fondatezza delle accuse di frode rivolte dal candidato Charles Brumskine al primo round delle elezioni, alla fine del quale si è collocato terzo. Le elezioni presidenziali di novembre 2017 sono state il primo esempio di transizione

IAN SQUIRE RAPITO E UCCISO IN NIGERIA Muore l’ottico inglese tenuto in ostaggio per tre settimane insieme a tre colleghi

Di Federica De Lollis Il 13 ottobre si sono perse le tracce di quattro membri dell’organizzazione benefica Mission for Vision. Soltanto tre di questi -David Donovan, Shirley Donovan e Alanna Carson- sono stati rilasciati, mentre Ian Squire, a capo della fondazione, è stato ucciso in circostanze ancora oscure. Squire, ottico di 56 anni, aveva dedicato anni del suo lavoro a popolazioni in condizioni di povertà estrema, concentrandosi maggiormente sulle comunità presenti nello Stato di Delta. Nel 2013, aveva intrapreso una stretta collaborazione con la New Foundations, un’organizzazione istituita nel 2003 da David Donovan per finanziare cure e trattamenti ospedalieri nel sud della Nigeria. Gli attivisti di Mission for Vision erano stati prelevati da una banda locale mentre si trovavano nella clinica specialistica della città di Enekorogha. I sospetti sono presto ricaduti sul gruppo armato Karowei, non nuovo a questo tipo di pratiche: recentemente, infatti, gli stessi criminali avevano anche sequestrato un esponente politico locale. Karowei generalmente chiede

riscatti in denaro, ma nel caso di Squire non si sa se i sequestratori siano stati pagati e che cosa non abbia funzionato nella fase di rilascio, dal momento che la liberazione degli altri ostaggi è stata portata a compimento (seppure solo dopo lunghe negoziazioni delle autorità britanniche e nigeriane con il gruppo armato). Non è escluso che Squire sia stato ucciso prima dell’inizio di tali trattative. Il commissario di Polizia di Delta, Zanna Ibrahim, sostiene che il rapimento sia stata una risposta alla recente “Operation Crocodile Smile” per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il 29 luglio scorso, il governo del Regno Unito aveva reso pubbliche le mete sconsigliate ai viaggiatori, tra le quali figurano lo Stato di Delta e la regione meridionale della Nigeria, per via dell’alto rischio di rapimento a scopo di estorsione ad opera di gruppi di malviventi e miliziani di Boko Haram. Il portavoce del Ministero degli Esteri britannico, nel manifestare la vicinanza delle istituzioni alle famiglie delle persone sequestrate, non ha riportato i dettagli della morte di Squire. MSOI the Post • 13


AFRICA pacifica e democratica dello Stato liberiano dal 1944 ad oggi. KENYA 4 novembre. La coalizione di opposizione al Governo Kenyatta, formato la scorsa settimana, ha annunciato una campagna di boicottaggio ai danni della Safaricom, gigante delle telecomunicazioni, della Brookside, produttrice di latticini e della Bidco, che opera nel settore degli olii da cucina. Secondo Odinga, leader dell’opposizione, queste multinazionali avrebbero favorito la rielezione del presidente Kenyatta in cambio del consolidamento delle agevolazioni proposte dai Governi precedenti.

NIGERIA 8 novembre. Babachir Lawal, segretario federale di Stato, viene licenziato dal presidente Muhammadu Buhari con l’accusa di aver investito in imprese private i fondi umanitari destinati alle zone colpite da Boko Haram. Lawal era stato sospeso dall’incarico ad aprile, a seguito dell’indagine aperta a suo carico, relativamente alla gestione dei campi dei rifugiati situati nel nord-est del Paese. A cura di Barbara Polin

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CRESCE L’IMPEGNO ECONOMICO DELL’ENI IN AFRICA

Ma nei programmi del gruppo ci sono anche interessi sociali

Di Chiara Zaghi L’Amministratore delegato dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), Claudio Descalzi, ha incontrato il Presidente della Repubblica del Ghana, Nana Addo Dankwa Akufo-Addo, e il Presidente della Repubblica dell’Angola, Joao Gonçalves Lourenço, per delineare i prossimi obiettivi del gruppo petrolifero e per discorrere dell’accesso alle fonti energetiche e dello sviluppo socio-economico dei due Paesi.

metà del 2018, permetterà di incrementare la produzione fino a 54.000 barili di olio al giorno in più rispetto all’attuale.

