MSOI thePost Numero 87

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Jessica Prietto Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 4 dicembre. Trionfo dei nazionalisti in Corsica. La colazione nazionalista “Pe’ a Corsica” ha conquistato il 45,36% dei consensi, staccando di circa 30 punti percentuali la seconda forza in campo rappresentata dalla Destra Regionalista. I due leader Gilles Simeoni e Jean-Guy Talamoni si dicono soddisfatti per la schiacciante vittoria, in attesa del ballottaggio della prossima domenica per l’elezione dei membri del Parlamento.

GERMANIA 4 dicembre. Il presidente della Baviera Horst Seehofer si è dimesso. Il leader della CSU, nonché alleato della cancelliera Angela Merkel, lascerà la carica all’inizio del prossimo anno a Markus Soder, a causa di una deludente campagna elettorale. Nella “disputa” interna ai cristiano-sociali infatti Seehofer è stato indicato come il principale artefice della “vittoria mutilata” della CDU. ITALIA 6 dicembre. Un gruppo di militanti affiliati al gruppo politico di estrema destra Forza Nuova ha occupato lo spazio antistante la sede del quotidiano La Repubblica mostrando un cartello che recitava “Boicotta la Repubblica e l’Espresso”. Un giornalista rientrante nella sede ha invitato i manifestanti a mostrare il volto ma nessuno, eccetto una ragazza, ha accettato

NUOVO SISTEMA DI DAZI ANTI-DUMPING Per una maggiore protezione degli interessi dell’industria europea

Di Giuliana Cristauro Il 4 dicembre, il Consiglio dell’UE ha approvato il nuovo sistema di dazi anti-dumping per la protezione da pratiche commerciali sleali. Le nuove regole entreranno in vigore a partire dal 20 dicembre. L’accordo politico sulla metodologia per valutare le distorsioni del mercato nei Paesi terzi era stato raggiunto tra la presidenza e il Parlamento Europeo l’11 ottobre 2017. Le nuove norme permetteranno di proteggere i produttori UE da pratiche commerciali sleali, risolvendo i casi in cui i prezzi dei prodotti importati vengono artificialmente ridotti da un intervento statale. In particolare, la nuova metodologia consente di eliminare la precedente distinzione tra economie “di mercato” e “non di mercato” per il calcolo del dumping, ossia la pratica con cui i prodotti di un Paese sono esportati ad un prezzo inferiore al loro valore. La Commissione Europea dovrà dimostrare l’esistenza di una significativa distorsione di mercato tra il prezzo di vendita e il costo di produzione. Sarà dunque possibile stabilire un prezzo per il prodotto facendo riferimento a costi e prezzi internazionali (pertinenti ed esenti da distorsioni) oppure al prezzo della merce in un Paese

con livelli di sviluppo economico analoghi. Inoltre, la Commissione dovrà elaborare specifiche relazioni sulle distorsioni in particolati Paesi o settori. In linea con le pratiche vigenti, spetterà a sindacati e imprese UE presentare denunce, ma anch’essi potranno avvalersi delle relazioni della Commissione. Il nuovo sistema anti-dumping verrà applicato anche alla Cina, permettendo così di superare la controversa questione della concessione dello status di economia di mercato (MES). L’obiettivo è realizzare un meccanismo che sia quanto più in linea con le regole del WTO, del quale Pechino è membro dall’11 dicembre 2001. Urve Palo, ministro del Commercio dell’Estonia, ha dichiarato“le nostre norme sono eque, pienamente in linea con i requisiti del WTO e si applicheranno allo stesso modo a tutti i Paesi con cui l’UE intrattiene relazioni commerciali”. L’accordo non aggiunge un ulteriore onere della prova a carico delle imprese europee, come richiesto dal Parlamento Europeo. La finalità principale di questa intesa, come ha dichiarato Palo, è quella di proteggere gli interessi dell’industria europea. MSOI the Post • 3


EUROPA il compromesso. Indagini in corso da parte della DIGOS.

REGOLAMENTO DI DUBLINO: APPROVATA LA RIFORMA

Scompare il criterio del primo Paese d’arrivo, introdotta la nozione di “legami significativi”

ROMANIA 6 dicembre. La Romania si unisce nel dolore per la morte di Re Michele I. Il presidente Iohannis ha dichiarato che “questo è un giorno triste per la Romania”, avendo scritto pagine fondamentali della storia rumena, mentre ai microfoni di Euronews un cittadino di Bucarest ha dichiarato come questa morte rappresenta la fine di un ciclo per la Romania e per l’Europa. UCRAINA 6 dicembre. Scontri a Kiev fra sostenitori di Mikhail Saakashvili e polizia Ucraina. Da mesi attivi con un sit-in davanti al Parlamento la fazione vicina all’ex Presidente georgiano ha cercato di impedire il suo arresto. Da parte sua l’ex presidente ha definito il procuratore Yuriy Lutsenko “un inutile traditore della rivolta di piazza Maidan”. A cura di Simone Massarenti

Di Edoardo Schiesari

migliori.

Il 16 novembre 2017, il Parlamento Europeo ha approvato la riforma al Regolamento di Dublino con 390 voti favorevoli, 175 contrari, 44 astenuti. Un voto nato dall’iniziativa dei Paesi dell’Est, rappresentati da 88 europarlamentari, che hanno chiesto che la riforma venisse messa al voto, a seguito dell’approvazione da parte della Commissione per le libertà civili.

Il risultato principale della riforma, portata avanti dalla liberale svedese Cecilia Wikistrom, è la modifica sostanziale a uno dei criteri cardine nella scelta del Paese competente. Scompare il criterio del primo Paese d’accesso, sostituito da un meccanismo di ricollocamento secondo un sistema di quote a cui sono obbligati a partecipare tutti gli stati membri dell’Unione Europea. Meccanismo che, si intende, avrà un funzionamento automatico e permanente, apertamente ispirato al principio di solidarietà ex art 80 del Trattato dell’Unione Europea e in ottica di una condivisione di responsabilità da parte di tutti gli Stati membri dell’Unione. La quota sarà diversa a seconda della popolazione e del PIL di ciascuno Stato. La riforma è un correttivo necessario ai fini della “reduction of the irregular flows to and within Europe”.

Il Regolamento di Dublino, formalmente noto come Regolamento dell’Unione Europea 604/2013, è il principale documento a cui l’UE fa riferimento per la disciplina del diritto di asilo. Fondamentale per poter accedere a questo diritto è il riconoscimento dello status di rifugiato, rispettando i canoni previsti dalla definizione contenuta nella Convenzione di Ginevra del 1951. Il richiedente asilo deve dimostrare di essere costretto a fuggire dal suo Paese per evitare persecuzioni che abbiano come motivo l’etnia, la religione o la nazionalità. Il Regolamento nasce dall’intento di uniformare a livello comunitario la disciplina sulla competenza di ciascuno Stato per l’esame della domanda di asilo. Principio cardine è il divieto, a carico del richiedente, di presentare la propria domanda in più Stati membri: il cosiddetto Asylum Shopping, spesso adottato come espediente per ottenere l’accoglimento nei Paesi che offrono le condizioni

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La seconda novità fondamentale di questa riforma è l’introduzione di una norma che tiene conto della rilevanza dei legami di sangue del richiedente asilo. Con un’accezione piuttosto allargata del concetto di nucleo famigliare (genitori, fratelli, sorelle e figli a carico dei genitori), la semplice presenza di uno dei suoi membri sul territorio di uno Stato è rilevante ai fini della valutazione della domanda di asilo da parte del richiedente che spera di ricongiungervisi.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole

‘LOCK HIM UP’:FLYNN HA MENTITO SUI CONTATTI CON LA RUSSIA Il ‘Russiagate’ a un punto di svolta, si avvicina sempre più a Trump

Di Luca Rebolino STATI UNITI 1° dicembre. Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha incontrato a Washington il primo ministro libico Fayez al-Sarraj. Il rappresentante americano ha riaffermato l’impegno degli Stati Uniti nel voler ricreare le prospettive per un futuro più stabile per la Libia. 4 dicembre. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha revocato le restrizioni imposte al Travel Ban di Donald Trump dalle Corti inferiori di Hawaii e Maryland. Ciad, Iran, Libia, Siria, Yemen e Somalia sono i Paesi colpiti dal provvedimento. Il divieto, in alcuni casi, è esteso, inoltre, alla Corea del Nord e ad alcuni funzionari governativi venezuelani. Il merito della controversia e, quindi, la legittimità del Travel Ban, sarà, tuttavia, oggetto di ulteriori discussioni. 5 dicembre. Rex Tillerson ha preso parte, a Bruxelles, alle riunioni dei Ministri degli Esteri della NATO. A margine dell’incontro Tillerson ha incontrato l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini. “Apprezziamo il costante impegno al dialogo dell’Alto Rappresentante nei confronti del Governo degli Stati Uniti”, ha dichiarato Tillerson.

