MSOI thePost Numero 89

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA PROCEDURA DI INFRAZIONE CONTRO LA POLONIA Un tentativo di far ripartire il dialogo

Di Giuliana Cristauro Il governo nazional-conservatore polacco ha approvato la controversa riforma giudiziaria votata in Parlamento, con la maggioranza del PiS (Partito di Diritto e Giustizia), che pone la Corte Suprema e altri organi giudiziari sotto il controllo dell’Esecutivo. Il pacchetto di leggi era stato confezionato a luglio, nonostante le contestazioni in piazza, i moniti della Commissione Europea e le opposizioni. Il presidente della Repubblica Andrzej Duda aveva inizialmente deciso di porre il veto per placare le tensioni, infliggendo così un duro colpo al suo partito e soprattutto al leader storico del PiS Jarosław Kaczyński. Tuttavia, il Presidente, dopo essersi inizialmente rifiutato di firmare le due leggi, ha successivamente presentato i progetti legislativi accolti dal PiS. Le due leggi in questione sono state sin da subito considerate dall’opposizione un “colpo di Stato”, in quanto incompatibili con il principio della separazione dei poteri e perché ritenute limitative dell’autonomia dei giudici. Da quando Duda è salito al po-

tere, il Governo ha varato una serie di leggi fortemente lesive della libertà e della democrazia, come ad esempio la riforma dei media. Dinanzi alle sistematiche violazioni dello Stato di diritto e di altri valori cardine dei Trattati europei, la Commissione Europea non è rimasta inerte e ha scelto di avviare le procedure di attivazione dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea. Tale articolo prevede che, in presenza di una violazione grave e persistente dei valori sui quali si fonda l’UE, lo Stato membro inosservante possa essere sanzionato con la sospensione del diritto di voto e la riduzione dei finanziamenti. Il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans ha annunciato che la decisione è stata presa “col cuore pesante” dovendo salvaguardare i valori e lo spirito dell’Europa. Il presidente Duda ha ritenuto “ipocrita” la decisione della Commissione, sostenendo che le modifiche introdotte con la riforma della giustizia “sono costituzionali e rafforzano la democrazia in Polonia”. Il nuovo primo ministro Mateu-

sz Morawiecki, nominato dal PiS appena 24 ore prima dell’approvazione della legge, ha dichiarato tramite Twitter che “la Polonia rispetta lo Stato di diritto tanto quanto l’Unione europea” e ha definito “necessaria” la riforma del sistema giudiziario promossa dal suo governo. Nel marzo 2018 il Consiglio dell’UE voterà la proposta della Commissione, la quale assumerà carattere formale qualora 22 Stati su 28 dovessero votare a favore. La Polonia, dunque, avrà tre mesi di tempo per valutare una modifica della riforma ed evitare la sanzione adeguandosi agli standard richiesti dall’Unione. Intanto il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha già annunciato che bloccherà, tramite il potere di veto, qualsiasi azione per sospendere i diritti di voto della Polonia nell’UE. E mentre già si parla di una possibile “Polexit”, si rafforza l’alleanza tra Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, tutte deferite alla Corte di Giustizia UE per non aver collocato i richiedenti asilo osteggiando le politiche migratorie promosse dalla Commissione. MSOI the Post • 3


EUROPA CATALOGNA, LA MAGGIORANZA RESTA INDIPENDENTISTA L’impasse tra Puigdemont e Rajoy mina la formazione del Governo locale

Di Alessio Vernetti Giovedì 21 dicembre il popolo catalano è tornato alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. Nel delicato quadro dell’attuale crisi catalana, queste elezioni hanno permesso di decifrare l’orientamento della popolazione locale rispetto a un’eventuale secessione da Madrid. La consultazione elettorale si è svolta in un clima più disteso rispetto allo scorso 1° ottobre, quando si era tenuto il referendum per l’indipendenza non riconosciuto dal Governo centrale. A seguito di tale chiamata alle urne, il presidente della Generalitat catalana Carles Puigdemont aveva ottenuto, il 27 ottobre, una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte del Parlamento locale. Il giorno successivo, tuttavia, il premier spagnolo Mariano Rajoy aveva sciolto Governo e Parlamento della Generalitat e indetto nuove elezioni per il 21 dicembre, invocando l’articolo 155 della Costituzione e accusando Puigdemont di attentato all’unità statale. Alle elezioni del 21 dicembre, il frastagliato schieramento indipendentista si è imposto ottenendo 70 seggi su 135, due 4 • MSOI the Post

in meno rispetto alle elezioni del 2015, ma comunque due in più della maggioranza assoluta necessaria per l’elezione del Presidente della Generalitat. In particolare, 34 seggi sono andati alla lista Junts per Catalunya di Puigdemont, nel frattempo scappato in Belgio per evitare l’arresto, e 32 a Esquerra Republicana-Catalunya Sí, movimento guidato da Oriol Junqueras, ex vice di Puigdemont ora in carcere. Completano il quadro della maggioranza secessionista i quattro deputati eletti nelle file di Candidatura de Unidad Popular. Sul fronte unionista, Ciutadans, la costola catalana di Ciudadanos, ottiene lo scettro di primo partito strappando 36 seggi, 11 in più rispetto alle elezioni di due anni fa. Sostanzialmente stabile resta invece il consenso per i socialisti, che raccolgono un seggio in più rispetto ai 16 della precedente tornata. Il Partito Popolare del premier Rajoy, invece, crolla da 11 a 4 deputati. Infine, CatComú-Podem, movimento affiliato a Podemos e avverso all’indipendenza in favore di una maggiore autonomia locale, porta a casa 8 seggi. In un raffronto con il referendum dello scorso 1° ottobre, il numero di catalani che quasi tre

mesi fa si erano espressi a favore dell’indipendenza e che alle ultime regionali hanno votato per le tre forze indipendentiste si è mantenuto sostanzialmente stabile, attestandosi poco oltre i due milioni di suffragi in entrambe le consultazioni. La formazione del Governo della Generalitat, tuttavia, rischia di arenarsi. Al di là delle spaccature presenti tra le tre liste indipendentiste, molti dei loro leader, come si è visto, sono in carcere o in esilio volontario all’estero. Lo stesso Puigdemont, che da Bruxelles ha dichiarato che “lo Stato spagnolo ha perso”, ha invitato il governo di Madrid a permettergli di tornare a Barcellona per la seduta inaugurale del nuovo Parlamento catalano, prevista entro il 23 gennaio. Dal canto suo, Rajoy ha risposto negativamente, dichiarando che si confronterà solo con la leader di Ciutadans Inés Arrimadas, nonostante non abbia i numeri per formare un governo, nemmeno in coalizione. L’unica certezza è che, se entro due mesi dall’inizio della legislatura la Generalitat non avrà trovato un nuovo Presidente, il ritorno alle urne sarà costituzionalmente inevitabile.