La prima tappa della visita è avvenuta in Ghana, dove l’ENI ha lanciato l’Integrated Oil&Gas Development Project, che coinvolgerà circa 2300 aziende del Paese e che rappresenta un’importante occasione per la crescita dell’economia locale. Il progetto garantirà anche un approvvigionamento energetico al Ghana, il quale beneficerà per 15 anni di forniture affidabili di gas. I lavori per la costruzione degli stabilimenti, iniziati a maggio di quest’anno, termineranno nel 2018.

Gli interessi dell’ENI non sono esclusivamente economici. Il gruppo è impegnato in diversi progetti rivolti allo sviluppo sociale. Ogni anno, in Ghana, ENI mette a disposizione borse di studio e corsi di formazione, per un valore di 1,3 milioni di dollari; investe in progetti sociali per mitigare le tensioni presenti nella regione occidentale del Paese; finanzia progetti specifici per lo sviluppo agricolo e per la gestione delle risorse idriche e dei rifiuti. Anche in Angola, l’ENI propone una propria agenda sociale. La collaborazione con la Sonangol, Società Nazionale degli Idrocarburi d’Angola, permette di monitorare e migliorare gli impianti presenti e di attuare programmi per la popolazione: il finanziamento e l’installazione di pannelli fotovoltaici, la costruzione di pozzi, il finanziamento di programmi per l’agricoltura e la formazione.

Successivamente, Descalzi si è recato in Angola dove si è confrontato con il presidente Lourenço riguardo la produzione degli stabilimenti presenti e la realizzazione di nuovi progetti. È prevista la costruzione di un nuovo sistema di pompaggio sottomarino che, dalla seconda

L’ENI ha così confermato il suo proposito di investire nell’Africa centrale, passando peraltro anche per il Congo, il Gabon, il Mozambico. Il gruppo, infatti, detiene partnership con 16 paesi del continente africano per un totale di 8 miliardi di investimenti.


AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole

LA LOTTA DELLA COLOMBIA CONTRO IL BUSINESS DELLA DROGA Firmato il patto tra Colombia e Nazioni Unite per eradicare la produzione di cocaina

ARGENTINA 3 novembre. Amado Boudou, Vicepresidente durante il secondo Governo di Cristina Fernández de Kirchner, è stato arrestato per ingiustificato arricchimento e riciclaggio di denaro. Boudou si aggiunge alla lista di ex ministri, associati e collaboratori della famiglia Kirchner in attesa di processo con varie accuse di corruzione. BOLIVIA 7 novembre. Migliaia di manifestanti sono scesi in piazza a La Paz in supporto del presidente Evo Morales. Si avvicina la data del verdetto della Corte costituzionale, che deciderà se permettere a Morales di candidarsi per un quarto mandato.

BRASILE 6 novembre. Manuela d’Ávila sarà la candidata del PCdoB, il partito comunista brasiliano, nel 2018. La nomina di un candidato indipendente ha causato tensioni con il Partito dei Lavoratori, causando voci di spaccatura nella coalizione.

Di Sveva Morgigni Nell’accordo di pace firmato lo scorso agosto tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC), raggiunto dopo oltre cinquant’anni di conflitto, è prevista la partecipazione della milizia alla lotta al o narcotraffic . I ribelli si sono infatti impegnati a rinunciare al controllo sulle aree di produzione di droga e a spingere gli agricoltori locali ad abbandonare la coltivazione della coca. Ciononostante, la Colombia continua a essere il più grande produttore di cocaina al mondo; per questo motivo, lo scorso venerdì la Colombia e l’ONU hanno raggiunto un’intesa per la lotta al traffico di cocaina, cercando di porre un rimedio alla difficile situazione del Paese sudamericano. Lo Stato ha riconosciuto le difficoltà nel ridurre le aree dedicate alla coltivazione della coca poiché si tratta di interferire con quella che è stata una delle principali fonti di guadagno dei ribelli durante il conflitto armato. “Questo accordo è un’occasione unica […] per aiutare gli agricoltori ad adottare uno sviluppo alternativo”, ha dichiarato il direttore esecutivo dell’Ufficio delleNazioniUnitesulleDrogheed il Crimine (UNODC) di Vienna, Yury Fedotov, sottolineando