Venerdì 1° dicembre l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn, è stato incriminato per aver reso falsa testimonianza durante le indagini sulle interferenze russe nell’ultima campagna elettorale. Si è quindi dichiarato colpevole e disponibile a collaborare con la giustizia: fatto di notevole importanza che avrà importanti risvolti giuridici e politici. Inoltre, Flynn si è detto pronto a testimoniare in ogni momento, anche contro lo stesso Presidente. Il Russiagate è, quindi, arrivato ad un momento cruciale. La collaborazione nelle indagini da parte di un membro cardine dello staff presidenziale, come lo è stato Flynn, può costituire una solida fonte di informazioni per il procuratore generale Mueller. Molto probabilmente Mueller e Flynn sono arrivati ad un accordo di collaborazione. Infatti, quest’ultimo rischiava accuse ben peggiori di quella di falsa testimonianza, la cui pena è al massimo di 6 mesi. Flynn ha ammesso di aver mentito all’FBI sulle conversazioni avute con l’ambasciatore russo Sergey Kislyak, avvenute ancor prima di entrare ufficialmente in carica e, quindi, da privato cittadino. Il dialogo intrattenuto con il diplomatico del Cremlino riguarderebbe una

Risoluzione ONU nei confronti di Israele e, soprattutto, le sanzioni imposte alla Russia dall’uscente amministrazione Obama. Il presidente Trump ha dichiarato pubblicamente di non essere preoccupato per i nuovi sviluppi del caso. Infatti, ritiene che Flynn abbia agito da solo, che all’interno del suo staff nessuno ne fosse conoscenza e che quindi non siano coinvolti altri suoi collaboratori. Tuttavia, questa versione presidenziale viene messa in dubbio da nuovi elementi emersi nell’indagine. In realtà, risulta che alcuni membri dello stesso team di transizione presidenziale fossero al corrente dei contatti e delle attività svolte da Flynn. Le prove sono costituite da alcune mail, scambiate fra collaboratori della Casa Bianca (tra i quali Preibus, Spicer e Bannon), che citano esplicitamente lui e le sue conversazioni incriminanti. Infine, ora rischia di finire nel mirino di Mueller anche il genero di Trump, Jerard Kushner, che è proprio uno dei suoi consiglieri più vicini. Flynn ha dichiarato di aver ricevuto l’indicazione di incontrare l’ambasciatore da un ‘funzionario importante’ e alcuni mezzi di informazione come il Washington Post e il NY Times individuano questa figura proprio in Kushner. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA 6 dicembre. Il presidente Donald Trump ha annunciato il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima, come capitale d’Israele. Immediate le reazioni su scala mondiale che vedono, in tale gesto, una minaccia per la pace in Medio Oriente. C A N A D A 4 dicembre. Il primo ministro Justin Trudeau, arrivato in Cina il 2 dicembre, ha annunciato la creazione di nuove partnership tra il Canada e la Repubblica Popolare Cinese. Durante l’incontro tra il Premier canadese ed il primo ministro del Consiglio di Stato cinese Li Keqiang, si è concretizzata una collaborazione bilaterale in tema di ambiente finalizzata alla lotta al cambiamento climatico. 5 dicembre. Il primo ministro Justin Trudeau ha incontrato a Beijing il presidente cinese Xi Jinping. I due leader hanno espresso una comune volontà di cooperazione e di sviluppo dei reciproci rapporti commerciali. Ribadito l’impegno al coordinamento congiunto delle questioni di importanza globale. 6 dicembre. Catherine McKenna, ministro per l’Ambiente e i Cambiamenti Climatici, si è recata nella città di Pechino a sostegno della missione commerciale del primo ministro Trudeau. Sul tavolo degli obiettivi canadesi, la possibile entrata della Cina all’interno della Powering Past Coal Alliance. “Non penso siano ancora in grado di firmare”, ha, tuttavia, dichiarato il ministro McKenna. A cura di Erica Ambroggio

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CANADA: TIMELINE OF LGBT+ RIGHTS Il paese si confronta con il proprio passato

Di Martina Santi Il Primo Ministro canadese ha recentemente porto le proprie scuse ufficiali alla comunità LGBT+, per i soprusi e le pesanti discriminazioni perpetrate nel Paese fino agli anni ’70. Sotto l’influenza britannica, il Canada ha infatti attraversato decenni di epurazione e violenza nei confronti di quei cittadini sospettati di intrattenere relazioni con persone dello stesso sesso. Nel 1800, il crimine era ascritto fra gli illeciti punibili tramite pena di morte, la quale rimase in vigore fino al 1869. Le successive revisioni sulla legge contro l’omosessualità ne ridussero la pena, moderata alla ‘sola’ reclusione in carcere. Dapprima l’accusa era categorizzata come “gross indecency”; più tardi, venne inserita nel Criminal Code of Canada in quanto “criminal sexual psychopath”. Un ruolo di primo rilievo nella legalizzazione dell’omosessualità fu ricoperto dall’ex primo ministro Pierre Trudeau, padre dell’attuale leader canadese. Nel 1969, come ministro della Giustizia, Trudeau introdusse la legge C-150, con cui il governo canadese decriminalizzava d e f i n i t i v a m e n t e l’omosessualità in quanto atto privato non soggetto all’interesse dello Stato. In

quell’occasione, dichiarò: “There’s no place for the state in the bedrooms of the nation”. Sfortunatamente, questo cambio di prospettiva richiese ancora diversi anni prima di prendere stabilmente piede nella società canadese, in cui per oltre 20 anni si verificarono ancora gravi fenomeni di discriminazione e violenza, anche se contestati da manifestazioni e proteste sempre più incisive. Oggi, il Canada figura fra i Paesi che registrano un tasso di omofobia fra i più bassi al mondo e in cui i diritti LGBT+ sono ampiamente riconosciuti, come riporta un’indagine del Pew Research Center. Seguendo le orme del padre, Justin Trudeau ha contribuito a scrivere un nuovo capitolo della storia del Paese, impegnato nella lotta ai diritti della comunità LGBT+. È proprio con questo spirito che il governo canadese ha recentemente deciso di destinare 100 milioni di dollari canadesi per ripagare i danni causati a numerosi cittadini, perseguitati a causa del proprio orientamento sessuale. Inoltre, sulla scia del Regno Unito, che a inizio anno ha emanato la Turing Law (in onore del grande matematico), con cui sono stati riabilitati i cittadini condannati perché omosessuali, anche il Canada ha espresso l’intenzione di annullare ogni atto giudiziario contro di essi.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole

MI CASA ES TU PRIGIONE

Le gabbie dorate nei quartieri benestanti di Amman

Di Clarissa Rossetti ISRAELE 5 dicembre. La controversa decisione di Trump di spostare l’Ambasciata USA a Gerusalemme ha causato un’ondata di proteste e dichiarazioni di supporto per la causa palestinese in tutto il mondo, inclusa la Palestina stessa. La decisione implicherebbe, di fatto, un riconoscimento unilaterale di Gerusalemme quale capitale dello Stato israeliano. 7 dicembre. Ismail Hanya, il leader del movimento Hamas, sostiene che l’affermazione di Trump corrisponda a “una dichiarazione di guerra contro la Palestina” e minaccia una nuova Intifada. Cori di assenso si sono levati da molteplici organizzazioni islamiche, anche al di fuori della Palestina, contro la discussa decisione dell’amministrazione statunitense. LIBIA 6 dicembre. Ad un anno dalla sconfitta del sedicente Stato Islamico a Sirte, il Governo libico di accordo nazionale ha indetto festeggiamenti a Misurata, valutando anche la richiesta di compensazione economica avanzata da alcuni famigliari di vittime della battaglia. TURCHIA 5 dicembre. Dopo il 1952, data dell’ultima visita di un capo di Stato turco in Grecia, il presidente Erdogan si recherà in