NORD AMERICA NORTH KOREA COMPLETES NUCLEAR PROGRAM Kim Jong-Un looks West to leverage Washington in making concessions

By Kevin Ferri North Korea’s nuclear weapons development system goes back about 40 years. As a matter of fact, North Korea started its missile development using the Scud-B from the Soviet Union and a Launchpad from Egypt in 1976. As of November 30th, 2017, North Korea has carried out 117 tests of strategic missiles since its first one. Under the rule of Kim Il-Sung, 15 tests were conducted and 16 more under Kim Jon-Il. Subsequently, under Kim Jong-Un, more than 80 tests have been undertaken. On November 29th, after the last Intercontinental Ballistic Missile (ICBM) test, North Korea’s officials claimed to have completed building its nuclear force. Certainly, the constant economic and political pressures coming from Russia, China and U.S.A. played a pivotal role in the proliferation of North Korean nuclear activity, which, after 41 years, has enabled North Korea to send a new message to the international community, namely making clear that they also need a sort of Lebensraum (“vital space”) around them. Therefore, now that North Korea apparently has finally reached its goal, can we expect that it will quit launching

ICBM’s towards Japan?Unfortunately, the answer to this question is negative. North Korea already promised new launches for the incoming year of 2018. But why? Currently, it has been found out how to launch an ICBM higher than the exosphere (more than 500 km from Earth’s surface) into space. However, in order to hit a determined target they must face an atmospheric re-entry and this goal has not been reached yet. Thus, more launches are deemednecessary to understand how to correctly perform this phase of the ICBMs flight. According to analysts’ forecasts, North Korea will conduct at least one more missile test to master the re-entry technology for its warheads. Notably, another crucial aspect in the development of these nuclear weapons is the time factor due to the new United Nations sanctions. Shin Beom-chul, a security analyst, said, in a report published over the last weekend by the government-run Institute of Foreign Affairs and National Security in Seoul, that “For North Korea, there is a big difference between entering negotiations with the United States after acquiring full ICBM capabilities and starting such talks without them.”

In this time frame, it is safe to say that North Korea wants Washington to recognize it as a nuclear weapons state. With that status, Kim would seek arms-reduction talks in hopes of gaining concessions from Washington, such as easing sanctions and reducing the American military presence around the Korean Peninsula. In return, Pyongyang could offer to freeze or give up its ICBMs while retaining the rest of its nuclear capabilities. The latest refined petroleum imports ban to North Korea imposed by the United Nations readily provoked a reaction in the North Korean Foreign Ministry that promised a new launch. Experts believe that Kim JongUn might be preparing for a satellite launch. But the United Nations also bans North Korea from launching satellites, fearing that the country might use the program as a cover for developing long-range ballistic missiles. In conclusion, with a new missile launch that threatens to bring North Korean missile development to the next level, the international community must move quickly in defining a rigorous policy willing to curb the Supreme Leader’sappetite for nuclear independence.

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NORD AMERICA QUALE STRATEGIA DIETRO LE MOSSE DEL PRESIDENTE TRUMP? Via libera di Washington alla vendita di armi all’Ucraina

Di Martina Santi L’amministrazione Trump ha recentemente approvato la vendita di armi da guerra alla capitale ucraina, Kiev, come risposta alla crisi della Crimea. Il governo statunitense ha così ribadito la propria posizione contro il governo russo, il quale, in seguito all’annessione della regione ucraina al proprio territorio e per aver innescato un conflitto che dal 2014 ha provocato il decesso di circa 10.000 persone, è accusato di aver violato il diritto internazionale. Quando la candidatura del tycoon americano alla Casa Bianca non era stata zata, Donald Trump già chiariva il proprio disappunto circa la questione ucraina, duramente criticata dal magnate, chiedendo in diverse occasioni sanzioni e provvedimenti internazionali, contro la Russia. Un cambio di tendenza si è percepito nelle arringhe della campagna presidenziale 2016: al centro delle promesse elettorali di The Donald, allora, vi era la rappacificazione dei rapporti tra Russia e Stati Uniti, con la possibilità del riconoscimento di una Crimea russa. 6 • MSOI the Post

La posizione del governo statunitense, circa la crisi della Crimea, era già stata formalizzata nel Ukraine Freedom Support Act 2014, un programma di appoggio americano al Paese, con cui il Congresso aveva autorizzato la vendita di armamenti all’Ucraina. Durante l’amministrazione Obama, tuttavia, il progetto non era stato ratificato del Presidente in carica, preoccupato di compromettere le già precarie relazioni con la Russia. Oggi, sotto le pressioni del Segretario di Stato e del Segretario della Difesa, il presidente ancora Trump ha rimesso ufficializ sul tavolo il documento. In luglio, infatti, la decisione del Congresso di inasprire le sanzioni contro Mosca, a cui ha fatto seguito l’espulsione dalla Russia di numerosi funzionari statunitensi, aveva gravemente compromesso le speranze del tycoon di una pacificazione fra i due leader. Il Dipartimento di Stato americano ha giustificato la decisione, sostenendo che l’invio di armamenti di difesa all’Ucraina non avrebbe lo scopo di destabilizzare ulteriormente una situazione storicamente critica, quanto

piuttosto di essere una strategia di deterrenza, volta a ridurre l’influenza russa in Ucraina. È anche per questa ragione che il progetto di legge non ha ottenuto la firma presidenziale, per quanto riguarda la vendita di mezzi d’arma pesante, come riporta il Washington Post. A ogni modo, i cons rischiano di superare i pros: dura la reazione di Mosca, che accusa gli USA di voler alimentare il conflitto in Ucraina e di minare gli accordi di pace, sottoscritti nel Protocollo di Minsk. In un comunicato stampa, il viceministro degli Esteri russo ha, infatti, rivolto un’aspra critica alla decisione americana che, a suo dire, provocherà nuove vittime in Ucraina. La politica del magnate sembra scontrarsi con il punto debole di Trump: la convinzione di poter chiudere la Guerra Fredda e sottovalutare Putin. Se, infatti, meno di un anno fa il macro-obiettivo nell’agenda di Trump era la distensione dei rapporti con la Russia, oggi questo traguardo sembra più lontano che mai, ostacolato da una politica imprudente, ma certamente ‘huge’.


MEDIO ORIENTE GERUSALEMME NON È CAPITALE DI ISRAELE La comunità internazionale si pronuncia sul voto all’ONU

Di Sofia Ercolessi “Questo voto sarà ricordato”. Così Nikky Haley, l’ambasciatrice degli USA presso le Nazioni Unite, commenta la votazione dell’Assemblea Generale ONU contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. In effetti, il voto, sebbene non vincolante, ha una portata storica: 128 gli Stati schierati contro la decisione statunitense di spostare a Gerusalemme la propria ambasciata e 35 gli astenuti, tra cui Canada, alleato storico degli USA, e Messico, partner fondamentale nonostante le dispute politiche. Solo 9 i voti a favore. Per il presidente dell’OLP Mahmud Abbas si tratta di “una vittoria per la Palestina”, ottenuta nonostante il veto statunitense a una prima risoluzione del Consiglio di Sicurezza e le minacce di “prendere i nomi” e tagliare i fondi agli Stati che avrebbero votato contro la loro volontà. Gli sviluppi all’ONU arrivano dopo due settimane di altissima tensione in Palestina, dove alla decisione statunitense sono seguite proteste di massa, scontri della popolazione con le autorità israeliane, razzi verso Israele e bombardamenti su Gaza, eventi che hanno provoca-

to centinaia di feriti e alcuni morti. Gerusalemme, città sacra tanto per i musulmani quanto per gli ebrei ed i cristiani, è uno dei punti più sensibili del conflitto. Inizialmente era supposta avere un “regime internazionale” sotto il controllo ONU, ma già nel 1948 è stata divisa tra amministrazione israeliana e giordana, per poi passare interamente sotto controllo israeliano nel 1967, in un’annessione condannata più volte dal Consiglio di Sicurezza. Da allora lo status di Gerusalemme è stato uno degli scogli più grandi in tutti i negoziati. Dunque, il risultato del voto, per quanto possa impressionare, non sorprende. La decisione unilaterale degli Stati Uniti è in rottura sia con le risoluzioni passate del Consiglio di Sicurezza, sia con la posizione che prevale da decenni nella comunità internazionale, quella di lasciare la decisione su Gerusalemme ai negoziati tra le parti, in vista di una soluzione a due Stati. Ciononostante, i 128 voti nascondono posizioni molto diverse, anche fra i Paesi mediorientali: non tutti, nella regione, hanno reagito con la stessa intensità alla mossa statunitense. La voce più forte è forse venuta dalla Turchia, che alle condan-

ne ha unito la minaccia di una rottura delle relazioni diplomatiche con Israele e la promessa di spostare la sua ambasciata a Gerusalemme Est (rivendicata dai palestinesi), oltre ad aver preso l’iniziativa per una condanna da parte dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Il presidente turco Erdoğan coglie così l’occasione di porsi come riferimento per il mondo musulmano e arabo, a discapito delle relazioni già molto tese con gli Stati Uniti. Diversa è stata, ad esempio, la reazione dell’Arabia Saudita, che si trova in una posizione particolarmente ambigua. Alleato chiave degli USA, ma allo stesso tempo alla ricerca di un ruolo di leadership regionale, l’Arabia Saudita non ha potuto deludere le aspettative di milioni di musulmani sunniti restando in silenzio. Le condanne, però, sono state piuttosto flebili, anche perché la collaborazione con gli USA continua attivamente su altri fronti, in particolare la lotta strategica contro l’Iran e la guerra in Yemen. Nel frattempo, nel messaggio di Natale, papa Francesco si unisce alla condanna internazionale ribadendo l’importanza del dialogo per una soluzione a due Stati. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE UNA NUOVA RICETTA... PER L’INSTABILITÀ Le strane vicende del Kurdistan Iracheno