anche che “il perseguimento della pace richiede soluzioni concrete ai crimini che alimentano il conflitto”. Un simile approccio è sperimentato dall’UNODC in diversi Paesi, tra cui Afghanistan, Bolivia, Laos e Perù, e prevede l’investimento di 315 milioni di dollari per l’eradicazione della produzione di coca e incentivare lo sviluppo di colture alternative, come caffè e cacao. “Questo accordo ci permette di garantire il proseguimento del piano di sostituzione per quattro anni, consolidando le disposizioni dell’accordo di pace con la FARC. Dovrebbe rivelarsi un sollievo per le Regioni”, ha affermato Rafael Pardo, l’Alto Consigliere colombiano per il post-conflitto. Nonostante il piano rappresenti una delle richieste degli agricoltori a seguito della firma dell’accordo con le FARC, la popolazione contadina resta divisa tra coloro che cercano un vero cambiamento e quelli che approfittano dei ritardi del piano di sostituzione per coltivare nuove piante di coca in attesa delle sovvenzioni. Oggi, benché la Colombia stia facendo enormi passi in avanti grazie all’aiuto internazionale, resta ancora da vedere se quest’ultimo programma possa davvero costituire una strategia che conduca a una vera giustizia sociale.

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AMERICA LATINA COLOMBIA 3 novembre. La Colombia ha firmato un accordo con le Nazioni Unite per ridurre la produzione di cocaina. Il piano prevede un compenso per gli agricoltori che passeranno da coltivazioni di coca a caffè o cacao nei prossimi 4 anni, con un costo stimato di 300 milioni di dollari. CUBA 8 novembre. A partire da questa settimana sarà proibito ai cittadini statunitensi di fare affari con 180 enti, strutture e imprese cubane riconducibili al Governo, secondo la blacklist pubblicata dal Dipartimento del Tesoro. Le nuove restrizioni andranno a colpire soprattutto il settore turistico, uno dei principali del Paese. VENEZUELA 5 novembre. Freddy Guevara, leader del partito di opposizione Volontà Popolare, ha richiesto asilo politico presso l’Ambasciata del Cile a Caracas. Guevara è stato privato dell’immunità parlamentare in forza di una decisione della Corte Suprema ed è ora sotto accusa per incitamento alla violenza, in occasione di proteste antigovernative. A cura di Elena Amici

GUEVARA CERCA RIFUGIO NELL’AMBASCIATA CILENA

Il leader dell’opposizione rischia fino a 10 anni di carcere

Di Elisa Zamuner Lunedì 6 novembre l’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) venezuelana ha sospeso le immunità congressuali di Freddy Guevara, vicepresidente dell’esautorato Parlamento e leader dell’opposizione. La sospensione dell’immunità di Guevara è stata approvata all’unanimità dai 545 membri, tutti filogovernativi, della Costituente. L’ANC ha, inoltre, chiesto al Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ) di procedere contro di lui. Freddy Guevara già nel weekend si era rifugiato a Caracas, nella residenza dell’ambasciatore cileno per il timore di venire imprigionato in seguito alle accuse di istigazione a delinquere e uso di minorenni per scontri di piazza. Il governo ritiene che Guevara sia uno dei principali responsabili delle circa 125 morti avvenute durante le recenti manifestazioni e un’eventuale condanna potrebbe costargli 10 anni di carcere. Il leader del partito Voluntad Popular si batte da tempocontro il governo Maduro, promuovendo diverse manifestazioni relative alla richiesta di elezioni anticipate ed aiuti umanitari. Ha inoltre sempre contestato i trattamenti riservati ai dissidenti ed alle opposizioni.