Oltre alla popolazione nativa e alle comunità rifugiate provenienti da Siria, Iraq, Yemen, Somalia e Sud Sudan, il tessuto demografico della Giordania include anche un numero consistente di migranti economici, tra cui moltissime donne, provenienti da Paesi del Sud Est Asiatico, Egitto, e Kenya. Secondo l’ONG giordana Tamkeen, il numero di migranti economici in Giordania supererebbe il milione (dati dei Ministeri del Lavoro e degli Interni), di cui circa 290.000 con regolare documentazione. Tra i settori di impiego, il più comune è quello dell’assistenza domestica, dove però ogni opportunità lavorativa cela il rischio di violazioni dei propri diritti e maltrattamenti senza possibilità di fuga. Le housemaid in Giordania sono il simbolo di una condizione di schiavitù raffinata e nascosta, fatta di limitazione delle libertà personali e manipolazione psicologica da parte delle ricche signore di Amman che, sebbene impossibilitate a rinunciare ai servizi delle loro collaboratrici dentro casa, vivono nel terrore che possano fuggire, esponendo così la famiglia a ripercussioni legali e perdite materiali. Paura considerata

quindi una legittima motivazione per ritirare il passaporto alle collaboratrici domestiche, proibire loro di avere un telefono, vietare ogni uscita non monitorata dalla casa e ogni interazione con altri membri della loro comunità, come emerso da un recente studio dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Alle radici di tale trattamento si trova una tendenza allarmante all’oggettivare le donne lavoratrici in questione, il cui stato civile, le nazionalità, e gli anni di esperienza diventano mere scale di valutazione per prevedere la futura docilità e malleabilità dell’impiegata. I verbi utilizzati in arabo per descrivere il rapporto di impiego non corrispondono ad assumere e licenziare, ma piuttosto a prendere (‫)اهانبج‬ e restituire ( ‫)اهانعجّر‬, come per un prodotto difettoso. Il processo verso la disumanizzazione della collaboratrice inhouse (ovvero impiegata esclusivamente da una famiglia e residente dentro la stessa casa) diventa così quasi automatico. Una via di fuga presuppone l’accesso a strumenti legali che, quando presenti, spesso si scontrano con un intreccio di conoscenze, interessi e favori tra le famiglie della Amman bene in cui restano impigliate le istanze delle comunità di donne filippine, bengalesi, e cingalesi in cerca di protezione.

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MEDIO ORIENTE visita presso il suo vicino europeo, nel tentativo di riprendere il dialogo e dare vita ad una “pace fredda”. Le relazioni tra i due Stati sono da tempo compromesse, fra l’altro, dall’enorme ondata migratoria che ha coinvolto il Mediterraneo.

SALEH TRADISCE GLI HOUTHI E paga con la vita il tradimento. Ma ora quale futuro per lo Yemen?

Di Martina Scarnato

6 dicembre. In seno all’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) il leader turco Erdogan si schiera contro la dichiarazione di Trump, minacciando immediate conseguenze da parte di tutto il mondo islamico, nel caso in cui lo spostamento dell’Ambasciata dovesse verificarsi. In tale circostanza, il Presidente turco ha chiesto, altresì, di indire un summit dell’organizzazione, proprio a Gerusalemme, nei prossimi giorni. YEMEN 4 dicembre. L’ex leader yemenita Ali Abdullah Saleh, 75 anni, è stato ucciso in circostanze poco chiare, pare da un proiettile che lo ha colpito alla nuca, forse sparato da alcuni ribelli Houti. Molti altri colleghi del suo partito, incluse le sue guardie personali, sono state uccise durante lo stesso attacco. L’episodio va ad incrementare la generale instabilità dell’area ed il senso di insicurezza che si vive per le strade. A cura di Lucky Dalena 8 • MSOI the Post

Lunedì pomeriggio il Ministero degli Interni ha annunciato l’uccisione, da parte dei ribelli Houthi , dell’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh mentre era in fuga dalla capitale Sana’a. La notizia è stata confermata poco dopo anche dal Congresso Generale del Popolo (GPC), il partito dell’ex presidente. Dall’inizio del conflitto civile in Yemen, Saleh si era alleato con i ribelli Houthi, un gruppo sciita zaydita, contro il governo di Abdel Rabbu Monsour Hadi, presidente riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dalla coalizione di Paesi arabi sunniti guidata dall’Arabia Saudita. Tuttavia, dopo quattro giorni di combattimenti nella capitale tra le milizie leali all’ex Presidente e i ribelli Houthi, sabato scorso Saleh aveva dichiarato di essere disposto a dialogare con i Sauditi, a patto che quest’ultimi avessero accettato di cessare gli attacchi contro il Paese e di rimuovere il blocco per permettere agli aiuti umanitari di entrare in Yemen. Le intenzioni di Saleh, però, erano quelle di proporre un cambio di schieramento, proposta ben accolta dai Sauditi, ma non in maniera altrettanto positiva dal leader dei ribelli Abdul Malik al-Houthi, il quale, infatti, aveva accusato Saleh di tradi-

mento. La rottura dell’alleanza ha esacerbato i combattimenti che erano già in corso, permettendo ai ribelli di riprendere il controllo della maggior parte della città prima in mano a Saleh, nonostante i bombardamenti della coalizione. Alla luce dei recenti fatti non è ancora chiaro quale sarà il futuro delle milizie alleate a Saleh, se sceglieranno di allearsi con gli Houthi oppure no. L’Arabia Saudita, dal canto suo, non vuole rinunciare facilmente allo Yemen, territorio di estrema importanza a livello geopolitico, soprattutto per la sua vicinanza ideologica all’Iran, accusato da Riyadh di fornire ai ribelli Houthi armi e componenti missilistiche. L’intervento militare era stato fortemente voluto dal principe Mohammed bin Salman, ma i costi economici stanno diventando insostenibili e i risultati sono scarsi. Sembrerebbe dunque che l’Arabia Saudita voglia cercare una via di uscita dal conflitto, nonostante non possa essere tollerata l’idea di lasciare gli Houthi sciiti al potere. Nel frattempo, mentre la guerra persevera, lo Yemen si ritrova a dover affrontare quella che secondo le Nazioni Unite è attualmente la più grande crisi umanitaria nel mondo.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole ALBANIA 1 dicembre. Il Procuratore Distrettuale di Tirana ha aperto un’indagine sul Partito Democratico, rappresentante le forze d’opposizione, in merito ad alcuni pagamenti verso una società di lobbying statunitense, che non sono stati inseriti nel resoconto finanziario presentato alla Commissione Elettorale Centrale per la campagna elettorale di quest’anno. I pagamenti sarebbero stati effettuati per onorare due contratti stipulati al fine di assicurarsi incontri con esponenti di rilievo dell’amministrazione Trump. KOSOVO 4 dicembre. Una nuova commissione del Governo di Pristina, incaricata di valutare l’accordo sul confine col Montenegro, ha attaccato l’intesa, dicendo che essa sostiene un confine che non è conforme a quelli esistenti quando il Kosovo era una provincia della Jugoslavia. L’accordo sui confini tra i due Paesi è la condizione imposta dall’Unione Europea per concedere ai cittadini kosovari l’accesso, senza obbligo di visto, nell’area Schengen. RUSSIA 5 dicembre. La Russia è stata esclusa dalle Olimpiadi Invernali di Pyeongchang del 2018. La decisione è giunta dopo che il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha trovato prove di una “sistematica manipolazione senza precedenti” del sistema antidoping. Il CIO ha per questo sospeso il Comitato Olimpico Russo e ha interdetto a Vitaly Mutko, ministro dello sport all’epoca delle Olimpiadi di

PROVVEDIMENTI IN VISTA DELLE PRESIDENZIALI

Le mosse del Presidente lasciano presagire la sua volontà di concorrere alle prossime elezioni

Di Ilaria Di Donato Sebbene la sua candidatura non sia ancora stata ufficializzata, vi sono pochi dubbi sulla volontà di Vladimir Putin di concorrere alle prossime elezioni presidenziali russe. Secondo fonti confidenziali, infatti, l’attuale capo di Stato starebbe solo aspettando il momento propizio per affiancare il proprio nome a quelli di chi già si è dichiarato interessato alla corsa al Cremlino. Intanto, Putin sta mettendo in atto una serie di politiche che potrebbero rivelarsi vincenti nell’ottica di un’imminente campagna elettorale. Sul fronte interno, è di recente approvazione la legge sui cosiddetti agenti stranieri, con cui molte ONG, accusate dal governo di svolgere attività politiche, sono state iscritte in un apposito registro, con effetti negativi sulla propria libertà. Riguardo alle politiche sociali, Putin si è concentrato sulle misure a sostegno delle nascite. Il piano prevede circa 150 euro al mese per il primo figlio nato in famiglie meno abbienti; le misure, peraltro, si estendono anche ai secondi e terzi figli, e sono altresì previsti aiuti statali per pagare gli interessi sul mutuo per la casa.