Di Jean-Marie Reure È una strana storia quella dei Curdi iracheni. Per far luce su quando accade oggi nel Kurdistan iracheno, bisogna risalire a prima di Daesh, delle bombe russe sugli ospedali, dell’elezione di Trump…insomma a tutti quegli eventi che paiono occupare oggi tutto il nostro orizzonte temporale. Sebbene gli USA non abbiano mai appoggiato direttamente nessun movimento curdo, la loro simpatia, come del resto quella dell’opinione pubblica occidentale, verso quel popolo che vive a cavallo fra tre Stati non è mai stata un mistero. La pressione esercitata sul governo turco, l’idea di una collaborazione fra curdi Turchi e Siriani in funzione anti-Daesh, avevano tutte ricevuto il tacito consenso, se non l’attiva partecipazione, del benevolo egemone. Frattanto il sedicente Stato Islamico è stato cancellato dalle carte del Medio Oriente, i Russi hanno impedito la caduta del 8 • MSOI the Post

regime siriano e l’Iran è nuovamente al centro delle attenzioni della comunità internazionale. I confini tracciati, in summa, sono rimasti integri. I Curdi iracheni, però, che tanta parte avevano avuto nella lotta contro il califfato e tante lodi avevano per questo ricevuto, il 25 settembre scorso con un referendum contestato da più parti decidono di marcare nettamente la loro volontà di indipendenza nei confronti dell’Iraq. Nemmeno tre giorni dopo perdono quasi il 60% dei territori che controllavano, fra cui la celebre città di Kirkuk: le truppe irachene, infatti, spalleggiate dalla seconda forza militare del Paese, le milizie sciite, con una manovra militare che non incontra resistenza, prendono il controllo di alcune delle più importanti città controllate dai peshmerga, conquistano i pozzi di petrolio della regione e militarizzano il confine con la provincia settentrionale. La corte suprema irachena ha infatti riconosciuto come illegittima la soluzione referendaria,

e da lì a poco il governo centrale decide di destinare al Kurdistan solo il 13% del budget per il 2018 (contro il 17 dell’anno precedente) senza consultare la provincia autonoma. Il Primo Ministro del governo locale Abadi, il 1 novembre, si dimette: il fronte curdo inizia a spaccarsi dopo le vicende del 25 settembre fra PKD (Partito Democratico Curdo) PUK (Unione Patriottica Curda). Il blame game sulle responsabilità della “disfatta” del referendum iniziano ad erodere il già fragile equilibrio dell’unica regione stabile e relativamente ricca dell’Iraq. “Non sappiamo se con la Casa Bianca abbiamo o meno una relazione” sostiene l’ex PM Abadi, ma “erano [gli USA] sicuramente al corrente delle intenzioni del governo centrale”. Intanto, le prime proteste infiammano la regione e i palazzi del governo sono assaltati da manifestanti inferociti. L’influenza dell’Iran – il nuovo nemico pubblico dell’amministrazione Trump – cresce così di giorno in giorno in Iraq.


RUSSIA E BALCANI QUANDO LA GENTE COMUNE FA LA DIFFERENZA

Queste sono alcune storie di persone comuni, che hanno fatto qualcosa fuori dal comune

Di Davide Bonapersona Il 2017 è finito, ma i Balcani continuano ad essere un’area geografica connotata per un certo grado di instabilità politica. Da sempre sono elogiate le attività dei governi, delle organizzazioni internazionali e delle ONG finalizzate a ridurre i diverbi tra i Paesi e all’interno dell’area e i conflitti sociali all’interno degli stessi. Oltre all’azione su ampio spettro portata avanti da questo tipo di attori, ci sono diversi individui singoli che si impegnano ogni giorno per la pace e la stabilità nella zona, talvolta con risultati più concreti e tangibili, ma le cui azioni spesso non godono dello stesso eco mediatico delle attività dei grandi player internazionali. Le maestre e gli alunni della scuola elementare Lazo Trpovski della municipalità macedone di Karposh e della scuola elementare Liria del distretto albanese della capitale macedone. Nel Paese la politica scolastica prevede che gli alunni di etnia macedone e albanese frequentino scuole diverse. Ciò nonostante, i due istituti han-

no dato il via ad un progetto che ha permesso agli alunni di apprendere usi e costumi dell’altra etnia, contribuendo così a diminuire le distanze che, pur vivendo a pochi chilometri gli uni dagli altri, si erano create tra questi due gruppi. Tvrtko Barun, gesuita croato di 34 anni, da anni in prima linea nella battaglia per l’accoglienza dei migranti in Croazia: a giugno di quest’anno il Parlamento UE lo ha insignito del premio “cittadino europeo dell’anno”. Egli ha più volte criticato apertamente la politica di chiusura delle frontiere del primo ministro ungherese Viktor Orban e del cosiddetto “Gruppo di Visegrad” e si è schierato in favore di una politica di maggiore accoglienza in Croazia, ricordando che il Paese “sa bene cosa vuol dire essere un rifugiato, fuggire senza avere nulla e dipendere solo dalla generosità altrui”. La Croazia, infatti, durante i conflitti degli anni ‘90, ha ospitato più di 500.000 rifugiati provenienti dalla Serbia e dalla Bosnia. Paolo Cortesi è un prete cat-

tolico italiano in servizio nella città bulgara di Belene, un piccolo centro abitato tristemente noto per aver ospitato un campo di concentramento durante il periodo comunista. Dopo anni di attività in aiuto nelle vittime del regime, nel 2017 si è distinto per aver aperto le porte della città ad una famiglia di rifugiati siriani. Per questo motivo ha ricevuto diverse minacce che lo hanno costretto ad abbandonare Belene. Ciononostante ad ottobre è tornato in Bulgaria per continuare la sua opera di volontariato. Per questa ragione, le autorità bulgare gli hanno conferito il premio “Persona dell’anno” della Bulgaria. Dragana Jankovic è conosciuta come la “madre di Aleksa”, adolescente di 14 anni che, nel 2011, si è suicidato per gli atti di bullismo subiti a scuola. Il bullismo a scuola non è un problema nuovo per la Serbia, ma le autorità serbe hanno sempre avuto un comportamento reticente sulla questione. Questo non ha scoraggiato la signora Jankovic che, dalla morte di suo figlio, promuove l’approvazione di una legge antibullismo.

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RUSSIA E BALCANI ELEZIONI O INCORONAZIONE?