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Jorge Arreaza, ministro degli Esteri, in seguito alla notizia

della fuga di Guevara, ha commentato su Twitter: “Alcune persone sono molto coraggiose quando si tratta di inneggiare alla violenza, alla distruzione e alla morte; ma di fronte alla giustizia scappano con una codardia imbarazzante”. D’altro canto l’opposizione ha reagito con rabbia alla vicenda: Julio Borges, uno dei fondatori del partito Primero Justicia, aveva definito la richiesta delle sospensioni delle immunità una decisione arbitraria e politica, volta a indebolire ancora di più il Parlamento, aggiungendo che il Venezuela ha bisogno di libertà, giustizia e dignità. Infine, Freddy Guevara in un video pubblicato sulla pagina Twitter del suo partito Voluntad Popular, ha motivato la scelta di fuggire, sostenendo di “non voler offrire un altro ostaggio” a Maduro. Il politico dell’opposizione si è, inoltre, dichiarato innocente in merito ai crimini contestatigli adducendo principi quali la disobbedienza civile e ha accusato il governo di distorcere e manipolare la realtà dei fatti per debilitare la sua immagine agli occhi dell’opinione pubblica. Da quando, nel 2013, Nicolás Maduro ha assunto la carica di Presidente della Repubblica diversi esponenti dei partiti d’opposizione sono stati processati ed incarcerati attraverso delle modalità contestate da molti.


ECONOMIA IL MIRACOLO UNGHERESE Il governo incassa +8,1% di crescita annuale del PIL

Di Michelangelo Inverso Comunque si giudichi il governo conservatore ungherese, non si potrà dire che sia economicamente fallimentare. Nel 2017 si registrerà, infatti, una crescita economica senza precedenti nella storia democratica del Paese: un aumento dell’8,1% del PIL, su base annua. Lo straordinario risultato ungherese è andato persino al di là delle aspettative del governo, che aveva previsto un +7,9%. Un successo insperabile per qualsiasi altra economia nell’Europa occidentale. Cifre simili appaiono incomprensibili, se non si tiene conto delle scelte politiche in Ungheria, che hanno permesso di contrastare la crisi economica tempestivamente e di pianificare con cura gli investimenti per la crescita. Per quanto riguarda il primo punto, occorre evidenziare come l’Ungheria non faccia parte dell’Eurozona e, di conseguenza, non abbia l’obbligo di rispettare troppo rigidamente i vincoli di bilancio (riguardo debito pubblico e rapporto deficit-PIL). La pianificazione economica è stata resa possibile da una serie di importanti e, fino ad oggi, controverse riforme. In primo luogo, per assicurare che la politica monetaria fosse collegata agli obiettivi economici

del governo è stata cambiata la legislazione che garantiva l’indipendenza della Banca centrale, riportando la politica monetaria sotto il controllo di Budapest. Questa riforma, osteggiata dalla Commissione europea in quanto ‘violazione’ dei principi liberali europei, ha però consentito di poter raggiungere obiettivi strutturali di lungo periodo che oggi stanno dando i loro frutti. In secondo luogo, sono state avviate altre riforme strutturali che giustificano il boom economico industriale magiaro, in primis il taglio della tassazione, che ha permesso di aumentare i consumi. Questo normalmente ridurrebbe l’investimento pubblico, ma così non è stato, per via della corrispondente politica monetaria espansiva adottata, che, inoltre, ha permesso di aumentare le pensioni, in controtendenza rispetto all’Eurozona. Infine, questi numeri si spiegano alla luce degli accurati investimenti miliardari bilaterali con altri partner commerciali internazionali, in modo particolare la Russia. Il peso specifico di Mosca nelle relazioni ungheresi si è accresciuto sia sotto il profilo economico si sotto quello politico. In ambito energetico, ad esempio, la Russia si è impegnata ad erogare finanziamenti al Paese magiaro,