Sull’efficacia di tali misure molti manifestano dubbi, e altrettanti leggono in tale provvedimento una mossa mirata in vista delle presidenziali di marzo. Altra partita importante si gioca sul fronte estero. Sullo scenario internazionale, risulta evidente la fretta di Putin nel chiudere la questione siriana. L’attuale inquilino del Cremlino si è reso conto che, per evitare che l’intervento a Damasco si riveli un’arma a doppio taglio per la sua rielezione, sia necessario il ritiro delle truppe russe dalla Siria prima delle presidenziali di marzo. Tuttavia, la soluzione della crisi siriana non sembra essere un’impresa semplice: si tratta di mediare tra l’Iran, che non vuole rinunciare al suo alleato Assad, e le varie forze internazionali che invece vi si oppongono. Il ritiro dei propri soldati dalla Siria potrebbe essere la mossa vincente di Putin. Se è vero che i sondaggi lo danno favorito, è anche vero che l’attuale presidente vuole stravincere, aumentando non solo i voti a proprio favore ma anche l’affluenza alle urne. In questo contesto, il successo militare di Mosca in Siria rafforza il ruolo di Putin anche sul piano internazionale, ma d’altra parte i russi sono preoccupati dal protrarsi del conflitto.

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RUSSIA E BALCANI Sochi, ogni futura presenza ai Giochi Olimpici. Agli atleti russi, tuttavia, è stato permesso di partecipare sotto la bandiera del CIO, purché essi dimostrino di non essere stati coinvolti nello scandalo.

PRALJAK HA RUBATO LA SCENA AL RICORDO Il criminale di guerra si è tolto la vita bevendo veleno davanti a giudici e telecamere

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia

5 dicembre. La Russia ha indicato Radio Free Europe e Voice of America come “agenti stranieri”, in risposta a ciò che Mosca considera un’inaccettabile pressione statunitense sui media russi. 7 dicembre. Il presidente russo Vladimir Putin, durante un incontro con i lavoratori dell’industria automobilistica GAZ, ha annunciato la sua ricandidatura alle elezioni presidenziali del marzo 2018. É la quarta volta che Putin si presenta alle presidenziali: in caso di vittoria, il suo incarico durerà fino al 2024. UCRAINA 5 dicembre. L’ex-presidente georgiano Mikhail Saakashvili è stato arrestato durante una perquisizione del suo appartamento a Kiev, nonostante le forti proteste dei suoi sostenitori. Saakashvili è sospettato di favoreggiamento nei confronti di organizzazioni criminali: in particolare, alcuni membri del suo staff sono stati accusati di aver ricevuto finanziamenti da un oligarca riconducibile all’ex-presidente ucraino Viktor Yanukovich. A cura di Vladimiro Labate 10 • MSOI the Post

Il 29 novembre il Tribunale dell’Aja ha dichiarato colpevole per crimini di guerra Slobodan Praljak condannandolo a vent’anni di reclusione. Subito dopo la lettura del verdetto, Praljak si è tolto la vita bevendo veleno davanti ai giudici e alle telecamere. Nel 2004 si era consegnato spontaneamente al Tribunale, assieme ad altri 5 ufficiali croati-bosniaci, tutti accusati di aver fatto parte di un’organizzazione criminale che aveva l’obiettivo di creare la Grande Croazia fondata sulla dominazione etnica, mettendo in atto una pulizia etnica della popolazione musulmana durante gli anni ‘90. Prima di arruolarsi nell’esercito e di diventare ufficiale di alto livello, Praljak era un noto regista ed intellettuale di Zagabria. Nell’esercitooccupavaunaposizione di alto rilievo come rappresentante ufficiale dell’apparato militare croato in Bosnia. Praljak era consapevole di distruzioni, uccisioni, deportazioni, stupri messi in atto dai militari croati, ma, pur sapendo, aveva deciso di non fare nulla. Nel settembre 1993 autorizzò un gruppo di giornalisti a visitare il campo di concentramento di Dretelj dove centinaia di musulmani vivevano in condi-

zioni disumane. Il giornalista inglese Vulliamy ha raccontato di aver visto centinaia di musulmani rinchiusi in un magazzino e costretti a stare in ginocchio senza cibo e senza acqua. Praliak non si vergognava delle barbarie, non cercava in nessun modo di nascondere il crimini. Il suo suicidio è stato percepito in modo diverso dalla popolazione mondiale. In Croazia migliaia di persone si sono riunite per piangere insieme la morte di Praljak. Da molti nazionalisti viene considerato un martire e un eroe. Secondo il presidente croato Andrej Plenković, Praljak è testimone dell’ingiustizia morale che il tribunale ha commesso nei confronti del popolo croato. Diversi rappresentanti della forza politica del Paese si sono schierati a sostegno dei condannati sostenendo che non ci sono state alcun tipo di violenze ai danni della Bosnia. Enisa Ahmic, sopravvissuta al massacro al villaggio Ahmići, ha dichiarato che i criminali di guerra devono ammettere le loro responsabilità, non uccidersi come invece ha fatto Praljak. Vi è una profonda delusione per le conseguenze della morte di Praljak, il quale ha accentrato su di sé l’attenzione mediatica: ha preso lo spazio che sarebbe dovuto essere riservato alle vittime dei suoi crimini e al ricordo.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole COREA DEL SUD 4 dicembre. Stati Uniti e Repubblica di Corea hanno dato il via a esercitazioni congiunte delle rispettive forze aeree, duramente condannate da Pyongyang. La Corea del Nord minaccia misure di ritorsione in risposta alle manovre militari ai suoi confini. Non si attenua, dunque, la tensione nell’area ed i timori di un incremento della conflittualità tra i due Stati confinanti. CINA 4 dicembre. La RPC, rappresentata dal primo ministro Li Keqiang, e il Canada per voce di Justin Trudeau, in viaggio a Pechino, hanno firmato tre accordi commerciali, tra cui un piano d’azione per la cooperazione energetica. Questa rinnovata partnership deriva dalla tensione attuale tra Canada e Stati Uniti nell’ambito della NAFTA. Il Presidente americano, infatti, ritiene che l’accordo non sia sufficientemente vantaggioso per i lavoratori statunitensi.

HONG KONG 3 dicembre. Una marcia “anti-autoritarismo”, come è stata definita dai partecipanti, ha radunato circa un migliaio di persone a Hong Kong per rinnovare le proprie richieste di democrazia. Tra gli organizzatori rientra in scena Joshua Wong, attivista da poco rilasciato su cauzione dalle autorità. Il giovane, che assieme al collega Nathan Law è tra i principali attivisti del c.d. Movimento degli ombrelli, era detenuto dallo scorso agosto.

LA GRANDE MURAGLIA DIGITALE CINESE Ulteriori misure restrittive per fonti e mezzi d’informazione

Di Alessandro Fornaroli Internet, in Cina, grazie ai costi di utilizzo ormai contenuti e all’aumento del reddito pro-capite, si è diffuso capillarmente nell’ultimo decennio. La rete, oltre ad essere un foro d’eccezione per le transazioni commerciali, è diventata uno strumento chiave nel processo di unificazione politica e sociale. Lo scorso anno, i 750 milioni di utenti cinesi hanno prodotto un volume di scambi pari a ¥ 6.7 bilioni (€ 857 miliardi), valore più che triplicato rispetto al 2012. Wang Huning, uno dei più importanti e influenti ideologi cinesi, membro del Comitato Permanente e della Segreteria del Partito Comunista Cinese, durante la quarta Conferenza Mondiale su Internet, tenutasi domenica nella capitale, ha rilanciato l’idea di una “cyber-sovranità”, ossia della prerogativa di ogni Stato di controllare la realtà digitale entro i confini del proprio territorio. Beijing spera, attraverso l’instaurazione di regole definite che regolino il traffico web, di creare una cooperazione multi-governativa per lo sviluppo dell’economia digitale. Nonostante il presidente Xi Jinping abbia recentemente annunciato un’apertura finanziaria alle imprese straniere, il governo sta rafforzando la censura su ogni fronte mediatico,

dalla carta stampata al World Wide Web, che si è rivelato particolarmente difficile da tenere sotto controllo. Stando a un report del Beijing News, già nel 2013 vi erano più di 2 milioni di addetti al controllo delle chiavi di ricerca e, secondo l’osservatorio francese Reporters Without Borders, la Cina si trova alla 176^ posizione su 180 Paesi quanto a libertà di stampa. Nuove misure di sicurezza vengono introdotte periodicamente. Gli utenti hanno l’obbligo di fornire il vero nome al momento delle registrazioni sul web e gli admin dei micro-blog sono tenuti responsabili per le chat da loro gestite. Rogier Creemers, ricercatore alla Leiden University in Olanda, ha sostenuto, in un’intervista per CNBC, che l’approccio regolatorio di Pechino sarà sempre più pervasivo. Mentre in passato gli utenti della Repubblica Popolare potevano aggirare alcune barriere, adesso si trovano di fronte a strumenti potenti come il Golden Shield Project, anche noto come Great Firewall, il nucleo della censura governativa online, in grado di ispezionare pacchetti di dati che viaggiano nei risvolti più profondi della rete; o anche il Grande Cannone, così battezzato dal Citizen Lab dell’Università di Toronto, che serve a inondare letteralmente i server di dati, rendendoli di fatto inoperativi.