L’esclusione dalle presidenziali di Navalny indebolisce l’opposizione democratica in Russia

Di Vladimiro Labate Le elezioni presidenziali russe del prossimo 18 marzo si apprestano a diventare una marcia trionfale per il presidente uscente Vladimir Putin. Il 65enne ex agente del KGB, al potere da 18 anni, secondo alcune stime godrebbe di un consenso dell’80% tra l’elettorato. Ciononostante, alcune misure recentemente adottate a favore dei ceti più poveri sembrano mirare a consolidare la sua popolarità. Nonostante l’annuncio di volersi presentare come candidato indipendente, Putin sta ottenendo l’appoggio di molte formazioni politiche, a cominciare da Russia Unita, partito che detiene la maggioranza dei seggi alla Duma. Inoltre, hanno assicurato il loro sostegno al Presidente uscente anche il Partito dei Verdi, e il partito Russia Giusta. Il primo, nelle parole del suo presidente Anatoly Panfilov, apprezza gli sforzi fatti per rafforzare lo Stato, per migliorare la qualità di vita della popolazione e per affrontare i problemi socio-economici e ambientali. L’avanzata trionfale di Putin verso un nuovo mandato presidenziale, che dovrebbe proiettarlo a essere il centro della politica russa fino al 2024, sembra non

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incontrare alcuna opposizione di rilievo, soprattutto dopo che lunedì 25 dicembre il leader del movimento anti-corruzione Alexei Navalny è stato escluso dalla corsa per le elezioni presidenziali dalla Commissione elettorale centrale. La decisione è arrivata in seguito a una votazione in cui dodici membri della Commissione su tredici hanno votato a favore dell’ineleggibilità del leader dell’opposizione. Su Navalny peserebbe, infatti, una sospensione di condanna in relazione a un caso di appropriazione indebita, che per la Costituzione russa lo renderebbe ineleggibile. Tuttavia, l’attivista politico ha sempre negato ogni illecito e ha detto che l’azione giudiziaria è mossa da finalità politiche. Il rapporto tra Navalny e il sistema giudiziario russo è turbolento: nell’ultimo anno, il leader è stato arrestato tre volte e accusato di aver violato la legge organizzando manifestazioni pubbliche non autorizzate. In ottobre, inoltre, la Corte Europea dei Diritti Umani aveva riconosciuto che una sua condanna per frode del 2014 era stata “arbitraria” e aveva obbligato Mosca a risarcirlo. In seguito al divieto di candidatura, un portavoce dell’alto rappresentante dell’Unione Europea Federica Mogherini ha detto che questa decisione “getta seri

dubbi sul pluralismo politico in Russia e la prospettiva di elezioni democratiche il prossimo anno”, dichiarando, inoltre, che l’UE si aspetta che l’OSCE venga invitata per una missione di osservazione elettorale e che, sui risultati di quest’ultima, essa baserà la sua valutazione del processo elettorale. Navalny, da parte sua, ha invitato i suoi sostenitori a boicottare le elezioni: “il processo al quale siamo chiamati a partecipare non è una vera elezione. Saranno inclusi soltanto Putin e i candidati che lui ha personalmente scelto”. Una delle poche opposizioni al potere del Presidente russo rimane quella del Partito Comunista Russo, che il 23 dicembre ha indicato il proprio candidato alla presidenza. L’atteso Guennadi Zyuganov, 73enne presidente del partito e figura centrale dell’era post-sovietica, a sorpresa non è stato indicato per la sesta volta come candidato comunista, ma a lui è stato preferito Pavel Grudinin, 57enne ingegnere meccanico, capo di un’azienda agricola nella periferia di Mosca. Grudinin rappresenta una nuova generazione all’interno del partito: il suo obiettivo è quello di estendere la base di un partito che sta sempre più invecchiando.


ORIENTE I CONDANNATI A MORTE DI LUFENG

La pena capitale in Cina tra reminiscenze del passato e riforme

Di Micol Bertolini Il 16 dicembre 2017, il dibattito sulla pena capitale nella Repubblica Popolare Cinese si è riacceso nel modo più intenso. A Lufeng, nel Guangdong (sudest della Cina), circa un migliaio di persone sono state chiamate ad assistere ad un processo pubblico di 12 detenuti, accusati di crimini come traffico di droga, omicidio, furto... 10 di essisonostaticondannatiamortedifronte ad un pubblico, che peraltro comprendeva una scolaresca, radunato nello stadio della città, ed immediatamente condotti al luogo dell’esecuzione. In realtà, processi pubblici di questo tipo non costituiscono più la norma in Cina, al contrario di quanto si era soliti fare nei primissimi anni della Repubblica e durante la Grande Rivoluzione Culturale. All’epoca, non erano rari gli episodi di condanna e umiliazione pubblica di capitalisti e proprietari terrieri, prima, e controrivoluzionari e intellettuali, poi. Ufficialmente, nel 1992 queste controverse rappresentazioni sono state vietate per qualsiasi tipo di processo e non unicamente per le condanne a morte, interdette già dal 1989. Eppure a livello locale episodi come quello di Lufeng

continuano ad accadere. Sembra anzi che i processi pubblici siano in aumento, da una parte a causa dell’inasprimento della lotta contro il traffico di droga, come nel caso del Guangdong, dall’altra in risposta alle crescenti violenze nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang. Proprio nello Xinjiang, nel 2014, 55 persone sono state giudicate davanti ad un pubblico di circa 7.000 cittadini. Col crescere della frequenza di simili episodi, non sono mancate le critiche sia a livello nazionale che internazionale. Numerosi internauti cinesi hanno duramente condannato tale pratica su Weibo, la versione cinese di Twitter. Critiche sono giunte anche dal giornale Beijing News, che pure è sotto controllo statale,in quanto simili procedure si porrebbero in aperto contrasto con il principio dello stato di diritto. Amnesty International si scaglia ormai da tempo contro il governo cinese non tanto per via delle sentenze negli stadi, quanto piuttosto per l’impiego in sé della pena capitale in Cina. All’interno della RPC infatti, stando alle stime dell’ONG, il numero di condanne a morte eseguite supera quello di tutti gli altri Stati del mondo messi insieme. Amnesty International

parla di migliaia di persone giustiziate nel 2017. Tuttavia, le cifre esatte non sono rese pubbliche dalle autorità e sono protette dal segreto di Stato: risvolto paradossale, se si pensa che la pena capitale in Cina viene giustificata come strumento di deterrenza contro molteplici crimini. La pena di morte, infatti, è prevista per diverse tipologie di reato, tra le quali non mancano alcuni reati economici e finanziari, oltre al traffico di droga. L’elenco delle fattispecie è stato rivisto nel 2011, quando si è passati da 68 a 55 delitti punibili con la pena capitale. Questa importante riforma si è inserita in un tentativo più ampio da parte delle autorità cinesi per limitare l’applicazione della pena capitale nell’ultimo decennio. Si è rivelato fondamentale a questo proposito il ruolo giocato dalla Corte Popolare Suprema, a partire dal 2007, che, trovandosi a dover approvare la sentenza in ultima istanza, ha dimostrato speciale cautela nel somministrare le condanne. Ciò, grazie anche alla serie di riforme approvate dal 2006 in avanti, ha comportato una riduzione del numero di giustiziati nel gigante rosso da 12.000 circa nel 2002 ai 2.000 degli ultimi anni. MSOI the Post • 11


ORIENTE 8° COMITATO INTERGOVERNATIVO ITALIA-CINA

Nuove sfide ed obiettivi in vista del 50° anniversario dei rapporti bilaterali

Di Fabrizia Candido

gdu, in 19 giorni.

Il ministro degli Affari Esteri italiano Angelino Alfano, in visita ufficiale a Pechino il 18 ed il 19 dicembre, ed il suo omologo cinese Wang Yi hanno ribadito la volontà di cooperazione dei due Paesi, sempre più legati dall’iniziativa One Belt One Road (OBOR).