per 10 miliardi di euro, al fine di ampliare la centrale nucleare di Paks. Aggiungendo due nuovi reattori all’impianto, l’Ungheria arriverà a coprire, entro il 2026-27, il 50% del suo fabbisogno energetico, rispetto al 35% attuale. Il resto, nei piani governativi di Orban, dovrà essere coperto da fonti rinnovabili, in modo particolare il solare. Tali vasti programmi infrastrutturali hanno già permesso il taglio delle bollette elettriche, aumentando ancora di più consumi e risparmi. Ma le ragioni economiche non sono le uniche a legare Russia e Ungheria. Anche sotto il profilo strettamente politico le convergenze sono sempre più ampie. Non è, infatti, un caso che sia Mosca sia Budapest, dopo aver visto i risultati delle ‘rivoluzioni colorate’ nell’Est Europa, abbiano iniziato a disinnescare i fattori eterodiretti che le hanno alimentate, ad esempio le Organizzazioni Non Governative che ricevono finanziamenti dall’estero, come l’Open Society dello speculatore George Soros. Con questi risultati alla mano Orban avrà fortissime ragioni per giustificare la propria politica interna, mentre gli altri governi europei dovranno concentrarsi sulle risposte alla lenta crescita domestica, prevista tra il +1 e il +2% quest’anno.

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ECONOMIA OPEL TRACCIA I PROSSIMI PASSI

La nuova filiale del gruppo automobilistico francese si è posta obiettivi ambiziosi

Di Giacomo Robasto Il noto marchio automobilistico originariamente tedesco, che ormai dal 1990 era saldamente controllato dall’americana General Motors, è stato acquisito già da quasi 100 giorni dal gruppo francese PSA, che ha preparato per la nuova filiale un ambizioso piano di rilancio. Il nuovo piano, battezzato ‘PACE!’ (dall’inglese ‘ritmo’) dai nuovi managers del costruttore francese, è stato presentato l’8 novembre scorso a Ruesselsheim - sede del maggiore stabilimento - da Michael Lohscheller, amministratore delegato di Opel Automobile GmbH, e dall’AD di PSA Carlos Tavares. Dal momento che Opel, quando era ancora sotto il controllo di General Motors, è stata per numerosi anni in perdita, l’obiettivo principale di medio e lungo termine è di riportare la filiale agli utili entro il 2020, anno per il quale è previsto un margine operativo della divisione auto al 2% ed in seguito al 6% circa entro il 2026. La nuova controllata prevede di perseguire questi importanti target partendo da una radicale riduzione dei costi attuali: secondo le previsioni, le sinergie con PSA porteranno risparmi per un miliardo di euro entro il 2020 18 • MSOI the Post

e di altrettanti 1,7 miliardi entro il 2026. Come sottolineato più volte dai managers, tali sinergie sì concretizzeranno nell’adozione, da parte di Opel, delle stesse piattaforme dei modelli Peugeot e Citroën, che saranno ridotte da 9 a 5 nel prossimo triennio, e di buona parte dei motori. Tale sistema permetterà, quindi, risparmi fino a €700 per ogni vettura prodotta, che, con un’efficienza nelle spese di pubblicità migliorata del 10%, permetterà di raggiungere il punto di pareggio (‘break-even point’) alla avvenuta vendita di 800.000 nuove vetture. La prevista sforbiciata nei costi di produzione non implica, tuttavia, poca attenzione agli investimenti per rilanciare il brand, a partire dall’ecosostenibilità: PSA mira infatti, attraverso Opel, a diventare entro il 2024 leader europeo della mobilità sostenibile, con un’offerta di veicoli completamente elettrificata con propulsione elettrica pura, ibridi plug-in o motori termici mild hybrid. Un altro punto saliente di ‘PACE!’ è l’espansione dei mercati di riferimento. Vi saranno nove modelli in uscita entro il 2020,

ma, oltre alle vetture tradizionali, ci saranno anche delle novità in tema di veicoli commerciali: a questo proposito, il primo passo sarà la commercializzazione del nuovo ‘Combo’ nel 2020, che permetterà al marchio di incrementare i volumi e di entrare nel mercato turco. A livello generale, infine, l’obiettivo dichiarato è entrare in 20 nuovi mercati entro il 2022 e di raddoppiare le esportazioni entro il 2020. Opel a quel punto diventerà, finalmente, un marchio globale, garantendosi una quota del 10% delle vendite totali nei nuovi mercati. Benché i progetti per Opel siano stati appena presentati, non mancano le ambizioni e le idee per far recuperare al brand una quota di mercato significativa in Europa e diffonderlo nel mondo. Infatti, un altro obiettivo implicito è il recupero della quota di mercato europea che è stata in progressiva diminuzione, essendo passata dal 9,82% del 1999 al 5,42% del 2016. Tuttavia, soltanto il tempo, oltre ovviamente al mercato e alle strategie dei principali competitors (in primo luogo, i gruppi Volkswagen e FCA in Europa), diranno se Opel vincerà la sfida.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LAVORO FORZATO E IMMIGRAZIONE: UN BINOMIO TRISTEMENTE ATTUALE Commenti al margine della sentenza Chowdury