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ORIENTE LA BATTAGLIA DELLE DONNE MUSULMANE India: nuovo disegno legge che abolisce la controversa pratica del triplo talaq

FILIPPINE 1 dicembre. Il Governo filippino ha sospeso la sua prima vasta campagna di vaccinazione contro la dengue dopo che il colosso farmaceutico SANOFI, produttore francese del vaccino Dengvaxia, ha annunciato che quest’ultimo potrebbe aggravare la malattia invece di prevenirla. Per quanto tale rischio fosse già stato reso noto a luglio del 2016 dall’OMS, circa 730.000 bambini sono stati vaccinati. Mentre la pericolosità del vaccino rimane oggetto di discussione nel mondo scientifico, sono stimati a tre i casi di morti sospette di bambini vaccinati con il prodotto.

MYANMAR 5 dicembre. All’indomani del viaggio apostolico del Papa nella regione, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani afferma che esistono ormai elementi tangibili per qualificare come genocidio l’azione delle forze armate birmane ai danni della popolazione musulmana dei Rohingya. Tali affermazioni aggravano ulteriormente le accuse di crimini contro l’umanità rivolte nei confronti delle autorità birmane. A cura di Micol Bertolini 12 • MSOI the Post

Di Virginia Orsili Il 22 luglio scorso la Corte Suprema indiana ha reso illecita la pratica del triplo talaq, anche detto divorzio istantaneo, definendola “incostituzionale” e “contraria agli insegnamenti dell’Islam”. A distanza di mesi, tuttavia, sembra che il triplo talaq continui ad essere adoperato. L’usanza, non riconosciuta da tutti i fedeli dell’Islam, ma ben radicata nella comunità indiana musulmana che segue la scuola giuridica hanafita, consente all’uomo di divorziare semplicemente formulando in tre occasioni la parola talaq (ripudio). Il governo centrale ha recentemente elaborato un nuovo disegno legge, per fare del divorzio istantaneo un reato punibile con tre anni di reclusione e un risarcimento pecuniario. Il così detto Muslim Women Protection of Rights on Marriage Act permetterebbe inoltre alle donne di richiedere un assegno di mantenimento e la custodia di eventuali figli. Il sistema legislativo indiano garantisce il rispetto degli ordinamenti particolari di diverse comunità religiose. In particolare, lo Shariat Application Act del 1937 ha codificato alcune norme consuetudinarie degli indiani musulmani. La normativa è stata integrata nel 1939 e nel 1986, per regolare i diritti delle donne nel divorzio.

Il triplo talaq è tornato al centro del dibattito sulla protezione dei diritti delle donne in India dal 2015, quando cinque donne hanno presentato una petizione alla Corte Suprema per denunciarne l’impiego. Zakia Soman, co-fondatrice dell’associazione Bharatiya Muslim Mahila Andolan (BMMA), che si batte per la difesa dei diritti dei cittadini musulmani, ha dichiarato: “le nostre sorelle hanno denunciato un crescente abuso del triplo talaq.”. Già nel 2015, Zakia sottolineava come questa pratica non seguisse “nessuna delle linee guida del Corano, come la discussione, la mediazione, l’uso di testimoni o anche un genuino tentativo di risolvere i conflitti”. All’interno della stessa BMMA, però, si contesta il progetto di legge, che non istituisce un metodo alternativo per il divorzio e che manca di affrontare questioni come la poligamia, i diritti delle vedove, l’età minima per contrarre matrimonio. La criminalizzazione della Sharia, inoltre, da parte di un governo nazionalista ed induista che ha già preso diverse misure in contrasto con gli interessi della minoranza islamica, potrebbe essere accolta come discriminatoria. Il governo centrale ha inoltrato il progetto legge ai singoli Stati federati, richiedendo il loro parere. La legge sarà presentata alla sessione parlamentare che avrà inizio a dicembre.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole

IL FUTURO DELL’EUROPA SI GIOCA IN AFRICA

Vertice Ue - Unione Africana per far fronte alle sfide nel continente nero

ALGERIA 6 dicembre. Il presidente francese Emmanuel Macron in visita dal 27 novembre in Africa, è stato accolto ad Algeri dal primo ministro, Ahmed Ouyahia e dal presidente della Camera Alta, Abdelkader Bensalah. Nel suo discorso, il Presidente francese ha ribadito la necessità di svincolarsi dalla storia passata al fine di costruire una solida partnership tra Francia e Algeria che sia basata su un rapporto di uguaglianza e che ponga le basi per una solida cooperazione tra i due Paesi in campo economico e politico. KENYA 6 dicembre. La capitale del Kenya, Nairobi, ospita la terza Assemblea mondiale delle Nazioni Unite sull’ambiente. Durante l’incontro, il ministro dell’ambiente francese Hulot ha cercato di far approvare un testo come “lucchetto legale” per l’accordo di Parigi. Secondo il Ministro, questo accordo permetterà di “far progredire il diritto di ciascuno di vivere in un ambiente più sano e costituirà un passo aggiuntivo verso un diritto internazionale dell’ambiente”. REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO 4 dicembre. Secondo un ultimo resoconto pubblicato dalla ONG Human Rights Watch, durante le proteste del dicembre 2016

Di Simone Esposito Leader europei ed africani si sono riuniti tra il 29 e il 30 novembre ad Abidjan, in Costa d’Avorio, per il quinto summit Unione Europea-Unione Africana. Il vertice arriva a 10 anni da quello di Lisbona del 2007, quando fu adottata la “Joint Africa-EU Strategy”, e punta a definire le priorità per cooperazione economica, sicurezza, gestione dei migranti e lotta al cambiamento climatico, alla luce di problemi e sfide comuni. Per il prossimo triennio non vi sono grandi novità rispetto a quanto deciso nel quarto incontro UA-UE di Bruxelles, eccezion fatta per temi come le migrazioni, la mobilità e la creazione di posti di lavoro, sopratutto per quanto riguarda la gioventù africana, considerata una risorsa fondamentale per lo sviluppo del continente. Sebbene il tema centrale del summit dovessero essere proprio i giovani, è stato il meeting sulla situazione dei migranti in Libia ad aver catturato l’attenzione di molti. In questa sede, il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di un piano di evacuazione dei centri di detenzione nel Paese. Prima dell’incontro, infatti, era emersa la notizia della possibile creazione di una task force

congiunta UE-UA e UN, per proteggere i migranti lungo le rotte della tratta e favorire i rientri volontari nei Paesi di provenienza e la ridistribuzione dei richiedenti asilo. La questione migratoria è comunque rimasta solo uno dei tanti argomenti affrontati. In apertura, in particolare, in occasione di un forum di giovani imprenditori dei due continenti, l’UE ha presentato un piano di investimenti per mettere in movimento circa 44 miliardi in capitali privati, entro il 2020. Questa proposta era stata anticipata dal presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, che aveva sostenuto la necessità di creare una sorta di “Piano Marshall per l’Africa”, sotto la guida delle Nazioni Unite. L’Europa resta il partner principale dell’Africa per quel che riguarda l’assistenza e il commercio, ma finora i piani dell’Unione si sono rivelati incapaci di frenare l’ascesa cinese. La seconda potenza economia mondiale continua a investire in Africa molte più risorse del vecchio Occidente. I buoni propositi, sottolinea Tajani, “ora devono trasformarsi in un’azione forte e concreta. È il momento di passare dalle parole ai fatti.” MSOI the Post • 13


AFRICA contro il regime di Joseph Kabila, il Presidente avrebbe reclutato ex militanti del movimento M23 provenienti dall’Uganda e dal Ruanda per sedare le contestazioni. Secondo il report dell’organizzazione, le forze armate congolesi insieme ai ribelli M23 avrebbero ucciso più di 62 persone e arrestato più di 100.