Si tratterebbe dunque di quello che i cinesi definiscono quanmian zhanlue huoban guanxi, ovvero un tipo di partenariato strategico ed onnicomprensivo, articolato in quattro punti: compartecipazione alla realizzazione della Nuova Via della Seta, intensificazione delle collaborazioni umanitarie e culturali, incremento della cooperazione per tecnologia ed innovazioni e coordinazione negli affari internazionali. Wang Yi ha infine dichiarato: “sulla Via della Seta dobbiamo muoverci insieme”, sottolineando l’importanza del mutuo rispetto e della cooperazione win-win.

Durante la cerimonia di chiusura dell’8° Comitato Intergovernativo Italia-Cina, Wang ha affermato di voler incrementare gli sforzi per integrare l’agenda Made in China 2025 con il piano italiano Industria 4.0 ed il ministro Alfano si è detto d’accordo nel voler promuovere la cooperazione economica, commerciale, culturale, scientifica e spaziale. L’obiettivo è quello di raggiungere entro il 2020, anno del 50° anniversario dei rapporti bilaterali, un interscambio di beni e servizi per € 40 miliardi (oggi già oltre i € 30 miliardi). Il Piano d’Azione Bilaterale 2017-2020 prevede, inoltre, una collaborazione prioritaria nei settori dell’ambiente, dell’energia sostenibile, dell’urbanizzazione sostenibile, della sanità, dell’aviazione, delle tecnologie spaziali e relative applicazioni, di infrastrutture e trasporti. Partito il 28 novembre scorso, un primo treno merci ha già percorso la tratta Mortara – Chen12 • MSOI the Post

Non condivide l’entusiasmo del ministro, Michele Geraci, come riportato dall’AGI. Secondo il docente di economia alla Nottingham University Business School China e direttore del Global Policy Institute China, per quanto dal 2008 i cinesi abbiano investito in Italia circa 22 miliardi, quasi mai i soldi sarebbero stati destinati a nuovi stabilimenti o centri di ricerca. Gli investitori avrebbero piuttosto comprato aziende già esistenti, in un gioco di mero scambio tra azionisti. Più che portare valore all’economia della penisola, secondo l’esperto, i cinesi hanno mirato ad impossessarsi del know-how italiano.

I Ministri hanno infine convenuto circa l’importanza di un più facile accesso ai rispettivi mercati, per un sistema commerciale aperto, trasparente, non discriminatorio e conforme alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio: un grande passo in avanti nel superamento delle barriere non tariffarie, elemento onnipresente nelle trattative con Pechino. In quest’ottica si inserisce l’eliminazione da parte della Cina del bando sull’importazione delle carni bovine italiane. Contemporaneamente, le nuove regole anti-dumping, approvate dal Parlamento Europeo a novembre, hanno però gettato un’ombra sulle relazioni tra la Cina e l’Unione Europea. Rimossa la distinzione fra “economia di mercato” e “non di mercato”, la nuova soglia per il commercio legittimo sarà la provata assenza di una “significativa distorsione di mercato” fra il prezzo di vendita del prodotto ed il suo costo di produzione. Questo tipo di discrasia sembrerebbe potersi individuare proprio nell’economia cinese. Con queste basi e guardando al 2020, i due Ministri si sono impegnati a mantenere frequenti contatti ed hanno convenuto che il 9° incontro del Comitato sarà ospitato in Italia.


AFRICA IL GAMBIA GUARDA AD EST

Le relazioni con la Cina promettono investimenti e crescita

Di Federica De Lollis Pechino, 23 dicembre. Xi Jinping accoglie Adama Barrow, presidente della Repubblica del Gambia, per instaurare nuove e solide collaborazioni con il Paese africano dopo la riapertura dei rapporti diplomatici, avvenuta a marzo del 2016. Questo riavvicinamento avviene nel segno del principio One-China, profondamente significativo per il Presidente cinese, dal momento che i precedenti rapporti tra Gambia e Taiwan avevano provocato il distacco tra la Cina continentale e lo Stato africano. Dall’incontro sono emerse idee concrete sulle future relazioni che intrecceranno i due Paesi, che secondo quanto affermato da Xi Jinping verteranno principalmente sugli scambi commerciali e non risentiranno di alcuna influenza politica. Tra i primi progetti spiccano l’istituzione di un Confucius Institute presso l’Università del Gambia e l’ammodernamento del porto di Banjul. A questi seguiranno numerosi investimenti in infrastrutture e telecomunicazioni per lo sviluppo del Gambia. Da non pochi anni, il continente africano offre le proprie risorse naturali per attirare investimenti esteri. L’analista Sarah Nassiri di Infomineo, riporta che la

Cina, che ha conosciuto un tasso di crescita medio annuo del 10% dal 2000 al 2012, è uno dei maggiori investitori nella regione occidentale e sub-sahariana, nonché principale partner commerciale di numerosi Paesi africani, che possono soddisfare la crescente domanda di petrolio, minerali e altri beni naturali da parte Repubblica cinese. La ripresa dei rapporti diplomatici con la Cina, accompagnata da reciproche manifestazioni di stima tra Xi Jinping e Barrow, sarà una svolta per lo Stato africano, che si ispirerà al ritrovato alleato nell’attuazione delle riforme necessarie al conseguimento dei propri obiettivi di crescita economica. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e Amnesty International, temono che dietro questi investimenti si celi il fenomeno del cosiddetto land-grabbing, che consiste nell’acquisizione di terre da parte di investitori privati o governativi, il cui sfruttamento danneggia le popolazioni locali. Altri esperti tendono invece a vedere con favore, o quanto meno come non pericoloso, l’afflusso di capitali verso l’Africa, soprattutto se provenienti dalla Cina.

Tra questi, l’economista del Dipartimento Africano del Fondo Monetario Internazionale Wenjie Chen, sostiene che gli enti che investono nel continente siano specialmente piccole-medie imprese cinesi, che non mirano esclusivamente ai Paesi ricchi di risorse naturali, ma considerano alla stessa stregua anche gli Stati più poveri. Inoltre, Chen sostiene che vi sia una visione distorta dell’ammontare del tasso di investimenti esteri diretti (foreign direct investment – FDI) da parte della Cina, che con il suo 5% attribuisce un contributo sostanzialmente risibile rispetto a quello dei Paesi occidentali. Il dato relativo ai prestiti concessi agli Stati africani (che ammonta al 13% del totale nel 2014) specifica che, a differenza delle concessioni occidentali a tassi di interesse bassi o nulli, i prestiti cinesi si attengono al tasso di interesse di mercato, in modo da instaurare rapporti perfettamente paritari. La dinamica dei prossimi investimenti cinesi in Gambia è ancora in fase di elaborazione. I leader dei due Paesi sembrano aver instaurato un forte legame di fiducia, che agevolerà le annunciate intense collaborazioni. MSOI the Post • 13


AFRICA RAMAPHOSA E’ IL NUOVO LEADER DELL’ANC Il Sudafrica guarda al magnate come una speranza per il futuro

Di Barbara Polin Johannesburg, 18 dicembre. Cyril Ramaphosa è stato eletto Presidente dell’African National Congress, il partito fondato da Nelson Mandela e al governo dall’indipendenza dal 1994. L’ex sindacalista divenuto magnate ha battuto Nkosazana Dlamini-Zuma. L’elezione di Ramaphosa rappresenta una speranza di rinnovamento per l’ANC: il partito ha perso terreno e consenso anche nelle storiche roccaforti di Pretoria e Johannesburg, a seguito di numerosi scandali di corruzione e dell’aggravarsi della crisi economica. Il 65enne Ramaphosa è stato scelto in quanto rappresentante di una linea diretta con la prima generazione dell’ANC, artefice della transizione pacifica dall’apartheid di de Klerk alla rainbow nation di Mandela. Oltre a costituire un’affermazione del retaggio storico del Partito, la figura di Ramaphosa era la principale alternativa a Dlamini-Zuma, ex presidente della Commissione dell’Unione Africana ed ex moglie dell’attuale Presidente sudafricano. Per quanto la Dlamini-Zuma potesse vantare un alto livello di expertise politico, i media loca-