Di Luca Imperatore Nel febbraio 2013, alcuni migranti bengalesi residenti in Grecia, senza permesso di lavoro, vengono reclutati, da due caporali, per la raccolta stagionale delle fragole nell’area di Manolada. Il salario promesso è pari a 22 euro per sette ore di lavoro, 3 euro per ogni ora di straordinario con una decurtazione giornaliera di 3 euro per il vitto. L’orario di lavoro è compreso dalle 7 alle 19, l’alloggio è costituito di baracche di fortuna, prive di servizi igienici e di acqua corrente. Durante un confronto verbale con i due caporali, per il pagamento degli arretrati, alcune guardie armate aprono il fuoco sui migranti ferendo una trentina di operai. L’intervento della polizia porta all’arresto degli sfruttatori, mentre alcuni dei migranti avviano un procedimento interno contro i datori di lavoro per tratta di esseri umani. Gli infruttuosi esiti processuali portano alcuni ricorrenti a sottoporre la doglianza alla Corte EDU di Strasburgo. La Corte richiama molteplici strumenti del diritto internazionale e del diritto comunitario che vietano schiavitù, servitù, lavoro forzato o obbligatorio e la tratta di esseri umani, fattispecie vietate anche dall’articolo 22(3) della Costituzione greca. I ricorrenti asseriscono che

l’attività imposta dai caporali integri lavoro forzato e, come tale, costituisca una violazione dell’articolo 4(2) CEDU. Lo Stato avrebbe, dunque, fallito nei suoi obblighi di prevenzione, non impedendo il materializzarsi della violazione. A tal proposito, un interrogativo sorge automatico: si può realmente parlare di lavoro forzato nell’Europa del terzo millennio? La Corte, riunendo l’ammissibilità al merito, richiama gli obblighi positivi scaturenti dalla Convenzione in materia di prevenzione della tratta di esseri umani. Gli Stati sono, infatti, tenuti ad adottare misure concrete di prevenzione per proteggere le vittime da condotte potenzialmente contrarie all’articolo 4 CEDU. Analogamente, anche gli obblighi procedurali di inchiesta sono estendibili all’articolo in esame e, una volta che la vicenda viene portata all’attenzione delle autorità, queste devono agire prontamente. A giudizio della Corte, le autorità erano a conoscenza della situazione creatasi nell’area di Manolada ma, nonostante abbiano agito tempestivamente nel caso di specie, non hanno adottato misure strutturali per prevenire la tratta di esseri umani e proteggere i ricorrenti. Occorre preliminarmente rimarcare come sia sostanzialmente

ridotto il numero di pronunce di violazione dell’articolo 4 CEDU, sintomo apparentemente positivo di una generale diffusione della tutela contro il lavoro forzato. Ciononostante, tale interpretazione può condurre ad un’analisi falsata della realtà. Analizzando i flussi migratori in entrata nei Paesi dell’Europa meridionale emerge con straordinaria forza come questi individui siano spesso soggetti a fenomeni di sfruttamento e di lavoro sommerso. Ciò che, fino ad ora, mancava era un trait d’union che collegasse tale condizione ad una concreta violazione dei diritti umani ed al conseguente emergere di obblighi positivi in capo agli Stati. La vicenda mostra chiaramente come l’attuale crisi migratoria che sta investendo il Mediterraneo porti con sé non solamente profondi interrogativi etico-morali, ma riproponga lo spettro di una piaga, quella del lavoro forzato, normalmente percepita come debellata nella moderna e democratica Europa dei popoli e che, invece, rientra dalla porta di servizio in tutta la sua barbarie. Si è forse davanti ad una nuova estensione degli obblighi statali? La pronuncia sul caso Chowdury lascia intendere di sì, ma quali saranno le conseguenze di tale onere sugli Stati parte ancora non è dato sapersi.