ATTENTATO SUICIDA IN NIGERIA

L’ennesima strage di innocenti in un Paese assediato dall’interno

Di Francesco Tosco

SOMALIA 2 dicembre. Ad un mese e mezzo di distanza dall’attentato avvenuto il 14 ottobre nel centro di Mogadiscio, un comitato incaricato di indagare le ripercussioni della strage ha pubblicato un nuovo resoconto. Secondo tale documento il numero delle vittime accertate sarebbe aumentato da 358 morti a 512. Sebbene ad oggi l’attacco non sia stato ancora rivendicato, le autorità imputano la responsabilità alla cellula terroristica Al Shabaab. UGANDA 3 dicembre. Nell’ultimo rimpasto dell’esercito, il presidente Yoweri Museveni ha istituito la nuova posizione di Vicecomandante delle Forze Terrestri. La carica è stata affidata al già vicecomandante delle Forze Aeree Brig Sam Kavuma. Secondo il Presidente, il nuovo incarico è importante per razionalizzare e meglio organizzare l’esercito terrestre. A cura di Jessica Prieto

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Nella mattina di sabato 2 dicembre, due donne con una cintura di esplosivo hanno fatto brillare i loro ordigni mentre si trovavano in un mercato rionale della città di Biu. Il bilancio ufficiale delle vittime, come rif erito da Victor Isuku, portavoce della polizia dello Stato di Borno, è di 13 morti e 53 feriti. Le fonti locali riferiscono che le due donne si sarebbero introdotte nel mercato durante l’orario di punta, verso le 11.30. Prima di attivare le bombe che portavano sotto la veste, pare che le attentatrici si siano divise, mescolandosi alla folla: la prima si sarebbe dunque messa in coda, laddove era in atto una distribuzione di viveri ad opera di alcuni volontari; la seconda si sarebbe invece diretta verso una fermata dell’autobus gremita di persone. Secondo il leader del villaggio, Aliyu Idrisa, non ci sarebbero dubbi sulla matrice e sulle ragioni dell’attentato. Boko-Haram, il gruppo jihadista sunnita che imperversa nella regione, sembra essere il responsabile più probabile. Inoltre, la somministrazione degli alimenti era stata disposta da alcuni volontari proprio per aiutare la popolazione che, da anni ormai, subisce le incursioni di questo gruppo terrorista. La Nigeria da anni si ritrova

bloccata, insieme agli stati vicini, in una sanguinosa guerra al terrorismo, combattuta soprattutto lungo le frontiere. Nonostante i gruppi di estremisti-jihadisti nella regione siano stati messi sempre più alle strette, le vittime civili non accennano a diminuire. Si conta che negli ultimi anni circa 20.000 persone siano morte e 2,7 milioni abbiano dovuto abbandonare le proprie abitazioni, in cerca di protezione. Nel 2016, circa 143 persone sono morte a causa di attacchi terroristici, portati a termine da Boko-Haram. Mentre il 16 agosto scorso, nel nord del Paese, con modalità simili all’ultimo attentato, tre donne kamikaze si fecero esplodere in un altro mercato, causando 27 morti ed 83 feriti. Infine, neanche un mese fa, il 21 novembre, una strage in una moschea ha portato a più di 50 morti. L’area maggiormente presa di mira dagli attacchi è il nord del Paese, in particolare proprio la regione dello Stato di Borno e la sua capitale Maiduguri. La concentrazione degli attentati in quest’area si spiega con la vicinanza ai confini con Chad e Camerun, che rende pressoché vane le attività di ricerca ed inseguimento dei miliziani. Questi, infatti, si aggirano sulle zone di frontiera, seminando il terrore da una parte e dall’altra.


AMERICA LATINA 7 Giorni in 300 Parole

VITTORIA PRESIDENZIALE CONTESTATA IN HONDURAS

Riconfermato il Presidente uscente, ma il popolo accusa brogli

B R A S I L E 1 dicembre. I risultati del terzo trimestre indicano che l’economia brasiliana è cresciuta, sebbene solamente dello 0,1%. L’inversione di trend, per quanto modesta, è rilevante se paragonata allo stesso trimestre dello scorso anno, rispetto al quale è cresciuta dell’1,4%. La stampa brasiliana riporta come la notizia sia una boccata d’aria per il Governo di Temer, specialmente in vista delle elezioni che si terranno nel 2018.

CILE 2 dicembre. In vista dei ballottaggi per le presidenziali che si terranno il 17 dicembre, Sebastián Piñera vincitore della prima tornata elettorale, consolida il supporto alla sua candidatura. In particolare Piñera è riuscito ad assicurarsi il voto dei militari ritirati di forze armate e carabineros, che nel primo turno avevano sostenuto José Antonio Kast. Il supporto a Piñera rientra negli atti di una riunione tenutasi la scorsa settimana tra Kast e altri ex militari con cariche politiche tra cui il colonnello in pensione Cristián Labbé.

Di Tommaso Ellena Continuano le tensioni in Honduras dopo che le elezioni generali di domenica 26 novembre hanno ri-confermato il presidente Juan Orlando Hernández, che ha vinto con il 42,98% dei consensi, mentre la coalizione guidata da Salvador Nasralla si è fermata al 41,38%. Fino a martedì 28 novembre, durante il conteggio dei voti, Nasrella si trovava in testa con 46.533 consensi, e la vittoria sembrava così vicina che i suoi sostenitori avevano già cominciato a festeggiare. Lo scrutinio, però, è stato interrotto per più di un giorno da parte del Tribunal Supremo Electoral (TSE), per poi riprendere ed mostrare la rimonta di Hernández. Lunedì 4 dicembre il TSE ha concluso il riconteggio dei voti senza proclamare ufficialmente il vincitore ma annunciando che Hernández aveva totalizzato circa 50.000 voti in più rispetto a Nasralla. Il popolo honduregno ha reagito sospettando un broglio elettorale e si è riversato per le strade della capitale Tegucigalpa protestando proprio affianco al TSE. La repressione da parte della polizia è stata dura e il bilancio provvisorio è di 7 morti e almeno 20 feriti. Il governo ha proclamato lo stato di

emergenza, che ha portato alla sospensione di alcune garanzie costituzionali. Inoltre è stato indetto il coprifuoco dalle 18 alle 6 per cercare di contenere il più possibile le proteste, non ancora del tutto sedate. La crisi politica in Honduras è seguita con molta attenzione anche all’estero: l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) spinge per far sì che i due contendenti giungano a un accordo di massima che possa placare la rabbia dei manifestanti. L’ex presidente boliviano Jorge Quiroga è stato posto a capo di un gruppo di osservatori dell’OEA per cercare di monitorare la situazione e fornire una possibile soluzione a questa crisi. Quiroga ha dichiarato: “L’unica via possibile per far si che il popolo possa accettare e riconoscere un vincitore in questo processo elettorale è che si arrivi a un accordo tra i principali candidati”. Queste parole non sembrano aver avuto alcun tipo di effetto, dato che Nasralla ha chiesto alla stessa OEA di convocare il Consiglio Permanente per poter dimostrare che è stata commessa una truffa nei confronti della sua coalizione. La speranza di poter risolvere questa crisi in tempi brevi sembra affievolirsi e la mediazionefinoraoffertadall’OEA ha prodotto ben pochi risultati.

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AMERICA LATINA HONDURAS 4 dicembre. In seguito ad un nuovo conteggio dei voti il Tribunale Elettorale Supremo (TSE) ha confermato Juan Orlando Hernández, presidente uscente, come vincitore delle presidenziali tenutesi il 26 novembre. Hernández, che si è candidato col supporto di una decisione giudiziale malgrado il divieto costituzionale di rielezione, e avrebbe ottenuto, secondo il TSE, il 42,98% contro il 41,39% del suo avversario, Salvador Nasralla. VENEZUELA 1° dicembre. Il Governo venezuelano ed alcuni rappresentanti dell’opposizione si sono incontrati in Repubblica Dominicana. Le contrattazioni, durate fino a sabato 3, si sono svolte sulla base di un’agenda definita da entrambe le parti. Al dialogo hanno preso parte anche ospiti internazionali la cui presenza è stata proposta dalle parti: i cancellieri di Cile e Messico, convocati dalla piattaforma d’opposizione Mesa de Unidad Democrática (MUD), e i rappresentanti di Bolivia e Nicaragua invitati dal Governo di Maduro. 4 dicembre. Il presidente Nicolás Maduro ha annunciato la creazione di una “criptomoneda”, chiamata El Petro, come difesa dal blocco economico che sarebbe imposto al Venezuela, al fine di gestire le transazioni finanziarie con l’estero. La nuova moneta sarebbe sostenuta dalle riserve di petrolio del Paese, da cui il nome, ma anche da quelle di minerali e di diamanti. Maduro ha dichiarato che questa misura permetterebbe “di avanzare verso nuove forme di finanziamento internazionale per lo sviluppo economico e sociale del Paese”. A cura di Daniele Pennavaria 16 • MSOI the Post