14 • MSOI the Post

li avevano paventato la possibilità di un trattamento di favore nei confronti del suo ex consorte, contro il quale pendono 783 capi d’imputazione per corruzione. Un’eventuale accondiscendenza da parte sua avrebbe potuto significare un’escalation di nepotismo e cleptocrazia, in un Sudafrica in cui la gravità della disuguaglianza economica continua ad aumentare. Al contrario della rivale sconfitta, Ramaphosa sembra rappresentare ciò che c’è di virtuoso nel nuovo Sudafrica. Nato a Soweto, periferia di Johannesburg, iniziò la sua carriera politica negli anni ‘80 come leader sindacale, fu arrestato e dovette interrompere gli studi universitari. Il suo impegno nella lotta all’apartheid ha, poi, avuto riconoscimento nazionale con l’ingresso in Parlamento. La mancata nomina a vice-Presidente, nel 1994, lo portò a intraprendere una carriera nel settore privato, una scelta che permette oggi di annoverarlo tra i 50 uomini più ricchi del Paese. Sul suo attuale successo grava tuttavia un’ombra proiettata dal passato. Nel 2012, infatti, durante il suo mandato come membro del consiglio d’amministrazione della società Lonmin, Ramaphosa

venne accusato di aver incoraggiato l’assunzione di misure emergenziali nei confronti dei minatori in sciopero presso la miniera di platino Marikana, nel nord-ovest del Sudafrica. La successiva irruzione della polizia nella cava della Lonmin provocò 34 morti e 78 feriti, ed è ricordata come l’azione più sanguinosa compiuta dalle forze di polizia nella storia del Sudafrica del dopo apartheid. Se, da una parte, i fatti di Marikana continuano a perseguitare Ramaphosa e riecheggiano negli attacchi da parte delle opposizioni, dall’altra, il suo impegno sociale a favore della riduzione della diseguaglianza economica lo ha reso il candidato favorito della classe media sudafricana. A rafforzare ulteriormente la sua posizione, contribuisce l’atteggiamento favorevole degli investitori stranieri nei confronti del suo programma di politica economica, concentrato sulla lotta alla corruzione e sul sostegno all’occupazione. Il ritorno di Ramaphosa alla scena politica nazionale sembra, dunque, coincidere con una volontà di rinnovamento, estesa dal partito al governo ai cittadini sudafricani.


AMERICA LATINA PROTESTE NELLE STRADE ARGENTINE

La riforma del lavoro, assistenza sociale e pensioni che infiamma l’opposizione

Di Daniele Pennavaria A Buenos Aires, prima il Senato e poi la Camera hanno approvato la riforma proposta dal Governo che include pesanti modifiche in ambiti come tutela del lavoro, assistenza sociale e sistema pensionistico. La serie di riforme voluta dal presidente Mauricio Macri ha scatenato manifestazioni e proteste, talvolta violente, nelle strade della capitale e delle maggiori città del Paese. Lunedì 18 dicembre la folla di manifestanti riunitasi fuori dal Congresso a Buenos Aires ha addirittura costretto la Camera a fermare i suoi lavori; alla conclusione della contestazione si sono stati registrati un centinaio di arresti. L’approvazione del disegno del Governo è stata solo rimandata al giorno successivo, in cui si sono registrati 128 voti a favore, 116 contrari e 2 astenuti. Il pacchetto di riforme prevede una serie di misure fiscali, volte, tra le altre cose, a modificare la normativa della retribuzione dei lavoratori salariati. La parte che ha scatenato il malcontento degli argentini è la co-

siddetta “reforma provisional”, all’interno della quale vengono ridefiniti i piani assistenziali, le modalità di controllo e soprattutto il sistema pensionistico. Il disegno, elaborato dal ministro del Lavoro Jorge Triaca, prevede un aumento dell’età pensionabile e l’adattamento delle pensioni secondo un nuovo calcolo dell’effetto dell’inflazione. Nell’ultima sessione di voto del Congresso, che si è tenuta il 26 dicembre scorso, sono state approvate le ultime misure che completano il pacchetto di riforme. La violenza scaturita dalle proteste è stata denunciata duramente da ogni fazione politica, dando vita a un acceso dibattito sulla reale colpa dell’escalation. L’opposizione addita gli interventi della polizia, troppo spesso tardivi o eccessivi, che avrebbero lasciato degenerare di proposito alcune situazioni e assecondato l’azione di elementi infiltrati tra i manifestanti per poi attaccare la maggioranza pacifica. Dal Governo e da parte della stampa, invece, si individuano i colpevoli tra le frange estremi-

ste che hanno preso parte alle manifestazioni, rinfacciando a chi sta dietro alle proteste e all’opposizione di non saper gestire i “facinorosi” che attaccano la democrazia. Anche la Conferenza Episcopale Argentina si è prontamente schierata contro il “saccheggio degli spazi pubblici”, e il vescovo Oscar Oreja, direttore della CEA, rivolgendosi ai movimenti sociali ha sottolineato che il diritto alla protesta può essere invalidato quando degenera in atti di violenza. Questa è la prima mossa del governo Macri dopo essersi consolidato con le elezioni di metà mandato dello scorso ottobre, e la sua riuscita condizionerà sicuramente il secondo periodo di Presidenza. La gestione delle manifestazioni di grandi dimensioni, una delle criticità storiche della società argentina, resta un dilemma da risolvere sia per il Governo (che rischia di perdere credibilità e appoggio) sia per i manifestanti (che potrebbero veder sgretolarsi il sostegno politico nel caso non fossero in grado di arginare le fazioni violente al loro interno). MSOI the Post • 15


AMERICA LATINA IL VENEZUELA SEMPRE PIU’ ISOLATO In crisi i rapporti diplomatici col Brasile e il Canada

Di Elisa Zamuner Il 24 dicembre, la presidente dell’Assemblea Costituente Delcy Rodriguez ha annunciato l’espulsione dell’ambasciatore brasiliano Ruy Pereira e del diplomatico canadese Craig Kowalik. Prima di tale decisione le relazioni del Venezuela con questi due Paesi erano già molto critiche. Il presidente Maduro aveva in passato fortemente contestato la nomina di Presidente del Brasile conferita a Michel Temer in seguito alla destituzione di Dilma Rousseff. Maduro aveva descritto il suo impeachment come un “colpo di Stato”, e la stessa Delcy Rodriguez, nell’annunciare l’allontanamento dell’ambasciatore Pereira, ha ribadito che “i rapporti con il Brasile non proseguiranno finchè non verrà ristabilito l’ordine costituzionale al suo interno”. D’altra parte il Brasile negli ultimi mesi ha più volte denunciato le vicende interne venezuelane, in particolare l’elezione dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC), e ha reagito a questa nuova decisione denunciandone il carattere autoritario. 16 • MSOI the Post

Il dialogo con il Canada, invece, era diventato problematico già a settembre quando erano state imposte delle restrizioni economiche contro i funzionari venezuelani, considerati responsabili del deterioramento dei valori e delle istituzioni democratiche; secondo la ministra degli Affari Esteri canadese Chrystia Freeland questa misura sarebbe servita a “difendere la democrazia nel mondo”. Il ministro degli Esteri venezuelano Jorge Arreaza aveva definito ‘illegali’ queste manovre e aveva accusato il Canada di interferire negli affari interni del Paese; per questo stesso motivo il diplomatico Kowalik è stato dichiarato persona non gradita. La reazione del Canada all’espulsione dell’ambasciatore non si è fatta attendere e la ministra Freeland ha annunciato l’espulsione del diplomatico venezuelano Wilmer Barrientos Fernándezda Ottawa; la Ministra ha dichiarato che “i canadesi non staranno a guardare mentre il governo venezuelano deruba la sua gente dei suoi fondamentali diritti democratici e umani e nega loro l’accesso all’assistenza umanitaria di base”.