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DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO DISTACCO DI LAVORATORI E DUMPING SOCIALE: L’UE VERSO LA RIDEFINIZIONE DELLA MATERIA

Il Consiglio dell’UE, nell’ambito della realizzazione del pilastro europeo dei diritti sociali, approvala necessità di rivedere le norme sul distacco dei lavoratori

Di Federica Sanna Il 23 ottobre si sono riuniti a Lussemburgo i ministri del Lavoro e degli Affari Sociali dei Paesi membri dell’UE. Il Consiglio ha dato il via libera alla realizzazione del “pilastro sociale”, presentato ufficialmente dal presidente della Commissione Junker ad aprile 2017. L’obiettivo della politica europea in materia di diritti sociali è far fronte alle sfide della globalizzazione grazie all’instaurazione di un mercato del lavoro giusto e funzionante, accompagnato da un solido sistema di welfare state. Tra gli elementi chiave della definizione del pilastro europeo figura sicuramente la necessità di riformare la disciplina del lavoro distaccato: in occasione dell’incontro a Lussemburgo, infatti, i Ministri hanno approvato la proposta della Commissione volta a rivedere la direttiva del 1996 sul distacco dei lavoratori e la seguente direttiva enforcement 2014/67 sul contrasto al dumping sociale. Il principio ispiratore dell’accordo di modifica è la parità di retribuzione a parità di lavoro svolto nello stesso luogo, con l’obiettivo di contrastare lo sfruttamento degli squilibri del costo del lavoro oggi esistenti 20 • MSOI the Post

tra i paesi europei. Le norme che disciplinano la retribuzione e le condizioni di lavoro dei lavoratori cittadini di uno Stato membro saranno ugualmente applicate ai lavoratori distaccati, cittadini di un diverso Stato membro. Queste riguardano in particolare la retribuzione, la durata del distacco e i contratti collettivi. Per quanto riguarda la retribuzione e durata, la nuova disciplina europea prevede l’equiparazione del salario del lavoratore distaccato a quello del lavoratore cittadino dello Stato membro e un periodo massimo di distacco ridotto a 12 mesi. In merito ai contratti collettivi, la proposta prevede che non solo i contratti nazionali, ma anche i contratti collettivi locali vengano applicati al lavoratore distaccato. Il successo ottenuto dalla proposta in sede del Consiglio dell’UE, oltre ad essere un notevole passo avanti nella creazione di un mercato unico che ponga maggiormente l’attenzione sulla tutela dei lavoratori europei, rappresenta senza dubbio una vittoria politica a livello dell’Unione per il presidente francese Macron. È infatti innegabile il contributo apportato nella fase di negoziazione dell’accordo e, a sei mesi dall’elezione, anche i

più critici gli riconoscono il merito di aver agito conformemente alla propaganda dell’“Europa che protegge” usata in campagna elettorale, riuscendo forse a smarcarsi dall’appellativo di “Presidente dei ricchi”. Al contrario, il compromesso raggiunto non soddisfa Polonia, Ungheria, Lituania e Lettonia, tra i paesi maggiormente coinvolti nel distacco di lavoratori in settori tipicamente soggetti a fenomeni di dumping sociale, quali costruzioni, agricoltura e autotrasporti. Gli Stati in questione, che hanno infatti votato contro la misura, temono che la maggiore rigidità delle norme si ripercuota in maniera particolaresulle proprie attività economiche. Superando in questa occasione i singoli interessi nazionali, gli Stati membri dell’UE hanno finalmente dimostrato di voler dare una risposta alle sfide poste ormai da tempo dall’allargamento a Est dell’Unione e in generale dalla globalizzazione economica e finanziaria, che troppo spesso si è manifestata nel fenomeno della concorrenza deregolata. L’Europa ha scelto la giusta strada dell’equità e della chiarezza delle regole per rafforzare il mercato interno del lavoro.


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