UNA SENTENZA STORICA

In Argentina si conclude il maxiprocesso per i crimini commessi durante la dittatura

Di Anna Filippucci Secondo quanto stimato dalle associazioni in difesa dei diritti umani, nel periodo della dittatura il numero dei desaparecidos in Argentina sarebbe 30.000. Su 789 casi sono stati giudicati 54 ex capi militari durante l’ultima fase del “maxiprocesso” iniziato nel 2012 e conclusosi il 29 novembre con una sentenza storica. Sei imputati sono stati rilasciati, 29 condannati all’ergastolo e altri 19 a pene di minore durata per i crimini commessi all’ESMA. La Scuola Tecnica della Marina Argentina, situata nel cuore di Buenos Aires, fu il più grande centro di tortura e detenzione tra il 1976 e il 1983. Tra coloro che sono stati condannati all’ergastolo figurano tre uomini già condannati nelle fasi precedenti del processo: Alfredo Astiz, 67 anni, soprannominato “l’angelo della morte”, “la tigre” Jorge Acosta, 76 anni, e Ricardo Cavallo, 66 anni. Tra i crimini a loro imputati, vi sono: tortura di prigionieri politici, esecuzioni sommarie, rapimenti di bambini (figli delle donne che partorivano durante la detenzione) e i tristemente celebri “voli della morte” (forma di esecuzione in cui i prigionieri venivano gettati in

mare, sedati e addormentati, dagli aerei in volo). Alfredo Astiz ha ascoltato la sentenza impassibile. L’exagente ha affermato, durante l’udienza a inizio ottobre scorso, che mai si scuserà per “aver difeso la sua patria”. Ritiene, infatti, che in quegli anni si sia combattuta una “guerra contro il terrorismo” , che le presidenze di Nestor (2003-2007) e Cristina Kirchner (2007-2016) siano state le “vere dittature”, e che le associazioni per i diritti umani siano dei “fastidiosi gruppi residuali”. All’esterno del tribunale, centinaia di persone hanno ascoltato la sentenza storica, proiettata su dei maxi schermi. “Questa condanna è molto più di quanto ci aspettavamo”, ha affermato Miriam Lewin, sopravvissuta detenuta nell’ESMA. Dal 2004, il complesso di edifici della Scuola Tecnica, definita anche “fabbrica della morte”, è stato riconvertito in un museo in memoria dei crimini commessi. Anche all’estero le reazioni non sono mancate in seguito alla sentenza: è stata definita storica dai giornali europei e apprezzata anche da papa Francesco, che ha perso l’amica attivista Esther Carega durante un “volo della morte”.


ECONOMIA REAGANOMICS PER UNA TRUMPECONOMY

Approvata la più grande revisione fiscale dai tempi Ronald Reagan

Di Michelangelo Inverso E la luce fu, per la riforma fiscale tanto agognata da Donald Trump. Dopo aver visto fallire l’abolizione dell’Obamacare promesso in campagna elettorale e per sfuggire al logorante assedio da parte di mass media e Deep State sul Russiagate, Donald Trump segna forse un primo, importante, gol in politica interna. La ricetta è sempre la stessa dei governi Repubblicani da quando vinse le elezioni Ronald Reagan, grande sdoganatore delle politiche neoliberali che dominano il nostro tempo. La ‘trickle-down economy’, derivato di una teoria supply-side (cioè vista dal lato dell’offerta, e quindi delle imprese), sostiene che detassare esclusivamente gli alti redditi individuali e gli alti profitti condurrebbe ad una generale crescita economica. Questo avverrebbe, da un lato, per la possibilità di abbattere significativamente i prezzi, grazie alla deregolamentazione su lavoro e capitale e per il minor costo rappresentato dalle tasse. Dall’altro lato, per il successivo reinvestimento di tali risparmi/ profitti nell’economia; manovra che consentirebbe una crescita generalizzata anche per i bassi redditi per via di un presunto effetto ‘gocciolamento’ (trickle-down).

Considerata dallo stesso premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz “una mera superstizione economica”, questa dottrina è stata considerata incontestabile nel mondo occidentale e viene sostenuta con forza dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale da oltre 3 decenni. Nulla di strano, quindi, se la nuova maxi-riforma fiscale, voluta fortemente dalla Casa Bianca, preveda un taglio netto della tassazione sulle imprese, dal 35% al 20% circa, ma nessun contributo, o financo aumenti di spesa netta, per le fasce più basse del popolo americano. Se, dunque, il taglio della tassazione sulle imprese potrebbe contribuire ad una consistente crescita della produzione interna, come da obiettivo primario del programma politico di Trump, d’altra parte al calo della tassazione seguirà un deciso taglio di spesa nella Pubblica Amministrazione (salvo che i nuovi redditi generati dalla crescita industriale non compensino il mancato gettito fiscale). Sicuramente chi beneficerà di questa riforma saranno gli imprenditori e le grandi imprese, oltre che una larga parte del ceto medio-alto, che sono la

spina dorsale dell’elettorato Repubblicano. Molto più difficile che questa politica‘turboliberista’ vada a migliorare la situazione della classe operaia e dei lavoratori a basso reddito, anche perché la riforma non è pensata per loro, ma per l’industria. In Europa una politica così sfacciatamente a favore delle imprese sarebbe difficilmente digeribile dall’opinione pubblica, ma negli Stati Uniti, primo Paese insieme alla Gran Bretagna ad adottare simili politiche, potrebbe non sembrare cosi divisiva. Ed è questa la ragione per cui The Donald ci ha puntato così tanto: una vittoria economica, anche solo per il proprio elettorato, consoliderebbe il campo Repubblicano intorno alla Casa Bianca e, a quel punto, gli isterismi sulle presunte interferenze russe finirebbero nel nulla, non essendo possibile un impeachment senza il sostegno dei Repubblicani. In tal modo si sbloccherebbe anche la politica estera di Washington, da mesi impantanata a causa delle pressioni di CIA, Pentagono e media contro il riavvicinamento al Cremlino promesso in campagna elettorale. La Trumpeconomy potrebbe, dunque, rappresentare il punto di svolta che il Presidente Trump aspettava da un anno.

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ECONOMIA UNICREDIT FARÀ A MENO DELLE ATTIVITÀ DI CREDITO SU PEGNO Il ramo d’azienda passerà alla casa d’aste austriaca Dorotheum già il prossimo anno

Di Giacomo Robasto Il gruppo Unicredit, secondo istituto bancario italiano per capitalizzazione di borsa, ha reso nota l’intenzione di cedere tutte le attività inerenti al credito su pegno. Tale scelta si inserisce nel contesto di razionalizzazione e ri-focalizzazione del business già in atto a partire da gennaio scorso, quando venne presentato il nuovo piano industriale, valido fino al 2020. Come ha riferito l’AD del gruppo, il francese Jean-Pierre Mustier, tali attività saranno vendute alla casa d’asta austriaca Dorotheum, che risulta già leader del mercato dei pegni a livello europeo, con una quota di mercato superiore al 40%. L’operazione di cessione era allo studio da tempo, ma solo nelle ultime settimane sarebbero stati definiti tempi e modalità che porteranno alla dismissione delle attività, tanto è vero che soltanto lunedì scorso il dossier sarebbe stato sottoposto al board del gruppo di Piazza Gae Aulenti. Nel dettaglio, l’accordo vincolante raggiunto con Dorotheum prevede una transazione dell’importo di 141 milioni di euro in favore del gruppo italiano e avrà, nel 2018, un impatto positivo per circa 100