Il Venezuela si ritrova a essere sempre più isolato, e l’autorità di Maduro è contestata non solo all’interno del Paese, dove diverse manifestazioni portate avanti dall’opposizione hanno provocato la morte di circa 120 persone negli ultimi mesi, ma anche nel resto del mondo; vi è, infatti, una crescente ostilità nei confronti delle scelte effettuate dal Presidente venezuelano, accusato di stare svuotando le istituzioni democratiche per dare vita a un Governo sempre più autoritario. Le prossime elezioni presidenziali dovrebbero tenersi entro la fine del 2018 e le polemiche al riguardo sono numerose: le opposizioni, in assenza di determinate garanzie, potrebbero decidere di boicottare il voto come è già avvenuto per le municipali di questo dicembre. Fino ad allora Maduro dovrà affrontare una crisi che ha portato a uno dei più alti livelli di inflazione nella storia del Venezuela; i cittadini si ritrovano ogni giorno a dover affrontare delle situazioni particolarmente problematiche, causate dall’assenza di alcuni beni essenziali, quali pane, acqua e farmaci.


ECONOMIA LA CINA METTE LA FRECCIA E SI PREPARA A CONDURRE Pechino cerca un nuovo campione per diventare leader nel segmento NEV

Di Luca Bolzanin Nonostante la Cina sia diventata il più grande mercato automobilistico del mondo per numero di vetture vendute, superando Stati Uniti e la Germania, i produttori cinesi non hanno ancora raggiunto il prestigio dei marchi ‘premium’ tedeschi e statunitensi. Anzi, proprio grazie alle politiche di sviluppo dei precedenti governi, i produttori stranieri sono stati in grado di costruire imprese altamente redditizie nel Regno di Mezzo e consolidare ulteriormente il loro dominio globale. Tutto questo, però, potrebbe cambiare. La volontà del presidente Xi Jinping di riscrivere le norme stradali per abbattere l’inquinamento e ridurre la dipendenza del Paese dalle importazioni di petrolio potrebbe giovare notevolmente alla sua industria automobilistica. Infatti, le normative ambientali e gli incentivi alla produzione potrebbero accelerare lo sviluppo di una casa automobilistica di grandi dimensioni nel segmento dei veicoli elettrici, assicurando finalmente alla Cina un marchio automobilistico di livello mondiale. In particolare, il governo di Pechino sembra determinato a identificare la più promettente tra le 80 aziende

che sviluppano veicoli di nuova energia (NEV), aiutando i produttori più forti ad entrare nel club delle principali case automobilistiche globali. Dal 2009 al 2015, il governo ha speso 7,6 miliardi di euro per finanziare gli acquisti di NEV. Inoltre, per aumentare la domanda, viene offerto uno sconto del 10% sulle imposte agli acquirenti di veicoli di nuova energia. Grazie a queste misure, le vendite di NEV (veicoli elettrici, ibridi plug-in e veicoli a celle a combustibile) potrebbero superare le 700.000 unità nel 2017 e 1 milione nel 2018, sostiene Xu Haidong, assistente Segretario Generale dell’Associazione cinese dei produttori di automobili. Il governo ha fissato un obiettivo di 7 milioni di veicoli entro il 2025, per raggiungere il quale sarà necessario elargire sussidi ed emanare norme più restrittive sulle auto a combustibili fossili. L’anno della svolta potrebbe essere il 2019, quando è prevista l’entrata in vigore di un provvedimento che istituirà quote di veicoli di nuova energia per le aziende che vogliono vendere auto convenzionali. Le aziende che produrranno o importeranno più di 30.000 veicoli tradizionali in Cina dovranno ottenere un

‘punteggio di credito NEV’ pari a circa il 10% del punteggio assegnato alla propria flotta e alle loro importazioni. Nel 2020, il punteggio salirà al 12%. Le case automobilistiche che non riusciranno a raggiungere la quota prefissata potranno acquistare crediti da rivali favorendo società come BYD e NIO - o pagare una multa. “È ovvio che le case automobilistiche cinesi vogliono vendere le loro auto all’estero”, afferma Klaus Rosenfeld, amministratore delegato di Schaeffler AG. “I produttori cinesi sanno che sarà difficile per loro competere sui motori a combustione nel nostro mercato interno. Ma il passaggio a un numero sempre maggiore di auto elettriche potrebbe diventare un’opportunità per loro”. Nel frattempo, Volkswagen ha dichiarato che investirà più di 10 miliardi di euro con partner locali per costruire 40 modelli NEV in Cina, con l’obiettivo ultimo di produrre 1,5 milioni di NEV nel Paese entro il 2025. Toyota, dal canto suo, invece, non costruirà veicoli elettrici in Cina almeno fino al 2020, puntando per ora principalmente sulla ricerca e sviluppo. MSOI the Post • 17


ECONOMIA IL TRIONFO DEL LIBERISMO

La crescita delle disuguaglianze sociali conferma la crisi dello status quo

Di Michelangelo Inverso Secondo l’indice delle persone più ricche del mondo, redatto da Bloomberg e uscito in questi giorni, i primi 500 multimiliardari hanno incrementato le loro fortune di un bilione di dollari. Questa cifra, come riportato da Il Post, corrisponderebbe ad un aumento del 23% rispetto al 2016. Se consideriamo lo 0,7% più ricco della popolazione totale, questo possiede 280 mila miliardi di dollari, ovvero, il 46% della ricchezza mondiale. Dall’altra parte, 3,5 miliardi di persone, equivalenti al 70% del totale della forza lavoro globale, posseggono, ciascuno, un patrimonio stimato in 10.000 dollari, cioè complessivamente solo il 2,7% della ricchezza mondiale. Questo report di Bloomberg è solo l’ultimo di una lunga serie di studi che, da almeno un decennio, certificano la sempre più crescente disuguaglianza sociale tra chi possiede e chi non possiede. Pur essendo sempre stato insito alla società capitalistica, questo divario è andato vertiginosamente aumentando negli ultimi tre decenni. Il World Inequality Report, basato sul lavoro di più di cento ricercatori, tra cui Thomas Piketty, uno dei più illustri economisti francesi con-

18 • MSOI the Post

temporanei, ha rivelato una serie di dati quasi agghiacciante.

Europa un caposaldo per i governi di qualsiasi colore.

Negli anni Ottanta, l’1% della popolazione degli Stati Uniti possedeva circa il 10% del reddito nazionale complessivo. Nel 2016 il rapporto era raddoppiato. Oltre a questo, si rilevava come siano enormemente cresciute anche le disparità nell’accesso all’istruzione e alla sanità. Ciò è stato possibile in quanto il sistema fiscale riformato dal presidente Ronald Reagan in quegli anni portò ad una dichiarata distorsione della progressività, sicché i redditi della forza lavoro operaia e/o dequalificata vennero compressi, mentre i prezzi di acquisto per sanità e istruzione, che nel frattempo venivano privatizzate, divennero sempre più alti. La mancanza di reddito disponibile venne compensata dal sistema bancario, aumentando a dismisura il debito familiare.

La crisi economica non ha fatto altro che accelerare questo processo di consunzione del ceto medio. Infatti, a fronte dell’aumento di reddito dei più ricchi non è corrisposto un aumento del reddito della classe media che, anzi, ha finito con il condividere la sorte della ex classe operaia, impoveritasi a causa della deindustrializzazione e delle politiche di liberalizzazione di capitali e mercati intraprese da Stati Uniti e Regno Unito negli anni Ottanta.