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milioni sul conto economico consolidato di Unicredit. La chiusura dell’operazione è attesa nel primo semestre del 2018, quando le attività passeranno a una nuova società finanziaria creata ad hoc detenuta interamente da Dorotheum. Secondo quanto risulta da fonti di mercato, a uscire dal gruppo dovrebbero essere circa 200 milioni di impieghi con relative garanzie facenti capo alle 35 filiali che attualmente si occupano di credito su pegno in tutta Italia, da Palermo fino a Rovereto. Il credito su pegno, che in decenni passati ha rappresentato una attività di secondaria importanza nelle banche, è ritornato d’attualità negli ultimi tempi. A questa attività, infatti, è stato affidato nel tempo un ruolo sociale di microcredito e antiusura, esercitato in particolare durante i periodi di stagnazione economica. Il prestito su pegno viene accordato a fronte di necessità di carattere straordinario e contingente, previa costituzione in pegno di determinati beni mobili. La durata può essere di tre mesi, sei mesi o di un anno, a un tasso che nel caso di Unicredit si attesta sempre sopra l’11%. La concessione del

prestito non prevede alcuna indagine amministrativa o patrimoniale. Questo perché l’importo concedibile è commisurato al valore di stima del bene offerto in pegno, stima che viene effettuata sulla base del valore commerciale dei beni. Se il prestito non viene restituito, il bene resta alla banca. La stessa Unicredit nelle sale di Catania, Milano, Palermo e Roma svolge delle aste in cui è possibile acquistare preziosi, argenti, orologi e pellicce. Quella dei pegni rappresenta dunque una nicchia, dove però Unicredit figura già tra i leader nel mercato italiano, con migliaia di oggetti di valore nei propri caveau: di qui, l’interesse di soggetti terzi come la casa d’aste austriaca, che annovererà questo asset tra i suoi core businesses. Benché i sindacati abbiano già espresso la propria preoccupazione per le ricadute occupazionali sul settore, la cessione a un leader di mercato continentale non potrà che portare a una gestione piú attenta e interessata dell’attuale ramo d’azienda di Unicredit, in modo tale che il credito su pegno continui a svolgere il suo antico ruolo sociale di microcredito.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA RICERCA DI UNA PACE STABILE E DURATURA Pratiche applicazioni del pensiero kantiano al diritto internazionale

Di Luca Imperatore Nel 1795 Immanuel Kant pubblicava un celebre saggio dal titolo “Per la Pace Perpetua”. Il testo proponeva un progetto pratico per la realizzazione di una pace duratura che ponesse fine alle guerre in Europa e nel mondo. Il testo propugnava la sovrana eguaglianza tra gli Stati ed un decalogo di condotte pratiche per scongiurare il rischio di conflitti. A tal proposito, il filosofo di Königsberg, riteneva essenziale: il rispetto dell’integrità territoriale, la progressiva eliminazione degli eserciti permanenti, la non ingerenza negli affari interni di uno Stato e l’astensione dall’uso di mezzi perversi nel condurre le ostilità. Affermava poi che la costituzione civile di ogni Stato dovesse essere repubblicana – nel senso di permettere la partecipazione dei cittadini in un contesto di divisione dei poteri –; che il mondo, organizzato in un federalismo di liberi Stati, dovesse essere regolato dal diritto; che il diritto “cosmopolitico” dovesse essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale. Norberto Bobbio riassumeva, anni dopo, la visione kantiana con una formula secondo la quale dal rispetto dei diritti umani discenderebbe la democrazia e dalla democrazia discenderebbe la pace.

Gli anni che seguirono la formulazione delle tesi di Kant videro il susseguirsi di eventi che non potevano in alcun modo conciliarsi con la ricerca di una pace stabile. La nascita della Società delle Nazioni, che seguì il trattato di Parigi del 1919, cercò di dare una risposta al desiderio di una pace duratura ma gli scarsi poteri di cui disponeva l’organizzazione e l’intrinseca debolezza della stessa determinarono quello che è stato definito come “history’s most colossal failure and disappointment” (Potter, 1948). Un preannunciato secondo conflitto mondiale contribuì poi a mostrare con maggiore forza la necessità di gettare concretamente le basi per l’eliminazione della guerra e l’instaurazione della pace. L’adozione della Carta ONU (San Francisco, 1945) segnò, quindi, per molti il pieno raggiungimento degli ideali kantiani di pace perpetua: la definitiva messa al bando della guerra, un sistema di sicurezza collettiva che imponeva limiti precisi all’uso della forza, la composizione delle controversie mediante il diritto ecc. I supremi ideali di mantenimento della pace, della sicurezza e di salvaguardia dei diritti fondamentali si scontrarono, però, con la crescita ipertrofica della burocrazia e con l’ondata di nuove adesioni da parte di Stati che

uscivano dal processo di decolonizzazione. Le ultime grandi tragedie del secolo scorso (tra le quali Ruanda, ex-Jugoslavia, Cambogia e Sierra Leone) si consumarono sotto gli occhi attoniti dei caschi blu. Anche di fronte alle attuali minacce alla pace, le Nazioni Unite paiono incapaci di fornire una risposta risolutrice, complice anche la distribuzione delle competenze in seno alla stessa organizzazione (basti pensare che le questioni relative ai diritti umani sono affidate all’Assemblea generale, priva di poteri vincolanti per gli Stati membri). L’ONU è, indubbiamente, quanto più si avvicina alla visione kantiana sotto il profilo della portata geografica, ma non è l’esempio più propriamente riuscito del progetto per la Pace Perpetua. Si tratta, dunque, di una visione sbagliata? Certamente no. Forse, pecca soltanto di eccessivo ottimismo quanto alla dimensione globale. A livello regionali, infatti, realtà quali l’UE si sono dimostrate in grado di veicolare un generale senso di sicurezza, trasponendo implicitamente gli ideali di Kant all’interno dei trattati fondativi dell’Unione e facendo della ricerca della pace stabile, un valore essenziale del quale essere, tutti, fieri. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO GLIFOSATO L’erbicida più diffuso al mondo tra phasing out e rinnovo della licenza

Di Chiara Montano Il glifosato è l’erbicida più diffuso al mondo ed è stato classificato dallo IARC (l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) come sostanza potenzialmente cancerogena. Uno studio congiunto FAO-OMS nel 2016 ha invece concluso che l’erbicida non ha effetti genotossici. Lo studio succitato si è concentrato in particolare sull’assunzione del glifosato attraverso l’alimentazione. Anche l’EFSA, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, ha sostenuto che è improbabile che il diserbante sia cancerogeno. Il composto chimico è diventato di libera produzione nel 2001 quando è scaduto il brevetto, fino a quel momento appartenuto alla multinazionale di biotecnologie agrarie Monsanto. Il glifosato viene utilizzato soprattutto in agricoltura, ma talvolta è anche impiegato nella cura dei parchi e dei giardini pubblici. Tracce di glifosato sono state trovate in alcuni cibi e bevande e nell’acqua, oltre che in altri beni non commestibili. Il 24 ottobre 2017, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione contraria al rinnovo dell’autorizzazione del commercio del glifosato per 10 20 • MSOI the Post

anni, così come era stato proposto dalla Commissione europea. É stato invece stabilito il divieto immediato di utilizzare questa sostanza per usi non professionali e per l’impiego nei parchi, giardini e aree per bambini oltre ad un progressivo abbandono (phasing out) da concludersi entro 5 anni nel settore dell’agricoltura. Il 27 novembre i Paesi UE hanno votato in Comitato d’appello a favore del rinnovo dell’autorizzazione del glifosato per 5 anni. L’Italia ha mantenuto una linea ferma per autorizzare l’uso dell’erbicida solo per altri tre anni e ha dunque votato contro la proroga dei cinque anni, comuque approvata grazie al decisivo voto favorevole della Germania. “Phasing out” è il termine tecnico utilizzato per definire il periodo di progressivo abbandono durante il quale sarebbe auspicabile trovare delle soluzioni alternative che permettano di eliminare definitivamente questa sostanza entro i termini previsti. A ottobre la Commissione europea ha accolto l’Iniziativa dei cittadini europei (ICE) “Stop Glifosato”. L’ICE è uno strumento di cui la società civile dispone per chie-

dere alla Commissione europea di proporre o modificare un atto legislativo su questioni per le quali l’UE ha la competenza di legiferare. Un’iniziativa deve essere sostenuta da almeno un milione di cittadini europei, di almeno 7 dei 28 Stati membri. Per ciascuno dei 7 Paesi è inoltre richiesto un numero minimo di firme. La procedura e le norme che disciplinano questo strumento sono contenute nel Regolamento n. 211/2011 adottato dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione europea a febbraio 2011. “Stop Glifosato” ha tra i suoi obiettivi proprio quello di vietare gli erbicidi a base di glifosato in tutti gli Stati membri. In Italia si applica il principio di precauzione: il glifosato si può usare, ma con molte limitazioni. L’uso del glifosato è infatti vietato nelle aree frequentate dalla popolazione o da gruppi vulnerabili, ad esempio i bambini, proteggendo parchi, giardini e zone ricreative. Il divieto è esteso anche alla fase di pre-raccolta. Gli standard ambientali italiani sono già molto elevati: basti pensare che le soglie sono del 25% inferiori rispetto ai limiti stabiliti a livello europeo.


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