Se, dunque, possiamo considerare gli USA come la capitale mondiale della disuguaglianza globale, l’Europa occidentale riesce a contenerla, pur manifestando anch’essa una disparità crescente. Negli anni Ottanta, anche nel Vecchio Continente l’1% possedeva il 10% del reddito totale, ma nel 2016 questa percentuale era cresciuta solo fino al 12%, segnale che le politiche redistributive restano in

Non c’è quindi da stupirsi se negli ultimi cinque anni su entrambe le sponde dell’Atlantico siano aumentati i riflessi politici di questa immensa ristrutturazione dei redditi. L’onda lunga della disuguaglianza ha modificato le preferenze politiche dei cittadini, che sempre più si rivolgono a partiti radicali e non a quelli centristi che difendono lo status quo. Quest’ultimo è, infatti, preferito dagli elettori della classe media che, sempre più ristretta, non costituisce più il bacino di elettori ‘medi’. L’elettore medio sarà invece più probabilmente un individuo frustrato, che, prevedibilmente, opterà per chi promette, almeno a parole, il cambiamento.


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO ATTIVATA LA GIURISDIZIONE DELLA CPI SUL CRIMINE DI AGGRESSIONE Conseguenze e portata simbolica

Di Elena Carente Lo scorso 15 dicembre, l’assemblea degli Stati membri della CPI ha attivato il crimine di aggressione rendendo quest’ultimo il quarto crimine (dopo i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il crimine di genocidio) a rientrare nella sua giurisdizione. Si tratta di uno sviluppo particolarmente significativo perché per la prima volta dopo i processi nazisti di Norimberga, un tribunale internazionale potrà perseguire i responsabili di questo crimine. Tuttavia, dato il modo in cui il crimine stesso è stato definito e le condizioni alle quali la Corte deve sottostare per poter esercitare la propria giurisdizione, il suo significato potrebbe essere in gran parte limitato alla sua forza dichiarativa e simbolica, nonostante sia, quest’ultimo, un aspetto da non sottovalutare. La definizione del crimine di aggressione e della giurisdizione della Corte risultano, infatti, particolarmente restrittive (vedi Crimine di aggressione: verso l’attivazione della giurisdizione della Corte Penale Internazionale? MSOI thePost 1.12.17). Anzitutto, il crimine è limitato alle violazioni manifeste della Carta delle Nazioni Unite,

misurate per tipo, gravità e scala. In secondo luogo, la Corte è chiamata a giudicare solamente i più alti vertici della gerarchia militare o leader politici che si trovino in una posizione tale da controllare o dirigere effettivamente l’azione politica o militare di uno Stato. Terzo, in caso di mancato deferimento da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Corte avrà giurisdizione solo quando uno Stato parte commetta il crimine di aggressione contro un altro Stato parte. La giurisdizione della Corte è ulteriormente ristretta ai soli Stati parte che hanno ratificato l’emendamento di aggressione, attualmente solo 35 dei 123 Stati parte. Dati tutti questi limiti, è difficile immaginare un’azione della CPI che coinvolga gli Stati parte, almeno per il momento. Allo stesso tempo, gli emendamenti approvati offrono la possibilità, per il CDS, di portare all’attenzione della Corte situazioni che riguardano Stati che non sono parte allo statuto, e questo potrebbe essere lo scenario più probabile per l’avvio di un’azione giudiziaria da parte della Corte: l’idea è che le maggiori potenze del CDS si uniscano per colpire uno stato canaglia che compie un atto di aggressione.

Senza dubbio, il significato principale dell’attivazione della Corte sul crimine di aggressione risiede nella sua stessa articolazione e istituzione. Ad oggi, i Tribunali internazionali hanno reso tutti più consapevoli della responsabilità penale individuale per i crimini commessi, sia nel contesto della guerra sia al di fuori di essa. Tali crimini non sono solo un risultato inevitabile del conflitto, ma sono causati da individui che dovrebbero essere ritenuti responsabili per le proprie azioni. Per questo, l’adozione degli emendamenti di Kampala sul crimine di aggressione dovrebbe costringere i politici, i leader militari, la società civile, i giornalisti, gli educatori e i cittadini a prestare maggiore attenzione alla questione della legalità della guerra, e più specificatamente alla responsabilità degli individui per le guerre illegittime. Certo, l’adozione del crimine di aggressione da parte della CPI non è priva di rischi. Tuttavia, si tratta di un risultato di un’enorme portata simbolica. Dopotutto, cambiare il modo di pensare è il primo passo per cambiare la condotta. MSOI the Post • 19


DIRITTO INTERNAZIONALE ED EUROPEO IKEA: L’UE INVESTIGA SULLA PRESUNTA EVASIONE FISCALE

Il complesso sistema organizzativo del gruppo Ikea solleva l’attenzione della Commissione

Di Federica Sanna Non è un periodo facile per il colosso svedese. A poche settimane dalla pessima pagina milanese della lavoratrice licenziata perché non ha accettato gli orari imposti dall’azienda, inconciliabili con la gestione dei figli, Ikea è di nuovo sotto i riflettori per una presunta evasione di tasse dal valore stimato di 1 miliardo di euro. La Commissione europea ha infatti deciso di indagare l’articolato sistema organizzativo dell’azienda in seguito a un report presentato qualche mese fa dal gruppo dei Verdi in Parlamento europeo. L’accusa è di aver beneficiato di un trattamento fiscale privilegiato da parte di alcuni Stati europei, localizzando le proprie sedi in Olanda, Lussemburgo e Liechtenstein e negoziando con essi accordi ad hoc, i cosiddetti taxrulings. Ikea risponde di aver sempre pagato le tasse in accordo con leggi e regolamenti dei luoghi in cui opera e di aver inoltre agito nei limiti imposti dall’Anti-tax Avoidance Directive del 2016. Che le accuse si rivelino fondate o meno, il caso dimostra chiaramente la necessità di riformare 20 • MSOI the Post

la disciplina europea per porre fine alla guerra interna di tasse tra i paesi membri dell’UE e per ristabilire un trattamento più equo tra gli operatori che svolgono attività economiche in Europa. In sintesi, il gruppo è diviso in due rami: Ikea Group, con sede in Olanda, è a capo della rete di franchising e Inter Ikea, con sede in Lussemburgo, controlla la strategia di marketing e il concetto dietro il marchio. Ogni filiale presente nel mondo paga una quota di royalties ad Ikea Group per l’utilizzo del marchio, tassata in base all’accordo stretto tra Ikea e il governo olandese. Pur trattandosi formalmente di entità separate, Ikea Group paga gli interessi alla fondazione lussemburghese a capo di Inter Ikea e una quota imprecisata di “altri oneri” a destinatari sconosciuti basati in Liechtenstein. Tali movimenti rimangono non tassati, o tassati molto poco, a causa delle politiche fiscali favorevoli presenti negli stati interessati (per esempio, in Olanda non sono previste ritenute d’acconto su tasse e interessi spediti all’estero), e degli accordi fiscali ad hoc raggiunti con Ikea.

L’aspetto peggiore della vicenda, oltre all’evidente importante mancato versamento di tasse, è la possibilità che Ikea abbia agito conformemente alle regole europee, così come dichiarato dai vertici dell’azienda. La direttiva citata, infatti, è basata sul principio secondo il quale ogni attività vada tassata nel luogo in cui avviene il guadagno e prevede un livello minimo di protezione contro l’evasione fiscale comune a tutti gli stati membri dell’UE. Ad ogni modo, la poca trasparenza e la mancata armonizzazione delle norme nei confini del mercato unico rendono possibili comportamenti apparentemente legittimi che risultano però nell’elusione delle tasse. A prescindere dal risultato dell’indagine della Commissione, la riforma della direttiva si rende necessaria per evitare che colossi come Ikea si trovino ingiustamente nella posizione di concludere accordi con gli Stati membri e beneficiare dei trattamenti fiscali negoziati, a discapito delle imprese più piccole che non hanno la possibilità di agire alle stesse condizioni.


MSOI the Post • 21


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